Alejandra Alfaro Alfieri è nata a Buenos Aires nel marzo del 1989. Cresciuta in Perù, si è poi trasferita in Spagna e in Italia, dove si è formata come operatrice sociale e dove studia Sociologia, presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato, oltre a vari testi in antologie italiane, il prosimetro De la mente al corazón (“Dalla mente al cuore”), la raccolta di poesie Profunda Eternidad (“Profonda Eternità”), il libro Creadora de un vínculo poético universal, scritto a quattro mani col poeta spagnolo Tomás Morilla Massieu. Ha diretto la “Revista cultural Puertos” di Lima, Perù. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo: El guardián de su verdad.
Alejandra Alfaro Alfieri
Quattro poesie da Poesie ultime
X.
Mi dovevo nascondere.
Chissà perché quel luogo era così vasto
ma il posto che io scelsi non lo era abbastanza
per poterlo fare.
Arrivavano feroci i criminali al passo,
sentivo le loro voci.
La suola calpestava ogni mio fiato disperato.
C’era tanta luce fuori, una volta anch’io la vidi
e così era ancora più difficile trovare un angolo dove
non potessi essere mai trovato.
Li sentivo correre, non so se da dietro, vicino o lontano
erano già intorno a me,
sotto un sole infiammante – perfino il colore dell’inferno
era più debole
Io mi sentivo di morire pian piano mentre percorrevo quel corridoio,
illuminato dal nero della lampada al neon
verso la porta di fuga.
Lontano da loro. Lontano da tutti quelli
che non hanno mai compreso
né sono riusciti mai ad interpretare nemmeno nei sogni
che cos’è il personaggio della morte.
La morte dell’amore
dove persino il pensiero è prigioniero di se stesso.
Neanche scomparire potrebbe alleviare questa festa,
interiore, alla rovescia.
Lasciatemi uscire [casomai entrare] non ho più un posto sicuro
per nascondere il dolore.
Avanti bestie, fatevi avanti, prendete il mio corpo
io sono morto.
Senza titolo (in distici)
Quella danza selvaggia entrò, passo dopo passo, un pugno in faccia.
Ho perso tempo – una, due e ancora un’altra volta – Cancellate quella versione,
vi prego.
C’è la luna nel salone – la vedi?
Una luce nel riflesso – osservo col binocolo la recitazione.
In fondo a sinistra, dietro l’angolo, prima dell’attaccapanni,
finalmente, lì seduto, lui appoggiò l’anima
sulla spalliera della sedia.
Lui, in piedi, Lei a parlare, l’uomo invece era pronto a sparare.
Chissà dove nascondeva tutte quelle armi
o perché le portò a casa mia, mi chiedo…
«Vado di fretta», disse…
– la sceneggiatura cinematografica –
Dove avete nascosto il cadavere?, urlava in testa la donna.
Ogni giorno una nuova follia sulla riga del copione,
la ragazza dalle bretelle pronta per combattere
Sta facendo gli esami, adesso torna indietro,
chiede di entrare nel racconto di Iosif
Il titolo è appeso sull’appendiabiti
accanto al cappotto grigio dai bottoni quadrati,
la sceneggiatura restò aperta
tra le mie braccia.
Le mie mani divelsero scure sopra il suo golf nero.
L’assassino degli occhiali restò lì fermo, impassibile,
davanti a me per ricordarci.
che gli sguardi non hanno parole per mentire.
Proprio dietro i suoi cristalli lui ci guardò.
Ritornerei a quella scena,
scommetto che l’ha dimenticata – Lo ammetta!
Se la ricorda?
I giorni come i sassi fanno finta di scontrarsi l’uno con l’altro davanti al mare,
vengono spinti in riva
nonostante da lontano si senta il rumore
di quella guerra
Il regista ha finito il suo lavoro.
C’è un giardino che cresce dentro questa stanza,
glielo dica a quel malvissuto: «Provi a trovarla,
se l’aspetta fuori, lei se ne andrà,
uscirà dalla scena».

Alejandra Alfaro Alfieri
Il paradigma dello specchio
III.
