Giorgio Stella, Poesie da Montando la croce alla torre, plaquette, Il Ponte del Sale, gennaio 2019 con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Foto 12 espressioni femmli

La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Adorno e Horkheimer hanno scritto questa frase in Dialettica dell’Illuminismo (1947):

La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo”. Leggendo queste parole mi viene fatto di pensare agli artisti, agli scrittori e ai poeti di oggi, che sono ad un tempo «scaltri» e «stupidi»…

È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri, che impiega il linguaggio secondo una «nuova ontologia pratica», e una «nuova ontologia estetica», chiama se stesso «Udeis» che in greco antico significa «Nessuno». Impiega il linguaggio nel senso che lo «piega» ai propri fini, a proprio vantaggio. Affermando di chiamarsi «Nessuno», Odisseo non fa altro che utilizzare le risorse che già il linguaggio ha in sé, ovvero quello di introdurre uno «iato», una divaricazione tra il «nome» e la «cosa», una ambiguità; Odisseo impiega una «metafora», cioè porta il nome fuori della cosa per designare un’altra cosa. I Ciclopi i quali sono vicini alla natura, non sanno nulla di queste possibilità che il linguaggio cela in sé, non sanno che si può, tramite il «nome», spostare (non la cosa) il significato di una «cosa», e quindi anche la «cosa».

La poesia di Omero altro non è che l’impiego della téchne sul linguaggio per estrarne le possibilità «interne» per introdurre degli «iati» tra i nomi e le cose, e il mezzo principale con cui si può fare questo è la metafora, cioè il portar fuori una cosa da un’altra mediante lo spostamento di un nome da una cosa ad un’altra. È da qui che nasce il racconto omerico, l’epos e la poesia, dalla capacità che il linguaggio ha di dire delle menzogne.

Scrive Giorgio Agamben:

Legein, «dire», significa in greco «raccogliere e articolare gli enti attraverso le parole»: ontologia. Ma, in questo modo, la distinzione tra dire e essere resta ininterrogata ed è questa opacità della loro relazione che sarà trasmessa da Aristotele alla filosofia occidentale, che l’accoglierà senza beneficio di inventario.1

Questo passo di Agamben rivela in modo inequivocabile che i veri problemi del «dire» sono ontologici; anche il problema dello stile è un problema, al fondo, ontologico, non è una questione letteraria o privata, e non si tratta neanche di messaggistica che un mittente scambia con un destinatario, qui la semiotica non ci può suggerire nulla di utile; il «soggetto» non è una questione privata, non lo si può ridurre a questione grammaticale o a una questione di «stile» letterario, come lo intendono i poeti inconsapevoli e ingenui che oggi occupano i file degli uffici stampa; la questione del «soggetto» è, in ultima analisi, anch’esso una questione ontologica; quando adoperiamo le parole in poesia dobbiamo essere consapevoli di questo dato di fatto, di questo plesso problematico. Certo, per chi pensa con la propria testa non è difficile capire che pensare in modo ontologico il «soggetto» implica un diverso orizzonte di pensiero e di ricerca. Qui quello che è in questione è nientemeno che il «cambio di paradigma».

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

«Il cambio di paradigma tocca il discorso poetico alla radice».

