Angela Passarello, agrigentina, vive e lavora a Milano. E’ stata redattrice della rivista Il Monte Analogo. Ha collaborato con “La Mosca” di Milano. Ha pubblicato la raccolta di racconti Asina Pazza ( Greco e Greco, Milano1997), la raccolta di poesie La carne dell’Angelo( ed. joker, Novi Ligure 2002), le prose poetiche Ananta delle voci bianche ( Quaderni di Correnti, Crema 2008). Piano Argento (edizioni del verri 2014 ). Pani Scrittu ( edizioni del Pulcino Elefante 2015). Bestie sulla scena ed. del verri 2018.
Nota di Lettura di Giorgio Linguaglossa
Il Bestiario di Angela Passarello è la tipica operazione di sortita dalla scrittura di scuola. Si ricorre al bestiario per allestire una scrittura di esemplarità animali che rimandano ad esemplarità umane, è una galleria allegorica che possiamo indicare come non-fantasmi che esistono nella normalità di ogni giorno: sono gli animali che condividono il nostro tetto, che incontriamo tutti i giorni. È il segnale, a mio avviso, di una stanchezza delle scritture poetiche oggi in auge, quelle di scuola romana e lombarda, le scritture corporali dell’io, le scritture topografiche che riguardano la propria città. Raramente troveremo in questo Bestiario qualche evento eccezionale, qualche rivelazione, qualche stupore spettacolare: non ci deve trarre in inganno la dicitura di “fantastico” con cui classifichiamo la scrittura della Passarello, piuttosto in questo libro l’elemento fantastico non viene né indicato né descritto, ma presentato. La Passarello conosce l’importanza del ritmo del poemetto in prosa, del calibrare le parti e le pause per costruire qualcosa che si presenti davanti agli occhi del lettore. Il fantastico della Passarello è un inaspettato senza sorpresa. Quest’effetto è rafforzato dall’utilizzo di un linguaggio piano, quotidiano, che non offre spiegazioni ma si limita a presentare le situazioni, che agisce per sottrazione mostrando che la precarietà della realtà è una cosa estremamente.
La sua esperienza le suggerisce che il racconto breve differisce dalla struttura della prosa ed è più assimilabile alla poesia; infatti, l’efficacia del racconto dipende da quei medesimi valori che contraddistinguono la poesia.
Abbiamo parlato di non-fantasmi perché, a tutti gli effetti, quello di Angela Passarello è un bestiario senza fantasmi, non c’è nessun animale bizzarro, sono semplicemente «bestie sulla scena» quelle che popolano il suo proscenio. Sono «le bestie che provengono dall’infanzia» come scrive nella prefazione Milli Graffi, «animali cittadini». Non c’è nella scrittura nessun evento eccezionale, tutto è normale, le «bestie» sono elencate nella loro normalità, nel loro stare nel posto che compete loro; la scrittura (prosa poetica o componimento poetico) ritrae questo loro «stare» ontologicamente determinato. È una scrittura che non prevede lo spaesamento o l’estraniazione ma il normale-quotidiano, una scrittura per deriva, per dislocamento. Diversamente da quegli scrittori che prediligono il surreale e il fantastico, la Passarello si muove in sul margine del realismo, nel quale non si dà alcun evento eccezionale.
La forma letteraria scelta per la maggior parte della propria produzione non è un casuale: la condensazione, la tensione, il traslato contraddistinguono questo genere di scrittura. Se il film può avvantaggiarsi di uno sviluppo anche non lineare del plot, nel racconto breve o nella poesia l’autore deve operare, sin da subito, una sintesi del materiale narrativo: nulla è gratuito; nel racconto breve o nella poesia, non sono permessi passi falsi, ogni lungaggine viene esposta al pubblico ludibrio. Questo è il merito della Passarello. Perché il racconto breve sia efficace e faccia centro nel lettore occorre una forma rotonda che deve scaturire dal centro del racconto, che ha una essenza eminentemente sferica. Lo sviluppo narrativo deve scaturire dall’interno, per arrivare al dispiegamento massimo senza ricorrere ad effetti speciali che invece sono consentiti in altri generi come il giallo o il racconto fantasy. Per essere davvero efficace, per poter coinvolgere il lettore, il racconto breve deve nascere come ponte, deve nascere passaggio tra il reale e il fantastico.
