Alejandra Alfaro Alfieri, Quattro poesie da Poesie ultime –  Osip Mandel’štam, Sull’Ellenismo, Sulla differenza tra «oggetti» e «cose» – Commenti

Gif Fellini

Alejandra Alfaro Alfieri è nata a Buenos Aires nel marzo del 1989. Cresciuta in Perù, si è poi trasferita in Spagna e in Italia, dove si è formata come operatrice sociale e dove studia Sociologia, presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato, oltre a vari testi in antologie italiane, il prosimetro De la mente al corazón (“Dalla mente al cuore”), la raccolta di poesie Profunda Eternidad (“Profonda Eternità”), il libro Creadora de un vínculo poético universal, scritto a quattro mani col poeta spagnolo Tomás Morilla Massieu. Ha diretto la “Revista cultural Puertos” di Lima, Perù. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo: El guardián de su verdad.

Alejandra Alfaro Alfieri

Quattro poesie da Poesie ultime

 X.

 Mi dovevo nascondere.
Chissà perché quel luogo era così vasto
ma il posto che io scelsi non lo era abbastanza
per poterlo fare.
Arrivavano feroci i criminali al passo,
sentivo le loro voci.
La suola calpestava ogni mio fiato disperato.
C’era tanta luce fuori, una volta anch’io la vidi
e così era ancora più difficile trovare un angolo dove
non potessi essere mai trovato.
Li sentivo correre, non so se da dietro, vicino o lontano
erano già intorno a me,
sotto un sole infiammante – perfino il colore dell’inferno
era più debole

Io mi sentivo di morire pian piano mentre percorrevo quel corridoio,
illuminato dal nero della lampada al neon
verso la porta di fuga.
Lontano da loro. Lontano da tutti quelli
che non hanno mai compreso
né sono riusciti mai ad interpretare nemmeno nei sogni
che cos’è il personaggio della morte.
La morte dell’amore
dove persino il pensiero è prigioniero di se stesso.
Neanche scomparire potrebbe alleviare questa festa,
interiore, alla rovescia.
Lasciatemi uscire [casomai entrare] non ho più un posto sicuro
per nascondere il dolore.
Avanti bestie, fatevi avanti, prendete il mio corpo
io sono morto.

Gif porta girevole

Senza titolo (in distici)

Quella danza selvaggia entrò, passo dopo passo, un pugno in faccia.
Ho perso tempo – una, due e ancora un’altra volta – Cancellate quella versione,

vi prego.
C’è la luna nel salone – la vedi?

Una luce nel riflesso – osservo col binocolo la recitazione.
In fondo a sinistra, dietro l’angolo, prima dell’attaccapanni,

finalmente, lì seduto, lui appoggiò l’anima
sulla spalliera della sedia.

Lui, in piedi, Lei a parlare, l’uomo invece era pronto a sparare.
Chissà dove nascondeva tutte quelle armi

o perché le portò a casa mia, mi chiedo…
«Vado di fretta», disse…

– la sceneggiatura cinematografica –

Dove avete nascosto il cadavere?, urlava in testa la donna.
Ogni giorno una nuova follia sulla riga del copione,

la ragazza dalle bretelle pronta per combattere
Sta facendo gli esami, adesso torna indietro,

chiede di entrare nel racconto di Iosif
Il titolo è appeso sull’appendiabiti

accanto al cappotto grigio dai bottoni quadrati,
la sceneggiatura restò aperta

tra le mie braccia.
Le mie mani divelsero scure sopra il suo golf nero.

L’assassino degli occhiali restò lì fermo, impassibile,
davanti a me per ricordarci.

che gli sguardi non hanno parole per mentire.
Proprio dietro i suoi cristalli lui ci guardò.

Ritornerei a quella scena,
scommetto che l’ha dimenticata – Lo ammetta!

Se la ricorda?
I giorni come i sassi fanno finta di scontrarsi l’uno con l’altro davanti al mare,

vengono spinti in riva
nonostante da lontano si senta il rumore

di quella guerra
Il regista ha finito il suo lavoro.

C’è un giardino che cresce dentro questa stanza,
glielo dica a quel malvissuto: «Provi a trovarla,

se l’aspetta fuori, lei se ne andrà,
uscirà dalla scena».

Alejandra Alfaro Alfieri volto monocromo

Alejandra Alfaro Alfieri

Il paradigma dello specchio

 III.

I passi, l’uno è sospinto dall’altro, vanno così
insieme, avanti.

Secondo il calzolaio ogni suola porta uno specchio.
Qui si riflette la propria vita.

Lungo la strada si affacciano da un lato diritto all’altro
Quello che rimane indietro fallisce.

Te lo ricorda il monologo che parla dietro la scarpa.
Non esiste un tempo che possa attendere

si va in scena senza paradiso.
«Ma se soltanto mi fermassi giusto per aggiustarmi?»

Guarderei da vicino per poter capirne di più.
Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma.

l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù.
È arrivato il colpevole! – «Si guardi

nello specchio rotto, la prego».
Fu il passo prematuro, ignoto e immaturo

– «Non sono stato io!»
Passo di fretta; è rimasta la ferita riflessa

sul petto dello specchio.
Davanti alla salita chiede di sfuggire a quel riflesso,

ma nessuno guida la sua barca,
accanto rimane stesa la stessa cornice di parole attaccata al piede

senza un tramonto.

L’incidente

Un minuto di pausa. Il tempo per contraddire la realtà.
Non si torna indietro, non si può.

Tante mani comparivano dal buio intorno
al soccorso, e io rinunciai.

Nessun pensiero era oramai per me.
Il volume delle voci nella mia coscienza – «ma quanti siete?».

È rimasta in ginocchio la signorina con la pelliccia nera.
«Non voglio alzarmi – cos’è successo?».

Chissà se ci sarebbe stato in carne e ossa
fuori dai miei sogni o avrebbe abbandonato un’altra volta

anche questa mia battaglia.
Lo sportello rosso si gira a sinistra.

Sì, ma io svolto a destra.
Ci penso e ripenso:

a quanto ci teneva la mia paura
bisognosa di incontrare lo specchio,

chissà, se per l’ultima volta, o chissà
mai più, un biglietto di sola andata.