 Mi riallaccio al precedente post-riflessione di Steven Grieco Rathgeb per riaffermare: il problema è che cosa noi vogliamo rappresentare mediante la poesia, mediante la de-soggettivazione dell’io e la de-oggettivazione dell’oggetto, mediante l’uso del linguaggio, perché sia chiaro: noi tutti usiamo il medesimo linguaggio ma è il modo, le categorie con le quali impieghiamo il linguaggio che fa la diversità. Se l’io è considerato come il luogo fonte di ogni espressione, da questo punto di vista dobbiamo ammettere che la poesia di Zanzotto non differisce dalla poesia di Giorgia Stecher o di un qualsiasi autore di oggi, compreso Giorgio Stella, e così possiamo considerare il discorso chiuso ancora prima di iniziare a cogitare. Pensare il luogo dell’io come il luogo privilegiato dal quale prende l’abbrivio la narrazione poetica, è una testi molto discutibile, per non dire erronea: non si dà nessun «luogo privilegiato» nell’io; innanzitutto: quale io, tra i molti? Possiamo pensare tutto ciò che c’è nell’io come una «scatola magica» all’interno della quale avvengono delle situazioni «magiche» (nel senso wittgensteiniano) che noi traduciamo in un certo linguaggio poetico?, ma questa tesi è quantomeno invalidata dal corso della psicanalisi e della filosofia da almeno un secolo in qua. E allora, il problema  concerne il cambio di paradigma dove l’io è stato de-soggettivizzato e l’oggetto de-oggettivizzato. Se invece mettiamo in discussione e prendiamo le distanze dalla concezione della poesia come espressione della «scatola magica» dell’io, allora ci accorgeremo che le cose stanno in modo diverso, non si tratta di un collegamento tra vasi comunicanti, ma tra vasi incomunicanti. Il problema è tutto qui. Il cambio del paradigma comporta il cambiamento della questione della poiesis, ed è il percorso intrapreso dalla nuova poesia, dalla nuova ontologia estetica.

La soggettivazione dell’essere, la presupposizione di un giacente-sotto è inseparabile dalla predicazione linguistica, è parte della struttura stessa del linguaggio e del mondo che esso articola e interpreta. La poesia di Giorgio Stella pesca nelle profondità della «scatola magica» come un mago che va a tentoni cercando di fare luce sul lato notturno dell’io, lì vi trova la dismetria e la distassia e la distopia ma non albeggia ancora la consapevolezza di un nuovo orizzonte degli eventi, di un nuovo paradigma, la sua poesia si ferma un momento prima di oltrepassare quella soglia, ricade indietro nel paradigma del tardo novecento.

«L’essere è considerato dal punto di vista della predicazione linguistica, dal suo essere accusato (kategorein significa in greco innanzitutto «accusare») dal linguaggio, esso si presenta nella forma della soggettivazione. L’accusa, la chiamata in giudizio che il linguaggio rivolge all’essere lo soggettivizza, lo presuppone in forma di hypokeimenon, di un esistente singolare che giace-sotto-e-al-fondo.
L’ousia prima è ciò che non si dice sulla presupposizione di un soggetto né è in un soggetto, perché è essa stessa il soggetto che è pre-sup-posto – in quanto puramente esistente – come ciò che giace sotto ogni predicazione.

La relazione pre-supponente è, in questo senso, la potenza specifica del linguaggio umano. Non appena vi è linguaggio, la cosa nominata presupposta come il non-linguistico o l’irrelato con cui il linguaggio ha stabilito la sua relazione entra nel campo della evidenza semantica».2

Nella poesia di Giorgio Stella ciò che non si dice è ciò che risiede nella «scatola magica» dell’io. E si ricomincia daccapo a narrare dal punto di vista dell’io in un corto circuito tautologico e auto fagocitatorio. Ciò che la nuova poesia dovrebbe fare è invece togliere credenziali a quella pre-supposizione di un giacente-sotto cui la poesia italiana sembra accreditare il più ampio e incondizionato credito. Ma, in realtà, si tratta di una fede, di una pre-supposizione. Però è anche vero che tutto ciò che c’è dentro la «scatola magica» dell’io, nella poesia di Giorgio Stella, venga defenestrato e reso irriconoscibile: l’io diventa non-io e la terza persona singolare prende il posto della prima persona singolare. C’è in Giorgio Stella questa preveggenza di ciò che potrebbe comportare nella sua poesia dalla abdicazione dell’io: la dissoluzione dei nessi sinallagmatici e logici del linguaggio poetico come risultato diretto della distassia imperante nei linguaggi relazionali in vigore nella comunità dei parlanti.  

Siamo agli antipodi della soglia che divide la nuova ontologia estetica dalla poesia della tradizione del secondo novecento, appena un passo prima di inoltrarci consapevolmente oltre la soglia della nuova ontologia estetica.

