
“L’incapacità ad essere normale” (Pino Corbo)
Pino Corbo è nato a Cosenza nel 1958.Ha pubblicato tre libri di poesia,Cerco nel vento, Schena, Fasano (BR), 1978; Il segreto del fuoco, Hellas, Firenze, 1984; In canto, Campanotto, Udine, 1995; sei plaquettes, Autodafé, En plein, Milano, 1996; Di notte, Pulcinoelefante, Osnago (LC),1997; Desiderio, Pulcinoelefante, Osnago (LC), 2000; Epifanie, Pulcinoelefante, Osnago (LC),2002; Iscrizioni dell’ora, Sagittario, Genova,2004; Dittico, L’arca felice, Salerno, 2008; il saggio Il mondo non sa nulla. Pasolini poeta e “diseducatore”, Ionia, Cosenza, 1996. È stato redattore delle riviste “Inonija” (CS), “Quaderno” (MN), “Il rosso e il nero” (NA); attualmente lo è di “Capoverso” (CS).
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
«La logica delle falene», è il titolo emblematico di questa raccolta del poeta calabrese Pino Corbo, ed è anche una metafora e una chiave di lettura del libro. Le falene, questi misteriosi esseri volatili la cui vita può variare da qualche giorno fino a sei o otto mesi è l’insetto scelto a designare la filosofia di vita che ha ispirato le composizioni del libro. Innanzitutto, la distanza tra la falena e il suo circondario, la solitudine della sua esistenza e il silenzio. Distanza, solitudine, silenzio, questa triade costituisce il profondo ipocentro di questa poesia, così raccolta e aristocratica. «L’incapacità ad essere normale», il distacco dalle cose e da se stesso, la consegna a quell’essere sospesi nell’atto, la rinuncia, anzi, la revocazione della rinuncia per un rigetto ancora più completo per tutte le cose, il distacco dalle cose e dagli umani; la solitudine, che è il segreto del silenzio, l’atto della sospensione e l’esitare, sono il nucleo profondo del rigetto di cui dicevamo, rigetto di qualsiasi decisione o atto di volontà.
Direi che la poesia di Pino Corbo porta in sé ben evidenti i segni della rinuncia, della revocazione della rinuncia ad apparire, la rinuncia al vestito linguistico, la rinuncia alla adozione di qualsiasi linguaggio che non sia il linguaggio del proprio epicentro interiore. L’esercizio del silenzio, della morigeratezza e della distanza è il vero esercizio spirituale al quale si è sottoposto il poeta calabrese in tutti questi anni, dall’opera di esordio, Cerco nel vento, del 1978, ad oggi. Dal post-moderno al Dopo il Moderno. Dice di sé: «in definitiva reo di diserzione, opacità pensosa, disfattismo etico, distìmie energetiche, opportunista o giocoliere di sintagmi stucchevoli, di stati d’animo sospesi».
C’è un esercizio al quale un poeta degno di questo nome deve ogni giorno sottoporsi, una sorta di preghiera laica del mattino, una predisposizione spirituale e lessicale: rinunciare al linguaggio, allo stile, al lessico maggioritario, alla retorica, ai tropi, ai riti, ai siti della «normalizzazione». Corbo fa poesia come si mangia, in una sorta di romitaggio, in modo frugale, senza stile, senza addobbi, senza orpelli con un lessico limitatissimo: pochi i verbi, quelli essenziali ed inevitabili, poche le parole, quelle essenziali e significative: il pane, il vino, il vento, morte e poche altre; poche le tematiche: il padre, la madre, il non-amore, il disamore. Corbo dice con semplicità: «metto in versi la vita», ma è una bugia, è la non-vita quella che il poeta calabrese mette in versi, la propria «invisibilità» la storia del proprio non-esserci. Ecco quanto dichiara il poeta: «I poeti devono essere invisibili», in quanto «la dimensione poetica / è un’aberrazione».