(Giorgio Linguaglossa)
Angela Passarello, Bestie sulla scena
Capponi
Aveva appena smesso di lanciare il suo chicchirichì. Il giorno prima, era stato vincitore, a pari merito, nell’ennesimo combattimento con il suo rivale. Lo avevano afferrato per le ali, e, tenuto stretto, a testa in giù, con le zampe, incrociate come un cristo. L’anziana, l’esperta, ogni anno, sceglieva, tra i galli, quello più adatto. Nostrano, aveva penne dai colori rossastri, con riflessi verde violaceo e meravigliose piume blu di prussia, che ornavano il suo corpo. Costretto, se ne stava immobile, tra le cosce della donna che, dopo avergli fatto un taglio, con le dita gli portava via i testicoli, attraverso quell’unico buco, allargato dal taglio. Dopo avere cucito con filo e ago la ferita; risistemava con maestria il gallo tra le cosce, e, tagliata la sua cresta, lo medicava, con un ciuffo di piume, strappate dal suo petto. Così, deprivato dall’identità, veniva riammesso nel pollaio. Irriconoscibile, smarrito, per giorni zimbello, girava nel cortile, subendo le beccate delle galline e del gallo numero uno, suo antico rivale. Isolato, ingrassava, come era stato stabilito. I pochi mesi di vita che gli restavano li trascorreva beccando e chiocciando.
Falena
Si fermava sul tetto delle vetture parcheggiate, poi proseguiva fendendo l’aria. Raggiunto l’angolo, al bivio, si era ritrovata, non si sa come, dentro il Café Monet, dove gli abitué dell’Accademia, consumavano il loro cappuccino. Si era posata delicatamente sopra la foglia tatuata, sul braccio di una giovane giapponese, intenta a fare colazione. “E’ una bella natura morta”, disse l’uomo che le stava accanto al bancone, in attesa del suo caffé. “Foglia di pesco giapponese”, rispose la giovane. E la falena ?”, insistette, curioso. “Ah, è una gradita ospite di passaggio”, continuò, mentre guardava le piccole ali oscillare sulla sua pelle. “Bello, il suo tatuaggio, la natura morta e la vivente”, ribatté con entusiasmo l’uomo. Posso fare una foto con il mio smartphone ? – Of course- sussurrò mostrando disinvolta il braccio.
Dopo averla immortalata nello scatto, lasciò il bar.
Si accorse, cercando nello Smartphone, che nella foto non appariva nessuna falena, ma soltanto la foglia di pesco giapponese.
Il calabrone
Tutte le estati il ronzio lo annunciava. Cercavano di cacciarlo e sventagliavano verso di lui foulards, tovaglioli, fogli di cartone e altro. Urlavano “ u lapuni! U lapuni! (1); forse erano il colore e il ronzio sgradevole, a terrorizzarli. Nessuno aveva mai tentato di ucciderlo; come se fosse intoccabile, paurosamente sacro. La donna più anziana, invece, ripeteva un’antica filastrocca, come un mantra, fino a quando il calabrone lasciava il giardino, e, ronzante, si dirigeva verso il mare:
2) Si veni pi beni pigliati a seggia e sedi/ si veni pi mali stoccati l’ali e jettati a ‘mmari/ si vo pi muglieri pigliati a mia/ si vo a carni vatinni a Vucciria
[traduzione dal dialetto agrigentino]
1) u lapuni= il calabrone
2)”Se vieni per farci del bene prendi una sedia e siediti / se vieni per il male spezzati le ali e buttati nel mare/ se vuoi una moglie prendi me/ se vuoi la carne vattene alla Vucciria/”
[La vucciria è il mercato storico di Palermo]
L’asina
Quando l’asina era stata abbattuta, il corpo, deposto vicino alla chiesetta della Rupe Atenea, ancora caldo, fremeva. Si era sparsa la voce. Tutti sapevano dove trovarla. In tanti si erano accalcati per portarne via un pezzetto. Dalla finestra, nella notte, il padrone intravedeva ancora un susseguirsi di torce, un vocio sommesso che spariva nella discesa, lungo la trizzera1 dove la vittima li aveva attirati. Allora aveva chiuso le imposte per non sentire i passi né vedere ancora illuminata la strada. Soltanto al mattino decise di aprire la finestra. Nel silenzio del giardino, attaccata ad un chiodo, la sella sembrava un feticcio. Nelle vicinanze invece trovò, tra l’erba calpestata, la sua coda, accanto a un tronco rinsecchito. Sembrava ragliasse. La seppellì. Sopra la terra lasciò inclinato un ramo come segnale
In dialetto agrigentino la”trizzera” è la strada di campagna.
