La torre del faro nella pianura di neve. «Il bacio è la tomba di Dio».
C’erano scritte queste insensate parole sopra l’ingresso della torre…
Ma forse non era quella la torre ma un’altra che si trova in Siberia, nei pressi del polo artico
dove sorge un’isba; nell’isba c’è Evgenia Arbugaeva sulla sedia a dondolo, osserva la distesa di neve.
Un pianoforte a coda nella neve suona Lux Aeterna di Ligeti. C’è scritto: «Hic incipit tragoedia» e, nello spartito,
le parole di Ubaldo de Robertis sull’universo ad anelli. [Nell’universo c’è un punto. Uno solo, così trascurabile…]
La musica incontraddittoria si solleva dalla neve eterna. Diventa luce. […] La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda. Nella picea onda del Canal Grande.
Ponte degli Scalzi. L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.
Uno spartito aperto sul leggio: La lontananza nostalgica. Il vento sfoglia le pagine dello spartito. […] Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio. Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.
[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro.] […] Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir. Ufficiali austriaci giocano a whist mentre il Signor K. asserisce:
«il tavolo cammina e non cammina perché la contraddittorietà non può violare il principio di non contraddizione.
Il PNC è auto contraddittorio, non potrebbe essere altrimenti; mi creda, Herr Cogito, anche i suoi pensieri,
picchi di luce eterna, sono auto contraddittori, collidono, a sua insaputa, con altri suoi pensieri antecedenti…». […] «L’universo è il cadavere di Dio e noi i suoi vermi. Anche le parole che ora diciamo, il vento nella sua rovina le porta via». […] Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto è ritratta la Peste.
La Signora Morte impugna una pertica che termina con una falce.
Ammassa i morti e taglia loro la testa. E ride.
Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo. E canta. […] Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle. Wagner e List giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande. Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’Amor profano». […] Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti nel salotto color fucsia.
I clienti della locanda del buio brindano alla felicità i calici di Murano scintillano. […] Dio bussa alla porta d’ingresso; dice: «posso aggiustare il rubinetto,
sistemare la lavastoviglie, riparare il frigorifero, darle l’indirizzo di una casa di appuntamenti,
ho anche dei numeri per il Lotto…». Incredibile, disse proprio così. […] Ed entrammo in una stanza bianca, un pianoforte nero al centro. Un bambino vestito di bianco suonava qualcosa
che i miei cinque sensi non percepivano. Una voce dal parlatorio diceva:
«Il re morto è un dio vivente, il dio morto è un re che vive, la tomba del re è la casa del dio
che si è dimenticato di essere un dio…».
Fu a quel punto che quelle parole inaccessibili risuonarono in me mentre calpestavo il pavimento di linoleum bianco… […] Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano. “Non c’è anima più viva”, pensai, ma scacciai subito
quel pensiero molesto. Una sirena cantava dalla spiaggia dei morti:
«Non c’è più lutto tra i morti». «Non c’è più lutto tra i morti».
*
[postilla dell’autore]
Paul Valéry scrive : «le gout est fait de mille dégoûts».
Definizione provocazione choc che ci introduce all’interno del concetto di «gusto», concetto che racchiude in sé la massima incontraddittorietà del contraddittorio, ovvero, il «gusto» è un atto incontraddittorio (Kant parlava del “giudizio estetico a priori”) proprio perché contiene in sé tutte le contraddittorietà possibili e pensabili. Io la metterei così: tutte le contraddittorietà possibili e pensabili formano la incontraddittorietà del giudizio di gusto, il quale è in sé una aporia, ma non per un errore del nostro intelletto quanto perché il suo interno è un «luogo» incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà.
In questa accezione, in questa mia poesia ho tentato la confluenza e convergenza della massima possibile estensione del contraddittorio che dà luogo alla incontraddittorietà complessiva. Non so se ci sono, almeno in parte, riuscito, ma il tentativo andava fatto e l’ho fatto nell’orizzonte di una «nuova poesia», la quale non può essere interpretata con le categorie con cui si è soliti interpretare la poesia del novecento italiano, essendo essa estranea a quelle categorie critiche.
La conclusione mi sembra chiara a questo punto: una poesia se è nuova richiede sempre la costruzione di nuove categorie ermeneutiche, altrimenti diventa incomprensibile. Anzi, la poesia tende a sottrarsi a qualsiasi atto di intellezione che pretenda di inoltrarsi al suo interno. In questo senso, ogni poesia, se è nuova, si presenta con le vesti dell’Enigma, non essendo essa pensabile con le categorie della vecchia metafisica.
Si tratta di un «polittico», parola che ritengo idonea, la poesia si compone di più poesie tenute insieme da un misterioso filo conduttore presente nella mia mente.
Ed ora un aneddoto: cinque anni fa fui trasferito in un ufficio nel circondario del carcere di Rebibbia di Roma. L’ufficio era situato molto lontano, all’interno del circondario del carcere e dovevo ogni giorno fare a piedi un lunghissimo percorso all’interno del comprensorio del carcere, tra il muro di cinta e l’inferriata che dà sulla strada pubblica. E così, ogni giorno camminavo avendo alla mia sinistra il lugubre muro di cinta grigio di calcestruzzo con le torrette di avvistamento, e a destra il prato che confinava con la lunghissima inferriata che perimetra il complesso carcere, il più grande complesso carcerario d’Italia perché comprende ben 4 carceri con 4 direzioni distinte. Camminare accanto a quel muro lunghissimo è stata una esperienza fondamentale, con il sole e con la pioggia, sentivo il freddo del grigio del muro di calcestruzzo, di là i dannati, i detenuti, di qua gli uomini liberi…
All’improvviso, un giorno mi viene in mente il verso di inizio della poesia «Il bacio è la tomba di Dio» che non capii da dove fosse uscito, ma lo capii in seguito: il verso era la risposta che la mia mente dava per documentare la condizione spirituale del lunghissimo muro di calcestruzzo alla mia sinistra. La risposta mi era stata data con il verso di inizio; poi tutto il seguito della poesia non è altro che una serie di cripto citazioni e di rimandi a versi di altri poeti che nei successivi cinque anni mi venivano in mente, in modo da costituire un vero e proprio polittico, con salti spazio temporali, interventi di personaggi veri e di fantasia. La poesia – posso dirlo – si è venuta costruendo da sola, senza l’intervento del mio «io», o meglio, io mi sono occupato soltanto della regia esterna, tutto ciò che c’è dentro alla composizione si è formato da solo. Penso che ad un certo punto la poesia abbia iniziato ad esercitare una forza di attrazione verso tutto ciò che essa riteneva di dover attrarre ed ingurgitare, e così spezzoni di citazioni, frasi e icone immaginarie sono state attratte dalla frase di inizio: «il bacio è la tomba di Dio» che, in sé non significa un bel nulla perché vuole significare qualcosa che sta oltre le possibilità espressive del linguaggio ma che è contenuto nel linguaggio.
In un certo senso, la poesia non sarebbe venuta fuori se non avessi accettato di far fare al mio «io» un passo indietro e di porre come orizzonte della significazione e del senso l’indicibile come compito precipuo della poesia. Soltanto qualche giorno fa il mio ultimo tocco è stato di suddividere la poesia in distici. E il lavoro lo considero ormai ultimato. Dunque, cinque anni di lavoro.
La morte è padrona assoluta della scena. Il bambino vestito di bianco – (bianco e nero non sono i colori che meglio si addicono alla morte, o a un nuovo inizio?) – suona qualcosa che i sensi non percepiscono in un primo momento. Il lungo momento della fine della religione positiva (fine delle immagini di Dio). Anche il mare non ha più anima (e lo sguardo meravigliato dell’uomo “eterno” potrà mai cambiare?). Quel bambino continua a suonare. E’ il canto delle sirene o il canto del bambino che ascoltiamo? Ci saranno i vivi alla fine del lutto?
Forse alcuni poeti scrivono un’unica grande poesia, capace di contenere in sintesi molto di una vita, di molte vite, di luoghi diversi e a più dimensioni.