I passi, l’uno è sospinto dall’altro, vanno così
insieme, avanti.
Secondo il calzolaio ogni suola porta uno specchio.
Qui si riflette la propria vita.
Lungo la strada si affacciano da un lato diritto all’altro
Quello che rimane indietro fallisce.
Te lo ricorda il monologo che parla dietro la scarpa.
Non esiste un tempo che possa attendere
si va in scena senza paradiso.
«Ma se soltanto mi fermassi giusto per aggiustarmi?»
Guarderei da vicino per poter capirne di più.
Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma.
l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù.
È arrivato il colpevole! – «Si guardi
nello specchio rotto, la prego».
Fu il passo prematuro, ignoto e immaturo
– «Non sono stato io!»
Passo di fretta; è rimasta la ferita riflessa
sul petto dello specchio.
Davanti alla salita chiede di sfuggire a quel riflesso,
ma nessuno guida la sua barca,
accanto rimane stesa la stessa cornice di parole attaccata al piede
senza un tramonto.
L’incidente
Un minuto di pausa. Il tempo per contraddire la realtà.
Non si torna indietro, non si può.
Tante mani comparivano dal buio intorno
al soccorso, e io rinunciai.
Nessun pensiero era oramai per me.
Il volume delle voci nella mia coscienza – «ma quanti siete?».
È rimasta in ginocchio la signorina con la pelliccia nera.
«Non voglio alzarmi – cos’è successo?».
Chissà se ci sarebbe stato in carne e ossa
fuori dai miei sogni o avrebbe abbandonato un’altra volta
anche questa mia battaglia.
Lo sportello rosso si gira a sinistra.
Sì, ma io svolto a destra.
Ci penso e ripenso:
a quanto ci teneva la mia paura
bisognosa di incontrare lo specchio,
chissà, se per l’ultima volta, o chissà
mai più, un biglietto di sola andata.
Stavo riflettendo su questa cosa, che Alejandra riesce bene quando può, grazie alla sua trazione bilingue, lasciare da parte il «gramma», la «lettera» per acconsentire alla «voce», dare alla «voce» la primazia. In questo modo, che l’autrice fa come sotto ipnosi, riesce a dismettere le regole obbligatorie e costrittive della sintassi, le regole della logica e della significazione, per accreditare la «voce». La sua poesia più riuscita lo è perché si concede alla «voce» interna che si traduce in un parlato come in stato di veglia, tra l’ipnosi e il sonno che sta per finire.
(Giorgio Linguaglossa)
Mario M Gabriele
24 dicembre 2018 alle 16:46
Il secondo testo mi sembra senz’altro migliore. Prevalgono stesure cinematografiche, alla Beckett. E’ una nuova via poetica? o è l’oltre della NOE?
Giorgio Linguaglossa
25 dicembre 2018 alle 9:42
caro Mario,
condivido il tuo giudizio, la seconda poesia è una vetta assoluta; si tratta di una «danza selvaggia», come dichiara la stessa giovanissima autrice. C’è in queste due poesie una forza «selvaggia», dirompente che si abbatte sulla versificazione frantumandola, facendone schizzare i pezzi di risulta in tutte le direzioni; una forza piroplastica, vulcanica che si abbatte come uno tsunami su ciò che «resta» dell’esistenza. In ciò Alejandra Alfaro Alfieri è stata aiutata, paradossalmente, proprio dalla sua natura di poeta bilingue, (spagnolo e italiano) essendo la giovane Alejandra nativa argentina pur se di lontane ascendenze italiane.
Lei con l’italiano ci va a passeggio, lo fa camminare traballando come un orso delle nevi, lo fa irrompere nella versificazione italiana distruggendo tutto quello che si può distruggere, ma, Alejandra fa tutto questo con una genuinità e ingenuità assolute, addirittura con gentilezza, sfascia la struttura sintattica dell’italiano, passa da un fotogramma all’altro, dalla prima alla terza persona e dalla terza persona ad intermezzi anonimi, da inquadrature personali ad inquadrature collettive; la composizione è una vera e propria sequenza cinematografica con zoom e riprese panoramiche…
Altro che la poesia dell’io dei «poeti» che vanno di moda in Italia che celebrano le piccole cose dell’io! Qui c’è un vero tsunami che ha fatto definitivamente a pezzi ciò che restava della versificazione italiana: il verso è scomparso e sostituito da spezzoni, da prosa, da pseudo-versi, da para-prosa, il tutto in un conglomerato di, non so se più ingenuità o ingegnosità, ma, sta di fatto che il risultato complessivo è straordinariamente efficace.