La coniglia
Nella bocca spaccata della quartara 1 lasciava cadere il suo pelo. I cuccioli con gli occhietti chiusi vi fluttuavano dentro. Ruminava foglie di cavolo verde e muoveva il naso in lenti tirabaci, poi saltava dentro la quartara per allattare. Le orecchie lunghe, inclinate verso il suolo, come due antenne. Quando la cucciolata cominciava a ruminare il cavolo verde, mani grandi la portavano via.
[In dialetto siciliano quartara indica una brocca di terra cotta]
La gallina
Si aggirava tra le altre con fare irrequieto e, anche dopo avere deposto il suo uovo, usciva dal nido starnazzando per il cortile come in preda a un attacco di isteria. Tre volte al giorno lanciava il suo canto e, alla Rupe Atenea, gli abitanti nell’udirla, facevano gesti di scongiuro. Una mattina il gallo, dopo mesi di sfida, gli si era scagliato addosso, ma si era rialzato barcollante e accecato dalle sue feroci beccate. Da quel giorno la gallina capeggiò il pollaio. L’arrivo del nuovo gallo aveva segnato la sua fine. Il collo le venne tirato al tramonto dopo che ebbe lanciato il suo lugubre canto. L’indomani il fuoco, preparato per la sua cottura, invase il cortile. Del pollaio rimase un mucchietto di cenere nera. Tra gli abitanti qualcuno diceva di intravedere la sua ombra vagare nel vecchio pollaio
U’ cumpareddu
La cecità non impediva a essi di viaggiare né di moltiplicarsi nelle profondità del terreno. Sensibili alla luce e al buio esplicavano la loro funzione in modo perfetto. Dai solchi, scavati dall’aratro, ne venivano fuori a centinaia.
Alcuni pensavano che fossero una delle forme visibili degli esseri infernali. La loro vista non incuteva nessun terrore, ma repulsione. Tra quelli dissotterrati ogni anno veniva fuori un esemplare bianco, segmentato, diverso dal rosa pallido degli altri, sembrava provvisto di sguardo. L’agricoltore lo raccoglieva, e, sul palmo della mano, ne osservava il leggero movimento. Lo aveva chiamato u’ cumpareddu. Non ignorava che quel nome non sarebbe stato trovato in nessun trattato. Richiuso nel solco, di esso, in superfice, non rimaneva nessuna traccia.
[U’ cumpareddu– nome in dialetto agrigentino di uno dei vermi bianchi]
Passero
Era entrato dalla finestra. Sorpresa! Sorpresa! Continuava a ripetere Ada. Le avevano sempre detto che la visita dei passeri porta notizie buone. Lei aveva bisogno di notizie buone e belle. Sapeva che tra il bello e il buono c’è molta differenza. Credeva negli astri, nei segni. In questo, sentiva di avere delle affinità con la protagonista di Le rayon vert di Rohmer. Aveva sempre apprezzato chi era veramente capace di leggere le tracce nel fondo del caffé. Chissà di quale novella era messaggero il piccolo volatile. Ada cercava di ricostruire il movimento del suo volo nella stanza. Sembrava fosse rimasto disegnato nell’ aria.
Ada sorrideva, l’idea che sarebbe arrivata una notizia la rallegrava. Cominciava ad assaporare il senso delle parole buone nuove, le ricordavano le buone novelle. Preferiva dire novità a notizia. Dalla finestra spalancata dal vento si vedeva il passero volare. Mentre Ada restava in attesa delle bonnes nouvelles .
