
Auschwitz Ingresso
Il museo è lo Jüdische Museum di Daniel Libeskind, la parola è la poesia di Paul Celan. L’ approccio analogico teso a illuminare ambiti apparentemente lontani tenta di ricontestualizzare il discorso sulla Memoria nell’ «illeggibilità di questo mondo» in sintonia con il pensiero di Primo Levi, là dove il male assoluto dell’Olocausto rientra negli eventi inspiegabili e incomprensibili. E si cita Primo Levi tra coloro che non riuscendo a richiudere il tempo, la frattura incandescente del trauma, hanno drammaticamente scelto il suicidio. Come Paul Celan che nell’aprile del 1970 si getta dal ponte Mirabeau nelle acque della Senna.
Illeggibilità, eppure oggi anche oblio della memoria, semplificazione ed estremismo: «La nostra è effettivamente un’epoca di estremismi. Viviamo sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile». (S. Sontag)
Che cos’è la banalità che Hannah Arendt referta filosoficamente nella sua diagnosi di un’epoca? Non l’ovvio, ma l’assenza di idee sulla vita e le cose, l’ottusità. Eichmann, questo Lucifero assimilabile al nostro vicino di casa «non capì mai cosa stava facendo, (…) non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità) e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo».
Ora se «l’opera di Celan, nel suo insieme, forma una massa ancora largamente oscura e impenetrata», (Giuseppe Bevilacqua) il Museo di Libeskind è l’unico edificio al mondo a non avere un accesso, una porta, sebbene le facciate siano attraversate in modo obliquo da tagli, lacerazioni o i buchi di 1500 finestre una diversa dall’altra…cesure, ferite. Vuoto solido e spazio inaccessibile, una vera e propria rifondazione architettonica nel modo di concepire la grammatica dello spazio, “Between the lines” (fra le linee), come suggella il titolo del progetto del museo. Un edificio a forma di linea spezzata, zigzagante. Un fulmine precipitato nel cemento. Il polacco Libeskind ha scritto: «Il concetto di base è molto semplice: costruire un museo intorno a un vuoto che permei di sé l’intero edificio e sia fisicamente avvertito dai visitatori». Sottrarre alla circolazione, sottrarre alla leggibilità ciò che è indicibile. Gioco della massa con il vuoto. «Between the lines» potrebbe essere una definizione adattabile al verso di Paul Celan? Tra le linee. Tra filo spinato e corona di spine…
La spina che diede il segnale d’inizio / Cresce attraverso le culle
Spaesamento, decentramento. Il vuoto, il non-dicibile, il silenzio che smonta la linearità del verso.
E si pensi al silenzio, alla mancanza di parole tra Celan e Heidegger il 25 luglio 1967 a Todtnauberg nel loro incontro epocale:
nella Hutte,/ la riga del libro/ – quali nomi ha accolto/prima del mio? – la riga/ in questo libro/inscritta di/ una speranza, oggi,/ dentro il cuore, per una/parola/a venire/ di un uomo di pensiero,/ prati silvestri, umidi e in dislivello,/ orchidea e orchidea, una ad una,/ parole crude, più tardi, in viaggio,/ senza veli,/ chi ci guida, l’uomo,/ ascolta anche lui,/ percorsi a metà/ i sentieri di tronchi/ nell’alta torbiera,/ umido,/molto.
(Paul Celan, Todtnauberg)

il binario che porta ad Auschwitz
Il fallimento della parola tra il filosofo dell’Essere e il poeta della Todesfuge, il poeta che ha innalzato il più alto monumento lirico della Shoah in lingua tedesca.
Chissà se l’architetto al quale è stato conferito l’incarico della costruzione del museo ebraico di Berlino si sarà confrontato con la poesia di Celan quando si è trattato di pensare una nuova poetica dello spazio. Perché Libenskind ha smontato le categorie architettoniche.