1 G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014, p. 158

2 Ibidem, p. 159

selfie Raymond Queneau

È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri

Giorgio Stella, Poesie da Montando la croce alla torre

I

Morire come morire
È stato vivere le vite

Della morte una morte per volta
Fino alla fine della Madonna
e scrivere uno stellato anello a catena
Di panni stesi sul rogo del rococò
Il patto blindato
Tra il milite e l’ignoto

II

Te eri d’agosto mozzata come la Madonna Cinese
Cilena in patria chiara sulla luna alpina
Dove la stella è quadra
E patta un sole di uva passa
E si scommette sul nettare
L’avere di essere

III

Con un telo bucato dal passero fiero
Con un passero fiero in meno
Al telo bucato fiero di passero
Verso la stagione del cubo libero il mare del circuito feudale

IV

la rovina arriva sotto
Il nucleo del centro
Attraverso la fine dell’anno e l’anno della fine del mondo ‘tutti al cloro’
Quello specchio in patria monarchico
rifletteva le dune delle sedi
Nucleari al petto delle ceneri
Questo parto dei membri

.

La postura della scherma

Quella fessura

Tessuta a mano l’Orfeo della Stele dell’Orchestra
Il buco che incontra il muro
Un orfano reso dall’incesto di ETC.
Come si muore piano addosso
Il filo del fiore del faro

Per l’ultima volta
Ho visto
La luce
Del tempo accesa
E accecata
Alla deriva
Della più livida area
Ove è il cuore
Che spezza l’armatura

I venti mossi
Dagl’abbandoni risorti
Accendo candele
Tra l’incenso
Il volto è tornato
per tornare
montando
La croce alla torre

*

da Lesbia (2014)

Si spada davanti all’indietro
della baionetta
sulla sparata polvere
spartita nella
vivisezione che
la corazza brucia
e sia l’elmo in conciliazione
della lanterna a candela
la croce dei chiodi

lei non ricordo chi sono meno
quegl’altri ancora
prima di noi altri nessun noi
alle spalle degl’angeli
vola via
il mantra di buddha
quel corano la messa
era quando stava

questa razza resta

11 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Senza categoria

11 risposte a “Giorgio Stella, Poesie da Montando la croce alla torre, plaquette, Il Ponte del Sale, gennaio 2019 con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

  1. Carlo Livia

    Tout est vrai, cher Giorgio, je est un autre

    Arthur Rimbaud

    LA SIGNORA NEL BOUDOIR

    Tradiva paradisi e seppelliva anime, macchine ubriache copiavano i suoi amori, le sue finte giovinezze, si spogliava nel parco fra lune mistiche.
    Nel corridoio commentavano i suoi pensieri, per non svanire in cielo cadde nello specchio, si tolse la vita ma non riuscì a trapassare, la videro dietro la finestra, in piedi che continuava a telefonare.
    Possedeva figli artificiali e infiniti di plastica, amava gli inferni congiunti, le piogge nude, gli angeli sommersi, gli Dei scoscesi, i boschi di Schubert, gli schiavi dell’arpa, la crudeltà dei gigli, i precipizi soffici, le albe malate di corallo.
    Aspetta ancora la vita, accanto a un orizzonte.

    • Giorgio Linguaglossa

      caro Carlo,

      hai mai provato a trasformare tutti i tempi verbali dal passato in presente? Se lo fai vedrai che ne esce una poesia tutta diversa. Il metodo migliore per evitare di cadere nella elegia è quello di evitare, se possibile, il passato… oppure, semplicemente, sopprimere tutti i verbi. Sono esercizi utili a farsi perché ci rivelano cose inattese che non avremmo preventivato…

      • Caro Giorgio, capisco e in parte condivido la tua insofferenza per il tono elegiaco, mnestico, rievocativo, ma in qualche caso, come questo, è parte ineliminabile dell’espressione, infatti ho tentato di rappresentare un’esistenza inautentica, mancata che emerge dal passato per arrivare ad un presente congelato, in cui ancora attende di esistere; quindi solo l’ultimo verso può essere al presente.