Stavo riflettendo su questa cosa, che Alejandra riesce bene quando può, grazie alla sua trazione bilingue, lasciare da parte il «gramma», la «lettera» per acconsentire alla «voce», dare alla «voce» la primazia. In questo modo, che l’autrice fa come sotto ipnosi, riesce a dismettere le regole obbligatorie e costrittive della sintassi, le regole della logica e della significazione, per accreditare la «voce». La sua poesia più riuscita lo è perché si concede alla «voce» interna che si traduce in un parlato come in stato di veglia, tra l’ipnosi e il sonno che sta per finire.

(Giorgio Linguaglossa)

Mario M Gabriele

24 dicembre 2018 alle 16:46

Il secondo testo mi sembra senz’altro migliore. Prevalgono stesure cinematografiche, alla Beckett. E’ una nuova via poetica? o è l’oltre della NOE?

Selfie Jean Aurenche, Marie Berthe Aurenche and Max Ernst

Giorgio Linguaglossa

25 dicembre 2018 alle 9:42

caro Mario,

condivido il tuo giudizio, la seconda poesia è una vetta assoluta; si tratta di una «danza selvaggia», come dichiara la stessa giovanissima autrice. C’è in queste due poesie una forza «selvaggia», dirompente che si abbatte sulla versificazione frantumandola, facendone schizzare i pezzi di risulta in tutte le direzioni; una forza piroplastica, vulcanica che si abbatte come uno tsunami su ciò che «resta» dell’esistenza. In ciò Alejandra Alfaro Alfieri è stata aiutata, paradossalmente, proprio dalla sua natura di poeta bilingue, (spagnolo e italiano) essendo la giovane Alejandra nativa argentina pur se di lontane ascendenze italiane.

Lei con l’italiano ci va a passeggio, lo fa camminare traballando come un orso delle nevi, lo fa irrompere nella versificazione italiana distruggendo tutto quello che si può distruggere, ma, Alejandra fa tutto questo con una genuinità e ingenuità assolute, addirittura con gentilezza, sfascia la struttura sintattica dell’italiano, passa da un fotogramma all’altro, dalla prima alla terza persona e dalla terza persona ad intermezzi anonimi, da inquadrature personali ad inquadrature collettive; la composizione è una vera e propria sequenza cinematografica con zoom e riprese panoramiche…

Altro che la poesia dell’io dei «poeti» che vanno di moda in Italia che celebrano le piccole cose dell’io! Qui c’è un vero tsunami che ha fatto definitivamente a pezzi ciò che restava della versificazione italiana: il verso è scomparso e sostituito da spezzoni, da prosa, da pseudo-versi, da para-prosa, il tutto in un conglomerato di, non so se più ingenuità o ingegnosità, ma, sta di fatto che il risultato complessivo è straordinariamente efficace.

Anche le disconnessioni sintattiche, anche le dismetrie frequentissime e gli evidenti errori sono dei lapsus alla maniera di quelli celebrati da Pasolini nelle poesie di Amelia Rosselli, ma qui c’è, oserei dire, meno preziosità letteraria, meno previsione dell’effetto e più genuinità dell’espressione scombiccherata, più dissimmetria degli isometrismi, più imprevedibilità, direi.

Mario M Gabriele

25 dicembre 2018 alle 10:08

Giorgio ci ha dato un motivo in più,per avvicinarci a questa poesia “Senza titolo” di Alejandra Alfieri, aprendo, selettivamente, un discorso linguistico pluricellulare e fotogrammatico, così ampio, che sta solo a noi decodificarne la spazialità. E’ ciò che mi aspetto dai lettori di questa Rivista anche se oggi è Natale. Grazie.

 Giorgio Linguaglossa

25 dicembre 2018 alle 11:12

Lotman scrive:

«Una statua, buttata in mezzo all’erba, può creare un nuovo effetto artistico in forza dell’insorgere di un rapporto fra l’erba e il marmo. Una statua gettata nella spazzatura, non crea un tale effetto per lo spettatore contemporaneo: la sua coscienza non può elaborare una struttura che sia in grado di unificare queste due essenze in una unità…».

Ecco, quello che è riuscito ad Alejandra è proprio questo, che è riuscita a convertire il linguaggio naturale in «rumore» e a fare una poesia che è in realtà una «composizione di rumori», convertendo questi «rumori» in un nuovo linguaggio estetico. Ha gettato delle «statue nella spazzatura», creando un nuovo effetto estetico. E lo ha fatto con una semplicità e ingenuità quasi incredibili.

Sempre Lotman ci dice che

«dal punto di vista della teoria dell’informazione si chiama rumore l’inserirsi di un disordine, dell’entropia, della disorganizzazione, nella sfera della struttura e dell’informazione. Il rumore spegne l’informazione…

In base a una nota legge, ogni canale di collegamento (dal filo telefonico alla distanza di molti secoli che divide Shakespeare da noi) presenta del rumore che assorbe l’informazione. Se la grandezza del rumore è pari alla grandezza dell’informazione la comunicazione sarà nulla. La forza distruttrice dell’entropia è costantemente sentita dall’uomo. Una delle funzioni fondamentali della cultura è quella di contrapporsi al progresso dell’entropia. In questa azione all’arte è destinata una funzione particolare

[…]
Le braccia spezzate della Venere di Milo, come tutti i casi di annerimento dei quadri a causa del tempo, l’invecchiare dei monumenti storici, dal punto di vista dell’informazione artistica, sono casi triviali di rumore, di affermarsi dell’entropia nella struttura. Tuttavia nell’arte la cosa è più complessa, e una “restaurazione” non decisiva, condotta senza la necessaria cautela e tatto, è impotente a ristabilire quell’ignoto aspetto che il monumento mostrava agli occhi del suo creatore e dei contemporanei…».1]

Forse i poeti italiani di queste ultime decadi hanno letto poco e male Lotman, ma queste cose lui le ha scritte e pubblicate nel 1972, in Russia, beninteso, e il suo libro è stato pubblicato in Italia nel 1990. Il fatto è che oggi la poesia non ha a che fare con il «monumento» originale ma con un «monumento» già portatore di entropia, di «rumore», di trash, di stracci. Oggi chi voglia comporre un «monumento» rotondo e polito è un facitore inconsapevole di Kitsch, un falegname di pacchianerie e di passamanerie; chi pensa che fare poesia evoluta significhi fare dei commenti evoluti, cioè spiritosi e ludici e magari umoristici o intellettualistici, fa Kitsch al quadrato e al cubo. Oggi può fare poesia evoluta soltanto chi voglia consapevolmente comporre secondo le regole del Kitsch e del trash, ed esegua il «monumento» del Kitsch e del trash, cioè un «monumento» di «rumori» e di trash, consapevole di dover operare in ogni caso con i materiali del Kitsch per la semplice ragione che la ragione poetica si è indebolita e che non ha altri mattoni che quelli del Kitsch per la edificazione dei suoi polittici di «rumori» e di trash…

1] J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1990 p. 96

 

 Lucio Mayoor Tosi

25 dicembre 2018 alle 11:40

Le due poesie di Alejandra Alfaro Alfieri a me ricordano le atmosfere dense di nulla di Edith Dzieduszycka. La densità del nulla riguardale nostre capacità percettive, è l’emozione di ciò che sta bruciando… come la vita che è fuoco per i corpi. Ed è il riscontro fisico di una comprensione che potrebbe essere anche filosofica.

