
da sx, Steven Grieco, Rita Mellace, Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Roma giugno 2015, Isola Tiberina
Duška Vrhovac, poetessa, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina. Si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di Filologia, Università di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia). Ha collaborato con i periodici più importanti e più noti della Serbia ed ex Jugoslavia.
Con 25 libri di poesia e prosa, racconti e saggi, pubblicati, alcuni dei quali tradotti in più di venti lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, russo, arabo, cinese, olandese, rumeno, polacco, turco, macedone, armeno, albanese, sloveno, greco, ungherese, bulgaro, azero), è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia. Presente in giornali, riviste letterarie e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero.
Ha ricevuto importanti premi e riconoscimenti per la poesia, tra cui: Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Jugoslavia; Pesničko uspenije -Ascensione della poesia – 2007, Serbia; Premio Gensini – Sezione poesia, 2011, Italia; Premio letterario internazionale alla Carriera della Fondazione Naji Naaman – 2015, Libano, Beirut; Targa e medaglia con la figura di Sima Matavulj, fondatore e primo presidente dell’Associazione Scrittori della Serbia – 2016, per il contributo complessivo alla letteratura e alla cultura; e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia. È membro dell’Associazione Scrittori della Serbia, dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, della Federazione internazionale dei giornalisti ed è ambasciatore del Movimento Poeti del Mondo (Movimiento Poetas del Mundo) in Serbia e vicepresidente per l’Europa.

Duska Vrhovac Miami Airport 2008
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Un nuovo discorso poetico nasce quando esso può essere reso esplicito, quando non c’è più un ostacolo o un filtro che impedisce al discorso poetico di divenire esplicito e prendere una forma, un vestito linguistico.
Possiamo affermare che il discorso poetico di Duška Vrhovac appartiene a quella corrente di pensiero poetico presente in Europa che rigetta il linguaggio epifanico, mettiamo, di un Ungaretti, o il linguaggio locupletato e fiorito del post-quotidianismo. Quei linguaggi e quelle petizioni di poetica sono caduti in disuso perché quell’epifania e quella colonna sonora sono stati cancellati dalla merceologia delle merci e dalla reificazione dei linguaggi poetici epifanici. Oggi cercare in direzione dei linguaggi del quotidiano e della cronaca non è più remunerativo in termini di rendimento poetico, i linguaggi che tentano di aprire le porte dell’epifania ammutoliscono, come i linguaggi che tentano di inseguire il linguaggio cronachistico: la cronaca non è la storia, bisogna andare verso la storia, acquisire consapevolezza storica del linguaggio poetico.
La conclusione da trarre mi sembra chiara: dove ci sono consigli per le vendite, consigli per gli acquisti, merceologia e spot pubblicitari non vi può essere epifania, linguaggio poetico epifanico, semmai bisogna muoversi in direzione di un linguaggio poetico disfanico, diafanico, daltonico, distimico, interrotto, segmentato in un mare di frammenti, un linguaggio da retropia più che da utopia. Penso che il nesso sia lampante per chi voglia notarlo.
Interi generi poetici oggigiorno sono stati «superati» e resi obsoleti non per questioni di stile o etiche o estetiche e neanche per ragioni di politica estetica o di obsolescenza programmata dei linguaggi come è avvenuto negli anni dello sperimentalismo ma perché la storia li ha messi nello sgabuzzino del rigattiere a fare funghi. Ecco perché Duška Vrhovac impiega quasi esclusivamente il discorso illocutorio, perché là fuori il discorso dell’agorà è ingombro di masserizie e di ciarpame dei linguaggi prossemici, del politico; nella poesia della Vrhovac non ci sono parole chiare che aspettano il teleutente all’amo della propria lapalissiana tautologia («più bianco non si può») e politura poliziesca.
Se ascoltiamo con attenzione i linguaggi delle tele vendite culturali oggi dilaganti, quelli della letteratura da chatmarket e quelli dell’agorà, ci accorgiamo che essi rispondono ad un medesimo telos: riscuotere il successo immediato della vetrina. Ecco perché la poesia di un poeta di oggi non può che impiegare, se vuole difendersi dalle aggressioni dei linguaggi prossemici, il discorso eterodiretto, ovvero, il discorso illocutorio e interlocutorio della messa in atto d’accusa dei linguaggi della prossimità mediatica.
Poesie di Duška Vrhovac
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Memorie
Recido questo tessuto dei ricordi
come recide un coltello non affilato
come spada spezzata
come fredda mano ferrea del buio
che sbriciola piccole anime solitarie.
Li recido in vivo
senza sangue e gemiti
senza patetismo
mutandoli
in lacrime cristalline di poesia.
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Memento vivere
Mi limito a continuare
come fosse così
soltanto possibile
anima di sangue e carne
passo
rivolto
eternamente alla tristezza
dai primordi
sempre daccapo
terra ed erba vado toccando
terra io stessa
alla lingua di piante e vento
comprensibile e connaturata
nella poesia metto
quanto non sta nel fiato.