  2. Parole gettate in semantica informale, in maniera che sia l’inconscio a suggerire quello che il poeta ha dentro come suggestione. Se ne viene fuori dallo sperimentalismo ma non dalla complessità di una comunicazione appena mediata, appena accennata. Tuttavia le stesse parole sembrano uscire dal collo stretto di un imbuto ( che sia l’io di cui parla Linguaglossa?), controllate, comunque da estetica personale; che io trovo assai vicina al brutto – brutto che a diritto risiede nell’estetica, così come il cattivo e il buono ma in generale tutti i contrari, che sono interni all’uno. Siamo molto lontani anche dalla poesia di Steven Grieco (qui citato da Giorgio), perché Steven è per il lasciare-andare fuori dalla gola del pensiero, nella vita, dove il dentro e il fuori coincidono.
    Spiace di non avere ancora scritto un commento meditato sullo scritto di Steven. Me ne è mancato il tempo ma lo farò perché ha sollevato problemi concernenti il rapporto tra parola e immagine, secondo me troppo sbilanciati in favore di quest’ultima. Come il gioco del calcio si fa con il pallone, così poesia si fa con le parole. Da qui non si scappa. Il discorso andrebbe ripreso e approfondito.

  3. Ringrazio Guido Galdini per avere segnalato i video di Curiuss. Me li sono visti tutti. Poi ho trovato questo che stranamente ci riguarda, se non altro per metafora:

  4. L’evento azzerato al piccolo centro
    configurato in un punto, al viso, accendeva
    un bargiglio sfiorato, la pozza specchiata.
    Dominante sulla riva, la pelle, la rotta. Percepivano capochiette di spillo, Labuan attendeva, la Tigre smaniava.
    Rianimato in furore un foglio non esaltava lo stesso dolore, la carta era muta, ora piangeva.

    GRAZIE OMBRA.
    Questa la dedico ad Alfredo De Palchi.
    (Comunicategliela,grazie)

  5. Giorgio Linguaglossa

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/24/giorgio-stella-poesie-da-montando-la-croce-alla-torre-plaquette-il-ponte-del-sale-gennaio-2019-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-53216
    «La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede». «La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca». Così sosteneva Leonardo da Vinci, nel suo Trattato della pittura. In fin dei conti, la poesia è sempre impegnata alla descrizione di esistenze, di singolarità, il che significa che l’esistenza può rivivere soltanto se tolta, se de-scritta dalla scrittura. In tal senso, Silvana Palazzo ordisce una vera e propria metodologia fenomenologica dell’esistenza, scrittura dell’esistenza in itinere.

    Prendo lo spunto, per questa ricognizione, dal libro d’esordio di Alfredo de Palchi, Sessioni con l’analista (1967), per riepilogare la questione della «nuova poesia» italiana.Lì il poeta di Legnago era intervenuto con del «tagli», con dei «graffi», incideva con una lama le parole, quasi le scrostava…
    Di recente, una poetessa milanese mi ha chiesto che cosa intendessi per «nuova ontologia estetica», ho risposto così: la domanda fondamentale che un poeta si deve porre è: che cos’è l’essere e che cos’è il linguaggio? E qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio. Tutte le altre domande sono questioni secondarie, di contorno, e possiamo rubricarle a parte.
    Perché «nuova ontologia estetica»? Non è stato il novecento il secolo del «nuovo»? Domanda legittima. Penso che ogni «nuova» poesia è tale se riformula le categorie estetiche pregresse all’interno di una nuova visione del fare arte.

    Parlare di «ontologia estetica» implica parlare delle parole e del metro; nel linguaggio poetico le prime non si danno senza il secondo, ma è anche vero che ogni nuova poesia rinnova il modo di concettualizzare la «parola», il suo pondus all’interno del «metro».
    Il «metro» secondo la nostra idea è una unità di misura di grandezza variabile, dobbiamo uscire fuori da un concetto di «metro» quale unità di misura fissa, statica ma entrare in sintonia con un pensiero che pensa il «metro» come una entità variabile, dinamica che varia con il variare delle grandezze (anch’esse variabili) che intervengono al suo «interno».
    La «parola» è una entità per sua essenza variabile e volatile, mutagena che può essere rappresentata come una entità corpuscolare e come entità ondulatoria. Non v’è un peso specifico costante nel tempo di una «parola» ma vi sono tanti «pesi» della «parola» quanti sono i «modi» del suo manifestarsi all’interno di un «metro». Il «metro» sarebbe quindi una sorta di «onda pilota», o «onda di Bohm», come si dice nella fisica delle particelle subatomiche, un’onda che convoglia al suo interno le particelle che oscillano nell’universo.