Gli angeli comunicano l’estraneità dell’artista in ogni mondo. La distanza dell’arte dalla Storia. La sua necessità. Distante e necessaria. L’attrazione se ne sta lì.
Paul Valéry scrive : «le gout est fait de mille dégoûts».
Definizione provocazione choc che ci introduce all’interno del concetto di «gusto», concetto che racchiude in sé la massima incontraddittorietà del contraddittorio, ovvero, il «gusto» è un atto incontraddittorio (Kant parlava del “giudizio estetico a priori”) proprio perché contiene in sé tutte le contraddittorietà possibili e pensabili. Io la metterei così: tutte le contraddittorietà possibili e pensabili formano la incontraddittorietà del giudizio di gusto, il quale è in sé una aporia, ma non per un errore del nostro intelletto quanto perché il suo interno è un «luogo» incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà.
In questa accezione, in questa mia poesia ho tentato la confluenza e convergenza della massima possibile estensione del contraddittorio che dà luogo alla incontraddittorietà complessiva. Non so se ci sono, almeno in parte, riuscito, ma il tentativo andava fatto e l’ho fatto nell’orizzonte di una «nuova poesia», la quale non può essere interpretata con le categorie con cui si è soliti interpretare la poesia del novecento italiano, essendo essa estranea a quelle categorie critiche.
La conclusione mi sembra chiara a questo punto: una poesia se è nuova richiede sempre la costruzione di nuove categorie ermeneutiche, altrimenti diventa incomprensibile. Anzi, la poesia tende a sottrarsi a qualsiasi atto di intellezione che pretenda di inoltrarsi al suo interno. In questo senso, ogni poesia, se è nuova, si presenta con le vesti dell’Enigma, non essendo essa pensabile con le categorie della vecchia metafisica.
Siamo ancora alla caverna di Platone, siamo ancora davanti allo specchio e ci si domanda: qual è la più bella di tutto il reame? Fontana, tagliando la tela, dimostra che dietro la tela non c’è nulla. L’estetica, come branca filosofica della metafisica, più che la ricerca di ciò che piace, di ciò che è unico, di ciò che può far guadagnare, di ciò che ” somiglia al reale” o di ciò che assomiglia alla verità, deve parlare. Si sa, tuttavia, che quando manca chi ascolta, ma si è dinanzi a chi vuole imbrogliare o guadagnare, è inutile parlare.
“[…]l’idea che compito dell’arte è la trasmissione (Überlieferung) della tradizione mediante la negazione della stessa, il passato che non può essere riscattato può essere redento grazie all’atto della trasmissione in quanto passato non redento.
Il passato, ovvero, la memoria, che l’arte redime nell’apparenza, riconosce il suo esser passato perché l’arte lo invera mediante un atto di estraneazione radicale.
Di qui la melancholia dello sguardo dell’angelo dell’arte che osserva il cumulo di rovine del passato.”[…]
Mi pare che sia questo il passaggio più impegnativo e lacerante dell’ottima intervista che il nostro Giorgio fa ad Agamben. E chiedo lumi all’intervistatore che pone all’intervistato le domande intelligenti:
quando nella sua risposta Agamben introduce la ‘memoria’ in rapporto al passato non fa un balzo verso ciò che tu, Giorgio Linguaglossa, in un capitolo della Critica della Ragione Sufficiente hai proposto come ‘Quadridimensionalismo’? Vale a dire la ‘prospettiva dell’osservatore proustiano esterno al flusso spazio-tempo?”
penso che hai tirato in ballo un concetto lunare, del «quadridimensionalismo» in poesia in Italia non ne ha parlato nessuno, tranne Maurizio Ferraris con il suo recente libro titolato Emergenze (Einaudi, 2017), che abbiamo prontamente ripreso e segnalato su queste colonne. La poesia italiana continua a dormire i suoi sonni unidirezionali. Il «quadridimensionalismo» ha molti punti di contatto con la «memoria». Io che non sono un filosofo posso solo accennare al problema, sta ai filosofi illuminarci su questo punto.
Già nel 1913 quando gli acmeisti pubblicano i loro Manifesti, è chiaro che la memoria e il quadridimensionalismo entrano di prepotenza nella poesia europea, anche se lo stesso Mandel’stam, il più acuto teorico del movimento, non riesce a mettere del tutto a fuoco il problema, lui si ferma al «mondo tridimensionale», però, anche così getta le basi della successiva migliore poesia europea che si svilupperà nel novecento.
La frase di Lautreamont «les jugements sur la poésie ont plus de valeur que la poésie», segna la prima notizia della disfatta della «poesia» nel mondo del Moderno. Il poeta francese mette il dito sulla piaga, afferra con incredibile perentorietà in anticipo sul suo tempo che nelle condizioni del nuovo mondo capitalistico la «poesia» ha perduto «valore», al punto che i «giudizi sulla poesia» valgono di più della «poesia» stessa. È una constatazione spettrale. Sarà da qui che prenderanno le mosse le avanguardie artistiche del novecento, nel tentativo, disperato e impossibile, di ridare vigore al «valeur» della «poesia». Su questo piano inclinato gli artisti e i poeti del Moderno tenteranno tutte le carte pur di non arrendersi a quel terribile verdetto di Lautreamont.
La poesia modernista europea da Pessoa, Eliot e Mandel’štam fino ad Herbert e Petr Král ha tentato in tutti i modi di sottrarre la «poesia» al tragico statuto di insignificanza che sembra essere il destino dell’opera d’arte nei paesi dell’Occidente.
Il «resto» lo «fondano i poeti». Sta a noi fondare poeticamente ciò che «resta». In questa direzione di pensiero il campo da arare che ci attende è ben vasto… ciascuno può scegliere una direzione di ricerca, ma entro il comune orizzonte di una comune patria metafisica.
caro Giorgio,
dopo le tante dissertazioni critiche operate da te su questa Rivista, credo sia giunto il momento di redigere un MANIFESTO, in modo da percorrere una comune strada poetica, libera da equivoci direzionali, come mutamento linguistico e culturale, senza inondazioni e fragilità psicoestetiche, che rendono fuorviante il concetto di nuova ontologia.So che è un impegno difficile a realizzare. Tuttavia, ci sono le premesse per liberalizzare un discorso di disarticolizzazione sintattica, giudicato negativamente da Mengaldo, in merito alla Neoavanguardia,riferendosi in modo specifico, a tutte le forme espressive dei vari spezzoni semantici, visti come segnali di impossibilità storica nel significare e nel comunicare. Se tutto ciò può apparire agli occhi di critici e lettori, come una strada senza uscita, allora percorriamo pure questa via, iniziata pochi anni fa, senza la quale la poesia torna a naufragare nel mare della oggettività e dell’Egocentrismo.
dalla Sez. 1 de I platani sul Tevere diventano betulle é di prossima pubblicazione con le Edizioni Progetto Cultura, Roma*
Gino Rago
Quadridimensionalismo
La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.
Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?
Fanno riapparire il tempo nello spazio?
[…]
Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalle profondità delle quattro dimensioni.
Perché l’uomo è spaziotempo,
al profondo, nel lungo e nel largo
soltanto l’uomo lega ciò che è stato,
il tempo perduto, il tempo passato.
Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.
E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra.
Giorgio Linguaglossa mi (e ci) pone altre 3 domande.
1) quali sono le esperienze significative che la poesia deve prendere in considerazione?
2) la mancanza di un «luogo», di una polis, quali conseguenze hanno e avranno sull’avvenire e il presente della poesia?
3) è possibile la poesia in un mondo privo di metafisica?
Tre domande terribili, da far tremare i polsi.
Queste istanze nel loro enorme peso di etica e di estetica, di forma e di contenuto, di lingua e di stile, di metrica e di tono, di senso e di suono, interpellano le nostre coscienze e il nostro stesso modo di stare in poesia, di fare poesia in un rinnovato spirito del tempo.