Anche le disconnessioni sintattiche, anche le dismetrie frequentissime e gli evidenti errori sono dei lapsus alla maniera di quelli celebrati da Pasolini nelle poesie di Amelia Rosselli, ma qui c’è, oserei dire, meno preziosità letteraria, meno previsione dell’effetto e più genuinità dell’espressione scombiccherata, più dissimmetria degli isometrismi, più imprevedibilità, direi.
Mario M Gabriele
25 dicembre 2018 alle 10:08
Giorgio ci ha dato un motivo in più,per avvicinarci a questa poesia “Senza titolo” di Alejandra Alfieri, aprendo, selettivamente, un discorso linguistico pluricellulare e fotogrammatico, così ampio, che sta solo a noi decodificarne la spazialità. E’ ciò che mi aspetto dai lettori di questa Rivista anche se oggi è Natale. Grazie.
Giorgio Linguaglossa
25 dicembre 2018 alle 11:12
Lotman scrive:
«Una statua, buttata in mezzo all’erba, può creare un nuovo effetto artistico in forza dell’insorgere di un rapporto fra l’erba e il marmo. Una statua gettata nella spazzatura, non crea un tale effetto per lo spettatore contemporaneo: la sua coscienza non può elaborare una struttura che sia in grado di unificare queste due essenze in una unità…».
Ecco, quello che è riuscito ad Alejandra è proprio questo, che è riuscita a convertire il linguaggio naturale in «rumore» e a fare una poesia che è in realtà una «composizione di rumori», convertendo questi «rumori» in un nuovo linguaggio estetico. Ha gettato delle «statue nella spazzatura», creando un nuovo effetto estetico. E lo ha fatto con una semplicità e ingenuità quasi incredibili.
Sempre Lotman ci dice che
«dal punto di vista della teoria dell’informazione si chiama rumore l’inserirsi di un disordine, dell’entropia, della disorganizzazione, nella sfera della struttura e dell’informazione. Il rumore spegne l’informazione…
In base a una nota legge, ogni canale di collegamento (dal filo telefonico alla distanza di molti secoli che divide Shakespeare da noi) presenta del rumore che assorbe l’informazione. Se la grandezza del rumore è pari alla grandezza dell’informazione la comunicazione sarà nulla. La forza distruttrice dell’entropia è costantemente sentita dall’uomo. Una delle funzioni fondamentali della cultura è quella di contrapporsi al progresso dell’entropia. In questa azione all’arte è destinata una funzione particolare
[…]
Le braccia spezzate della Venere di Milo, come tutti i casi di annerimento dei quadri a causa del tempo, l’invecchiare dei monumenti storici, dal punto di vista dell’informazione artistica, sono casi triviali di rumore, di affermarsi dell’entropia nella struttura. Tuttavia nell’arte la cosa è più complessa, e una “restaurazione” non decisiva, condotta senza la necessaria cautela e tatto, è impotente a ristabilire quell’ignoto aspetto che il monumento mostrava agli occhi del suo creatore e dei contemporanei…».1]
Forse i poeti italiani di queste ultime decadi hanno letto poco e male Lotman, ma queste cose lui le ha scritte e pubblicate nel 1972, in Russia, beninteso, e il suo libro è stato pubblicato in Italia nel 1990. Il fatto è che oggi la poesia non ha a che fare con il «monumento» originale ma con un «monumento» già portatore di entropia, di «rumore», di trash, di stracci. Oggi chi voglia comporre un «monumento» rotondo e polito è un facitore inconsapevole di Kitsch, un falegname di pacchianerie e di passamanerie; chi pensa che fare poesia evoluta significhi fare dei commenti evoluti, cioè spiritosi e ludici e magari umoristici o intellettualistici, fa Kitsch al quadrato e al cubo. Oggi può fare poesia evoluta soltanto chi voglia consapevolmente comporre secondo le regole del Kitsch e del trash, ed esegua il «monumento» del Kitsch e del trash, cioè un «monumento» di «rumori» e di trash, consapevole di dover operare in ogni caso con i materiali del Kitsch per la semplice ragione che la ragione poetica si è indebolita e che non ha altri mattoni che quelli del Kitsch per la edificazione dei suoi polittici di «rumori» e di trash…
1] J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1990 p. 96
Lucio Mayoor Tosi
25 dicembre 2018 alle 11:40
Le due poesie di Alejandra Alfaro Alfieri a me ricordano le atmosfere dense di nulla di Edith Dzieduszycka. La densità del nulla riguardale nostre capacità percettive, è l’emozione di ciò che sta bruciando… come la vita che è fuoco per i corpi. Ed è il riscontro fisico di una comprensione che potrebbe essere anche filosofica.