Il continuo movimento, il percepire senza sé può generare questo tipo di annullamento – conviene pensare alle poesie dei Sufi, a Rumi. Consiglio ad Alejandra di trovarsi un buon maestro zen o, perché di origini sub americane, una curandera.

È il versante mistico della Nuova Ontologia Estetica. L’empirico. L’approccio intellettualistico è comunque utile, altrimenti non capiremmo quello che ci sta accadendo.

Per il resto, la seconda poesia, a me sembra di comprenderla in quanto conosco la tensione del set cinematografico (quando facevo l’art director lavorai a Cinecittà e in alcuni studi a Parigi)… conosco la tensione, e lo svuotamento dei giorni successivi alle riprese.
Alcune sequenze si potrebbero interrompere maggiormente, può essere determinante una maturazione nello stile. Ma su questo fronte siamo tutti in agitazione… Mario Gabriele ha edificato una sponda… conviene tenerne conto.

Redazione-Officina Pasolini e Franco Fortini, due scomodi compagni di strada

redazione di Officina, Pasolini e Fortini, due scomodi compagni di strada

Giorgio Linguaglossa

Sulla differenza tra «oggetti» e «cose»

sulla differenza tra «oggetti» e «cose» ho già scritto un appunto poco tempo fa. Quando un «oggetto» cessa di essere mero oggetto e quanto esso oggetto diventa una «cosa»? – L’ermetismo italiano non ha mai avuto sentore di questa problematica, e neanche la poesia post-ermetica del dopo guerra, tanto meno la poesia dell’incipiente sperimentalismo ne ha avuto cognizione, come non ne ha mai avuto cognizione la poesia lombarda degli «oggetti». La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose», la differenza è di capitale importanza ma bisogna ragionarci sopra, bisogna sapere di che cosa si parla. Per esempio, Saturno, che vediamo nel gif, è un «oggetto» o una «cosa»?

Ad esempio, la guerra di Troia (che entra prepotentemente nella poesia di Gino Rago) è un «oggetto» o una «cosa»? Quella «nomenclatura» che si rinviene nella poesia di Anna Ventura, quei «brillanti di bottiglia», dal titolo del libro di esordio della poetessa abruzzese del 1978, quelle povere cose che stanno come brillanti nella bottiglia, sono «oggetti» o sono «cose»? Ad esempio nella poesia di Adam Zagajevski ci sono «oggetti» o «cose»?

È inutile tentare di dribblare la questione, non se ne esce. Il problema in verità è antico, già all’inizio del Novecento era stato messo a fuoco da Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola degli anni Dieci di cui cito un brano particolarmente significativo. Sostituite il riferimento al «simbolismo» con la nostrana «poesia degli oggetti» e troverete gli argomenti di Mandel’štam calzanti e acutissimi, in specie riguardo all’«ellenismo» del «vasellame» (leggi «cose» in linguaggio moderno) che usiamo tutti i giorni e alla polemica contro il «laboratorio di impagliatura» dei simbolisti:

Osip Mandel’štam

Sull’Ellenismo

«L’ellenismo è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame, la personificazione del mondo circostante, il riscaldamento del suo sottilissimo teologico calore. L’ellenismo è ogni stufa vicino alla quale l’uomo siede apprezzandone il calore, come consanguineo al suo calore interno. Infine, l’ellenismo è il monumento sepolcrale dei defunti egiziani nel quale si mette tutto il necessario per il proseguimento del pellegrinaggio terrestre dell’uomo fino alla brocca per i profumi, allo specchietto, al pettine. L’ellenismo è il sistema, nel senso bergsoniano del termine, che l’uomo dispiega intorno a sé, come un ventaglio di avvenimenti liberati dalla dipendenza temporale e subordinati ad un legame interno attraverso l’io umano. Nella concezione ellenistica il simbolo è vasellame e, perciò, ogni oggetto coinvolto nel sacro circolo dell’uomo può diventare vasellame e, di conseguenza, anche un simbolo. Ci si chiede: dunque, è forse necessario uno speciale e premeditato simbolismo nella poesia russa? Non appare esso come un peccato di fronte alla natura ellenistica della nostra lingua che crea forme come vasellame al servizio dell’uomo? In sostanza, non c’è alcuna differenza tra la parola e la forma. La parola è già forma chiusa; non si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada. Anche queste forme chiuse sono assai necessarie. L’uomo ama il divieto, e persino il selvaggio mette una interdizione magica, un «tabù» negli oggetti noti. Ma, d’altra parte, la forma chiusa, sottratta all’uso, è ostile all’uomo, è nel suo genere un animale impagliato, uno spaventapasseri.

Tutto il contingente è soltanto immagine. Prendiamo ad esempio la rosa ed il sole, la colomba e la fanciulla. Per il simbolista nessuna di queste forme è di per sé interessante ma la rosa è immagine del sole, il sole immagine della rosa, la colomba immagine della fanciulla, la fanciulla immagine della colomba. Forme sventrate come animali impagliati e riempite di contenuto estraneo. Al posto del bosco simbolista, un laboratorio di impagliatura.

Ecco dove porta il simbolismo professionale. La percezione demoralizzata. Nulla di autentico, originale. Una terribile controdanza di «corrispondenze» che si ammiccano l’un l’altra. Un eterno strizzarsi d’occhio. Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze. La rosa ammicca alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso».