Ragnetto costruttore
Era stato trovato in un angolo del sottoscala. Non si muoveva. Dopo averlo osservato con cura, venne stabilito che era morto. La piccola carcassa mostrava la sua forma. Non aveva zampe, ma, in corrispondenza di essi, si prolungavano fili sottilissimi che formavano dei quadrilateri, dai lati perfetti. Un capolavoro geometrico. Il corpicino e i quadrilateri, intersecandosi, si proiettavano nello spazio. Si trattava di una raffinata prospettiva, originata da unico essere che, con straordinaria eleganza, mostrava con la morte, il vuoto della propria carcassa. Nell’immobilità, la leggerezza lo rendeva vivo. Nel disegno si intravedeva il vuoto, e, nel vuoto, il senso, il progetto del suo fare, la costruzione della sua tela, non realizzata.
Lumaca
E’venuta fuori, improvvisamente, non si sa da dove, con le antenne aperte verso il cielo. Sembra essere scivolata da uno dei giardini pensili che danno ai grattacieli del quartiere Isola un tocco di nature. Sicuramente è stato il temporale di stanotte, o le piogge di queste giornate tropicali, a farla scivolare sulla strada. L’ammiro mentre cerca di attraversare il marciapiede.
La sua bava disegna sull’asfalto un’ellissi argentea.
Lentamente si incammina.
Si rinchiude.
Riapre la sua casa di conchiglia striata, fa capolino con le sue antenne. La raccolgo per proteggerla da un auto in corsa, dal pedone distratto. La porto a casa.
La battezzo.
La chiamo.
Il nome sembra piacergli. George come George Sand.
Durante la cena resta attaccata su una lattuga.
Adora l’insalata, io le proteine vegetali.
Siamo due vegane pure.
La tacchina
Ingorda, gloglottava allontanandosi dall’aia a zampe larghe. Il gutturale richiamo la distingueva dai bipedi che la circondavano. Solitaria si dirigeva verso le canne secche. L’uovo gigante, ovale, rimaneva nel nido, nascosto dal canneto. Ma la luna, di notte, veniva a mangiarselo. Così dicevano, mentre la tacchina ritornava a deporne un altro. Essa lo covava. Tutta nera con il bargiglio rosso puntellato di viola. Somigliava ad una sovrana in meditazione tra ovali di uova e lune primordiali.
Bella questa brevità profonda ed elementare,
Wotson!. Questo investigare la quotidianità con una grande lente, contemporanea, a salto di rana.
Viva la brevità.
Grazie OMBRA, grazie Passarello.
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L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
Capponi
Aveva appena smesso di lanciare il suo chicchirichì. Il giorno prima, era stato vincitore, a pari merito, nell’ennesimo combattimento con il suo rivale. Lo avevano afferrato per le ali, e, tenuto stretto, a testa in giù, con le zampe, incrociate come un cristo. L’anziana, l’esperta, ogni anno, sceglieva, tra i galli, quello più adatto. Nostrano, aveva penne dai colori rossastri, con riflessi verde violaceo e meravigliose piume blu di prussia, che ornavano il suo corpo. Costretto, se ne stava immobile, tra le cosce della donna che, dopo avergli fatto un taglio, con le dita gli portava via i testicoli, attraverso quell’unico buco, allargato dal taglio. Dopo avere cucito con filo e ago la ferita; risistemava con maestria il gallo tra le cosce, e, tagliata la sua cresta, lo medicava, con un ciuffo di piume, strappate dal suo petto. Così, deprivato dall’identità, veniva riammesso nel pollaio. Irriconoscibile, smarrito, per giorni zimbello, girava nel cortile, subendo le beccate delle galline e del gallo numero uno, suo antico rivale. Isolato, ingrassava, come era stato stabilito. I pochi mesi di vita che gli restavano li trascorreva beccando e chiocciando.
AngGela PaSSareLLo
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Forse oggi il solo modo dato ai poeti di evitare il kitsch e il trash è quello di abitare poeticamente il kitsch e il trash. Anche questo modo di fare una non-poesia e una non-prosa può essere un modo di abitare poeticamente il nostro mondo, un modo per evitare i luoghi comuni e gli assordanti rumori delle confezioni regalo della poesia confezionata e disinfettata.