Bastano queste parole a delineare la poetica di Corbo: l’evitamento, la Gelassenheit, l’abbandono e la reticenza, la rinuncia alla azione e al dominio sul linguaggio e sugli oggetti. È tutta qui la poesia di Corbo, non c’è altro. Ed è molto, moltissimo, c’è una acutissima cognizione del dolore delle cose e delle parole, una consapevolezza acutissima della insufficienza del linguaggio e della sua retorica a penetrare nelle stanze interiori del dolore; la poesia è nient’altro che una iniziazione, una pratica della vita di tutti i giorni, prima che linguistica, spirituale, una pratica della soggettività, una autocoscienza della sospensione, della rinuncia, perché non è importante lo stile quanto la rinuncia allo stile, non l’esistenza ma la rinuncia alla esistenza.
Direi che Corbo giunge un millimetro prima di inabissarsi nel «nulla».
«Cosa è la presenza? La presenza è la presenza del togliersi, cioè l’attualità del togliersi. […] La presenza non è un immediato. […] Il negarsi del presente è il suo esser atto, esser in atto, esser presente, attuale […]. Il nulla giustifica, fonda l’originarietà dell’attuale. Appunto perché il nulla è attuale. L’attuale non contiene il nulla staticamente, come un recipiente, ma attualmente, negandosi, togliendosi.» 1]
La assoluta co-originarietà o simultanea coincidenza di essere e nulla, di identità e non-identità nel principio, viene ancora di più messa in gioco in quest’altro passo di Emo, in cui viene indicato anche il motivo per cui il nulla è nell’Inizio, motivo che risiede nel fatto che l’origine è proprio l’annullarsi stesso dell’Inizio, un distanziarsi da se stesso in quanto Abisso infinitamente imploso nel non darsi assoluto: «Il nulla è l’assoluto che si annulla, appunto perché il nulla è l’assoluto […] L’origine è il nulla, in quanto è l’origine che si annulla […], cioè è l’annullarsi dell’origine; l’origine è l’atto dell’annullarsi, del suo annullarsi».2]
Il «tempo» che ci è concesso sul pianeta terra è il reddito di cittadinanza concessoci dalla «presenza» del nulla, il quale attualizzandosi si eventua nell’esserci.
1] Cfr. Andrea Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989. pp. 10-11. [Libro esaurito]
2] Ivi, p. 53
Ha scritto di sé Pino Corbo:
Atto di fede, proclamazione della propria sedicente innocenza o della compiaciuta condizione ereticale: intervenire sulla mia poesia (o più pomposamente sulla mia poetica) mi crea quell’imbarazzo dell’accusato che deve difendersi, del reo che deve in qualche modo giustificarsi. Basterebbe più semplicemente dichiararsi colpevole, o meglio corresponsabile, nell’ammissione di una certa incapacità ad essere normale, cioè normatizzato rappresentante della collettività sociale, lusingato dalla conseguente renitenza agli obblighi precostituiti, al consapevole conformismo. Colpevole di che cosa? Corresponsabile di chi? Colpevole (finalmente libero di esprimere un fastidioso senso di colpa o di inferiorità) di non essere produttivo, anzi in qualche modo di essere uno spreco per l’economia nazionale (forse planetaria) colpevole di occupare spazi nascosti, interspazi, senza avere il coraggio di comiziare, di trascinare masse; in definitiva reo di diserzione, opacità pensosa, disfattismo etico, distìmie energetiche, opportunista o giocoliere di sintagmi stucchevoli, di stati d’animo sospesi, astratti come i pensieri che li nutrono. Corresponsabile (ora diranno i più che si tratta di un puro escamotage) di tutti coloro che rappresento e che si possono chiamare (data la situazione tribunalesca) complici; non dico che essi si riconoscano in toto in me, perché, malgrado l’omogeneizzazione di massa ognuno è virtualmente irripetibile e insostituibile, almeno i miei compagni di strada, che condividono con me il senso estremo delle cose, la coscienza dell’insondabile e del sublime effimero; ripeto, non parlo per tutti loro, ma, pure se colpevole appaio, il mondo fortunatamente continuerà a ruotare senza minimamente variare per la colpevolezza mia e di chissà quanti altri correi, costretti anche essi da un atto di fede pubblico a un manifesto atto di accusa.