Peter Sloterdijk in un saggio sull’arte di Lebenskind chiarisce il proposito dell’Imperativo estetico sotteso alla costruzione dello Jüdisches Museum:
«Se l’edificio museale libeskindiano è potuto diventare un mito in breve tempo, ciò è stato possibile soprattutto perché, attraverso la presenza di voids, quegli spazi vuoti e cavi che tagliano la costruzione secondo un ritmo segreto, vi si dischiude nella sua più sensibile evidenza una differenza della quale tutti gli altri edifici hanno solo una cognizione implicita.
Si potrebbe arrivare a pensare che, attraverso forze tettoniche anomale, gli scantinati siano stati sollevati al di sopra delle linee del pavimento, come se non volessero più a lungo rassegnarsi al loro status sotterraneo. Al secondo sguardo diventa chiaro che non si ha a che fare con scantinati impazziti, e neanche con la proiezione di un ipotetico inconscio architettonico. In effetti i voids libeskindiani articolano un evento che riguarda la grammatica dello spazio: essi vanno a toccare non solo il mito del Master Plan, ma anche la dogmatica relativa alla visione d’insieme e alla percorribilità ininterrotta di uno spazio-ambiente interamente costruito.
Se la storia lasciasse crescere edifici, dovrebbe mantenere aperti –o meglio, liberi – in essi spazi che rimarrebbero inaccessibili e inabitabili. A chi, in quanto parte in causa della storia dell’ebraismo europeo del XX secolo, pensa in modo nuovo lo spazio, deve interessare che sia salvaguardato il ricordo di avvenimenti che non possono rientrare nella piena disponibilità degli abitanti. È impossibile abitare nella Grande Sciagura – e nondimeno in una casa nella quale la storia manda in frantumi i cristalli, si deve trattenere nella presenza una dimensione che tenga conto di questa inabitabilità. Interpretati su questo piano, i voids incarnano il simbolismo dell’assenza. Essi configurano una radicale messa in forma del mondo dei morti dentro il mondo dei vivi. Ma poiché manca loro la convivialità e la comunicatività che possono annettersi comunemente a una tomba, essi alludono a maggior ragione ai non sepolti, a coloro che scomparvero nella catastrofe senza lasciar traccia. I voids si possono pertanto leggere come manifesti irenici.
Se i comuni cimiteri – stando al loro nome tedesco – rappresentano delle enclave protette da muri di cinta all’interno dello spazio sociale, nelle quali i morti e i viventi si possono incontrare in una remota prossimità, gli spazi lasciati liberi formano in Libeskind in una certa misura delle enclave ontologiche e dei metacimiteri che conferiscono una forma all’impossibile commercio tra i viventi e le vittimi della Grande Sciagura. Essi incarnano la severa pace di una memoria del non rappresentabile. In questo senso, configurano una via d’accesso ebraica alla cifra del sublime. Gli spazi vuoti permettono a ciascun osservatore di vedere i confini dell’osservare stesso: con giustizia sublime essi respingono ogni avvicinamento e trattengono tutti i visitatori nella medesima distanza; nessun singolo si può appropriare di questi spazi e farne il proprio punto di osservazione. Né l’architetto, né alcun altro interprete privilegiato della storia hanno accesso a questi spazi dell’assenza. Proprio per questo i volumi vuoti si offrono come un modo per partecipare di qualcosa che di per sé si sottrae alla partecipazione.
Sottraendo alla circolazione alcuni volumi del suo edificio, Libeskind modifica l’esperienza degli spazi accessibili. In tal modo rende chiaro che il significato dell’architettura non può mai limitarsi all’applicazione di geometrie tridimensionali a contenuti umani. In quanto tale, lo spazio abitato dagli uomini viene svelato come grandezza polisemica…Proprio in quanto spazi-di- nessuno i voids sono spazi per qualcuno. Essi marcano il dominio dello straordinario, nel quale i morti sono chiamati alla coesistenza.»