Forse i poeti italiani di queste ultime decadi hanno letto poco e male Lotman, ma queste cose lui le ha scritte e pubblicate nel 1972, in Russia, beninteso, e il suo libro è stato pubblicato in Italia nel 1990. Il fatto è che oggi la poesia non ha a che fare con il «monumento» originale ma con un «monumento» già portatore di entropia, di «rumore», di trash, di stracci. Oggi chi voglia comporre un «monumento» rotondo e polito è un facitore inconsapevole di kitsch, un falegname di pacchianerie e di passamanerie; chi pensa che fare poesia evoluta significhi fare la poesia-commento, intermezzi ludici, gnomici e magari umoristici o intellettualistici, fa Kitsch al quadrato e al cubo. Oggi può fare poesia evoluta soltanto chi voglia consapevolmente comporre secondo le regole del kitsch e del trash, ed esegua il «monumento» del kitsch e del trash, cioè un «monumento» di «rumori» e di trash, consapevole di dover operare in ogni caso con i materiali del kitsch per la semplice ragione che la ragione poetica si è indebolita e che non ha altri mattoni che quelli del kitsch per la edificazione dei suoi polittici di «rumori» e di trash…
1 Osip Mandel’štam, Sulla natura della parola, “Poiesis” 1995
2 J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1990 p. 96
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Una antologia per contatto, che annienti il rumore. Questo immagino. Una antologia manifesto. -È forte quello che hai riportato.-
Che smuova il riso, come ha fatto Talia. Così come propone il caro Salvatore Martino -vado a memoria – dove domandava quali fossero le nostre esperienze di vita e come esse si tramutano in poesia.
Frammenti, ricordi, citazioni, erosioni. Quel cumulo di macerie che sopra citavi. Trash, kitsck, boom!
Gli altri si attacchino!
Proviamo un esempio:
1
Qualche anno prima, in motorino, di notte, mentre percorrevo una strada di campagna, penso di aver ingoiato una falena. Credo fosse una falena, di sicuro un grosso insetto che venne a sbattere con le mie fauci mentre viaggiavo. Fu un boccone amaro.
E così i ricordai di quando bambino, nel mese di giugno, per la mietitura del grano, dopo una mattinata di lavoro, sotto la quercia grande si apparecchiava il pranzo: una ricchezza di pane fresco appena sfornato, una madia di maccheroni al sugo, capocolli affettati, formaggi e vino. Un contadino, sordo, che mieteva con noi, seduti in cerchio per la libagione, mentre mangiava, un grillo gli saltò nel piatto di maccheroni. Non ci pensò nemmeno una volta ad arrotolare il grillo tra i maccheroni. (TALIA)
2
Invano
ho cercato di parlarti.
La gravità devastante
dei tuoi gesti mi commuove.
In sostanza sollèvati
sulle acque
materializza il nuoto
libero e piano,
in sostanza rinfrancati.
Una delicatissima scia
evanescente, bracciate,
semplicemente bracciate. (PIERNO)
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Che bella, Pierno, anzi Mauro.
E tu mi parli e io ti ho risposto, con una mia sestina.
Ricordi?
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Nel 1992 a Caltagirone, a casa di Maria Attanasio (Nero Barocco Nero), mangiai per la prima volta una insalata con le creste di gallo. Il compagno di Maria, cuoco sopraffino, ci deliziò con piatti stellari. Ero ospite e in compagnia di Nunzio Pino e di Enzo Saletta.
Qualche anno prima, in motorino, di notte, mentre percorrevo una strada di campagna, penso di aver ingoiato una falena. Credo fosse una falena, di sicuro un grosso insetto che venne a sbattere con le mie fauci mentre viaggiavo. Fu un boccone amaro.
E così i ricordai di quando bambino, nel mese di giugno, per la mietitura del grano, dopo una mattinata di lavoro, sotto la quercia grande si apparecchiava il pranzo: una ricchezza di pane fresco appena sfornato, una madia di maccheroni al sugo, capocolli affettati, formaggi e vino. Un contadino, sordo, che mieteva con noi, seduti in cerchio per la libagione, mentre mangiava, un grillo gli saltò nel piatto di maccheroni. Non ci pensò nemmeno una volta ad arrotolare il grillo tra i maccheroni.