Alle 3 domande provo a dare una risposta mettendo tra di loro in relazione di prosa poetica o di poesia in prosa due reziari-uomini-di-questo-tempo scagliati nell’arena-mondo-del-nostro-tempo con pochi arnesi-parole-senza-più-suono allo scopo di irretire il vuoto con il gesto-atto-poetico-di-questo-tempo, nella poesia 1, e il tentativo del superamento della ‘metafora tridimensionale’ spazio-tempo-passato verso il quadridimensionalismo spazio-tempo-percezione passato-memoria, secondo la prospettiva dell’osservatore proustiano…[dal dialogo Maurizio Ferrari-Giorgio Linguaglossa, in La Critica della Ragione Sufficiente, ( pagine 74/77)].
Dalla Sez 1 de I Platani sul Tevere Diventano Betulle [di prossima pubblicazione con le Edizioni Progetto Cultura, Roma*
Gino Rago
1) L’atto poetico nel vuoto
«Ci interessa la forma del limone
non il limone».*
*[Questo scrissero sul manifesto formalista quegli artisti
Nell’ammutinamento sui battelli del figurativismo
E del narrativismo.
Ma fu sera e mattina sulla Forma]
[…]
Un reziario nell’arena. Con un altro reziario un po’ più antico
Ma nella stessa arena. Verso chi tridenti e reti?
Chi o cosa vogliono irretire, senza corazza ed elmo?
Il Vuoto? Vogliono imprigionare il Vuoto
con un balzo estetico.
Perché la bellezza è nel vuoto?
[…]
I due reziari all’unisono: «Perché se sei nel vuoto,
se davvero ti senti nel vuoto, devi agire prima che il vuoto ti risucchi…
È il gesto che salva. È l’urto tra l’atto poetico e il vuoto
che genera lo spazio e il tempo,
perché il vuoto e il nulla non coincidono affatto.
La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
Perché il vuoto si può costruire, come al silenzio si può insegnare a parlare,
ma occorrono le parole-stringhe a cinque dimensioni».
II
Roma. Due reziari seduti a un tavolino.
Il bar di via Gaspare Gozzi [la linea B della Metro sferraglia]
A una parete gli occhi e le rughe di Samuel Beckett.
Il barista si avvicina con due tazze fumanti, sorride.
L’uomo somiglia a José Saramago, dice: «Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola
tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
– «Una parola davvero scomoda» -, pensa l’interlocutore non visibile
che siede qui accanto nel bar,
la verità fa rima con varietà, questo lo affermava il Signor K. nella omonima
poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…
«Ma voi non siete ciò che dite, siete dei truffatori, siete…
il credito che le vostre parole vi danno».
2) Gino Rago
Quadridimensionalismo
La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.
Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?
Fanno riapparire il tempo nello spazio?
[…]
Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalle profondità delle quattro dimensioni.
Perché l’uomo è spaziotempo,
al profondo, nel lungo e nel largo
soltanto l’uomo lega ciò che è stato,
il tempo perduto, il tempo passato.
Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.
E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra.
In queste poesie di Gino Rago, come in quelle di Mario Gabriele e, come in genere accade in varia misura nei poeti della nuova ontologia estetica, le poesie non hanno un oggetto specificato, un referente o un insieme di referenti circoscritti e riconoscibili, un significato, nulla di tutto ciò. Quello che noi chiamiamo il referente in questo tipo di poesia diventa il «dicibile» (il lékton degli stoici), ma ciò non comporta che tutto ciò che è dicibile abbia anche un significato. I due «reziari» che combattono nella arena non hanno un significato, sono dei «dicibili» che scavalcano qualsiasi significato. La poesia si preoccupa di «imprigionare il vuoto», di dare un significato al «vuoto», di renderlo in qualche modo manifesto, «dicibile»:
La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
La poesia di Rago è un mirabile esperimento di cattura di quello che il poeta chiama «vuoto che fluttua», poiché «La forma-poesia non è l’inizio/ ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua». Il «vuoto» per Rago è quella dimensione incorporea dove fluttuano le parole ancora non pronunciate, fonetizzate. Tutto il problema è il pronunciare quelle parole, ed ecco che le cose diventano dicibili. Il «vuoto» di Rago è quello spazio incorporeo nel quale fluttuano le parole incorporee perché ancora non-pronunciate, quello che la filosofia contemporanea denomina «la patria metafisica delle parole»; esse non sono né i nomi di cose, né i nomi di concetti, né i nomi di pensieri erranti. È la scoperta che le parole abitano la patria metafisica, e non dipendono per la loro esistenza né dai concetti né dalle cose. Il «senso» non è una cosa nascosta che si tratta semplicemente di scoprire, il «senso» è un analogon di un mito che noi possiamo interpretare in quanto fatto di linguaggio.
«Il bisogno di interpretare un linguaggio può sussistere unicamente per qualcuno che (per un istante o in permanenza) si colloca all’esterno di esso; e non può essere soddisfatto e scomparire solo quando ci si sente totalmente a proprio agio in quel linguaggio, quando ci si è appropriati di esso, in breve quando lo si parla. Una interpretazione è buona non quando non siamo in grado di interpretare ulteriormente ma quando non lo facciamo e non avvertiamo il bisogno di farlo. Se il senso è l’ultima interpretazione, quella che non si interpreta, è solo perché tale interpretazione ci soddisfa, perché abbiamo (la sensazione di aver) compreso. “Ciò che avviene” osserva Wittgenstein “non è che questo simbolo non può più essere interpretato, bensì: io non interpreto. Non interpreto perché mi sento a mio agio nell’immagine presente. Quando interpreto, avanzo sul cammino del pensiero innalzandomi da un gradino all’altro».1
Ad un certo punto Rago rimescola le carte, chiama in causa una mia poesia e un personaggio contenuto in alcune mie poesie, il Signor K., e lo fa interagire nella sua poesia:
«Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola
tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
– «Una parola davvero scomoda» -, pensa l’interlocutore non visibile
che siede qui accanto nel bar,
la verità fa rima con varietà, questo lo affermava il Signor K. nella omonima
poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…
Tutte le cose sono confuse, si mischiano, si dividono, si trasformano e diventano altro, il reale e l’immaginario sono posti sullo stesso piano scosceso che ci conduce verso il «nulla», «la stessa parola» è afflitta da «doppiezza», «la verità fa rima con varietà» e, come nella poesia del novecento, «una parola tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità». È questa, propriamente, la dimensione del lékton, del «dicibile» degli stoici, quella dimensione che non è composta da parole, o da pensieri, o da cose definite, palpabili… ma da qualcosa che sfugge e per le quali dobbiamo cercare le parole…
Facciamo un passo indietro. Agamben ci dice:
«Ammonio ci informa che gli stoici inserivano, secondo lui inutilmente, fra il concetto e la cosa un terzo, che chiamavano dicibile (lékton).
Il passo in questione proviene dal commento di Ammonio al De interpretazione. Qui Aristotele definiva il processo dell'”interpretazione” attraverso tre elementi: le parole (phoné), i concetti (più precisamente le affezioni dell’anima), di cui le parole sono segni, e le cose (tà pragmata), di cui i concetti sono le similitudini. Il “dicibile” stoico, suggerisce Ammonio, non soltanto non è qualcosa di linguistico, ma non è nemmeno un concetto e neppure una cosa. Esso non ha luogo nella mente né semplicemente nella realtà, non appartiene né alla logica né alla fisica, ma sta in qualche modo fra di essi. È di questa situazione particolare fra la mente e le cose che si tratterà di tracciare una cartografia. È possibile, infatti, che questa situazione fra la mente e le cose sia propriamente lo spazio dell’essere, che il dicibile coincida, cioè, con l’ontologico.