Paul Celan trattiene nella presenza del suo fare poetico la stessa dimensione di inabitabilità, di indicibilità, là dove il visibile si oppone all’invisibile aprendo alla vertigine dell’abisso o dell’Enigma. Nelle ultime poesie, in «quell’eloquente, grandioso ammasso di rovine che gli ultimi libri ci pongono sotto gli occhi» (…) si sfiora la negazione della parola stessa nella lucidità straniante delle immagini: uno starà a testa in giù nella parola “basta!”… lì accanto, nella fanghiglia,/ancora s’attorcigliano/ parole dette…
Poesia destinata al lungo meditare. Come un edificio destinato ad uno scomodo sostare.

Auschwitz-
Illegibilità di questo
Mondo. Tutto doppio.
Gli orologi poderosi
Danno ragione all’ora spaccata,
rauchi.
Incastrato nel più profondo di te,
tu smonti da te stesso
per sempre.
****
Nel più remoto e accessorio
significato, ai piedi della scala
dell’amen, paralizzata:
la fase esistenza, rasa,
saccheggiata,
lì accanto, nella fanghiglia,
ancora s’attorcigliano
parole dette,
escrezione del sonno: il suo
profilo, sotteso da fibre
di cose sognate,
alla sua tempia che sola pulsa
s’accrosta ghiaccio,
non un libro si apre,
il Supernulla s’è schierato
dalla mia parte,
esso rinuncia alla sua battaglia,
nel ghiaccio,
siamo pronti a scambiarci
quanto vi è in noi di più mortale,
la spina, che diede il segnale d’inizio,
cresce attraverso le culle,
dietro l’orologio marcatore si offre in dono,
inattaccabile alla pazzia, il Tempo.
***
Unto e mandato via, fuori, nel
Frumento di pietra,
da mani
canore,
la mezza scabbiosa,
misuratamente,
davanti allo strappo del timpano,
sotto il piede
sinistro
una finestra – della
Terra?
(Per i testi di Paul Celan nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua ci si è riferiti all’Edizione dei Meridiani Mondadori (1998) a cura di G. Bevilacqua)
Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016), con il medesimo editore nel 2018 pubblica la silloge Viola norimberga.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/30/tenere-aperto-il-tempo-il-museo-e-la-parola-daniel-libeskind-peter-sloterdijk-e-tre-poesie-di-paul-celan-un-appunto-sulla-memoria-di-letizia-leone/comment-page-1/#comment-53318
Un grazie a Letizia Leone,
per la sensibilità che ha mostrato nel consegnarci questa riflessione sulla Memoria, l’indicibilità del male e l’indicibilità della lingua ad ospitare e rappresentare il male nella sua nuda verità ontologica e assiologica. Da cittadino italiano e del mondo mi chiedo che cosa significa tutto ciò, e riporto il problema sull’oggi, sulla nostra Italia.
Un paese, un governo che non ha ancora preso una chiara posizione su Maduro e un paese, il Venezuela, con ricchezze minerarie enormi, dove la popolazione è ridotta, per il 95% alla fame e la sua moneta si è svalutata del 95% ed è ridotta a carta straccia.
Un paese dove un ministro dell’interno è stato accusato di un reato gravissimo: sequestro di persona multiplo per atti commessi nell’esercizio delle sue funzioni ministeriali e di governo (il noto caso di sequestro di una nave italiana, la Diciotti, con equipaggio italiano e ospiti africani a seguito di un naufragio).
A prescindere dalle singole percezioni personali, io vedo che il Paese si trova da alcuni anni, e oggi più che mai, ad aver perso l’orientamento verso quei valori di civiltà e di umanità tra l’altro presenti anche nella nostra carta costituzionale. Come non vedere lo stato di obnubilamento, di offuscamento, di indebolimento del livello di civiltà di una larga fetta di Paese e del suo governo democraticamente eletto, dove il ministro degli Interni è indagato per un reato gravissimo (non perché ha sottratto ad un bancone di frutta una mela) che offende la memoria e la coscienza di tutti gli italiani che hanno conservato un minimo di dignità e di umanità.