(1992)
Scrive Pier Aldo Rovatti:
«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?
Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filo-sofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.
Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso». 1]
1] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6,7
Pino Corbo, Poesie da La logica delle falene
I fari accecano,
attraggono nella scia luminosa –
è nella logica delle falene
confondere la luce con la notte.
.
La mia immagine
Mi infastidisce la mia immagine
allo specchio – se non so salvare
proteggere prevenire cambiare
il destino.
Mi infastidisce anche scrivere
questi versi – se sono davvero versi –
perché è una debolezza (lo so)
e non riesco a fare di meglio.
Ognuno degli orologi intorno
segna un’ora diversa
e mi sembra quasi di sfidare
attraversare il tempo,
di scomporre la mia immagine.
.
La mia morte, i miei versi
Stanotte ho sognato la mia morte,
poi di scrivere versi –
al risveglio ero senza
la mia morte, senza
i miei versi.
Ero nudo, senz’anima
senza peso per camminare
per lasciare un’orma sulla terra.
.
La mia poesia
La mia poesia
è una vecchia serva
a cui permetto poche volte
di mostrarsi in pubblico.
La mia poesia
è una muta aguzzina
che mi sottopone
ai suoi capricci
al suo imprevedibile
desiderio di parole.
.
La dimensione poetica
La dimensione poetica
è un’aberrazione –
non esiste una misura
come la larghezza, l’area, il perimetro.
Esistono gli occhi di chi guarda,
la parola che si fa nome,
la voce che diventa eco.
.
Blasfemia
Perdonate la blasfemia:
tra il vino e dio
non c’è poi molta differenza.
Ma col vino si è meno esigenti,
si arriva invece a bestemmiare dio.
Rettifico la blasfemia:
tra il vino e dio
c’è almeno questa differenza.
.
Routine
Camminiamo sopra mine scoperte
disposte per delega da noi stessi
nel tentativo di eluderle
ci dichiariamo innocenti,
convinti di farla franca comunque.
.
Il peso del tempo
Due anni sopravvisse Isabella
due mesi Filomena.
Si ritrovano ora senza più il peso
del tempo vissuto,
attraversato finalmente.
.
I poeti
I poeti devono essere invisibili,
quasi non esistessero:
devono somigliare – se è possibile – ai morti
i più fingono malamente
di essere vivi, pochi
non lo danno a vedere.
*
Davvero non c’è condizione
migliore: lasciarsi vivere,
arginando le memorie
superstiti, libero
finalmente da aspettative,
con il peso dei giorni
che non prendono più fuoco.
*
I morti guardano
senza vedere –
gli occhi inespressivi
come quelli dei ciechi
le orbite fissano un punto –
seguono sempre la stessa direzione –
non distolgono mai lo sguardo.
*
Lo specchio è la coscienza
che riflette altri se stessi,
immagine impalpabile del mondo
sospesa fra lo sguardo e il nulla
il movimento e la quiete.
giorgio linguaglossa
18 luglio 2016 alle 11:56
Cari Amici,
sì, sono un dilettante della cosmologia e della fisica teorica, mi interessano tantissimo le nuove scoperte e le nuove ricerche della fisica teorica e sperimentale, ne traggo linfa per ossigenarmi i polmoni distrutti da tutta quella nicotina e catrame che si sono depositati su di essi fin da quando, dagli anni Sessanta, ho dovuto subire il bombardamento di ideologie sciatte, scipite, superficiali, infondate filosoficamente, in una parola: ingombranti. Ad un certo punto tutte queste sciocchezze hanno influito sulla mia modesta intelligenza finendo con l’immobilizzarla, arrestarla… E così è rimasta per lunghi anni.