    Vi possono essere modi molto diversi di intendere questa «onda pilota», in questo concetto ci sta il «tonosimbolismo» della poesia di Roberto Bertoldo, una poesia intersemica e fonosimbolica e la poesia segmentata e frammentata di un Alfredo de Palchi; ci può stare il discorso poetico citazionista di un Mario M. Gabriele, con L’erba di Stonehenge (2016), e In viaggio con Godot (2017), il discorso poetico «caleidoscopico» di Steven Grieco Rathgeb, il mio frammentismo metafisico, ci può stare la ricerca iconica e simbolica di Letizia Leone in Viola norimberga (2018) e il frammentismo peristaltico di poeti come Gino Rago con I platani sul Tevere diventano betulle (2019), ci può stare il nuovo corso della poesia di Guido Galdini, di Donatella Costantina Giancaspero, di Carlo Livia, di Mauro Pierno e di altri poeti che si impegnano quotidianamente in questa direzione di ricerca. Ciascun poeta porta a questo salvadanaio una piccola monetina, un piccolo mattone. È la consapevolezza di un modo diverso di fare poesia che albeggia, il modo inaugurato da Tomas Tranströmer nel 1954 con il suo libro di esordio, 17 poesie.

    Questo nuovo concetto della parola cambia radicalmente la forza gravitazionale della sintassi, il modo di porre l’una accanto all’altra le «parole», le quali, con tutta probabilità, obbediranno ad un diverso metronomo, non più quello fonetico e sonoro dell’endecasillabo che abbiamo conosciuto nella tradizione metrica europea, ma ad un metronomo sostanzialmente ametrico. Non c’è più il metronomo fisso, perché non c’è più una unità metrica. Di qui la importanza degli elementi non fonetici della lingua (i punti, le virgole, i punti esclamativi e interrogativi, gli spazi, le interlinee etc.) ma che influiscono in maniera determinante a modellizzare la «parola» all’interno del nuovo «metro» ametrico. Di qui l’importanza di una sintassi e di una metricità frante. Ecco spiegato il valore fondamentale che svolge il punto in questo nuovo tipo di poesia, spesso in sostituzione della virgola o dei due punti. In questo nuovo modo di modellizzare le parole all’interno dei polinomi frastici si situa l’importanza fondamentale che rivestono le «immagini»; infatti, le parole preferiscono abitare una immagine che non una proposizione articolata, perché nella immagine è immediatamente evidente la funzione iconico-simbolica del linguaggio poetico.
    Ed ecco la parola chiave: il verbo «abitare». Le parole abitano un luogo che è spazio-tempo e memoria. Le parole abitano la Memoria, e la Memoria abita l’Assoluto. Le parole sono entità temporali, sono il prodotto del tempo, sono la prova che il tempo fisico esiste veramente, non è una invenzione di poeti invasati, o che il tempo che esiste è il tempo metafisico, l’aion, il tempo, immagine mobile dell’eternità.

    Quando si pensa ad una nuova opera, ad una nuova cosa, ad una nuova poesia pensiamo ad un «non ancora», e che cos’è questo «non ancora» che non riusciamo ad interpellare, a nominare? È l’impensato nel pensiero, l’impensato che sta al di là di ogni pensiero pensato… è il «non ancora» che guida il nostro pensiero verso la soglia dell’impensato. Allora, possiamo dire che è l’impensato che guida il pensiero verso il pensato…
    Ecco, la nuova ontologia estetica è il «non ancora», è quell’impensato che muove il pensiero verso il pensiero. Privati dell’utopia dell’impensato, si ricade nel pensiero già pensato, nel pensiero routinario. Dobbiamo quindi abitare l’impensato, abituarci al pensiero di abitare il «non ancora», l’impensato del pensiero.