Che voglio dire con questo? Niente. Ricordi.
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Ho letto il libro di Angela Passarello come un bestiario, dei racconti sul non-sense, anche il tema prescelto degli animali è un qualcosa di analogo ad un non-tema: la condizione animale come allegoria della condizione umana è, a rigore, un non-sense, indica l’occuparsi del niente, del non-ente qual è diventata la condizione umana di oggi.
Anche il finale del raccontino di Giuseppe Talia: «Che voglio dire con questo? Niente. Ricordi.», è un rovistare nel ni-ente, nei ricordi ridotti allo stato del trash, dei ricordi-rifiuto, dei ricordi pattumiera, di ciò che è diventato inservibile e che si è depositato nei ricordi come polvere sul comodino che con uno straccio si toglie e via…
Mi fa sorridere quella letteratura in voga oggi (romanzi o poesia) che si impegna a ricercare un «senso» nascosto magari da qualche parte, un «senso» che deve essere tirato fuori magari con un cacciavite o con una trivella… davvero, è una idea commerciale triviale quella che pensa di andare a riscuotere un «senso» nella narrazione delle «cose» come si va in banca a riscuotere gli interessi su un capitale fisso.
Agamben scrive che a questa trasformazione delle «cose» in «senso» «corrisponde, secondo Debord, una trasformazione del linguaggio umano, che non ha più nulla da comunicare e si presenta pertanto come “comunicazione dell’incomunicabile” (tesi 192). Al denaro come pura merce, corrisponde un linguaggio in cui il nesso col mondo si è spezzato. Linguaggio e cultura, separati nei media e nella pubblicità, diventano “la merce vedetta della società spettacolare”, che comincia ad accaparrare per sé una parte crescente del prodotto nazionale. È la stessa natura linguistica e comunicativa dell’uomo che si trova così espropriata nello spettacolo: ciò che impedisce la comunicazione è il suo assolutizzarsi in una sfera separata, in cui non vi è più nulla da comunicare se non la comunicazione stessa.
(…)
il linguaggio che rende comunicabili le cose non può diventare esso stesso una cosa, oggetto a sua volta di appropriazione e di scambio: il medio della comunicazione non può essere comunicato. Separato dalle cose, il linguaggio comunica nulla e celebra in questo modo il suo effimero trionfo sul mondo».1
1 G. Agamben Creazione e anarchia, Neri Pozza, Vicenza, 2017, p. 125
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1
Qualche anno prima, in motorino, di notte, mentre percorrevo una strada di campagna, penso di aver ingoiato una falena. Credo fosse una falena, di sicuro un grosso insetto che venne a sbattere con le mie fauci mentre viaggiavo. Fu un boccone amaro.
E così i ricordai di quando bambino, nel mese di giugno, per la mietitura del grano, dopo una mattinata di lavoro, sotto la quercia grande si apparecchiava il pranzo: una ricchezza di pane fresco appena sfornato, una madia di maccheroni al sugo, capocolli affettati, formaggi e vino. Un contadino, sordo, che mieteva con noi, seduti in cerchio per la libagione, mentre mangiava, un grillo gli saltò nel piatto di maccheroni. Non ci pensò nemmeno una volta ad arrotolare il grillo tra i maccheroni. (TALIA)
2
Invano
ho cercato di parlarti.
La gravità devastante
dei tuoi gesti mi commuove.
In sostanza sollèvati
sulle acque
materializza il nuoto
libero e piano,
in sostanza rinfrancati.
Una delicatissima scia
evanescente, bracciate,
semplicemente bracciate. (PIERNO)
3
Ostinarsi con parole sottili di fine respiro
dove ci battono il tempo rubando accenti
incontri flebili di lingue causati dal fato
foga dell’onda straniera che affoga il grido.
Posso trovare il punto fermo dell’incontro
la linea dura caduta nel cilindro del tunnel
un sospiro gracchiato nella roccia gravida
che si è aperto alla luce netta dell’istante.