Mi rinfranca il fatto ascoltato stamattina in televisione nella trasmissione Agorà su RAI3, dove il rappresentante degli alberghi di Siracusa ha dichiarato che nelle more che il ministro Salvini trovi una soluzione nel territorio, gli alberghi di Siracusa sono pronti ad ospitare le 47 persone profughi nelle loro stanze, a rifocillarli a loro spese e, sempre a loro spese, vestirli con decenza e insegnare loro gli elementi della lingua italiana e gli elementi fondamentali della Costituzione italiana, il tutto senza che il governo italiano cacci di sua tasca una sola lira per le spese.
Questo gesto dei cittadini siracusani è un monito verso il comportamento del ministro e di tutti coloro i quali nutrono sentimenti di esclusione se non di razzismo verso altri esseri umani. La mia speranza è che questi gesti di umanità si moltiplichino, che il razzismo e lo sciovinismo di chi specula per calcoli elettoralistici venga contrastato in tute le sedi e in tutti i modi democraticamente attuabili.
Se il ministro Salvini, come da lui stesso dichiarato in un primo momento, è convinto di aver operato nei limiti delle sue attribuzioni istituzionali e nei limiti concessi dalle leggi dello Stato e dalla Costituzione italiana, che si sottoponga al processo, che abbia il coraggio di affrontare il processo come imputato e che si paghi la difesa di tasca propria. Noi cittadini italiani restiamo in attesa del processo e della sentenza, qualunque essa sia la rispetteremo.
Condividendo ogni parola, caro Giorgio, di queste tue lucide riflessioni, mi interrogo anche sul ruolo della Chiesa in questa deriva etica e umana.
Se l’uomo mistico è un uomo pratico, in primis, come dovrebbe insegnare l’operare cristiano allora mi domando qual è il ruolo dello Stato Vaticano oggi in merito alla questione migranti. Non c’è stata nessuna azione del Vaticano di fronte alle 47 persone al gelo in mezzo al mare in queste ore. Ricordo l’appello accorato del Papa qualche anno fa: “Parrocchie, monasteri e santuari d’Europa accolgano una famiglia di profughi a iniziare da Roma e dal Vaticano.” Bergoglio esortava la chiesa all’accoglienza dei migranti, richiamandosi alla concretezza della parola evangelica, dopo aver denunciato che le loro morti “sono crimini che offendono l’intera famiglia umana”.
Intanto a Siracusa offerte di ospitalità, come tu ricordi, sono arrivate solo da privati cittadini, fuori da ogni burocrazia, non mi pare che nessuna chiesa o parrocchia o cattedrale di Siracusa abbia aperto le porte (forse per ragioni “convenienti” di realpolitik) contravvenendo al comandamento più elementare del cristianesimo…anche la crisi della Chiesa sembra profonda.
giorgio linguaglossa
19 luglio 2018 alle 15:32
Negare, come fa Agostino, l’essenza del Male significa implicitamente sminuirlo, io invece credo che, come dice Heidegger, bisogna guardare bene in faccia quest’ospite, il nichilismo, per poterlo fronteggiare in qualche modo. E non altro che questo ha fatto Letizia Leone con il suo libro, ha guardato in faccia il Male ma non per negarne l’essenza: se il male c’è, ci deve essere anche la sua essenza, questo è innegabile. Agostino, ossessionato di dover in qualche modo giustificare il male come male minore, ne ha negato l’essenza, ma noi, in quanto nichilisti non dobbiamo commettere questo errore, il male è nei nostri costumi, nella lingua che abitiamo, nelle cose che facciamo, nel nostro comportamento quotidiano, nelle parole che diciamo, in quelle che non diciamo ma che pensiamo, in quelle che non pensiamo… nelle parole della cattiva politica dei giorni nostri… dobbiamo correggere il male con un pensiero critico, critico oltre se stesso…
giorgio linguaglossa
16 luglio 2018 alle 11:35
la filosofia è definita da Heidegger, con Novalis, «nostalgia»: «un impulso a essere a casa propria ovunque»; ma la poesia moderna, invece, nasce dalla scoperta di non essere a casa propria ovunque, di essere Estranei a se stessi. È essenziale alla poesia moderna, da Les Flueurs du mal(1857) in poi, sentirsi estranei, essere costretti ad impiegare una lingua estranea ed ostile. Questa lingua di Letizia Leone è una lingua estranea ed ostile, non più eufonica. Da oggi e per tutto il futuro non sarà più possibile scrivere con una lingua come quella di Sandro Penna ma neanche con quella ad esempio dell’ultimo libro di Majorino, che ho appena scorso con gli occhi, tanto mi è bastato per capire che quella lingua è estranea in quanto idioletto incomunicabile, lì non si vuole più comunicare con nessuno, c’è l’elitarismo di una intera cultura che si è esaurita, lo sperimentalismo, la cultura di chi non vuole comunicare e non vuole ricevere nulla da nessuno. Con questa disposizione di spirito la poesia nasce già morta, non c’è dubbio.