  6. Giorgio Linguaglossa

    copio e incollo dalla Treccani on line delle tesi che potremmo fare nostre:

    Il paradigma digitale

    Nell’attesa di sapere dove ci porterà il paradigma multimediale – la cui unica vera novità, in fatto di scrittura, sembra consistere negli ipertesti –, stiamo vivendo appieno il dispiegarsi del paradigma digitale (l’idea di una «rivoluzione digitale» in atto è stata divulgata da Nicholas Negroponte nel suo Being digital, 1995; trad. it. 1995). Ciò significa che allo stato attuale – indipendentemente dalle future conseguenze, prevedibili solo in minima parte – il diffondersi della comunicazione telematica ha significato una netta rivincita per la scrittura.

    Da quando la corrispondenza in simultanea è diventata una realtà alla portata di tutti, si è verificato un clamoroso ritorno alla comunicazione per iscritto, che sta dando vita a diverse e fortunatissime forme di ‘neoepistolarità tecnologica’: la posta elettronica (l’e-mail, appunto), gli SMS (i ‘messaggini’ inviati tramite il telefono cellulare) e – su un piano diverso – le chat line (le conversazioni a più voci che si svolgono in rete) e l’instant messaging (la conversazione in simultanea tra due soli interlocutori: IM, se avviene da personal computer; MIM, Mobile Instant Messaging, se avviene tramite telefono).

    Tutto questo ha profondamente modificato l’assetto delle varietà trasmesse, che ora contemplano una vasta gamma di media scritti. L’effetto più rilevante è stato sicuramente quello di desacralizzare la scrittura: non soltanto perché «i confini del testo definitivo, e delle gerarchie di ogni forma e peso che da esso derivano, si erodono […] passibili di continue, infinite modificazioni» (Fiormonte 2003, pp. 14-15), ma soprattutto perché adesso si scrive ovunque per raggiungere chiunque e comunicare comunque. Si scrive, quindi, in condizioni di concentrazione e di pianificazione del testo molto diverse da quelle tradizionali.

    Ciò comporta il venir meno delle coordinate che avevano caratterizzato e condizionato la scrittura per secoli. Se il testo diventa labile, la scrittura passa nella sfera dell’effimero; se si scrive così spesso, scrivere diventa un gesto quotidiano, lontanissimo da quella solennità di cui si era sempre ammantato. Lo schermo è facile da riempire, piccolo come quello del telefonino o già predisposto a rispondere come quello dei messaggi di posta. E la risposta dev’essere pronta, se non immediata, perché un’attesa troppo lunga – nella pragmatica di queste forme di comunicazione – può essere considerata un segno di freddezza o addirittura di ostilità (cfr. Y.M. Kalman, G. Ravid, D.R. Raban, S. Rafaeli, Pauses and response latencies. A chronemic analysis of asynchronous CMC, 2006, jcmc.indiana.edu/ vol12/issue1/kalman.html).

    Ben lungi dall’essere effimera, in realtà, la corrispondenza elettronica viene implacabilmente archiviata giorno per giorno dai nostri personal computer e dai nostri telefonini. Un aspetto che, in prospettiva storica, presenta un problema ben diverso: l’eccesso di conservazione tipico di una società libera dall’ingombro della carta e ormai disabituata alla selezione e alla gerarchia dei materiali (cfr. M. Ferraris, Sans papier. Ontologia dell’attualità, 2007). Il progetto Email Britain, promosso nel maggio 2007 dalla Brit-ish Library in collaborazione con la Microsoft (www.newhotmail.co.uk/emailbritain), mirava a raccogliere un milione di messaggi divisi per tema: già il primo giorno le e-mail ricevute erano diverse migliaia. Il progetto Faites don de vos SMS à la science lanciato dall’Università di Lovanio alla fine del 2005 ha raccolto in poco più di due mesi 75.000 messaggi (30.000 sono andati a creare il corpus di riferimento del lavoro di C. Fairon, J.R. Klein, S. Paumier, Le langage SMS, 2006). Resta in ogni caso difficile, di fronte a questa disponibilità potenzialmente illimitata, fondare una ricerca scientifica su un corpus che possa considerarsi davvero rappresentativo (M. Beisswenger, A. Storrer, Corpora of computer-mediated communication, 2007, http://www.michael-beisswenger.de/pub/hsk-corpora.pdf).