Il continuo movimento, il percepire senza sé può generare questo tipo di annullamento – conviene pensare alle poesie dei Sufi, a Rumi. Consiglio ad Alejandra di trovarsi un buon maestro zen o, perché di origini sub americane, una curandera.
È il versante mistico della Nuova Ontologia Estetica. L’empirico. L’approccio intellettualistico è comunque utile, altrimenti non capiremmo quello che ci sta accadendo.
Per il resto, la seconda poesia, a me sembra di comprenderla in quanto conosco la tensione del set cinematografico (quando facevo l’art director lavorai a Cinecittà e in alcuni studi a Parigi)… conosco la tensione, e lo svuotamento dei giorni successivi alle riprese.
Alcune sequenze si potrebbero interrompere maggiormente, può essere determinante una maturazione nello stile. Ma su questo fronte siamo tutti in agitazione… Mario Gabriele ha edificato una sponda… conviene tenerne conto.

redazione di Officina, Pasolini e Fortini, due scomodi compagni di strada
Giorgio Linguaglossa
Sulla differenza tra «oggetti» e «cose»
sulla differenza tra «oggetti» e «cose» ho già scritto un appunto poco tempo fa. Quando un «oggetto» cessa di essere mero oggetto e quanto esso oggetto diventa una «cosa»? – L’ermetismo italiano non ha mai avuto sentore di questa problematica, e neanche la poesia post-ermetica del dopo guerra, tanto meno la poesia dell’incipiente sperimentalismo ne ha avuto cognizione, come non ne ha mai avuto cognizione la poesia lombarda degli «oggetti». La questione è invece di capitale importanza, perché o si fa una poesia di oggetti (ricordate la formula di Anceschi per una «poesia degli oggetti»?), o si fa una poesia di «cose», la differenza è di capitale importanza ma bisogna ragionarci sopra, bisogna sapere di che cosa si parla. Per esempio, Saturno, che vediamo nel gif, è un «oggetto» o una «cosa»?
Ad esempio, la guerra di Troia (che entra prepotentemente nella poesia di Gino Rago) è un «oggetto» o una «cosa»? Quella «nomenclatura» che si rinviene nella poesia di Anna Ventura, quei «brillanti di bottiglia», dal titolo del libro di esordio della poetessa abruzzese del 1978, quelle povere cose che stanno come brillanti nella bottiglia, sono «oggetti» o sono «cose»? Ad esempio nella poesia di Adam Zagajevski ci sono «oggetti» o «cose»?