Commento di Giorgio Linguaglossa

Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le idee le prendiamo dalle «cose». Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee e le nuove idee sono le «nuove cose». Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono «cose» in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili, il vasellame si trovano nel mondo per servire l’uomo, possiamo vivere in un appartamento ammobiliato oppure in un appartamento ricco di suppellettili, di vasellame, di «cose» che abbiamo scelto e che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana. La differenza è di vitale importanza. Quando una «cosa» ci parla o riprende a parlarci, ecco, il quel momento si ha una trasmutazione degli «oggetti» in «cose», e gli oggetti indifferenti diventano nostri consanguinei, i nostri compagni significativi. Le nuove «cose» innescano un nuovo sguardo, e noi vediamo il mondo come per la prima volta. Gli «oggetti» morti sono diventati all’improvviso vivi e significativi, sono diventati «cose».

L’«ellenismo – di cui parla Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola – «è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame…».

10 commenti

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10 risposte a “Alejandra Alfaro Alfieri, Quattro poesie da Poesie ultime –  Osip Mandel’štam, Sull’Ellenismo, Sulla differenza tra «oggetti» e «cose» – Commenti

  1. gino rago

    Se mi soffermo a riflettere sui versi di “Il paradigma dello specchio”, in particolare su questi, laconici e icastici nello stesso tempo

    “[…]Guarderei da vicino per poter capirne di più.
    Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma,

    l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù[…]”
    È arrivato il colpevole! – «Si guardi

    capisco senza sforzi l’idea di Barthes secondo cui
    «Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è
    il Vuoto stesso[…]»,
    ma anche quella di Linguaglossa che in buona sintesi così esprimerei:
    «L’immagine allo specchio ci rivela il nostro sembiante come un «gioco» di significanti e di significati, di codici e di geroglifici inscritti tra le pieghe del nostro volto[…]
    E allora il calzolaio di Alejandra Alfaro Alfieri diviene un saggio, un saggio-greco, quando pensa che ogni suola delle scarpe è dotata di uno specchio, in un contesto di «giochi» dove la Parola di Alejandra nel suo significato non rischia mai di farsi ambigua.
    Il translinguismo di Alejandra poi, dall’ispano-argentino alla nostra lingua,
    si fa fonte di ricchezza linguistica e sempre nel Paradigma dello specchio si dispiegano tensioni mistico-metafisiche le quali possono ricondurre il lettore attento ai versi di Charles Simic quando vede scorrere la vita nel mondo visto da uno specchio, portato in giro non si sa da chi…
    Mi riprometto, attendendo tempi più favorevoli alla scrittura (questi di ora per me non lo sono…) di approfondire e precisare meglio e di più questa nota sui versi di Alejandra…
    gino rago

  2. https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/08/alejandra-alfaro-alfieri-quattro-poesie-da-poesie-ultime-osip-mandelstam-sullellenismo-sulla-differenza-tra-oggetti-e-cose-commenti/comment-page-1/#comment-51877
    Trascrivo la email che ho inviato pochi istanti fa ad Alfonso Cataldi:

    caro Alfonso,

    il bello del nostro orientamento di ricerca è che ci sprona tutti a ricercare qualcosa di nostro, di profondamente nostro e di dirlo in un modo che non è stato ancora codificato dalle convenzioni letterarie. In tal senso “le voci esterne” le voci interne, le voci dell’Altro, i salti temporali e spaziali, la peritropè, l’entanglement, tutto questo, se ci pensiamo un momento, è il nostro normale modo di stare nel mondo, tutto si compenetra con tutto in una rete simile alla rete neurale di Hopfield; noi della NOE non diciamo niente di straordinario, diciamo soltanto di riconoscere che il discorso poetico normodiretto di questi ultimi decenni è una semplice convenzione, una scrittura propria di piccole cerchie di letterati. Noi ci limitiamo a prendere atto che la poesia che si è fatta e si fa in Italia da molti decenni è una poesia convenzionale, che deriva da un modo convenzionale di situare l’io e di qui di impiegare una costruzione sintattica nomologica derivata da una tradizione letteraria stantia, esangue. Non posso quindi che augurarti di accentuare il lato sperimentale della tua ricerca, di allontanarti dal modo convenzionale di impiegare la costruzione sintattica e semantica, soltanto in questo modo si può scrivere qualcosa che non sia stantio e insignificante.

    Un caro saluto.

    g.l.

    Quello che mi colpisce positivamente in queste composizioni di Alejandra Alfaro Alfieri, è il suo essere libera dalle convenzioni del discorso poetico sintatticamente normodiretto quale è in uso in questi ultimi decenni in Italia; Alejandra se ne libera, e ci riesce, per via del fatto che il suo italiano è una lingua di risulta, una lingua appresa e amata per derivazione dalla lingua madre, lo spagnolo. La particolarità di questa lingua di Alejandra è che si costituisce come una inter-lingua, come uno spazio non-nomologico, non-normativo entro il quale è possibile infrangere le regole della sintassi e le regole della convenzione comunicazionale in vigore nell’italiano scritto. Infatti, io che ho letto anche altre poesie di Alejandra, posso dire che in altri componimenti dove lei si sforzava di acquisire ed impiegare il discorso normodiretto, proprio lì Alejandra cadeva in un linguaggio scipito e normalizzato, cadeva nelle convenzioni linguistiche.

    Bene ha fatto dunque Alejandra a seguire con leggerezza il suo estro e a liberarsi delle costrizioni linguistiche in uso per poter essere profondamente se stessa, e quindi profondamente originale.