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Percorso di un chip
Una macchina, fatta da te finché eri ancora un essere umano
che si guadagnava i suoi soldi, entra nella tua camera,
e, agitando le sue mani metalliche, ti ordina di farti da parte
per non disturbarla mentre fa ordine nel tuo spazio,
nella tua vita e nella tua testa.
Ti prendi fra le mani questa testa, tenti di parlare,
ma né c’è la tua voce né qualcuno che la possa sentire.
La macchina fa il suo lavoro, tutto è in bell’ordine,
tu sei tranquillo e il tuo unico clic emotivo si produce
quando rivolgi il tuo incarnito chip identificativo
verso il lettore per avviare o chiudere il contatto.
Non ti ricordi nemmeno che non è questo quello che desideravi,
che non volevi annullarti, ma diventare il dominatore.
La memoria è congelata, non ti rimane che scoprire un qualche modo
per trasferire le informazioni sull’autoannullamento
a coloro che verranno e si stupiranno per la fragilità delle tue ossa,
la profondità delle tue orbite
e studieranno la composizione di quel liquido che si chiamava sangue,
mentre sostituiranno il lubrificante dei loro arti artificiali.
Un saggio concluderà di rivedere attuarsi l’inizio di una nuova era.
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Isidora
Isidora mia, da cinquant’anni
intrecci il chiaro di luna nel cimitero di Topčider.
Il grembo pieno di pioggia,
una manciata di terra sul volto.
Attorno uno sciame di lucciole,
guardie lucenti che fremono alate.
Ancora sola,
sogni una stanza bianca e un letto
ampio per il corpo
stretto per l’alito di vita.
Spesso vengo a trovarti,
a farti un segno di nascosto,
per non disturbare l’ala di rondine
sulla tua spalla.
Un pomeriggio sul tardi
anche oggi,
quando si va a rilento
e poi ci si ferma.
Ti vedo,
giù per il selciato
del sentiero sinuoso
stai scendendo con l’ultimo raggio.
Ti giri un momento
di sfuggita:
i Serbi non amano le donne intelligenti
le rispettano, ma non le amano.
Isidora mia, da cinquant’anni
intrecci il chiaro di luna nel cimitero di Topčider,
e dentro la mia stanza i tuoi compagni di viaggio3
mi mettono la mano fredda sulla fronte,
e con la stessa ricetta
mi prescrivono
per la febbre un farmaco, per l’anima un veleno.
[Nota del traduttore]
Isidora Sekulić (1887-1988), una delle più famose scrittrici serbe del XX secolo, sepolta nel cimitero di Topčider, rinomato quartiere di Belgrado. Nata a Mošorin, Vojvodina, dopo essersi formata alla Sorbona e a Budapest conseguì il dottorato in Germania. Insegnante di matematica in diverse città della Serbia, fra cui Belgrado, visse da sola e in condizioni modeste. Scrisse romanzi, memorie di viaggio e saggi, sempre devota al suo popolo e alle sue tradizioni. Tradusse anche molto, specie dall’inglese. In questa composizione si fa riferimento alla sua raccolta di novelle intitolata Compagni di viaggio.
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Poeti
I poeti sono una banda
supponenti vagabondi,
interpreti infidi
del quotidiano e dell’eterno
vani ricercatori,
amanti smodati,
cacciatori di parole perdute
segugi di strade e mari.
I poeti sono giardinieri superbi
di intricati giardini regali,
precursori di slittamenti stellari,
messaggeri di navi affondate,
violatori di sentieri segreti,
magistrali riparatori
di Carri Grandi e Piccoli,
raccoglitori della polvere astrale.
I poeti sono ladri di illusioni,
scopritori di scartate utopie,
imbonitori di ogni specie,
degustatori di cibi avvelenati,
figli degeneri e seduttori di professione,
cavalieri che volontariamente
espongono la loro testa alla ghigliottina
di cui sono anche gli esecutori.
I poeti sono custodi incoronati
dell’essenza della lingua,
amanti dei misteri insolubili
ammaliatori e provocatori,
sono i beniamini degli Dei,
assaggiatori di bevande miracolose
e vani dilapidatori
delle proprie vite.
I poeti sono gli ultimi germogli
della specie più sottile degli esseri cosmici,
coltivatori dei fiori bianchi dell’anima
e creatori infidi di mondi insostenibili.
I poeti sono interpreti dei segni perduti,
portatori di messaggi importanti
e monito che la vita è infinita,
e l’universo un progetto incompleto.
I poeti sono lucciole sull’aia del cosmo,
conquistatori della grande fascia
dei colori dell’arcobaleno
esecutori della musica sacra
della nascita dell’universo.
I poeti sono gli interlocutori invisibili
nel silenzio sul senso e sul non senso
di tutto quanto è visibile e invisibile.
I poeti sono i miei soli veri fratelli.
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Viaggi
Non devo andare più da nessuna parte,
Possono cessare tutti i viaggi,
le fughe, le ricerche, ogni cammino.
Tutti i paesaggi si sono trasfusi nelle mie parole,
i fiumi confluiti nel mio sangue,
il mare l’ho bevuto, le montagne le ho conquistate,
i boschi domati, le valli contate,
col cielo azzurro e tempestoso
mi sono ritagliata abiti festosi.