È inutile tentare di dribblare la questione, non se ne esce. Il problema in verità è antico, già all’inizio del Novecento era stato messo a fuoco da Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola degli anni Dieci di cui cito un brano particolarmente significativo. Sostituite il riferimento al «simbolismo» con la nostrana «poesia degli oggetti» e troverete gli argomenti di Mandel’štam calzanti e acutissimi, in specie riguardo all’«ellenismo» del «vasellame» (leggi «cose» in linguaggio moderno) che usiamo tutti i giorni e alla polemica contro il «laboratorio di impagliatura» dei simbolisti:
Osip Mandel’štam
Sull’Ellenismo
«L’ellenismo è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame, la personificazione del mondo circostante, il riscaldamento del suo sottilissimo teologico calore. L’ellenismo è ogni stufa vicino alla quale l’uomo siede apprezzandone il calore, come consanguineo al suo calore interno. Infine, l’ellenismo è il monumento sepolcrale dei defunti egiziani nel quale si mette tutto il necessario per il proseguimento del pellegrinaggio terrestre dell’uomo fino alla brocca per i profumi, allo specchietto, al pettine. L’ellenismo è il sistema, nel senso bergsoniano del termine, che l’uomo dispiega intorno a sé, come un ventaglio di avvenimenti liberati dalla dipendenza temporale e subordinati ad un legame interno attraverso l’io umano. Nella concezione ellenistica il simbolo è vasellame e, perciò, ogni oggetto coinvolto nel sacro circolo dell’uomo può diventare vasellame e, di conseguenza, anche un simbolo. Ci si chiede: dunque, è forse necessario uno speciale e premeditato simbolismo nella poesia russa? Non appare esso come un peccato di fronte alla natura ellenistica della nostra lingua che crea forme come vasellame al servizio dell’uomo? In sostanza, non c’è alcuna differenza tra la parola e la forma. La parola è già forma chiusa; non si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada. Anche queste forme chiuse sono assai necessarie. L’uomo ama il divieto, e persino il selvaggio mette una interdizione magica, un «tabù» negli oggetti noti. Ma, d’altra parte, la forma chiusa, sottratta all’uso, è ostile all’uomo, è nel suo genere un animale impagliato, uno spaventapasseri.
Tutto il contingente è soltanto immagine. Prendiamo ad esempio la rosa ed il sole, la colomba e la fanciulla. Per il simbolista nessuna di queste forme è di per sé interessante ma la rosa è immagine del sole, il sole immagine della rosa, la colomba immagine della fanciulla, la fanciulla immagine della colomba. Forme sventrate come animali impagliati e riempite di contenuto estraneo. Al posto del bosco simbolista, un laboratorio di impagliatura.
Ecco dove porta il simbolismo professionale. La percezione demoralizzata. Nulla di autentico, originale. Una terribile controdanza di «corrispondenze» che si ammiccano l’un l’altra. Un eterno strizzarsi d’occhio. Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze. La rosa ammicca alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuole essere se stesso».
Commento di Giorgio Linguaglossa
Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le idee le prendiamo dalle «cose». Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee e le nuove idee sono le «nuove cose». Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono «cose» in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili, il vasellame si trovano nel mondo per servire l’uomo, possiamo vivere in un appartamento ammobiliato oppure in un appartamento ricco di suppellettili, di vasellame, di «cose» che abbiamo scelto e che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana. La differenza è di vitale importanza. Quando una «cosa» ci parla o riprende a parlarci, ecco, il quel momento si ha una trasmutazione degli «oggetti» in «cose», e gli oggetti indifferenti diventano nostri consanguinei, i nostri compagni significativi. Le nuove «cose» innescano un nuovo sguardo, e noi vediamo il mondo come per la prima volta. Gli «oggetti» morti sono diventati all’improvviso vivi e significativi, sono diventati «cose».
L’«ellenismo – di cui parla Osip Mandel’štam nel saggio Sulla natura della parola – «è il circondarsi consapevole dell’uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti, la metamorfosi di questi oggetti in vasellame…».
Se mi soffermo a riflettere sui versi di “Il paradigma dello specchio”, in particolare su questi, laconici e icastici nello stesso tempo
“[…]Guarderei da vicino per poter capirne di più.
Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma,
l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù[…]”
È arrivato il colpevole! – «Si guardi
capisco senza sforzi l’idea di Barthes secondo cui
«Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è
il Vuoto stesso[…]»,
ma anche quella di Linguaglossa che in buona sintesi così esprimerei:
«L’immagine allo specchio ci rivela il nostro sembiante come un «gioco» di significanti e di significati, di codici e di geroglifici inscritti tra le pieghe del nostro volto[…]
E allora il calzolaio di Alejandra Alfaro Alfieri diviene un saggio, un saggio-greco, quando pensa che ogni suola delle scarpe è dotata di uno specchio, in un contesto di «giochi» dove la Parola di Alejandra nel suo significato non rischia mai di farsi ambigua.