E così la mia facoltà creatrice si è arrestata. Per molti anni poi ho anche smesso di leggere opere di letteratura, le consideravo mali minori… Insomma, per farla breve, trovavo in tutte quei luoghi comuni un mucchio di asserzioni superficiali. Per fortuna lo sperimentalismo è passato, il linguaggio poetico post-ermetico è passato, la scuola lombarda anche, e così il minimalismo romano, anche, e così quel timido tentativo legato al rilancio della poesia orfica (che poi era un lancio pubblicitario di alcuni poeti). Voglio dire che ci sono dei momenti nella storia in cui i nodi vengono al pettine. E certi nodi sono venuti oggi al pettine, questa è la vera questione. Le opere di quegli epigoni alla Jolanda Insana, alla Vivian Lamarque, alla Franco Buffoni per non parlare dei topologisti milanesi e finire nei minimalisti romani.
Ecco, di tutto ciò resterà la traccia che lascia l’acqua quando passa sull’acqua. È venuto il momento di gettarci tutto alle spalle come cose non importanti, di alleggerire la bisaccia di tutto ciò che la ingombra inutilmente. E la cosa più ingombrante e inutile di tutte è quella tesi secondo la quale la poesia è una procedura che si fa con il linguaggio e operando sul «materiale linguistico» (espressione ridicola oltre che superficiale che ha infestato le pagine delle riviste di letteratura e le accademie).
Come ho scritto nella prefazione alla Antologia “Come è finita la guerra di Troia non ricordo” (a cui rimando eventuali interessati per un approfondimento), oggi la questione del linguaggio è un fuori questione, ha cessato di essere un problema. Nessun poeta di valore fa poesia pensando al significante, questa è una balla ridicola messa in onda da un poeta come Zanzotto che dovrebbe essere ridimensionato perché la sua influenza è stata nociva per la poesia italiana del secondo Novecento. La questione oggi è un’altra. Eccola: bisogna assolutamente abbandonare il vecchio modo di guardare al linguaggio. Direi che il linguaggio è elemento affatto secondario, subordinato ad altre questioni che sono: il fantasmatico, l’Altro, la de-soggettivazione del soggetto, il mitico, il simbolico, il frammento,il traslato, l’evento (in poesia e nella vita quotidiana), L’abbandono della “analitica dell’esserci” che va a finire in una poesia psicologica. La vera questione è riparametrare i problemi della Forma.
E poi io vorrei tanto chiedere ai poeti che parlano di privato e di quotidiano; datemi voi una definizione del “privato” e del “quotidiano”. Poi cominciamo a parlarne. Io, modestamente, non ne ho proprio idea di che cosa essi siano.
POESIA METAFISICA O POESIA FISICA? lombradelleparole.wordpress.com
caro Paolo Statuti,
la civiltà occidentale è il prodotto diretto della divisione tra Fisica e Metafisica fatto da Aristotele. A rigore di logica, non c’è Fisica senza Metafisica, si tratta di due concetti correlati. Molto spesso gli artisti e gli aspiranti poeti pensano alla poesia in termini di metafisica come sinonimo di mistica, di ascesi, etc. – Falso e sciocco pensare in questi termini un problema terribilmente complesso. Ecco come la vedo io in parole povere: Senza un punto di vista «esterno» non si può vedere bene l’«interno». Analogamente, nell’arte e in poesia, senza un punto di vista esterno non si può vedere l’interno né lo si può rappresentare.
Adorno nella “Dialettica negativa” (1979 tra. it. p. 365) scrive:
«L’arte è apparenza anche nelle sue cime più alte, ma essa riceve l’apparenza, l’elemento irresistibile di essa, dal senza apparenza. Liberandosi del concetto, essa dice (e proprio quella accusata di nichilismo) che non tutto è soltanto nulla. Altrimenti ciò che sempre è sarebbe pallido, senza colore, indifferente. Non cade luce sugli uomini e le cose, in cui non riaffiori la trascendenza… Nell’apparenza è promesso il senza apparenza».
Alla facile battuta del tuo gatto io rispondo con un’altra battuta di un grande fisico teorico, Schroedinger, quella del gatto che è per metà morto e per metà vivo secondo la teoria dei quanti.