La Stimmung per Heidegger è «la voce dell’essere», quell’aura, quell’atmosfera che ci involge e ci coinvolge nel nostro rapporto con il mondo. Un particolarissimo tono, o accordo di strumenti musicali che situa la parola poetica in questo accordo…
Il problema della poesia contemporanea, che Letizia leone affronta alla radice in questo libro, e con maggiore consapevolezza e drasticità rispetto ai libri precedenti, è che non è più possibile vivere e convivere con una Lingua familiare, con la lingua degli avi, della tradizione, con la Lingua dei vincitori… l’unica Lingua disponibile per la poesia è quella dei «fatti-stracci», non più la lingua dei ready made, per intenderci, ma la lingua non acustica, in essa non alberga alcuna «acustica dell’anima» idealisticamente posta e acriticamente accettata dalla poesia che va di moda oggi e che alcuni «poeti» e «poetesse» impiegano per offrirsi come anime belle e intonse e immolate al mondo brutto e corrotto…
Lucio Mayoor Tosi scrive:
«Alla poesia, penso, bisogna tendere tranelli, non solo aspettare contemplando la luna!», pensiero quanto mai vero, quanto mai complesso. Innanzitutto c’è la «posizione» del poeta. Dove si posiziona il poeta in una poesia? Al centro del campo? In area di rigore? In porta? sulle ali? (usiamo il gergo calcistico così alleggeriamo il peso di questa indagine). In molte poesie che si leggono sulla carta stampata oggi targata Mondadori e Einaudi, si nota subito che il «poeta» se ne sta beato in tribuna a contemplare il gioco dei fonemi e dei lessemi che agiscono nel campo di gioco; il poeta si trova (beato lui!) seduto nella comoda tribuna numerata, al sicuro e ben riparato dalla pioggia e dagli eventi atmosferici. Potrei fare dei nomi di questa postazione nobiliare di molti poeti di oggidì, ma non ne varrebbe la pena, farei solo della pubblicità…
E poi si pone la questione del linguaggio. Un tempo si pensava che porre la questione del linguaggio fosse una cosa che riguardava l’attivismo dell’autore, il linguaggio era un corpo, erano dei «materiali» dove si poteva entrare a piacimento con gli strumenti chirurgici offerti gratis dalla nuova scolastica che era data dallo sperimentalismo, intendo qui con il termine sperimentalismo anche tantissima parte di ciò che veniva volgarizzato dalla estrema destra letteraria: l’orfismo con le sue adiacenze, riflesso speculare della scolastica del pensiero progressista…
Quando invece il linguaggio è una pre-condizione, una pre-condizione che non postula nulla di condizionato. Un paradosso nel paradosso.
Una pre-condizione che postula il nulla prima di esso. Soltanto così, accettando questa impostazione esistenziale e categoriale si può tentare di fare poesia di qualche valore. Ma non è una cosa così facile né scontata… bisogna entrare in un altro ordine di idee, quello che noi abbiamo denominato la «nuova ontologia estetica».