Il translinguismo di Alejandra poi, dall’ispano-argentino alla nostra lingua,
si fa fonte di ricchezza linguistica e sempre nel Paradigma dello specchio si dispiegano tensioni mistico-metafisiche le quali possono ricondurre il lettore attento ai versi di Charles Simic quando vede scorrere la vita nel mondo visto da uno specchio, portato in giro non si sa da chi…
Mi riprometto, attendendo tempi più favorevoli alla scrittura (questi di ora per me non lo sono…) di approfondire e precisare meglio e di più questa nota sui versi di Alejandra…
gino rago
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/08/alejandra-alfaro-alfieri-quattro-poesie-da-poesie-ultime-osip-mandelstam-sullellenismo-sulla-differenza-tra-oggetti-e-cose-commenti/comment-page-1/#comment-51877
Trascrivo la email che ho inviato pochi istanti fa ad Alfonso Cataldi:
CHOPIN, O UN ALTRO ADDIO
Alla splendida giovinezza di Alejandra
Sono disteso sul tavolo della cucina, morto.
Inaspettatamente torno in vita. Mi alzo e mi trovo in un appartamento ignoto. Cerco i miei familiari, ma trovo solo due sconosciuti, vestiti in abiti scuri, da cerimonia. Quando mi vedono entrare, balzano in piedi terrorizzati, gridando: “Che cosa fa?” Evidentemente mi credevano morto.
Mi riconducono nella cucina. C’è una grande porta a vetri che dà sulla campagna. Usciamo e ci allontaniamo fra campi spogli, trascinando un grosso baule, in cui è conservato qualcosa di molto prezioso, ma non ricordo più cosa.
Dal cielo crepuscolare scende qualcosa che sembra una musica, o un profumo, struggente e malinconico, che mi spinge ad andare avanti, senza arrendermi alla mortale stanchezza che sento.
Giungo davanti ad una casa che mi è familiare. Vi abita una ragazza di cui sono stato innamorato. Entrando trovo su un divano una bambola grande come una persona. Mi guarda come se fosse viva, ha una faccia senile, dall’espressione astuta e lasciva. Vedo anche la ragazza che amavo, ma è completamente diversa da come la ricordavo: al posto della fanciulla bionda e angelica, dal viso puro e malinconico, vedo una donna bruna e voluttuosa, vestita in modo provocante, che mi guarda con aria complice e sensuale.
Usciamo insieme. Davanti alla porta è comparsa una macchina scoperta, che sembra messa a nostra disposizione. Alla guida c’è un uomo biondo, che non vedo mai in viso. Noi saliamo sul sedile posteriore, e la donna prende a palpeggiarmi con foga. Sento una vecchia canzone di Elvis Presley che fa: ”…I can’t help falling in love with you.” La donna, continuando a baciarmi tutto il viso, ripete: “ Lo sapevo, lo sapevo! “
Ad un tratto mi accorgo che la testa dell’autista è piena di sangue. La macchina esce di strada, sobbalza sul terreno sconnesso di un bosco, fino a schiantarsi violentemente contro un albero.
La donna e l’autista sembrano morti. Io sono miracolosamente illeso. Mi addentro fra gli alberi. So che mi trovo nel “Bosco degli Spiriti” o “dei Desidèri”.
Il tempo si è fermato. Tutto è rinchiuso nella musica di Chopin. Qualcuno appare dall’altra parte di un precipizio, o di un sogno. E’ il mio amore, ma quando lo raggiungo, è solo un addio che chiama, chiama…
per Alejandra, giovanissima e bellissima dedico
LA PANTERA
( Susana Villalba, Buenos Aires)
Matar al animal
requiere un animal
sin sombra.
Vas caminando por un monte
o te parece, no sabés dònde estàs;
creés que lo lo sabìas
cuando llegaste.