[…]
Il significante (la parola significante) e l’oggetto (la cosa che vi corrisponde nella realtà, nei termini moderni il denotato) sono evidenti. Più problematico è lo statuto del semainomenon incorporeo, che gli studiosi moderni hanno identificato col concetto presente nella mente di un soggetto (simile al noema aristotelico secondo Ammonio) o col contenuto oggettivo di un pensiero, che esiste indipendentemente dall’attività mentale di un soggetto (come il “pensiero” – Gedanke – in Frege). 2]
1] J. Bouveresse in L. Wittgenstein, Nachlass Verwalter (1967) Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Adelphi, 1975 p. 73
2]G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 pp. 63-64
Credo che le domande che l’intervistatore pone all’intervistato nel corso della conversazione Agamben-Linguaglossa siano pertinenti se non derivanti da quest’altro colloquio a distanza di cui propongo uno stralcio nel tentativo di arricchire il dibattito intorno a questa pagina importantissima de L’Ombra:
M. Ferraris:
«[…] Nella prospettiva proustiana, la domanda ontologica “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori
interni allo spaziotempo?” ha una risposta tridimensionalista soltanto se ci si limita ad osservare con la percezione; la risposta risulta invece quadridimensionalista se si osserva anche con la memoria. Ecco perché Proust sostiene che la vera vita sia la letteratura: perché è la vita registrata, fissata in un documento e resa quadridimensionale…[…] A ben vedere, però, la quadridimensionalità fa parte di individui comuni che rientrano nella nostra esperienza più ordinaria…».
Giorgio Linguaglossa:
«Per rispondere a Maurizio Ferraris, il problema che si pone a noi oggi, a distanza di cento anni da ‘ La Recherche ‘ è questo: ma noi sappiamo che esso [il segno] esiste come «traccia» di un qualcosa che non le preesiste, di un passato che non è mai stato presente e che non può essere rievocato. Vale a dire che non possiamo ripetere l’operazione di Proust, la quadridimensionalità si deve vestire di nuovi modi di rappresentazione […]».
da Critica della Ragione Sufficiente, «Sul quadridimensionalismo» (Pagine 74/75)
Il bacio è la tomba di Dio
Cinque anni sono trascorsi dalla pubblicazione di Blumenbilder. Allora era una Natura morta con fiori, oggi una “torre del faro nella pianura di neve”. Il sentimento, tomaia del ciabattino, come Giorgio ama definirsi, è lo stesso. Si tratta chiaramente di sentimento sublimato, portato ai limiti del dicibile grazie a una tensione estetica costante, segnatamente post moderna ma proiettata nel nuovo, che va oltre il moderno. Strano disperante connubio tra futuro e decadenza. Venezia, appunto, in poesia sapienziale, dove abbondano citazioni colte e raffinate (La gondola a lutto), d’avanguardia ma demodé – termini che Giorgio ha sempre evitato, come “poetica”, perché non vi è nulla di definitivo e il percorso è in fieri.
Piuttosto vorrei dire del tono esplicativo, le descrizioni rapide ma rese esaustive (es. sopra l’ingresso della torre…/ il pavimento di linoleum bianco…) e della difficile conversione del linguaggio verso l’evocativo – ho letto che per Heidegger, l’Essere può manifestarsi nella parola evocativa. Giorgio Linguaglossa riesce nell’intento grazie all’alambicco della frammentazione – tipiche le sue sequenze solo nominali, fredde ma disorientanti es. “Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio. /Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.” ma in tono colloquiale aggiunge “Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare/il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro”. Chiusa la parentesi.
Straordinariamente chiara e illuminante la risposta di Agamben alla domanda di Linguaglossa: “per costruire un’arte diversa dovremmo uscire dalla metafisica?”
“Il complesso significante-significato fa, infatti, così indissolubilmente parte del patrimonio del nostro linguaggio, pensato metafisicamente come suono significante, che ogni tentativo di superarlo senza muoversi, nello stesso tempo, fuori dei confini della metafisica, è condannato a ricadere al di qua del suo obiettivo. La letteratura moderna offre fin troppi esempi di questo destino paradossale cui va incontro il Terrore”.
Un tentativo di interpretazione di Il bacio è la tomba di Dio
Come ha lavorato Giorgio Linguaglossa per costruire questa architettura che non esito a definire di frontiera e a frammenti?
Di frontiera poiché ricorda un po’ l’acqua dolce quando sta per entrare nel mare e non è più dolce ma non è ancora salata,
di frontiera perché i versi giocano tra un ‘non più’ e un ‘non ancora’,
“[…]Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
“Non c’è anima più viva[…]
A frammenti poiché ormai è stato acquisito lo stato di consapevolezza che
il mondo contemporaneo è fatto di frammenti, come di frammenti si compongono le storie di frontiera. E anche i nostri sguardi si compongono di frammenti.
E che dire dei nostri incontri, incontri umani, se non che quasi sempre sono una successione di frammenti.
Ma poi nel corso della composizione poetica nel frammentismo serpeggia l’atto estetico del poeta e ricostruisce l’unità del tessuto poetico, ma non facendolo calare dall’alto come una entità astratta:
sono le parole stesse dell’autore che si organizzano a struttura unita, è l’idea di poeta-artifex.
Ne derivano andamenti plurali, ibridi, stratificati, tenuti coesi attraverso il parlato, attraverso i colloqui o i dialoghi diffusi nei versi.
Trovo efficace questo modo linguaglossiano di procedere, anzi mi spingerei a dire che forse questa è l’unica maniera di procedere per fronteggiare il vivere nel mondo e il suo giocare con gli specchi.
Il gesto estetico del poeta determina l’architettura unitaria della poesia raccattando i materiali sparpagliati nella mente del poeta, materiali di luoghi, di tempi, di storie, di avvenimenti, di eventi stampati come percezione del passato in un presente che Giorgio Linguaglossa assume come Memoria e così la poesia si fa ‘mito’ e vince l’oblio della memoria.
Ma bisogna per me introdurre anche una terza chiave di lettura per una interpretazione organica di Il bacio di Dio: il panorama della postmodernità, rivisitato nel campo espressivo integrale:
“[…] Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.
Wagner e List giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande.
Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’Amor profano»
[…. ]”
In tale panorama, il postmoderno, la dimensione culturale che continua a caratterizzare la nostra stagione di vita, si delineano scenari in grado di rompere con i tradizionali modelli ai quali la modernità ci aveva abituati, di riscrivere le coordinate spazio-temporali, di imporre pensieri liquidi e combinazioni tra mondi reali e mondi fittizi, moltiplicando le identità in nuove forme di conversazioni, anche attraverso la pervasività del digitale, ecc.,
Da qui le ri-scritture adottate da Giorgio Linguaglossa nella sua poesia per collage, ibridazioni, citazioni, mescolamenti di spazi e di tempi, di personaggi veri e finti, di luoghi reali e non-luoghi, di storia dell’arte e musica, e altro…
(ho scritto direttamente ed estemporaneamente, chiedo comprensione per eventuali errori)
caro Gino,
grazie per questo tuo commento che illumina sui segreti della costruzione di questo «polittico». «Polittico» è la parola giusta, la poesia si compone di più poesie tenute insieme da un misterioso filo conduttore presente nella mia mente.
Ed ora un aneddoto:
cinque anni fa fui trasferito in un ufficio nel circondario del carcere di Rebibbia di Roma. L’ufficio era situato molto lontano, all’interno del circondario del carcere e dovevo ogni giorno fare a piedi un lunghissimo percorso all’interno del comprensorio del carcere, tra il muro di cinta e l’inferriata che dà sulla strada pubblica. E così, ogni giorno camminavo avendo alla mia sinistra il lugubre muro di cinta grigio di calcestruzzo con le torrette di avvistamento, e a destra il prato che confinava con la lunghissima inferriata che perimetra il complesso carcere, il più grande complesso carcerario d’Italia perché comprende ben 4 carceri con 4 direzioni distinte. Camminare accanto a quel muro lunghissimo è stata una esperienza fondamentale, con il sole e con la pioggia, sentivo il freddo del grigio del muro di calcestruzzo, di là i dannati, i detenuti, di qua gli uomini liberi…
All’improvviso, un giorno mi viene in mente il verso di inizio della poesia «Il bacio è la tomba di Dio» che non capii da dove fosse uscito, ma lo capii in seguito: il verso era la risposta che la mia mente dava per documentare la condizione spirituale del lunghissimo muro di calcestruzzo alla mia sinistra. La risposta mi era stata data con il verso di inizio; poi tutto il seguito della poesia non è altro che una serie di cripto citazioni e di rimandi a versi di altri poeti che nei successivi cinque anni mi venivano in mente, in modo da costituire un vero e proprio polittico, con salti spazio temporali, interventi di personaggi veri e di fantasia. La poesia – posso dirlo – si è venuta costruendo da sola, senza l’intervento del mio «io», o meglio, io mi sono occupato soltanto della regia esterna, tutto ciò che c’è dentro alla composizione si è formato da solo. Penso che ad un certo punto la poesia abbia iniziato ad esercitare una forza di attrazione verso tutto ciò che essa riteneva di dover attrarre ed ingurgitare, e così spezzoni di citazioni, frasi e icone immaginarie sono state attratte dalla frase di inizio: «il bacio è la tomba di Dio» che, in sé non significa un bel nulla perché vuole significare qualcosa che sta oltre le possibilità espressive del linguaggio ma che è contenuto nel linguaggio.