  3. Carlo Livia

    CHOPIN, O UN ALTRO ADDIO

    Alla splendida giovinezza di Alejandra

    Sono disteso sul tavolo della cucina, morto.
    Inaspettatamente torno in vita. Mi alzo e mi trovo in un appartamento ignoto. Cerco i miei familiari, ma trovo solo due sconosciuti, vestiti in abiti scuri, da cerimonia. Quando mi vedono entrare, balzano in piedi terrorizzati, gridando: “Che cosa fa?” Evidentemente mi credevano morto.
    Mi riconducono nella cucina. C’è una grande porta a vetri che dà sulla campagna. Usciamo e ci allontaniamo fra campi spogli, trascinando un grosso baule, in cui è conservato qualcosa di molto prezioso, ma non ricordo più cosa.
    Dal cielo crepuscolare scende qualcosa che sembra una musica, o un profumo, struggente e malinconico, che mi spinge ad andare avanti, senza arrendermi alla mortale stanchezza che sento.
    Giungo davanti ad una casa che mi è familiare. Vi abita una ragazza di cui sono stato innamorato. Entrando trovo su un divano una bambola grande come una persona. Mi guarda come se fosse viva, ha una faccia senile, dall’espressione astuta e lasciva. Vedo anche la ragazza che amavo, ma è completamente diversa da come la ricordavo: al posto della fanciulla bionda e angelica, dal viso puro e malinconico, vedo una donna bruna e voluttuosa, vestita in modo provocante, che mi guarda con aria complice e sensuale.
    Usciamo insieme. Davanti alla porta è comparsa una macchina scoperta, che sembra messa a nostra disposizione. Alla guida c’è un uomo biondo, che non vedo mai in viso. Noi saliamo sul sedile posteriore, e la donna prende a palpeggiarmi con foga. Sento una vecchia canzone di Elvis Presley che fa: ”…I can’t help falling in love with you.” La donna, continuando a baciarmi tutto il viso, ripete: “ Lo sapevo, lo sapevo! “
    Ad un tratto mi accorgo che la testa dell’autista è piena di sangue. La macchina esce di strada, sobbalza sul terreno sconnesso di un bosco, fino a schiantarsi violentemente contro un albero.
    La donna e l’autista sembrano morti. Io sono miracolosamente illeso. Mi addentro fra gli alberi. So che mi trovo nel “Bosco degli Spiriti” o “dei Desidèri”.
    Il tempo si è fermato. Tutto è rinchiuso nella musica di Chopin. Qualcuno appare dall’altra parte di un precipizio, o di un sogno. E’ il mio amore, ma quando lo raggiungo, è solo un addio che chiama, chiama…

  4. per Alejandra, giovanissima e bellissima dedico

  5. Giuseppe Talia

    LA PANTERA
    ( Susana Villalba, Buenos Aires)

    Matar al animal
    requiere un animal
    sin sombra.
    Vas caminando por un monte
    o te parece, no sabés dònde estàs;
    creés que lo lo sabìas
    cuando llegaste.
    Ese negro
    bien puede ser una pantera
    o mujer ,
    no te das cuenta.
    La mirada salvaje te gusta,
    no, te calienta.
    No, te mira
    como quien no comprende
    dònde està.
    Ya estàs perdida,
    tendrìas que llevarla a tu casa
    pero sabes còmo termina:
    un animal herido
    siempre ataca.
    (…)

  6. https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/08/alejandra-alfaro-alfieri-quattro-poesie-da-poesie-ultime-osip-mandelstam-sullellenismo-sulla-differenza-tra-oggetti-e-cose-commenti/comment-page-1/#comment-52189
    Poesia di Cesare Pavese
    I Mari del Sud
    (1930)

    Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
    in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
    mio cugino è un gigante vestito di bianco,
    che si muove pacato, abbronzato nel volto,
    taciturno. Tacere è la nostra virtù.
    Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
    un grand’uomo tra idioti o un povero folle
    per insegnare ai suoi tanto silenzio.

    Mio cugino ha parlato stasera.
    Mi ha chiesto
    se salivo con lui: dalla vetta si scorge
    nelle notti serene il riflesso del faro
    lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino…”
    mi ha detto “…ma hai ragione.
    La vita va vissuta
    lontano dal paese: si profitta e si gode
    e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
    si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
    Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
    ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
    di questo stesso colle, è scabro tanto
    che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
    non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
    con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
    usare ai contadini un poco stanchi.

    Vent’anni è stato in giro per il mondo.
    Se n’andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne
    e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
    da donne, come in favola, talvolta;
    ma gli uomini, giù gravi, lo scordarono.
    Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
    con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
    e augurî di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
    ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
    che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania
    circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
    nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo
    il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
    Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
    che, se non era morto, morirebbe.
    Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

    Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
    quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta
    che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
    e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
    spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
    a un rivale e son stato picchiato,
    quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
    altri squassi del sangue dinanzi a rivali
    più elusivi: i pensieri ed i sogni.
    La città mi ha insegnato infinite paure:
    una folla, una strada mi han fatto tremare,
    un pensiero talvolta, spiato su un viso.
    Sento ancora negli occhi la luce beffarda
    dai lampioni a migliaia sul gran scalpiccío.

    Mio cugino è tornato, finita la guerra,
    gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
    I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
    se li è mangiati tutti e torna in giro.
    I disperati muoiono così”.
    Mio cugino ha una faccia recisa.
    Comprò un pianterreno
    nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
    con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
    e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
    Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
    e lui girò tutte le Langhe fumando.
    S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
    esile e bionda come le straniere
    che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.

    Ma uscí ancora da solo. Vestito di bianco,
    con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
    al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
    contattava i cavalli. Spiegò poi a me,
    quando fallí il disegno, che il suo piano
    era stato di togliere tutte le bestie alla valle
    e obbligare la gente a comprargli i motori.
    “Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,
    sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
    che qui buoi e persone son tutta una razza”.

    Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
    sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento.
    Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno
    scrivo sul manifesto: ; Santo Stefano
    è sempre stato il primo nelle feste
    della valle del Belbo; e che la dicano
    quei di Canelli”. Poi riprende l’erta.
    Un profumo di terra e vento ci avvolge nel buio,
    qualche lume in distanza: cascine, automobili
    che si sentono appena; e io penso alla forza
    che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
    alle terre lontane, al silenzio che dura.
    Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
    Dice asciutto che è stato in quel lungo e in quell’altro
    e pensa ai suoi motori.

    Solo un sogno
    gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
    da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
    e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
    ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
    e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
    Me ne accenna talvolta.

    Ma quando gli dico
    ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
    sulle isole più belle della terra,
    al ricordo sorride e risponde che il sole
    si levava che il giorno era vecchio per loro.