È difficile dire se noi stessi siamo vivi o morti o se non siamo proiezioni di un sogno, oppure se non siamo la proiezione tridimensionale di una realtà bidimensionale come afferma la recente teoria olografica del cosmo extra multiverso.
Pare che la teoria dei quanti si adatti benissimo alla visione della teoria dei quanti. Ho sentito il parere di alcuni fisici teorici secondo i quali la teoria dei quanti sarebbe una teoria provvisoria che spiega bene alcuni fatti della realtà subatomica, ma che stanno esplorando un’altra teoria più vera e profonda di quella dei quanti che spiegherebbe benissimo le incongruenze derivanti da quest’ultima.
Insomma, siamo davanti a novità sorprendenti e incredibili nel campo della fisica, mentre la poesia contemporanea arranca ancora in un concetto di realismo ingenuo da far rabbrividire!
Insomma, io dico una cosa molto semplice: gettiamo a mare le teorie sul poetico che hanno fatto il loro tempo, liberiamoci con una scrollata di spalle di tutte quelle scempiaggini che ci hanno raccontato sulla «ispirazione». La poesia è «matematica applicata» scriveva Valéry, non c’è nulla che provenga dal cielo gratuitamente tramite la ispirazione! Nulla e nulla.
Insomma, più ci inoltriamo nella Fisica delle particelle subatomiche, più si aprono davanti agli occhi realtà extra sensoriali e metafisiche.
La procedura dei fisici teorici, la loro immensa fantasia è mille volte più in avanti delle poetiche pseudo realistiche dei nostri poeti di campagna e di città. E allora, vivaddio, ben venga una poesia incomprensibile e insondabile come quella di Antonio Sagredo!, ben venga la speculazione e la poesia di Steven Grieco-Rathgeb! – Tuttavia, sono convinto che anche Sagredo provenga da una sua metafisica, che magari per lui è una patafisica, solo che lui non lo sa, e, forse, neanche lo immagina…
…oggi il poeta deve essere un mostro tentacolare, deve essere a metà critico teorico, ricercatore astrofisico e chimico della materia e legislatore delle parole… un vero guazzabuglio! Se poi consideriamo il fatto che da cinquanta anni l’invasione di uno sperimentalismo sciatto e superficiale ha impedito una vera e seria riflessione su ciò che è la poesia, ecco che avremo un bel quadro della situazione attuale. In tal senso la musica contemporanea è molto in avanti, la fisica teorica è molto in avanti… la poesia, purtroppo, è rimasta indietro, molto indietro…
Concordo con le osservazioni fatte da Steven Grieco, la poesia di Talìa sta sul crinale dello sperimentalismo… deve prenderne atto, e sterzare bruscamente verso una poesia che abbia dalla sua una metafisica, andarsi a cercare una metafisica. Ma questo è valido per tutti i migliori poeti contemporanei, essi sono bravi tecnicamente ma, spesso, mancano completamente di una metafisica…
Caro Germanico, non ricordo bene le osservazioni del proconsole De Brama Greco, circa il crinale dello sperimentalismo.
Nel 1963 a.c. non ero ancora nato. Dante, invece, era nel pieno
della sua attività: realtà unitaria e gerarchica, un ordine cosmico divino.
Come ben sai, caro Germanico, nella tenzone con Forese Donato, le rime
petrose di Thalia e “l’aspro stil” ricompongono la deflagrazione delle vocali.
Una costituente. Non certo uno stil novo quanto una De Monarchia, per via
della costola politica e sociale che percorre i binari di Omero e di Brodskij.
Se poi una Musa qualunque, una Winx, irrompe nel dettato e scombussola
il complesso deittico con una dieresi, cosa vuoi che sia, Germanico, una “Frage”.
Nessuna domanda può essere posta che non abbia in sé una risposta universale, una proposta, una NOE, un differente modo di guardare le cose.