Ese negro
bien puede ser una pantera
o mujer ,
no te das cuenta.
La mirada salvaje te gusta,
no, te calienta.
No, te mira
como quien no comprende
dònde està.
Ya estàs perdida,
tendrìas que llevarla a tu casa
pero sabes còmo termina:
un animal herido
siempre ataca.
(…)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/08/alejandra-alfaro-alfieri-quattro-poesie-da-poesie-ultime-osip-mandelstam-sullellenismo-sulla-differenza-tra-oggetti-e-cose-commenti/comment-page-1/#comment-52189
Poesia di Cesare Pavese
I Mari del Sud (1930)
Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
un grand’uomo tra idioti o un povero folle
per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera.
Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino…”
mi ha detto “…ma hai ragione.
La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.
Vent’anni è stato in giro per il mondo.
Se n’andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
ma gli uomini, giù gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e augurî di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dai lampioni a migliaia sul gran scalpiccío.
Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono così”.
Mio cugino ha una faccia recisa.
Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma uscí ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallí il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza”.
Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno
scrivo sul manifesto: ; Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo; e che la dicano
quei di Canelli”. Poi riprende l’erta.
Un profumo di terra e vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel lungo e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.
Ho postato la poesia di Pavese con un commento sulla metrica usata nella poesia I mari del Sud (1930), perché quella poesia segna uno dei momenti più alti della poesia italiana del novecento. Ora, se facciamo un salto in avanti di circa 90 anni e leggiamo qualche poesia di Mario Gabriele, e le leggiamo in parallelo alla lettura della poesia di Pavese, avremo chiaro sia il quadro di riferimento dello stallo della poesia italiana avvenuto dopo il 1930, anno di pubblicazione della poesia di Pavese e il 2016, anno di pubblicazione del libro di poesia di Gabriele, L’erba di Stonehenge. Lo scarto è abissale. Possiamo dire che Gabriele risolve gran parte dei problemi metrici del «verso libero» che Cesare Pavese non era riuscito a risolvere per mancanza di terreno stabile sotto i piedi, per mancanza di una tradizione stilistica alternativa a cui far riferimento. Perché sia chiaro, una riforma del linguaggio poetico non nasce mai dal vuoto, ci deve sempre essere una tradizione (endogena o esogena) a cui far riferimento.
Penso sia indubbio che il lavoro di approfondimento delle problematiche del «verso libero» e del metro svolto in questi anni dalla nuova ontologia estetica abbia dato dei frutti, e i risultati sono qui, a portata di mano.
Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge(Progetto Cultura, 2016) pubblicato nella collana da me diretta:
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«L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».
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È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonologico, svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale. Inoltre, un aspetto importante di questo tipo di poesia è la presa d’atto del «raffreddamento» delle parole e del verso tonale della tradizione; voglio dire che gli aspetti legati alla accentuazione delle parole nella poesia gabrielana assumono sempre minore importanza, ne assume, per contro la funzione delle immagini, queste sì offrono spazio fonetico di rinforzo delle parole. Voglio dire che l’aspetto isometrico del verso gabrielano viene dato per scontato e messo agli atti. La sua poesia nasce da questa presa d’atto.
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Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura
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La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
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Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
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L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
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Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
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Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
grazie Giorgio di questo tuo commento critico, da me molto apprezzato. laddove parlando della poesia di Pavese, che a me è sempre piaciuta, per via di quell’occhio geoambientale, come le colline, le vigne delle Langhe, la luna e i falò, la strada per Gaminella ecc.e che trovo di riflesso nella mia poesia guardando il Molise, con la presa d’atto del”raffreddamento delle parole e del verso tonale della Tradizione; voglio dire che gli aspetti legati alla accentuazione nella poesia gabrielana assumono sempre minore importanza, ne assume per contro la funzione delle immagini queste si offrono spazio fonetico di rinforzo delle parole”.
Ti sembrerà una ipotesi azzardata, ma leggendo il primo racconto da La Spiaggia di Pavese, ho notato che il ritmo narrativo può essere riportato in distici come nella Noe. Ecco un esempio:
Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro
che sarei stato ospite suo.