E invece è vero il fatto che non si può pensare di scrivere poesia se non sulla pre-comprensione di una crisi avvolgente il linguaggio e il soggetto nel linguaggio.
Sono grato a Letizia Leone per questa intensa e suggestiva analisi dell’intrascendibile ambiguità ontologica che promana dalla poesia di Celan, ineguagliabile espressione dell’atroce e assurda esperienza dello sterminio. La sua lingua, il tedesco, sua unica patria, letteralmente la “Muttersprache”, perchè in essa gli parlava la sua adorata madre, preferendola all’yiddish usato dal marito, era anche la lingua dei suoi carnefici nazisti, da qui la relazione ineluttabilmente ambigua, agonica, aporetica, il senso disperatamente irrealizzato che ne emerge, l’impossibile tentativo di integrarvi pieno e vuoto, essere e nulla, ricordo e angoscia, e l’esito, ideologicamente imprevisto e incompiuto, che ne fa un’emblema universale dell’inesplicabile deriva etica e spirituale, dell’ inefficacia epistemologica, dell’erranza e illusoria inferenza della lingua all’essere, del sogno poetico che cerca un varco – fra semiotica e semantica, fra senso e musica – verso una verità che afferisce e presuppone un orizzonte sacro e trascendente che anche il suo muto e misterioso estremo interlocutore ( Martin Heidegger), aveva invano cercato per tutta la vita, ” l’uomo di pensiero” da cui aspettava una parola di verità che non giunse, e non poteva giungere.
Con alterna chiave
apri la casa, in cui
la neve del taciuto fluttua.
A seconda del sangue che ti sgorga
da occhio o bocca o orecchio
cambia la tua chiave.
Cambia la tua chiave, cambia la parola
che può fluttuare coi fiocchi.
A seconda del vento che ti spinge,
attorno alla parola si addensa la neve.
Non cercare sulle mie labbra
la tua bocca,
non davanti alla porta lo straniero,
non nell’occhio la lacrima.
Sette notti più alto erra il rosso verso il rosso,
sette cuori più profondo
batte la mano alla porta,
sette rose più tardi
sussurra la fontana.
Paul Celan
Vorrei proporre la vostra attenzione su questi testi d Ida Travi, una poetessa contemporanea, che mi sembrano animati da una semantica misteriosa, sognata, che trasfigura il pensiero in icone metamorfiche, anagogiche, segretamente rivelatrici di un'”altra verità”.
Il piede del bambino più piccolo
è più grande d’ogni tuo pensiero
Cosa mangia la foglia adesso?
Il pianto del bambino più piccolo
ha coperto il tuo canto, il mondo
sta strillando sull’altare
Il fiume, il salice, la porta. Il tronco spalancato
Ti cadono le foglie dalla testa, te ne accorgi?
vedrai la spalla del tuo vicino
Vedrai la spalla del tuo vicino alta nel segno nero
Nel filo di fumo azzurro vedrai quel fiume
e il monte lì vicino, vedrai un ramoscello
argento che sale, sale…
È così che testimonia il ramo
È così che il sasso ritorna alla sua storia
Ci sono vetri dappertutto, Usov
sei pieno di schegge in testa.
tutto era a posto
Tutto era a posto, tutto era perfetto
poi è venuto l’uomo con la falce
e s’è preso le nostre fragole
Allora sono scesa dalla sedia regina
alzando le braccia al cielo
Sono scesa dalla sedia regina
portando le mani al petto
Tutto era perfetto, cento colombe alte
sono volate in cielo, come un ventaglio
in cielo, le fragole antiche dormono
nel fazzoletto nuovo.
ritorna in te
Ritorna in te, togliti dalle rose
Superbe nella loro natura,
svettano nel colore
come irriducibili bandiere
Questa è la verità, Inna
non puoi discutere con le rose
hanno sempre ragione loro.