E più che guardare da una finestra, una parete, parentesi quadre e sospensioni, oramai di dominio pubblico, meglio sarebbe naufragar
nel dolce corpuscolo del “pensier mio” piuttosto che i galloni d’onore.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/02/12/pino-corbo-poesie-da-la-logica-delle-falene-lietocolle-2018-pp-120-e-13-00-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-53616
caro Tallia,
temo che d’ora in avanti dovremo fare a meno della Musa, la «Frage» o la «Sage», lo shutdown sono giocattoli in mano a letterati sciatti e superficiali, sciacalli che
cincischiano con lo sperimentalismo e l’anti sperimentalismo (leggi orfismo)… questi cafoni si baloccano con gli eidolon, cliccano sulla icona di
Cesare, inneggiano ai tempi nuovi e al governo del cambiamento (in pejus dico io), perorano senza ritegno la nuova Monarchia, la Casaleggio &
Associati, la piattaforma Rousseau e la Lega lombarda dei bastardi di Mediolanum, osano, i cialtrùn, chiedere al Senato dell’Urbe perfino
l’indipendenza, in nome di un’equa ripartizione dei tributi… sappiano costoro che la civiltà occidentale è il prodotto diretto della divisione tra
Fisica e Metafisica fatta da Aristotele! A rigore di logica, non c’è Fisica senza Metafisica, ma sarebbe chiedere troppo a questi barbari che non
vanno oltre la logica binaria del conto profitti e perdite, il loro intelletto è troppo angusto per comprendere cose più grandi di loro… prepariamoci,
dunque, caro Tallia, alle spade, dovremo presto affrontare i cornuti non con le armi della ragione ma con quelle della irragione, della forza bruta, le
armi delle nostre legioni, i giavellotti del nostro disdoro… e chi vivrà vedrà…
Pubblico qui un breve componimento dell’amico, Cesare Deep Musi. A proposito di gatti:
La fedeltà del mio gatto è speciale e puntuale, dorme adesso, non ha voglia di fare le fusa. Ha come dei raptus d’amore in contesti difficili da decifrare, ma più di tutto conosce la solitudine felice, non si sente solo, non gli manca chi non c’è, ha il vuoto negli occhi, il linguaggio dei suoni e degli odori. Mi guarda a lungo negli occhi come per essere più che per vedere. Vede la TV, senza farsi ingannare dalla prospettiva, non c’è un altro posto per lui.
Predispone al pensiero, il troppo che infastidisce e infastidisce se stessi.
Percepisco la volontà di sparire, dimenticandosi. La valenza del nulla. Ma
ontologicamente il vuoto è altro, rende l’azione
nella memoria. La poesia cerca più spazio, più tempo.
Lo struggimento della dimenticanza che non avviene, questo leggo nelle poesie di Pino Corbo.
La cecità come morte sopraggiunta allo sguardo. Un apparente straniamento.
La dimenticanza che non sopraggiunge.
Un vuoto anelato?
Grazie, Corbo.
GRAZIE OMBRA.
Posto la conclusione di “Ultimo sogno di Noè”. Mi auguro che vada bene anche per Mauro Pierno. Vogliamo danzare? E danza sia!
Noè -Vede, Maestro? Anche le parole, ormai, qui non hanno senso… notte, giorno, tempo…
Il Poeta -…spazio, poesia, sogno (su questa parola si ferma, ha come una rivelazione) Ho capito, Noè. Finalmente ho capito.
Noè -Cosa, Maestro? Cosa ha capito?
Il Poeta -Come fanno a drogarci.
Noè -Sììì? E come?
Il Poeta -Attraverso i sogni. Quando eravamo in vita eravamo la manovalanza del potere e ci ingannavano perché noi ingannassimo tutti gli altri con i fantasmi della parola e della poesia…
Noè -Vi utilizzavano per addormentare gli altri attraverso i vostri giochi poetici… e ci facevano credere che potevamo essere tutti poeti, che bastava un po’ di esercizio e di maestria…
Il Poeta -…qualche metafora azzeccata, qualche buon sentimento da favola per bambini, qualche spunto esistenziale, qualche schizzo multiculturale, qualche parola inglese o tedesca, qualche vezzo filosofico…
Noè -Ed ora? Ora che non ci siamo?