    L’italiano digitato

    Sono molti i teorici della comunicazione per i quali, alla luce dei cambiamenti appena accennati, bisognerà ripensare completamente la scrittura (per es., R. Harris, Rethinking writing, 2000; trad. it. La tirannia dell’alfabeto. Ripensare la scrittura, 2003). Per il momento, quello che si può fare è cercare di individuare gli aspetti innovativi di questa ‘scrittura digitale’ e provare a misurare, sulla base degli studi esistenti, le eventuali conseguenze sulla lingua comune.

    Di sicuro, il moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione ha accelerato alcuni processi in atto da tempo, come il progressivo avvicinamento tra parlato e scritto. La nuova confidenza con la scrittura acquisita da larghe fasce della popolazione aumenterà ancora quella pressione del parlato sullo scritto a cui già da qualche tempo sono addebitati i principali movimenti in atto nell’italiano. Si tratta di «una rivoluzione iniziata con l’avvento dei word processor e proseguita con la telematica […] l’attuale primato della scrittura […] non è pensabile fuori dal contesto multimediale che ne ha ridefinito il ruolo, poiché la scrittura è oggi solo uno dei tanti linguaggi che le nuove tecnologie consentono di allineare, sovrapporre e contaminare» (Pistolesi 2004, pp. 10-11).

    Per parlare di queste nuove forme di scrittura, si sono usate diverse definizioni: quella di italiani trasmessi scritti (ma nella coscienza collettiva l’idea di ‘trasmissione’ è ancora intimamente legata alle trasmissioni televisive o radiofoniche); quella di italiano digitale, che sottolinea la differenza rispetto ai vecchi media analogici (peraltro non scritti: per es., il telefono) e anche quella di italiano digitato (E. Gastaldi, Italiano digitato, «Italiano & Oltre», 2002, 17, pp. 134-37), che pone bene l’accento sulla nuova e comune modalità di produzione della scrittura.

    «Da dove dgt?», si domanda in rete quando si entra in contatto con un nuovo ircatore (IRC, Internet Relay Chat, è il programma più diffuso tra quelli che gestiscono le chat line). Digitare su una tastiera era, fino a non molti anni fa, un’attività quasi esclusivamente professionale e in generale legata all’idea di una copia in pulito. Oggi rappresenta un gesto quotidiano per un’ampia fetta della popolazione (specie fra i più giovani) ed è identificato con una comunicazione rilassata, confidenziale. Moltissime persone che fino a poco tempo fa non avrebbero scritto un rigo, producono incessantemente una mole impressionante – sia pure frammentaria e quasi atomizzata – di testi digitati, dando vita a una diffusione senza precedenti della comunicazione scritta.

    Eppure – specie nella prima fase, quella degli anni Ottanta e Novanta – la dimensione scritta della CMC è stata a lungo messa in dubbio dagli stessi linguisti. Quando Daniela Bertocchi si chiedeva in un suo saggio L’e-mail si scrive o si parla? («Italiano & Oltre», 1999, 14, pp. 70-75) non faceva che riassumere il nodo centrale del dibattito linguistico di quegli anni intorno alle nuove tecnologie. Formule molto fortunate come written speech o writing conversation, infatti, insistevano sull’idea di una nuova forma di espressione linguistica. Una forma ibrida, in cui un medium scritto era usato per veicolare un tipo di comunicazione molto simile – nelle funzioni, nei modi, come anche nella percezione degli utenti – a quella parlata.