Non devo andare più da nessuna parte,
Possono cessare tutti i viaggi.
(Traduzione di Isabella Meloncelli)
All poems © Duška Vrhovac
Finalmente qualcuno dice:”Non debbo andare più da nessuna parte”.Forse è questo, l’approdo: la fuga immobile,l’accettazione dell'”Hic et nunc”.Eppure,anche inconsciamente,continuiamo a cercare.
Tadeusz Różewicz
Scomposto
Tutti i ricordi immagini sentimenti notizie
concetti esperienze che in me si combinavano
non sono più saldati non formano un tutto
in me
approdano talvolta a me alla riva
della memoria toccano la pelle
la toccano leggeri con unghie spuntate
Non voglio mentire
non compongo un tutto sono stato infranto e scomposto
chi mai si chinerà chi avrà interesse per questi frammenti
del resto anch’io sono così occupato
chi riesce a rammentare la mia forma interiore
in questo caos febbrile movimento
nel corridoio dove mille porte si aprono e si chiudono
chi riprodurrà la forma
che non si è impressa né sul gesso bianco
né sul carbone nero
neanch’io se interrogato
riesco a rammentare
di me dicono che vivo
La poesia di Różewicz in questi anni si andava facendo più rarefatta, astratta, libera da qualsiasi dettame socio-politico. In questa seconda fase della sua produzione Różewicz si interroga continuamente sulle ragioni stesse della poesia, sul suo senso ultimo, sulla figura del poeta e sul linguaggio in un mondo nei quali la rappresentazione della realtà appare quasi inaccessibile, incrostata, deformata, inquinata dai mass media.
(Lorenzo Pompeo)
Un pomeriggio sul tardi
anche oggi,
quando si va a rilento
e poi ci si ferma.
Come sfugge agilmente al tempo e alla nota biografica, bene attenta all’io! Immagine e accadimento. Non vorrei dire della frammentazione, perché è evidente, ma penso sia dovuta a questa particolarità la sensazione che ho provato, di un discorso che potrebbe andare per strade diverse in ogni momento. Si scopre così che la modalità del frammento matte ariosità, anche se tra le grinfie dell’immediato.
… e certo è molto brava lei, Duška Vrhovac.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/02/01/poesie-di-duska-vrhovac-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa-traduzione-dal-serbo-di-isabella-meloncelli/comment-page-1/#comment-53390
Leggiamo con attenzione questa poesia di Duška Vrhovac.
Viaggi
Non devo andare più da nessuna parte,
Possono cessare tutti i viaggi,
le fughe, le ricerche, ogni cammino.
Tutti i paesaggi si sono trasfusi nelle mie parole,
i fiumi confluiti nel mio sangue,
il mare l’ho bevuto, le montagne le ho conquistate,
i boschi domati, le valli contate,
col cielo azzurro e tempestoso
mi sono ritagliata abiti festosi.
Non devo andare più da nessuna parte,
Possono cessare tutti i viaggi.
Non a caso ho messo nel post la foto della poetessa in attesa nell’aeroporto di Maiami; osservate il suo volto accigliato, l’espressione corrucciata eppure orgoglioso, la sua postura dritta, stabile, osservate la posizione della sua persona seduta su un sedile dell’aeroporto, sa di stabilità, di pazienza e di ordine. Ebbene, questa stabilità, questa paziente attesa, questa attiva e operosa stabilità sono il frutto di un lungo lavoro, il prodotto di chi ha attraversato la parte terminale del secondo novecento, la storia della Serbia, la storia tormentata e cruenta di un piccolo paese dell’est dell’Europa. Duška Vrhovac ha già visto tutto l’essenziale, ha assistito agli orrori della guerra, alla fine del comunismo del suo paese e all’ingresso nella compagine dell’Unione Europea. La poetessa serba ha visto tutto, sa che la stabilità sua personale e quella del suo paese sono un tutt’uno con quella della sua poesia, sa che il poeta è un essere “fragile”, un essere che va alla ricerca di un senso anche là dove un senso non c’è, non si vede, sa che “Non devo andare più da nessuna parte,/ Possono cessare tutti i viaggi”, ma che il viaggio più lungo, e tortuoso e tormentato è ancora da intraprendere, è il viaggio della poiesis, un viaggio senza ritorno, perché una volta intrapreso il viaggio della poiesis non si dà alcuna certezza del ritorno se non come nostalgia, illusione che il ritorno sia possibile, la Vrhovac ha compreso che l’essenza del viaggio e della sua poesia sta lì, nella contezza che non si dà più il ritorno, che quel viaggio intrapreso tanto tempo fa è terminato e non c’è più nulla da scoprire tranne l’essenza del viaggio, del nostro essere in perenne attesa di un evento, di un qualcosa che possa temporaneamente e illusoriamente interrompere il viaggio, la Vrhovac sa che il ritorno all’arché, all’origine è una illusione, non c’è nessuna arché né dietro di noi né davanti al noi. Non c’è nulla. Ci siamo soltanto noi che continuiamo il viaggio.