Il Poeta -Ora che sogniamo, vuoi dire? Non so.
Noè -Sto dicendo ora… adesso, qui… in questi momenti.
Il Poeta -Ora che non sappiamo se siamo vivi ?
Noè -O esistiamo come le pietre…
Il Poeta -Proprio adesso, dici? Non saprei… tu lo sai?
Noè -Me lo dovrebbe dire, lei Maestro, il poeta è lei, mica io…
Il Poeta -Forse hai ragione, ma non so più niente… Io ero un poeta, ma quando c’era la realtà, allora sì che potevo inseguire la verità, ma ora…
Noè -Che vuole dire, che noi non siamo reali? Cosa saremmo allora?
Il Poeta -Ombre, forse?
Noè -… e quindi?
Il Poeta -E quindi, caro il mio Noè, noi possiamo fare poesia, ma solo come ombre… come oscuro riflesso di una realtà inesistente… capito?
Noè -Veramente, no!
Il Poeta -Non ha importanza… capirai
Noè -E quando, Maestro? Mi piacerebbe.
Il Poeta -Quando? Quando ci sveglieremo, no!?
Lei abballa.😁😁😁
Tutti dormono e dormo anch’io!
Nei sogni la differenza.
Svegliatevi bambini.
GRAZIE Gallo, Grazie Ombra.
Posto di seguito il commento di Gino Rago
Gino Rago
La disfania nei versi di Pino Corbo
Anche Pino Corbo costruisce da artifex sapiente i suoi versi attorno all’Io, ma questo è altra cosa rispetto all’Io lirico diffuso che pretende di misurare, collocandosi al centro del mondo, le verità
dello stesso mondo. Questo è un Io consapevole della sua frammentazione e viene avvertito come decentrato, nell’ambito del decentramento generale che è alla base della crisi della comunità studiata da Jean-Luc Nancy.
Poco rimane da aggiungere alla dotta e pertinente ermeneutica di Giorgio Linguaglossa nella nota che accompagna i versi di Pino Corbo proposti oggi.
Ma se tento un accostamento analitico a questi versi che si misurano con il paradigma filosofico dello specchio:
“[…]
Lo specchio è la coscienza
che riflette altri se stessi,
immagine impalpabile del mondo
sospesa fra lo sguardo e il nulla[…]”
Non posso fare a meno di ricordare la domanda che lo stesso Linguaglossa ha posto alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?» la quale domanda subito chiama in causa Adorno e la sua idea di ‘specchio’
Come concetto aporetico per eccellenza, aporia dello specchio in grado di convertire il “più concreto nel più astratto e quindi il più vero nel più falso”. Lo specchio di Pino Corbo come “coscienza/che riflette altri se stessi” agisce convocando le idee centrali d’un moderno e problematico modo di fare poesia, oggi, e cioè la immagine, lo sguardo che è poi lo sguardo del poeta verso il mondo, e il Nulla. Che a sua volta dialetticamente tira in ballo il Vuoto e la stessa idea di Barthes nella relazione specchio/vuoto.
Sicché questa poesia di Pino Corbo si va a collocare in una sorta di frammezzo, che qui è stato anche inteso come disfania, fra il dicibile e l’indicibile, il tutto in un dettato essenziale.
(gino rago)
Mi piacciono le poesie di Corbo…
Sorprende l’occhio in spostamento variabile
le cime alte, ancora più basse.
E poi spostandosi in fallo si catapulta
all’indietro.
In attesa pesci.
Concentrandosi lo zoom
intesse la realtà. Penetra seguendo le diramazioni astrali. Treno per Bari Centrale e
a fuoco si restringe la meta.
Alla prossima fermata. Stridono gli argani. In terra sorprendi l’uscita,
Brigata Bari il ricordo pret-a-porter.
Grazie OMBRA.