In un certo senso, la poesia non sarebbe venuta fuori se non avessi accettato di far fare al mio «io» un passo indietro e di porre come orizzonte della significazione e del senso l’indicibile come compito precipuo della poesia.
Soltanto qualche giorno fa il mio ultimo tocco è stato di suddividere la poesia in distici. E il lavoro lo considero ormai ultimato. Dunque, cinque anni di lavoro.
Perchè tutta l’arte contemporanea è impregnata da una ineludibile, terribile e affascinante tensione dissacratoria e autodistruttiva, da una disperata necessità di mettere a morte qualcosa che non vuole e non può finire, di violare un confine irraggiungibile, accedere all’inconoscibile, a un un “altro pensiero”, completamente diverso dal consueto, dove incontrare il “dio che solo ci può salvare” (Heidegger), perchè “l’arte vale più della verità”
( Nietzsche) ?
Perchè…il bambino si guarda attorno, nella sala deserta, chiama qualcuno che non risponde.
Poi…il profumo del sogno, le porte si spalancano, entra un cielo ferito, creature di sonno uccidono il tempo, l’amore è un uragano di specchi, Dio un sospiro, la notte grida e raccoglie i suoi incesti, la macchina nasconde le forme dell’inizio.
Il dolore segna il confine, il pensiero è un sogno crocifisso.
Il pianto del bambino, la musica violata, l’angelo che si svena, il precipizio che sorride e accarezza…
cari amici,
il post di oggi è moto importante perché ci aiuta, ci dà delle indicazioni per andare avanti. Purtroppo mi sono preso un virus intestinale e oggi sono proprio senza forze. Spero domani di essere in grado di dire qualcosa.
Riguardo alla idea del Manifesto rilanciata da Mario Gabriele, vorrei sapere cosa ne pensate Voi lettori dell’Ombra…
Caro Giorgio, la prima cura contro qualunque disturbo intestinale è il caldo; provvedi a indossare biancheria di lana,pantaloni pesanti, e praticare una dieta equilibrata, di tipo mediterraneo,E,innanzitutto, non stare a lavorare anche di notte,incurante di qualunque disagio,Io non sto al meglio,ma la mia condizione rientra pienamente nella mia realtà di ansia esasperata,che pretendo di gestire da sola, con esiti sempre più modesti,nonchè nell’età,nella malattia, nei dispiaceri passati e presenti.Tu hai ancora anni da poter sperdere nella vita attiva e nel lavoro,hai il dovere di stare bene, anche per gli altri.Buon Natale,col vento del mare, Anna
Ritorno al post in vetrina, che credo sia importantissimo, perché solleva un’altra questione cruciale, anche se non viene espressamente nominata, il problema dell’indicibile nel linguaggio e, quindi, nella poesia. Il problema non è affatto di poco conto, ma è centrale. Per esempio, in una poesia di buona fattura come quella postata tre giorni addietro, di Lorenzo Mullon, noi troviamo piacere a scoprire che il «detto», la «onoma» corrisponde perfettamente alla «res». Le poesie di Mullon sono piacevoli perché sono interamente significate, si fermano al «detto» delle «cose». La poesia di Mullon (lo prendo in esame perché è l’esempio perfetto di quanto voglio dire) si ferma al «dicibile». Tutto ciò che viene detto risulta completamente comprensibile.
Se prendiamo, ad esempio, la mia poesia compresa nel post attuale, ci troviamo davanti al tentativo di forzare al massimo grado le porte del «dicibile» per sondare la dimensione dell’«indicibile». Se avete la bontà e la pazienza di rileggere la poesia, già dalle prime righe siamo proiettati in una situazione ultronea: una «Torre» immersa nella neve (l’immagine mi è stata suggerita dalla fotografia di Evgenia Arbugaeva) con una scrittura sopra la porta d’ingresso, misteriosa e terrifica. I continui salti spazio-temporali, l’apparizione in presenza di personaggi storici (Wagner, List) o inventati, le voci esterne e le voci interne che confliggono, insomma tutta l’architettura complessiva del testo, tutte queste cose ci dicono che siamo in presenza di una situazione «indicibile» che richiede un modo di dire dell’«indicibile».
Voglio dire che una tale «questità di cose» come quella esposta nella mia poesia non sarebbe stato possibile nominarla mediante il linguaggio referenziale di Mullon, occorreva un altro concetto ed impiego del linguaggio poetico, occorreva pensare il linguaggio poetico come portatore di una entità di significazione «indicibile», appunto l’«ombra». E se riflettiamo un momento sull’«indicibile» sul quale viene costruita tutta la poesia (e in particolare la poesia della nuova ontologia estetica), ci rendiamo conto che è proprio la necessità di indicare-accennare-alludere all’«indicibile» (cioè all’ombra del linguaggio) a rendere necessario un diverso modo di intendere ed impiegare il linguaggio poetico.
Finirei col dire, parafrasando Agamben, che «non il dicibile ma l’indicibile costituisce il problema con cui la poesia deve ogni volta tornare a misurarsi».
Lascio la parola a Giorgio Agamben:
«Non l’indicibile, ma il dicibile costituisce il problema con cui la filosofia deve ogni volta tornare a misurarsi. L’indicibile non è infatti che una presupposizione del linguaggio. Non appena vi è linguaggio, la cosa nominata viene presupposta come il non-linguistico o l’irrelato con cui il linguaggio ha stabilito la sua relazione. Questo potere presupponente è così forte, che noi immaginiamo il non linguistico come qualcosa di indicibile e di irrelato che cerchiamo in qualche modo di afferrare come tale, senza accorgerci che in questo modo non facciamo altro che tentare di afferrare l’ombra del linguaggio. L’indicibile è, in questo senso, una categoria genuinamente linguistica, che solo un essere parlante può concepire. Per questo Benjamin, nella lettera a Buber del luglio 1916, poteva dire di una “cristallina eliminazione dell’indicibile nel linguaggio”: l’indicibile non ha luogo fuori dal linguaggio come un oscuro presupposto, ma, in quanto tale, può essere eliminato soltanto nel linguaggio.
Cercheremo di dimostrare che, al contrario, il dicibile è una categoria non linguistica, ma genuinamente ontologica. L’eliminazione dell’indicibile nel linguaggio coincide con l’esposizione del dicibile come compito filosofico. Per questo il dicibile non può mai darsi, come l’indicibile, prima o dopo il linguaggio: scaturisce insieme ad esso e resta, tuttavia, irriducibile ad esso»1]
1] G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 pp. 59-60
Caro Giorgio, tu ti sei preso un virus intestinale… e noi cosa dobbiamo dire fra le tue domande e le risposte di Agamben? Tra le considerazioni di Tosi e di Gino Rago? Le sollecitazioni di Mario Gabriele, Claudio Villa e Salvatore Martino? E soprattutto dopo aver meditato su “Il bacio è la tomba di Dio”? Forse anch’io devo seguire i consigli di Anna Ventura: indossare biancheria di lana, pantaloni pesanti e praticare una dieta… leggervi mi tramortisce, mi disorienta, mi provoca disagio e spaesamento… Nell’augurare a tutti felicissime feste, attendo il colpo di pistola, quello definitivo, di Pierno che non tarderà ad arrivare…
Cos’è la coscienza?
Questo è il problema difficile. amico mio, l’hard problem.