Ma sono rapidi i segni lividi delle lapidi
muti come il fiuto vermiglio della setola,
tela di un pavé praticabile con la mente
e misura instabile di una usura da spirale.
( LORUSSO )
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Scrive Giorgio Linguaglossa: “Ho letto il libro di Angela Passarello come un bestiario, dei racconti sul non-sense, anche il tema prescelto degli animali è un qualcosa di analogo ad un non-tema: la condizione animale come allegoria della condizione umana è, a rigore, un non-sense, indica l’occuparsi del niente, del non-ente qual è diventata la condizione umana di oggi.”
Non so cosa possa pensarne la Passarello… ma non è questo il problema! Ciò che mi colpisce è quanto afferma Talia, sulla traccia di Pierno: “Che voglio dire con questo? Niente. Ricordi.”
Ecco, io tenderei a puntare l’attenzione su questi “Ricordi”. La Passarello, anche se in bella forma, con una scrittura rotonda e incisiva, solleva una marea di ricordi legati a un mondo ormai svanito: il mondo a cavallo tra Ottocento e Novecento, il mondo, per essere superficiali al massimo, a cui faceva riferimento la cultura di un Pascoli. Vogliamo essere sinceri fino in fondo? Questi ricordi sono epitaffi da apporre su un mondo rurale sommerso da tempo dalla cosiddetta civiltà industriale. È chiaro, allora, che il tema degli animali, e di quegli animali da cortile in particolare, non può essere più, “allegoria della condizione umana”. Scriveva Fernando Bandini che noi abbiamo visto, tra l’altro, “estinguersi la specie del merlo acquaiolo”, “il colore del cielo ormai caduto/ in mille pezzi”, ecc. ecc., e ne prendeva atto intorno alla fine degli anni ’60. A noi che abbiamo conosciuto quel mondo, cosa ci rimane da fare? A mio parere porre soltanto, a futura memoria, “Lapidi/ dove una volta erano voli e gridi” (F. Bandini, Tutte le poesie, Mondadori, 2018, p. XV).
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Dai Giuseppe…Dai attaccati come vuoi tu!
Copia incolla ed aggiungi una tua col numeretto e firma.
(Perdonami il tu caro Gallo. Un abbraccio)
Il titolo della antologia?!…
” ‘O FACCIO PE’ ME, CI VOGLIO SCHERZARE IO!”
-Da Eduardo, Natale in casa Cupiello-
GRAZIE OMBRA.
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Ringrazio Francesco Lorusso per essersi attaccato. Ed invito anche gli altri a farlo!
Per associazione, per pensiero, per menzione, per minzione, per stato, per orgoglio, per frattaglie, per scarti, per affinità…
Poeti nell’Ombra sostenete la catena, allungatela!
Grazie Ombre.
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Il calabrone
Tutte le estati il ronzio lo annunciava. Cercavano di cacciarlo e sventagliavano verso di lui foulards, tovaglioli, fogli di cartone e altro. Urlavano “ u lapuni! U lapuni! (1); forse erano il colore e il ronzio sgradevole, a terrorizzarli. Nessuno aveva mai tentato di ucciderlo; come se fosse intoccabile, paurosamente sacro. La donna più anziana, invece, ripeteva un’antica filastrocca, come un mantra, fino a quando il calabrone lasciava il giardino, e, ronzante, si dirigeva verso il mare:
2) Si veni pi beni pigliati a seggia e sedi/ si veni pi mali stoccati l’ali e jettati a ‘mmari/ si vo pi muglieri pigliati a mia/ si vo a carni vatinni a Vucciria
Angela Passarello
–
Le api chiamano
Dal favo intruso
nel posto sbagliato
il cavo di un muro.
Ed ecco l’intervento armato
dei pompieri,
col veleno.
Le ribelli non debellate
han continuato a volare per giorni
accanto a quel primo nido.
Non muore
l’assiduo rumore e brusio
interroga i volti protesi
di questa guerra
coi nasi lassù.
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Nella casa al mare, in Calabria, ogni estate i “lapuni” piccoli insetti innocui, entrano ed escono da tutte le finestre, portando fango con cui costruiscono nidi per la loro cova. Mettono a dura prova i lampadari di casa, i mobili, persino il boiler. Ogni estate mi dico che dovrei installare delle zanzariere, impedire ai lapin di entrare in casa, mi dico, ma c’è tanto posto fuori, alberi, vegetazione, perché devono proprio fare i loro nidi di fango nella mia casa?