Olin, ti sbendo
Olin, ti sbendo. Tu guarda
dall’altra parte, guarda
se per caso è fiorito il braccio
e come è semplice la testa, adesso.
le mani in preghiera
Le mani in preghiera escono dal buio
ti svanisce il cerchietto sulla testa
e il vetro argentato ti chiama Inna
C’è un volto nel biancore dei ghiacciai
C’è un cuore giù nel sottosuolo
L’angelo prende con sé i bambini
li porta alla luce della candela
Ora alla luce della candela brillano immensi
davanti a noi, li vedi?
caleranno le pale dei morti
Caleranno le pale dei morti
MA IO NO!
Li vedi quegli uccelli in volo?
Io sono a conoscenza d’un mistero
so l’ordine preciso d’un mistero
Svaniranno i fiori dappertutto
ma io non svanirò. Lo giuro!
non entri nell’acqua?
Non entri nell’acqua, Attè?
Corre veloce il fiume, corre veloce
come il nostro desiderio
Desiderio?
Così lo chiameremo!
E non dirmi che non ti piace, Attè
il bambino è immortale, lo sai.
non lasciare il fiore
Non lasciare il fiore al sole, vedi bene
come tiene giù la testa, povera testa
Il cucchiaio va sotto il tovagliolo, il bicchiere
va messo lì davanti. A terra c’è la croce in controluce
Indicava col braccio
La vedi la tavola di legno scuro?
Era alto l’altare quella volta, e tu versavi lacrime
guardando giù per terra
Versavi lacrime guardando giù per terra
le mani in tasca, guardavi giù per terra.
Perché tremavi tanto? perché piangevi così?
mangi e lasci
Mangi e lasci nel piatto due cucchiai
Si staccano tre uccelli dalla testa, grandi come una mano,
sono così grandi che annullano la mano
Annullano la mano insaguinata
tanto sono io che mi chino e raccolgo quei vetri torri
sono io che mi chino, e poi mi faccio male
Questa è acqua d’un secolo fa, questo mare
lo manda il cielo
Scendono tra noi dolenti i bianchi genitori, cadono come sassi,
mentre tra noi s’innalza e s’inazzurra il muro.
la pietà
La pietà spalanca le braccia, figli e fratelli
se ne vanno via, gli alberi, gli uccelli, il mare
tutti i fiumi della terra, tutti se ne vanno via
tutti – ma tutti – se ne vanno via
Nell’inverno, quando il bianco governa la città perduta
quando il bianco governa la città perduta
una lampada, un lume a due braccia fa luce in un angolo
nell’angolo, i bianchi gabbiani migratori
non avevano mai visto una luce così.
Ida Travi
Grazie Livia…
caro Carlo Livia,
mi soffermo un momento su questi versi:
Mangi e lasci nel piatto due cucchiai
Si staccano tre uccelli dalla testa, grandi come una mano,
sono così grandi che annullano la mano
Annullano la mano insanguinata
tanto sono io che mi chino e raccolgo quei vetri torri
sono io che mi chino, e poi mi faccio male
Nei primi quattro versi di Ida Travi notiamo una tecnica in uso nella nuova ontologia estetica che l’autrice impiega istintivamente: la peritropé anche detto il capovolgimento di immagini, mentre nei due versi che seguono, e precisamente il quinto e il sesto notiamo il ritorno della prima persona singolare quale protagonista centrale della composizione che ruota, tutta, sul perno della prima persona singolare, cosa che a mio giudizio inficia e indebolisce la composizione che, invece, avrebbe tutto da guadagnare dalla soppressione di tutte le intromissioni dell’io, a mio avviso pleonastiche e non necessarie ai fini della economia estetica della composizione.
E questo difetto lo si nota anche in molti altri autori di oggi anche in possesso di buone qualità tecniche, ma il fatto di fondo è che questi autori non sono consapevoli delle problematiche, diciamo, tecniche e filosofiche che stanno al fondo della poesia di oggi (e di ieri), così che ricadono, senza rendersene conto, negli errori di impostazione nella loro praxis poetica.
E come darti torto…
Grazie Letizia Leone.