I filosofi, i neurofilosofi e i neuroscienziati
hanno molto da dire sul problema difficile,
ovviamente in contrasto tra loro.
Molti sostengono che la coscienza
risiede soltanto nel cervello,
per altri è necessario l’intervento dell’intero corpo
e delle sue relazioni esterne.
Per alcuni, addirittura , la coscienza di un oggetto
non risiede nel corpo del soggetto
ma nell’oggetto stesso.
Mi limiterò a parlarti delle due teorie più in voga.
La prima, l’area di lavoro globale,
sostiene che quando le informazioni,
ancora dissociate nei vari canali cognitivi,
vengono trasmesse all’intero cervello,
generano l’attenzione su un pattern
che porta alla coscienza.
La seconda, la teoria dell’informazione integrata,
parte dai requisiti che l’esperienza personale
deve avere per rendere possibile la coscienza.
Afferma che l’esperienza esiste solo per chi la esperisce,
è definita in termini di contenuti,
è strutturata, informativa, olistica.
L’area di lavoro globale predice
che l’intelligenza artificiale avrà in futuro una coscienza,
mentre lo nega la teoria dell’informazione integrata.
Molti, che ritengono intelligenza e coscienza
non connesse, ma dissociate,
preferiscono la seconda.
In ogni caso nell’una e nell’altra teoria c’è
– a mio avviso –
uno iato epistemologico fra esperienza sensoriale
e manifestazione della coscienza,
che non risolve il problema difficile dei filosofi.
La dolce uscita di Hawking
Pare che il multiverso inflattivo
non sia più un frattale infinito
– ci dice il testamento di Hawking
A Smooth Exit from Eternal Inflation –
ma un numero limitato
una gamma minore di universi possibili.
Quando l’evoluzione all’indietro
arriva al limite del tempo di inflazione
il tempo non ha più significato
l’universo che emerge sul confine passato
è su larga scala liscio finito
più semplice
dell’omotetia interna di un frattale.
In più – ci dice Hawking –
sarebbe possibile in futuro
rilevare sperimentalmente
l’esistenza di altri universi
da una misurazione più accurata
della radiazione cosmica di fondo.
Confesso
– se ho ben capito la nuova teoria –
che preferisco il multiverso infinito.
Renderebbe più consistente la risposta
alla domanda del perché esistiamo:
semplicemente perché ci sono infinite
possibilità di esistere.
Il Vuoto e il Nulla
Se sei incerto
sul Vuoto e sul Nulla
posso – per quanto posso – aiutarti un po’.
Non ho dubbi
che la teoria quantistica ci insegni
( vedi un diagramma di Feynman del vuoto )
che il Vuoto non esiste
che l’intero spazio fisico è riempito
di particelle virtuali
che si creano
e simultaneamente si distruggono
che sottostanno al principio di indeterminazione
tempo-energia
e in qualche modo conservano
energia carica e quantità di moto.
Va bene. Ma il Nulla?
Questo è filosofico.
Potresti considerare il Nulla come una infinita tela di frammenti
che creano la vita
e la distruggono,
particelle virtuali che prendono in prestito
con possibilità infinite
l`energia per esistere
da una fluttuazione temporanea del nulla.
E così il nichilismo
che oggi impera
potrebbe disporre – potente ontologia –
di un campo immenso
di potenzialità.
IL BACIO E’ LA TOMBA DI DIO.
C’è un tramestio di Vita e Morte. Gli Spiriti bussano alla porta di Carl Gustav Jung. Septem sermones ad mortuos. Si affollano e muovono a sorte le proprie esistenze. Il Tempo non esiste, spazio vuoto al calcolo bergsoniano. La madeleine di Proust rinnova il suo gesto in eterno e tramortisce nella successione dell’istante.
Una sedia dondola, vuota,cedendo posto al Poeta. Disperso. Abitatore del Nulla, ovvero di ogni Spazio. L’Invisibile trascende se stesso e anima un Manifesto saturo di segni. Criptico assenso al dialogo sopra i massimi sistemi. L’osservatore che cammina o staziona in un spazio deve osservare dall’istante a ciò che è. Il reame della scienza contraddetta. Lo spaesamento del sillabario a scena inversa.
Giorgio e il suo D_o morto in in bacio. Impronunciabile. Poiché la Torre è nel lungo gesto, diluito, verso l’Assoluto. Nel gelido inverno delle coscienze rallentate a morte. A vita.
il mio antico e non vecchio ancora amico Antonio Sagredo non ama affatto gli angeli e tutte le storielle (dice lui) che hanno inventato intorno.
Un giorno di fine ottobre 1989 mi disse, quando ebbe terminato la stesure delle sue dieci “legioni”, che se fosse stato in grado di realizzare un qualcosa che avesse riguardato gli angeli, avrebbe realizzato un lager dove scannarli. Io gli risposi che era esageratamente spietato e crudele e gli ricordai il bene che questi esseri o creature hanno realizzato nella loro storia,
prescindendo dalla storia umana. Sagredo mi rispose con una risata sardonica e demenziale quasi da carnefice della Inquisizione spagnola…
insomma mi rispose soltanto con quella rista infernale, che ancora riccordo e che mi ha lasciato un brivido che persiste nel mio subinconscio.
Nonostante tutto decisi di restare suo amico, perché di questo poeta ne riconobbi tra i primi il valore.
Comunque BUONE FESTIVITA’
Giovanni Ragno
Se Linguaglossa dovesse ritenere che siano troppi i versi…. può tagliare quelli che desidera. Grazie.
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L’amico Ragno mi costringe a rispondere, e gli rispondo a mio modo con alcuni miei versi (pochi) e tra quelli più leggeri:
(i termini angelo/angeli ricorrono ben 78 volte – ho scelto al plurale)
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Forse che l’Appeso
esclude dal patibolo le proprie parole
o il boia s’infervora se la corda
è tenace e non vuole più impiccare?
So che gli angeli non amano gli Ordini
se non hanno per coda un concetto divino,
ma stragi, tormenti e scale
per uncinare legioni di battiti d’ali.
Sono quelli ovipari dalla spada onnisciente!
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… e allora io vidi le pietre giacere con gli stermini
e generare stelle e croci sulla Via dei Macelli,
il sangue in esili rivoli di fumo giocare agli epitaffi,
smaniose le sfere celesti… Dio e gli Angeli… disarmati!
I beffardi sorrisi delle marionette… consacrati…
(presi per mano quel buon diavolo
di Dio, lo accompagnai per portarlo
sulla buona strada: poverino, come un orfano
s’era smarrito da quando gli angeli
non lo avevano più riconosciuto).
Hanno venduto l’argento degli specchi sotto il Tempio!
Hanno pianto il tradimento ai quattro angoli – gli Angeli!
Hanno lacerato i nastri funebri come Furie, hanno pestato i fiori,
hanno implorato Iddio di lasciarLo in pace, di non torturarlo più!
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Mi circondano le tue labbra:
questi quattro candelabri accesi!
questi quattro angeli in calore – spadaccini!
queste farfalle gladiatrici!
spugne rossastre!
ventose che succhiano il mio pilastro,
e il mio capezzale!
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perché – spiegava – nel circo tutto è possibile,
anche l’esistenza degli dei, delle religioni come surrogati,
dei santi… dei martiri, e angeli a ufo di tutte le taglie,
e ancora sacerdoti: comparse-canaglie che mai svaniscono!
– perfino la dignità libertina degli eretici, dal cilindro!
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E mi circondano angeli cretini che ai tarocchi si giocano un capezzale
di sconfitte e di vittorie… candelabri, croci e mezzelune!
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Ah, i tempi pagani…
quando su ogni gradino c’era un sogno ad aspettarti,
quando nelle fucine il tabernacolo era sugli altari
e il volo degli ossessi… erano bianchi di sangue!
Demoni e angeli hanno generato un serpente sulla croce
e il vessillo lupesco delle notti,
perché le danze di Golgotha e Valpurga
generassero il canto del falco
che sanguina, sanguina…
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Questo secolo, ricordatevi, avrà il suo benestare dall’oblio
e io non devo brindare ai suoi trionfi, né alle sue esequie,
ché dietro il carro non vi sono angeli, né ceri in pianto,
ma un bimbo senz’arti dietro si trascina sul selciato.