A Doro volevo un gran bene e quando lui per sposarsi
andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia.
E così via dicendo. Sarà ll mio un problema di astigmatismo ma l’occhio mi porta in questa direzione. Ancora una volta grazie di questa tua sensibile interpretazione critica.
Anche io mi ero accorto, stamattina leggendo mentalmente la poesia di Pavese, che la poesia I mari del Sud può essere ritrascritta in distici, come avviene in alcuni casi di poesia NOE. Questo che vuol dire? Vuol dire molto semplicemente che Pavese non è riuscito a vedere (non per sua incapacità personale ma per ragioni storico-stilistiche) che la sua poesia avrebbe potuto anche essere organizzata in distici. Ma allora, a quel punto, Pavese si sarebbe accorto che l’organizzazione in distici richiede un’altra tecnica, anche dei salti, delle deviazioni, degli stop and go; insomma, si sarebbe accorto che avrebbe dovuto intervenire nella struttura sintattica, metrica e ritmica della sua poesia… insomma, avrebbe dovuto scrivere un’altra poesia… la poesia del futuro. Ma a questo lui non poteva arrivare.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/01/08/alejandra-alfaro-alfieri-quattro-poesie-da-poesie-ultime-osip-mandelstam-sullellenismo-sulla-differenza-tra-oggetti-e-cose-commenti/comment-page-1/#comment-52311
Due poesie di Edith Dzieduszycka ritrascritte in terzine:
La statua
Una statua
un’alta statua scagliata
di pietra sgretolata
venne scoperta
eretta sulla punta del molo
nell’alba d’un mattino
Arrivata in segreto
senza destar sospetto
Come? Perché?
Graffiata sbrecciata
faceva quasi pena
un uccello posato chi sa se cieco
Non guardava il mare
ma nemmeno avanti
verso le case mute sulla soglia del borgo
Nessuna luce
dentro il suo petto
a tramutarla in faro
Una statua sporca
una statua livida
Forse verrà coperta con un mantello nero
Arrivò tante gente a strisciarle intorno
ad accarezzarla
perfino a baciarla
Non era la Madonna
non piangeva nemmeno
il volto a malapena e nessuna corona
Disse qualcuno
“Proviamo a girarla
così che veda il mare”
Si misero in undici
una squadra di calcio
da quanto era pesante
Ma durante la notte
come se niente fosse
si era rivoltata
Per non vedere il mare
sporco
più di lei.
*
L’ombrello
Lascia il tempo che trova
– o forse no –
il camino che erutta sopra la giungla urbana
Crescono rigogliosi erba e mozziconi
in mezzo ai sampietrini luccicanti di pioggia
Una donna si è girata per cercare il cielo
Non l’ha trovato
All’ombra era nascosto dei palazzi per piangere
di tristezza o dispetto – non è dato sapere –
Da una sacca
di pura plastica
ha estratto la donna un ombrello lilla
pure di plastica
Ma rotte le sue stecche non si fece aprire
Si mise a piangere la donna pure lei
fradicia e struccata ché dietro l’angolo
nessun riparo si era fatto avanti
Era l’ora di punta e dell’appuntamento
con l’uomo della sua vita
quello per sempre
con la mano sul cuore
conosciuto in un bar tre quattro giorni fa
Ma lui – che c’era già –
vedendola trottare nella sua direzione
in quello stato brado
era scappato via
La donna girò l’angolo
ancora speranzosa
Invece dietro pronto a saltarle addosso
c’era il suo Destino ancora nebuloso
Smise di piovere
Non per questo si fece
il cielo ritrovare
Il Consiglio di Stato si occupava d’altro
grave il momento sgraditi i gradi –
Nella sua sacca
di pura plastica
la donna disperata ripose il suo ombrello
pure di plastica
e rimase lì ferma di fronte alla folla
Così non seppe mai quella donna piangente
ma fortunata
che l’uomo della sua vita
incontrato in un bar tre quattro giorni fa
altro non era che l’uomo ricercato
noto serial killer ancora a piede libero.