    Commento di Costanzo Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Il Mulino, 1976 pp. 183-185

    Uno studio sulla versificazione di Cesare Pavese dovrà necessariamente far capo a I mari del Sud (1930), che è, dopo i lunghi e incoerenti tentativi giovanili, la prima poesia accettata, e che apre, significativamente, Lavorare stanca. Nelle precedenti prove poetiche, rifiutate dall’autore, non si trova infatti traccia del “verso lungo”, a cui d’ora in poi Pavese si manterrà sostanzialmente fedele fino alla stagione di La terra e la morte (1945-46) e delle ultime poesie.
    I mari del Sud nascono dunque come cosciente sperimentazione di nuove forme espressive e metriche: e di questo carattere sperimentale, e non ancora pienamente compiuto, è testimone il sistema metrico non del tutto coerente, specialmente per l’accostamento saltuario al “verso lungo” di endecasillabi e alessandrini, versi dalla sostanza ritmica totalmente distinta, e che risultano perciò assai poco associabili. Dei centodue versi che formano il componimento, diciassette sono endecasillabi in piena regola, sparsi qua e là. Il contrasto che ne deriva è particolarmente violento:

    […] E aggiunse che certo
    il cugino pescava le perle. e staccò il francobollo.
    Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
    che, se non era morto, morirebbe.
    Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
    (vv. 35-39)

    A ciò si aggiunga che, come risulta da un sommario esame delle varianti, nelle prime stesure gli endecasillabi erano presenti in quantità assai più massiccia, occupando interi periodi strofici; né è un caso che proprio ad essi fossero lì affidati momenti di abbandono acutamente lirico, poi soppressi. L’endecasillabo scomparirà del tutto nelle poesie successive: e in Antenati (1932), che segue cronologicamente I mari del Sud, l’impianto metrico è già molto più coerente, e il “vasto ritmo ternario” coinvolge adesso tutto il testo, quasi senza soluzione di continuità.1]

    Il verso di Pavese non ha misura fissa, e può variare da un minimo di dodici, a un massimo di diciotto posizioni, seguite generalmente dalla sillaba atona finale. Ciò che rimane invece costante, indipendentemente dal numero delle posizioni, è il preciso ritmo del verso “ternario” o, come mi sembra preferibile, “anapestico”: con l’avvertenza di una semiforte è sempre presente in prima posizione, mentre tutti gli ictus interni sono primari. Ne risulta una sequenza di quattro o cinque o anche sei piedi (ascendenti, se si considerano solo le forti) di tre elementi, più l’atona conclusiva:

    tetrapodia (12 posizioni)
    + – + — + — + — +
    Parla il giovane smilzo che è stato a Torino

    pentaqpodia (15 posizioni)
    + – + — + — + — + — +
    Sento il mare che batte e ribatte spossato alla riva

    esapodia (18 posizioni)
    + – + — + — + — + — + — +
    e berrà del suo vino, torchiato le sere d’autunno in cantina

    Si tratta, come si vede, di un verso estremamente cadenzato (e per di più di una “cadenza enfatica”, come l’autore stesso notava), che risulterebbe alla lunga monotono, se non intervenissero a romperlo e a renderlo più dinamico, la cesura e la spezzatura. D’altra parte, è proprio attraverso il metro rigidamente monotonale che il giovane Pavese riesce a escludere dalla sua poesia ogni insidia di musicalità tardo crepuscolare (quella rappresentata, per intenderci, dall’endecasillabo) che lo aveva seguito fino alla soglia de I mari del Sud, rifiutanto nello stesso tempo il modello lirico dell’ermetismo contemporaneo, con tutte le relative implicazioni sul piano linguistico e metrico, proposto, per fare l’esempio maggiore, da Giuseppe Ungaretti. ed è proprio il contrasto con la poesia italiana degli anni Venti che va valutata l’importanza e la novità (senza quasi echi né sviluppi) di lavorare stanca: alla religione della parola del primo Ungaretti e di Quasimodo, che del verso libero avevano fatto poco meno che un manifesto poetico, Pavese opponeva il suo verso lungo, narrativo e “epico”, ampio e discorsivo, in cui la parola era costantemente costretta entro uno schema metrico che, pur ricco di varianti e di possibilità interne, non permetteva all’esterno di sé quasi nulla: un verso che, con le sue lente cadenze, era già una difesa automatica contro qualsiasi insinuazione di soggettivismo lirico (il lirismo, scandito dal ritmo anapestico, precipiterebbe di colpo nel comico e in toni da operetta.2]

    Cerchiamo ora di osservare, un po’ più da vicino, le varianti tecniche del verso pavesiano, cominciando dal suo tipo minore (tetrapodico). Nella scansione, si ha la netta impressione di una cesura, da intendersi, qui, come una piccola pausa ritmica o sintattica o di senso, che spezza il verso in due parti, e che cade generalmente dopo la prima debole del terzo piede:

    + – + — + – / – + — +
    Il suo volto socchiuso / posava sul braccio
    e guardava nell’erba. / Nessuno fiatava
    (Paesaggio IV, vv. 16-17)

    Del resto è proprio questo tipo di cesura che rende possibile una frequente variante della tetrapodia: in un buon numero di versi, dopo la cesura, viene interamente ripetuto il primo emistichio, che è un settenario: ne deriva dunque un verso, ipermetro rispetto al suo modello regolare, che è formalmente un alessandrino, ma che si inserisce perfettamente nel contesto ritmico:
    + – + — + – / + – + — +
    hanno il dolce dell‘uva, / ma le solide spalle

    (La cena triste, v. 9)

    Altre volte, nel suolo / li tormenta la pioggia

    (La cena triste, v. 36)

    L’altra tecnica, oltre la cesura, di cui Pavese si serve per rompere il verso, creando frequenti dissonanze ritmiche, è, come si diceva, quella della spezzatura. E va soprattutto notato il particolare vigore che essa acquista in un sistema anapestico, il cui ritmo ascendente è affidato per intero al primo piede; con il risultato di interrompere, riproducendola daccapo, la sequenza ritmica istituita dal verso anteriore: la forte del primo piede è infatti l’unica a essere preceduta, di norma, da due posizioni non forti (una semiforte e una debole) e dalla sillaba atona conclusiva del verso precedente. All’effetto tipico della spezzatura si associa quindi, in via complentare, un “inciampo” ritmico che rende ancora più marcata la rottura del sintagma:

    Quando torna la sera, riprende la pioggia
    scoppiettante sui molti bracieri…

    (Tolleranza, vv. 19-20);

    La stalla
    dell’infanzia e la greve stanchezza del sole
    caloroso sugli usci indolenti…

    (La puttana contadina, vv. 10-12)

    Accanto alle forme della spezzatura, va poi sottolineato, più in generale, il carattere programmaticamente aperto e sospeso del verso di Lavorare stanca. Un esame statistico da me abbozzato rivela che circa il 50% dei versi non reca, alla fine, nessun segno di interpunzione: la cosa è tanto più rilevante, in quanto si tratta di versi lunghi, che quindi si presterebbero bene a sorreggere per intero la frase. A ciò si aggiunga che del verso, imponendo una intensa pausa sintattica al ritmo monotonale, e anzi frammentandolo:

    Ma la voce non torna, e il sussurro remoto
    non increspa il ricordo. L’immobile luce
    dà il suo palpito fresco. Per sempre il silenzio
    tace rauco e sommesso nel ricordo d’allora

    (La voce, vv. 20-23)

    Questa è una prova ulteriore della scarsa coincidenza, in Pavese, tra il piano fonico e quello sintattico, e di come tale tecnica contribuisca a rendere il discorso strofico estremamente variato e, all’interno del sistema, libero.