Poi, in verità, li accolgo, permetto loro di nidificare nei lampadari di casa, e a fine estate, dopo che le larve si sono trasformate in giovani “lapuni” rimuovo i bozzoli.
Altra cosa sono, invece, i”zerrumbachi”, in italiano i calabroni, pericolosi, che si annidano negli anfratti dei muri. Contro di loro uso gli spray.
E anche riguardo a loro medito sul fatto che con tanta campagna intorno loro scelgono sempre gli anfratti dei muri di casa.
I muri di casa popolati, di notte, dalle salumide (gechi), rettili disgustosi a vista ma innocui.
La mia casa d’estate in Calabria è un bestiario.
Vivo in una città del centro Italia e combatto solitamente con le zanzare.
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Dai Giuseppe…Dai attaccati come vuoi tu!
Copia incolla ed aggiungi una tua col numeretto e firma.
(Perdonami il tu caro Gallo. Un abbraccio)
Il titolo della antologia?!…
” ‘O FACCIO PE’ ME, CI VOGLIO SCHERZARE IO!”
-Da Eduardo, Natale in casa Cupiello-
GRAZIE OMBRA.
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Di quale poesia stiamo parlando? perché forse è questa la domanda che sorge spontanea dopo avere letto l’acutissima analisi di Giorgio Linguaglossa.
I testi della Passarello sembrano scritti tenendo conto del limite odierno di tolleranza alle lunghezze – limite imposto dalla comunicazione, filtrata attraverso nuove tecnologie ma anche dovuto a decadimento di ciò che fino a non molto tempo fa ancora poteva scorrere (caldo) nelle culture umanistiche… E’ poesia, prosa che entra di diritto nella poesia. Ma senza un verso che lo confermi? E che verso può mai essere quello che, al di là che faccia pensare o meno, senza essere lirico riesca comunque a porsi nell’evidenza di una comprensione; cosa alla quale di solito solo la poesia…
Mi piacerebbe conosce al proposito il parere di Anna Ventura, anche perché Lei è maestra nel raccontare storie, dove per altro riveste notevole importanza lo stile…
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L’asina
Quando l’asina era stata abbattuta, il corpo, deposto vicino alla chiesetta della Rupe Atenea, ancora caldo, fremeva. Si era sparsa la voce. Tutti sapevano dove trovarla. In tanti si erano accalcati per portarne via un pezzetto. Dalla finestra, nella notte, il padrone intravedeva ancora un susseguirsi di torce, un vocio sommesso che spariva nella discesa, lungo la trizzera1 dove la vittima li aveva attirati. Allora aveva chiuso le imposte per non sentire i passi né vedere ancora illuminata la strada. Soltanto al mattino decise di aprire la finestra. Nel silenzio del giardino, attaccata ad un chiodo, la sella sembrava un feticcio. Nelle vicinanze invece trovò, tra l’erba calpestata, la sua coda, accanto a un tronco rinsecchito. Sembrava ragliasse. La seppellì. Sopra la terra lasciò inclinato un ramo come segnale
di Angela Passarello
In dialetto agrigentino la”trizzera” è la strada di campagna.
1)
Il colloquio si fa a ragli
Nel giro maxi di un flebile ritorno
Rallegrati cinghia di cuoio
Il muso rimane circondato dalla lana e
Dai fili più assortiti
Un suono al contrario
In ginocchio per tutta la lunghina
dell’asfalto nero
-Start moving people_dice un asino all’altro
con il freddo alle spalle-
Paglia selvatica
Fieno secco di stagione
Un raglio volteggia sopra la città ammutolita
Dietro i tetti sonnolenti
Non toccare nulla
Le punte degli zoccoli
potrebbero uccidere qualcuno ( Dono.)
"Mi piace""Mi piace"
Che belle…
Grazie Dono, Grazie Talia, Grazie Renzetti…
Un abbraccione.
GRAZIE OMBRA.
"Mi piace""Mi piace"
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