IL TEMPO APERTO
Punto in discesa.
Divincola. Divampa. prende alla gola
arretra, si ferma. All’angolo
opposto è li che aspetta. E’ ombra o roulette
poi tenta di entrare. Quella sbatte
si chiude e riparte a girare.
Non sfugge a se stessa l’uscita
che chiude una porta difronte alla Storia.
La pallina è lontana ha un balzo, soltanto felice.
(E chi dimentica! Grazie OMBRA)
Perché sono qui?
Chi ha deciso che io debba stare qui?
Mia madre se ne è andata e non è più tornata!
Perché mi aggiro tra questi rettangoli di cemento?
Qual è la via d’uscita?
Sterminio? Che significa sterminio?
Chi e perché mi ha separato?
גט et גיטים.
Bella Talia.
Un distacco pari alla nascita.
La morte della vita.
Un grembo violato.
Un singolo vagito di dolore.
Singhiozzi di dolore.
(Traducimi al meglio l’ultimo verso, Grazie)
Un caro abbraccio.
Grazie OMBRA.
Cari lettori e poeti de L’Ombra,
vorrei offrire un mio piccolo contributo a questo bellissimo articolo sulla Memoria scritto da Letizia Leone. Ho scelto un brano che, per la sua immensa forza espressiva, continua a tenere tragicamente presente e viva la Memoria. S’intitola “Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz” di Luigi Nono (Venezia, 1924 – 1990).
Così l’autore descrive la sua composizione:
“L’opera non comporta l’uso di testo. Ho utilizzato unicamente il materiale fonico del coro e della voce di soprano. Secondo me è necessario continuare a ricordare i crimini dei campi di concentramento del passato, ma anche quelli del presente. Ricordarli con la speranza, la volontà e la responsabilità di vederli scomparire. Un’utopia?”
L’opera fu realizzata da Nono nel 1966 a partire dalla musica di scena composta per “Die Ermittelung” di Peter Weiss. La pièce, che tratta del processo di Francoforte ai nazisti delle SS responsabili dei massacri – soprattutto di ebrei – nel campo di concentramento di Auschwitz in Polonia, è stata creata nel 1965 a Berlino e messa in scena da Erwin Piscator. “Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz”, nastro magnetico per coro, voce di soprano e materiale elettroacustico, è stato realizzato presso lo Studio di Fonologia della RAI di Milano, fondato da Luciano Berio e Bruno Maderna. L’opera si compone di tre parti: 1. Il canto dell’arrivo ad Auschwitz; 2. Il canto di Lili Tofler (clandestina della Resistenza, internata e assassinata); 3. Il canto della sopravvivenza.
Sperando di avervi fatto cosa gradita, vi auguro
buon ascolto!
Sempre gradito ogni tuo intervento…
Grazie Costantina per questo contributo musicale impressionante, così come ringrazio gli amici che hanno condiviso la loro testimonianza in versi. L’Opera di Luigi Nono può essere commentata solo dai versi di Celan (e sono molti i frammenti dove risuona livida una dimensione acustica…). Ne riporto alcuni sparsi dalle ultime raccolte postume “Parte di neve” e “Dimora del tempo”:
Gli abissi vanno in giro: ghiaia canticchiante -:
ne vieni a capo
con percezioni di sordità
e con negazione di sonno…
Introduce il suono angustia…
…questo
urlo da ghiacciaio
delle tue mani…
Il passo delle trombe
in fondo al cocente
vuoto del testo,
ad altezza di fiaccola,
nel buco del tempo:
apprendi ad ascoltare
con la bocca.
L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
IL TEMPO APERTO
Punto in discesa.
Divincola. Divampa. prende alla gola
arretra, si ferma. All’angolo
opposto è li che aspetta. E’ ombra o roulette
poi tenta di entrare. Quella sbatte
si chiude e riparte a girare.
Non sfugge a se stessa l’uscita
che chiude una porta difronte alla Storia.
La pallina è lontana ha un balzo, soltanto felice.