    1] Scriveva Pavese nel 1934:
    «Mi ero altresì creato un verso. Il che, giuro, non ho fatto apposta. A quel tempo, sapevo soltanto che il verso libero non mi andava a genio, per la disordinata e capricciosa abbondanza ch’esso usa pretendere dalla fantasia. Sul verso libero whitmaniano, che molto invece ammiravo e temevo, ho detto altrove la mia e comunque già confusamente presentivo quanto di oratorio si richieda a un’ispirazione per dargli vita. Mi mancava insieme il fiato e il temperamento per servirmene. Nei metri tradizionali non avevo fiducia, per quel tanto di trito e gratuitamente (così mi pareva) cincischiato ch’essi portano con sé; e del resto troppo li avevo usati parodisticamente per pigliarli ancora sul serio e cavarne un effetto di rima che non mi riuscisse comico.
    Sapevo naturalmente che non esistono metri tradizionali in senso assoluto, ma ogni poeta rifà in essi il ritmo interiore della sua fantasia. e mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico de I mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano. Così, senza saperlo, avevo trovato il mio verso, che naturalmente per tutto I mari del Sud e per parecchie altre poesie fu solo istintivo (restano tracce di questa incoscienza in qualche verso dei primi, che non esce dall’endecasillabo tradizionale). rimavo le mie poesie mugolando. Via via scopersi le leggi intrinseche di questa metrica e scomparvero gli endecasillabi e il mio verso si rivelò di tre tipi costanti, che in certo modo potrei presupporre alla composizione, ma sempre ebbi cura di non lasciar tiranneggiare, pronto ad accettare, quando mi paresse il caso, altri accenti e altra sillabazione. Ma non mi allontanai più sostanzialmente dal mio schema e questo considero il ritmo del mio fantasticare» (Il mestiere di poeta, pp. 128-129).

    2] Alquanto sterile mi sembra la questione dell’origine del verso di Pavese; e facendolo risalire a Whitman (ma l’autore stesso lo escludeva, nella pagina citata del Mestiere di poeta) o a Lee Masters, non si dice molto, giacché la caratteristica principale del nuovo verso è, oltre la lunghezza, il ritmo anapestico, assente nei due poeti americani. riguardo al ritmo, precedenti italiani andrebbero ricercati, più che nel decasillabo tradizionale, semmai nell’esmetro pascoliano e, qua e là, nei Canti Orfici di Dino Campana. Contini associa la metrica pavesiana a quella dei Poemi lirici di Bacchelli, nella comune ascendenza whitmaniana, anche lui tenendo conto esclusivamente della lunghezza. Ma, in realtà, quello di Pavese è un verso sostanzialmente originale, per misura e per ritmo, e ogni ricerca delle fonti non può in questo caso andare oltre accostamenti abbastanza estrinseci e superficiali. Varrà piuttosto la pena di notare, ma senza troppo insistere, come la struttura ritmica, e soprattutto il contrasto netto tra posizioni forti e posizioni deboli, con scarso gioco degli ictus secondari, richiami la metrica barbara, se non (direttamente) quella dei poemi classici (nella lettura scolastica corrente): l’anapesto è, in fondo, un dattilo a rovescio; e pure la lunghezza sillabica del verso non è lontana da quella dell’esametro.

  7. Ho postato la poesia di Pavese con un commento sulla metrica usata nella poesia I mari del Sud (1930), perché quella poesia segna uno dei momenti più alti della poesia italiana del novecento. Ora, se facciamo un salto in avanti di circa 90 anni e leggiamo qualche poesia di Mario Gabriele, e le leggiamo in parallelo alla lettura della poesia di Pavese, avremo chiaro sia il quadro di riferimento dello stallo della poesia italiana avvenuto dopo il 1930, anno di pubblicazione della poesia di Pavese e il 2016, anno di pubblicazione del libro di poesia di Gabriele, L’erba di Stonehenge. Lo scarto è abissale. Possiamo dire che Gabriele risolve gran parte dei problemi metrici del «verso libero» che Cesare Pavese non era riuscito a risolvere per mancanza di terreno stabile sotto i piedi, per mancanza di una tradizione stilistica alternativa a cui far riferimento. Perché sia chiaro, una riforma del linguaggio poetico non nasce mai dal vuoto, ci deve sempre essere una tradizione (endogena o esogena) a cui far riferimento.

    Penso sia indubbio che il lavoro di approfondimento delle problematiche del «verso libero» e del metro svolto in questi anni dalla nuova ontologia estetica abbia dato dei frutti, e i risultati sono qui, a portata di mano.

    Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge(Progetto Cultura, 2016) pubblicato nella collana da me diretta:
    .
    «L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».
    .
    È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonologico, svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale. Inoltre, un aspetto importante di questo tipo di poesia è la presa d’atto del «raffreddamento» delle parole e del verso tonale della tradizione; voglio dire che gli aspetti legati alla accentuazione delle parole nella poesia gabrielana assumono sempre minore importanza, ne assume, per contro la funzione delle immagini, queste sì offrono spazio fonetico di rinforzo delle parole. Voglio dire che l’aspetto isometrico del verso gabrielano viene dato per scontato e messo agli atti. La sua poesia nasce da questa presa d’atto.
    .
    Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura
    .
    (3)
    .
    La notte celò i morsi delle murene.
    Tornarono le metafore e gli epistemi
    e una folla “che mai avremmo creduto
    che morte tanta ne avesse disfatta”:
    Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
    Erich, falegname in Hamburg,
    Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
    Lothar e Hans, liutai.
    .
    Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
    Guten Morgen-, disse Albert.
    Qui curiamo le piante e le orchidee,
    offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
    in cammino verso Santiago di Compostela.
    Sui gradini dell’Iperfamila,
    tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
    Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
    -“Doveva essere migliore degli altri
    il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
    tanto che neppure Mss. Dorothy,
    chiromante e astrologa,
    riuscì a svelare le carte del futuro,
    né Daisy si dolse del sole africano,
    ma dei muri che chiudevano
    le terre di Samuele e di Giuseppe.
    E non era passato molto tempo
    da quando Margaret e Jennifer
    (che pure in vita dovevano essere
    due anime perfette e pie),
    volarono in cielo.
    .
    L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
    Era ottobre di canti e heineken
    con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
    Riapparve la luce,
    ed era tuo il lampo sulle colline
    bruciate dall’autunno.
    .
    Ma è malinconia, mammy,
    quella che ha preso posto nella casa
    dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
    Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
    l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
    la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
    .
    Fra poco la neve coprirà il poggetto.
    Ci sarà poco da raccontare
    a chi rimane nella veglia,
    dove c’è sempre qualcuno
    che parla della lunga barba di Dio
    come una cometa
    nella notte più silente dell’anno,
    quando il gufo da sopra il ramo
    sbircia il futuro e vola via.

    • grazie Giorgio di questo tuo commento critico, da me molto apprezzato. laddove parlando della poesia di Pavese, che a me è sempre piaciuta, per via di quell’occhio geoambientale, come le colline, le vigne delle Langhe, la luna e i falò, la strada per Gaminella ecc.e che trovo di riflesso nella mia poesia guardando il Molise, con la presa d’atto del”raffreddamento delle parole e del verso tonale della Tradizione; voglio dire che gli aspetti legati alla accentuazione nella poesia gabrielana assumono sempre minore importanza, ne assume per contro la funzione delle immagini queste si offrono spazio fonetico di rinforzo delle parole”.
      Ti sembrerà una ipotesi azzardata, ma leggendo il primo racconto da La Spiaggia di Pavese, ho notato che il ritmo narrativo può essere riportato in distici come nella Noe. Ecco un esempio:

      Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro
      che sarei stato ospite suo.

      A Doro volevo un gran bene e quando lui per sposarsi
      andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia.

      E così via dicendo. Sarà ll mio un problema di astigmatismo ma l’occhio mi porta in questa direzione. Ancora una volta grazie di questa tua sensibile interpretazione critica.

  8. Anche io mi ero accorto, stamattina leggendo mentalmente la poesia di Pavese, che la poesia I mari del Sud può essere ritrascritta in distici, come avviene in alcuni casi di poesia NOE. Questo che vuol dire? Vuol dire molto semplicemente che Pavese non è riuscito a vedere (non per sua incapacità personale ma per ragioni storico-stilistiche) che la sua poesia avrebbe potuto anche essere organizzata in distici. Ma allora, a quel punto, Pavese si sarebbe accorto che l’organizzazione in distici richiede un’altra tecnica, anche dei salti, delle deviazioni, degli stop and go; insomma, si sarebbe accorto che avrebbe dovuto intervenire nella struttura sintattica, metrica e ritmica della sua poesia… insomma, avrebbe dovuto scrivere un’altra poesia… la poesia del futuro. Ma a questo lui non poteva arrivare.

  9. https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/08/alejandra-alfaro-alfieri-quattro-poesie-da-poesie-ultime-osip-mandelstam-sullellenismo-sulla-differenza-tra-oggetti-e-cose-commenti/comment-page-1/#comment-52311
    Due poesie di Edith Dzieduszycka ritrascritte in terzine:

    La statua

    Una statua
    un’alta statua scagliata
    di pietra sgretolata

    venne scoperta
    eretta sulla punta del molo
    nell’alba d’un mattino

    Arrivata in segreto
    senza destar sospetto
    Come? Perché?

    Graffiata sbrecciata
    faceva quasi pena
    un uccello posato chi sa se cieco

    Non guardava il mare
    ma nemmeno avanti
    verso le case mute sulla soglia del borgo

    Nessuna luce
    dentro il suo petto
    a tramutarla in faro

    Una statua sporca
    una statua livida
    Forse verrà coperta con un mantello nero

    Arrivò tante gente a strisciarle intorno
    ad accarezzarla
    perfino a baciarla

    Non era la Madonna
    non piangeva nemmeno
    il volto a malapena e nessuna corona

    Disse qualcuno
    “Proviamo a girarla
    così che veda il mare”

    Si misero in undici
    una squadra di calcio
    da quanto era pesante

    Ma durante la notte
    come se niente fosse
    si era rivoltata

    Per non vedere il mare
    sporco
    più di lei.

    *

    L’ombrello

    Lascia il tempo che trova
    – o forse no –
    il camino che erutta sopra la giungla urbana

    Crescono rigogliosi erba e mozziconi
    in mezzo ai sampietrini luccicanti di pioggia

    Una donna si è girata per cercare il cielo
    Non l’ha trovato
    All’ombra era nascosto dei palazzi per piangere
    di tristezza o dispetto – non è dato sapere –

    Da una sacca
    di pura plastica
    ha estratto la donna un ombrello lilla
    pure di plastica

    Ma rotte le sue stecche non si fece aprire

    Si mise a piangere la donna pure lei
    fradicia e struccata ché dietro l’angolo
    nessun riparo si era fatto avanti

    Era l’ora di punta e dell’appuntamento
    con l’uomo della sua vita
    quello per sempre
    con la mano sul cuore
    conosciuto in un bar tre quattro giorni fa

    Ma lui – che c’era già –
    vedendola trottare nella sua direzione
    in quello stato brado
    era scappato via

    La donna girò l’angolo
    ancora speranzosa
    Invece dietro pronto a saltarle addosso
    c’era il suo Destino ancora nebuloso

    Smise di piovere
    Non per questo si fece
    il cielo ritrovare

    Il Consiglio di Stato si occupava d’altro
    grave il momento sgraditi i gradi –

    Nella sua sacca
    di pura plastica
    la donna disperata ripose il suo ombrello
    pure di plastica
    e rimase lì ferma di fronte alla folla

    Così non seppe mai quella donna piangente
    ma fortunata
    che l’uomo della sua vita
    incontrato in un bar tre quattro giorni fa
    altro non era che l’uomo ricercato
    noto serial killer ancora a piede libero.

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