    Tra le voci più autorevoli, Naomi S. Baron (2000) si esprimeva nei termini di una «modalità mista», sottolineando da un lato l’inedita vicinanza al parlato (largo uso di pronomi di prima e seconda persona, del tempo presente, di forme contratte; livello di formalità generalmente basso), dall’altro gli ineliminabili caratteri che legano la CMC allo scritto: la distanza fisica tra gli interlocutori, la natura grafica del messaggio e dunque la sua durevolezza nel tempo, ma anche la sintassi complessa e l’ampia scelta lessicale.

    David Crystal (2001), dopo aver svolto un’analisi dettagliata dei vari tipi di CMC esistenti all’epoca – web, e-mail, chat e quelli che allora si chiamavano mondi virtuali (MUD, Multi User Domain, e MOO, Mud Object Oriented), giungeva a una conclusione leggermente diversa. «La lingua della rete», scriveva, «possiede di gran lunga molti più tratti che la legano allo scritto di quanti non la riconducano al parlato»; ne consegue che «andrà vista come una lingua scritta che è stata attratta in qualche modo verso il parlato, piuttosto che come una lingua parlata che è stata trasferita nello scritto» (p. 47).

    I tratti più caratteristici della scrittura elettronica rispondono al tentativo di forzare i limiti della comunicazione scritta. Dal tono di voce alla mimica, dalla gestualità al contesto comunicativo, questo tipo di scrittura cerca di rendere la concretezza sensoriale di una conversazione a faccia a faccia, trasformando il testo in un luogo d’incontro virtuale. Ma per far questo, lavora proprio sullo specifico del mezzo scritto e – all’interno di una generale vocazione al gioco linguistico – insiste in particolare sugli aspetti grafici e paragrafematici. Ecco il motivo per cui, secondo alcuni studiosi, quella della comunicazione elettronica non andrebbe considerata una «cyberlingua», come continua a sostenere la vulgata giornalistica, ma piuttosto una «cyberscrittura» (Véronis, Guimier de Neef 2006); non di «neolingua» bisognerebbe parlare, ma di «neografia» (J. Anis, Communication électronique scripturale et formes langagières, 2002, http://edel.univ-poitiers.fr/rhrt/document.php?id=547).

    Neografia?

    Sono di natura grafica o paragrafematica quasi tutti i tratti che nell’immaginario collettivo caratterizzano la scrittura elettronica. In gran parte, si tratta di soluzioni tutt’altro che nuove: la novità è rappresentata, casomai, dalla concentrazione con cui appaiono in alcuni tipi di CMC (e che risulta massima nelle chat, mentre è minima nelle e-mail).

    • Soltanto per rassicurare tutti..
      .
      Mi capita che quando copio incollo dal telefonino e riporto su una x pagina il contenuto, lo stesso prende una forma diversa. Una versificazione altra. Altro che distici, si comporta come vuole. Segue una sua digitazione.
      Tranquillo mi dico questo è NOE. Diamo una forma al pensiero che cambia. Bellissima rogna.
      Un abbraccio, grazie.

  7. Giuseppe Talia

    Riguardo a Stella, non so cosa pensare, forse non penso nulla, a partire dal titolo, croci?
    Il paradigma digitale che Linguaglossa ha riportato, mi sembra una vera rivoluzione. Potremmo creare un testo con parole chiavi, ciccandoci sopra si apre un altro testo e ancora un altro testo e ancora un altro testo… e via di seguito a cui si possono allegare testi, immagini, suoni, un insieme di documenti messi in relazione tra loro per mezzo di parole chiavi.
    Non vedo perché il decreto legislativo sulla dematerializzazione della Pubblica Amministrazione non debba essere esteso anche alla pubblicazione su carta delle poesie. Quanti alberi risparmiati, quanto meno inchiostro, quanto meno indotto da alimentare.

    Recentemente ho criticato una antologia “alla moda”, sbagliata fin dal titolo: Oceano? Ma non era il Mediterraneo? E anche l’immagine di copertina che ritrae un veliero transoceanico: ma non sono i barconi o gommoni o barchette in vetroresina?

    Cristina Campo scriveva: Vieni, rendiamoci odiosi, parliamo di perfezione.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.