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– mi sono ricordato l’infanzia delle vigilie eretiche…
bestemmie contro gli angeli e tutti gli dei in ogni tempo,
i pugni dei miei occhi contro tutti gli altari e i cristi crocefissi,
le omelie blasfeme da pulpiti e patiboli come frustate inquisitorie
perché interdetto è il condannare per chi il diniego e la smorfia
—————
E il lutto non s’addice più alle nostalgie dei nastri funebri, a quegli angeli
che sui feretri sono marionette…
——-
Non chiederò agli angeli scannati la farsa delle resurrezioni! Perché dai trionfi delle catastrofi accetterò soltanto gli stermini recidivi… e la mia fine!
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Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza
e sui moli sorridere ai suoni e ai rintocchi della Cenere, proprio noi gli assassinati
da Dio, dobbiamo scannare gli angeli per definizione come in un alogico assioma
interdetto alla finzione!
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E come in un mio verso antico mi riflettevo su Narciso
Che gli angeli scannava come agnelli,
Che spegneva i candelabri simili a patiboli
E oscillavano fiammelle orripilanti…
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E nelle mie Legioni cantai gli scannamenti degli angeli ossessi
Che alle ali negarono il volo come all’attore l’unico sospeso
Gesto…
———————————-
È ingiusto pensare che la poesia è soggetta agli angeli,
umilmente si crede che siano dei demoni.
L’umiltà dei poeti si genera in luoghi conosciuti,
la loro superbia è possanza della consapevolezza.
Quale creatura irrazionale desidera il potere degli angeli
che una sola lingua ciarlano in una casa non loro.
E che felici e gioiosi donano labbra e dita
per non mutare a loro vantaggio la sua destinazione?
(Dal signor Gallo che scrive :
“…attendo il colpo di pistola” e che senza saperlo fa il verso ad alcuni poeti russi (vedi più sotto) e in più è molto pericoloso avere tali presagi (non è questo il caso) e che è prerogativa dei poeti russi (sono in maggioranza)
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Quanto al “Bacio che è la tomba di Dio” (?! )….
una similare espressione troviamo in il poema “Il Demone” di Lermontov,
dove non è “di Dio”, ma è “divina”.
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Ai miei amici poeti
Chi è morto tragicamente, è un vero poeta,
E se al momento giusto, lo è del tutto.
Al numero 26 uno di loro andò dritto verso una pallottola,
Un altro infilò la testa nel cappio all’“Angleterre”. (1)
A 33 anni Cristo… (era un poeta, diceva:
“Su, non uccidere! Se ucciderai, io ti troverò dappertutto”).
Ma gli misero i chiodi alle mani, perché non combinasse qualcosa,
Perché non scrivesse e perché pensasse meno.
A me, a 37 anni, − ora come ora mi sta passando la sbornia.
Ed ecco rabbrividisco:
A questo numero, Puškin arrivò giusto in tempo per il suo duello
E Majakovskij incollò la tempia alla bocca della pistola. (2)
Fermiamoci al numero 37! Dio è perfido,
Pose la questione come aut-aut.
Byron e Rimbaud sono caduti a questa soglia,
Ma i nostri contemporanei l’hanno oltrepassata.
Il duello non ha avuto luogo o forse è stato rinviato,
A 33 anni c’è stata crocefissione ma non grave.
E a 33 anni non c’è stato sangue, ma che sangue?! E i capelli bianchi
Non hanno macchiato troppo le tempie.
E tirarsi un colpo? Da un pezzo il cuore è saltato in gola.
Pazienza, psicopatici e isterici!
I poeti camminano sul filo del rasoio
E si tagliano a sangue le loro anime scalze.
Il poeta ha un collo troppo lungo.
Accorciare il poeta! La conclusione è chiara, −
Ha un coltello conficcato! Ma lui è felice di pendere sgozzato
Dalla lama, per essere stato pericoloso!
Vi compatisco fanatici delle date e dei numeri fatali!
Languite come concubine nell’harem!
La durata della vita è aumentata, e forse anche la fine
Dei poeti si è spostata di un po’!
1971
Vladimir Semënovič Vysockij
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(l) Il riferimento è al poeta Lermontov, morto nel 1841 in seguito ad un duello, all’età di 26 anni.
Esenin si impiccò nell’hotel “Angleterre” nella notte tra il 26 e il 27 dicembre 1925.
(2) Puškin fu ferito a morte in un duello nel 1837.
Majakovskij si suicidò con un colpo di pistola nel 1930 all’età di 37 anni.
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a.s.
Puskin fu ucciso in un duello archietettato dallo ZAR
Lermontov… idem
Esenin, si impicco? Ridicolo! Fu impiccato!
Majakovskij, si sparò? Ridicolo: o fu costretto ad uccidersi o fu ucciso!
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in comune questi 4 poeti avevano possedevano il presagio di “dover” morire di morte violenta e per giunta non desiderata
Risposta:
L’inno alle Muse, che fa da proemio alla Teogonia di Esiodo, mostra che i poeti sono per tempo consapevoli del problema che pone l’inizio del canto in un contesto musaico. La doppia struttura del proemio, che ripete due volte l’esordio (v.1: «Dalle Muse eliconie cominciamo»; e v. 36: «Dalle Muse cominciamo») non è dovuta soltanto alla necessità di introdurre l’inedito episodio dell’incontro del poeta con le Muse in una struttura innica tradizionale in cui esso non era assolutamente previsto. Vi è, per questa inaspettata ripetizione, un’altra e più significativa ragione, che concerne la stessa presa di parola da parte del poeta, o, più precisamente, la posizione dell’istanza enunciativa in un ambito in cui non è chiaro se essa spetti al poeta o alle Muse. Decisivi sono i vv. 22-25, in cui, come non hanno mancato di notare gli studiosi, il discorso trapassa bruscamente da una narrazione alla terza persona in un’istanza enunciativa contenente lo shifter «io»:
Esse (le Muse) una volta insegnarono a Esiodo un bel canto
mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicona:
questo discorso innanzitutto a me rivolsero le dee…
Si tratta, secondo ogni evidenza, di inserire l’io del poeta come soggetto dell’enunciazione in un contesto in cui l’inizio del canto appartiene incontestabilmente alle Muse, ed è, tuttavia, proferito dal poeta: «cominciamo dalle Muse» – o, meglio, se si tiene conto della forma media e non attiva del verbo: «Dalle Muse è l’inizio, dalle Muse iniziamo e siamo iniziati»; le Muse, infatti, dicono con voce concorde «ciò che è stato, ciò che sarà e ciò che fu» e il canto «scorre soave e instancabile dalle bocche» (vv. 38-40).
Il contrasto fra l’origine musaica della parola e l’istanza soggettiva dell’enunciazione è tanto più forte, in quanto tutto il resto dell’inno (e dell’intero poema…) riferisce in forma narrativa la nascita delle Muse da Mnemosine, che si unisce per nove notti a Zeus …
L’origine della parola è musaicamente – cioè musicalmente – determinata e il soggetto parlante – il poeta – deve ogni volta fare i conti con la problematicità del proprio inizio. Anche se la Musa ha perduto il significato cultuale che aveva nel mondo antico, il rango della poesia dipende ancora oggi dal modo in cui il poeta riesce a dare forma musicale alla difficoltà della sua presa di parola – da come, cioè, perviene a far propria una parola che non gli appartiene e alla quale si limita a prestare la voce.
La Musa canta, dà all’uomo il canto perché essa simboleggia l’impossibilità per l’essere parlante di appropriarsi integralmente del linguaggio di cui ha fatto la sua dimora vitale. Questa estraneità marca la distanza che separa il canto umano da quello degli altri esseri viventi. Vi è musica, l’uomo non si limita a parlare e sente, invece, il bisogno di cantare perché il linguaggio non è la sua voce, perché egli dimora nel linguaggio senza poterne fare la sua voce. Cantando, l’uomo celebra e commemora la voce che non ha più.
Per questo alla musica corrispondono necessariamente prima ancora che delle parole, delle tonalità emotive: equilibrate, coraggiose e ferme nel mondo dorico, lamentose e languide nello ionio e nel lido. Ed è singolare che ancora nel capolavoro della filosofia del ‘900, Essere e tempo, l’apertura originaria dell’uomo al mondo non avvenga attraverso la conoscenza razionale e il linguaggio, ma innanzitutto in una Stimmung, in una tonalità emotiva che il termine stesso rimanda alla sfera acustica (Stimme è la voce). La Musa – la musica – segna la scissione fra l’uomo e il suo linguaggio, fra la voce e il logos. L’apertura primaria al mondo non è logica, è musicale.
Domanda:
Io penso da tempo che ogni nuova poesia porta con sé una Grundstimmung (per Heidegger una «tonalità emotiva fondamentale») che dà alla poesia non soltanto una tonalità particolare ma una individualità tono-fono-simbolica inimitabile e indispensabile. Ecco perché i singoli modi di fare poesia sono incomunicabili in quanto sono individualità assolute; di qui la estrema difficoltà a distinguere e individuare una Grundstimmung dall’altra, di solito accade che quando sei nella nuvola tonale di una Grundstimmung non riesci ad uscirne se non a prezzo di ostacoli molto grandi, più grande di tutti è la difficoltà di superare il proprio gusto pregresso, abbandonare le confidenze musicali acquisite.
In tutte le epoche, ma nella nostra in particolare, si assiste al fenomeno dell’epigonismo di massa per cui un certo linguaggio poetico che, a detta dei più, contiene una «tonalità emotiva fondamentale», tende ad essere replicata all’infinito dalle masse e dalle tecniche di riproduzione di massa, ma al punto più basso, quello raggiungibile appunto dalle masse, e quello consentibile dalle istituzioni pubbliche e private che veicolano quel linguaggio poetico e musicale. Penso che le moderne democrazie dell’Occidente non si distinguano in nulla, da questo punto di vista, dalle demokrature di stampo putiniane, orbaniane e trumpiane. Lo scarsissimo livello delle democrazie occidentali trova il suo equivalente nello scarsissimo livello estetico della poesia che producono. Il fenomeno è fisiologicamente diverso da quello che filosofi come Horkheimer e Adorno tratteggiavano negli anni cinquanta quando parlavano di «industria culturale» e di «società di massa», oggi le nostre democrazie si avvalgono in larghissima scala della pessima musica che si veicola nel loro interno, in tal modo trovano più facile imporre una pessima politica e una demagogia millantatoria. Il decadimento del linguaggio poetico in auge nelle nostre democrazie occidentali è e sarà, presumibilmente, un fenomeno stabile indispensabile per la stabilizzazione e la standardizazione delle democrazie al loro livello più basso.
Risposta:
Se l’accesso alla parola è, in questo senso, musaicamente determinato, si comprende che per i Greci il nesso fra musica e politica fosse così evidente che Platone e Aristotele trattano delle questioni musicali solo nelle opere che essi chiamavano mousiké (che comprendeva la poesia, la musica in senso proprio e la danza) con la politica era così stretta che, nella Repubblica, Platone può sottoscrivere l’aforisma di Damone secondo cui «non si possono cambiare i modi musicali senza cambiare le leggi fondamentali della città» (424 c). Gli uomini si uniscono e organizzano le costituzioni delle loro città attraverso il linguaggio, ma l’esperienza del linguaggio – in quanto non è possibile afferrarne e padroneggiarne l’origine – è a sua volta già sempre musicalmente condizionata.
L’infondatezza del logos fonda il primato della musica e fa sì che ogni discorso sia già sempre musaicamente accordato. Per questo, ancor prima che attraverso tradizioni e precetti che si trasmettono nel medio della lingua, gli uomini in ogni tempo vengono più o meno consapevolmente educati e disposti politicamente attraverso la musica. I Greci sapevano perfettamente ciò che noi fingiamo di ignorare, e, cioè, che è possibile manipolare e controllare una società non soltanto attraverso il linguaggio, ma innanzitutto attraverso la musica. Come altrettanto e più efficace del comando dell’ufficiale è, per il soldato, lo squillo della tromba o il rullo del tamburo, così in ogni ambito e prima di ogni discorso, i sentimenti e gli stati d’animo che precedono l’azione e il pensiero sono determinati e orientati musicalmente. In questo senso, lo stato della musica (includendo in questo termine tutta la sfera che imprecisamente definiamo col termine «arte») definisce la condizione politica di una determinata società meglio e prima di qualsiasi altro indice e, se si vuole mutare veramente l’ordinamento di una città, è innanzitutto necessario riformarne la musica. La cattiva musica che invade oggi in ogni istante e in ogni luogo le nostre città è inseparabile dalla cattiva politica che le governa.
Domanda:
Il linguaggio poetico-musicale allora deve fare esperienza dell’infrangersi (lo «Zerbrechen» di Heidegger) del linguaggio contro gli scogli dei suoi limiti interni ed esterni, deve mostrare i segni e le cicatrici delle ferite che il linguaggio poetico reca in sé come memoria di quei conflitti con se stesso e il mondo. Un linguaggio poetico che non porta impresse su di sé le ferite, le stimmate di quello scontro è chiacchiera, parole al vento, parole fatte di acqua, nemico della memoria…
Risposta:
Il linguaggio si dà oggi come chiacchiera che non urta mai il proprio limite e sembra aver smarrito ogni consapevolezza del suo intimo nesso con ciò che non si può dire, cioè col tempo in cui l’uomo non era ancora parlante. A un linguaggio senza margini né frontiere corrisponde una musica non più musaicamente accordata e a una musica che ha voltato le spalle alla propria origine una politica senza consistenza né luogo. Dove tutto sembra indifferentemente potersi dire, il canto viene meno e, con questo, le tonalità emotive che musaicamente lo articolano. La nostra società – dove la musica sembra penetrare freneticamente in ogni luogo – è, in realtà, la prima comunità umana non musaicamente (o amusaicamente) accordata. La sensazione di generale depressione e apatia non fa che registrare la perdita del nesso musaico con il linguaggio, travestendo come una sindrome medica l’eclisse della politica che ne è il risultato. Ciò significa che il nesso musaico, che ha smarrito la sua relazione con i limiti del linguaggio, produce non più una Teia moira (ndr. invasamento divino), ma una sorta di missione o ispirazione bianca, che non si articola più secondo la pluralità dei contenuti musaici, ma gira per così dire a vuoto. Immemori della loro originaria solidarietà, linguaggio e musica dividono i loro destini e restano tuttavia uniti in una medesima vacuità.
È in questo senso che la filosofia può darsi oggi soltanto come riforma della musica. Poiché l’eclisse della politica fa tutt’uno con la perdita dell’esperienza del musaico, il compito politico è oggi costitutivamente un compito poetico, rispetto al quale è necessario che artisti e filosofi uniscano le loro forze. Gli uomini politici attuali non sono in grado di pensare perché tanto il loro linguaggio che la loro musica girano amusaicamente a vuoto. Se chiamiamo pensiero lo spazio che si apre ogni volta che accediamo all’esperienza del principio musaico della parola, allora è con l’incapacità di pensare del nostro tempo che dobbiamo misurarsi. E se, secondo il suggerimento di Hanna Arendt, il pensiero coincide con la capacità di interrompere il flusso insensato delle frasi e dei suoni, arrestare questo flusso per restituirlo al suo luogo musaico è oggi per eccellenza il compito filosofico.
Domanda:
però, nel concetto di lékton degli stoici, del «dicibile», vi è compreso anche l’«indicibile», perché altrimenti, se tutto ciò che è «dicibile» equivalesse al «detto», non ci sarebbe più bisogno della lingua, essendo tutte le cose già dette confluite nel detto e, quindi, nel dicibile. Ma siccome non tutto il «dicibile» è composto dal «dicibile» ma comprende anche un quid di «indicibile», ecco che appare chiarissimo questo nostro concetto di «dicibile» che comprende anche una quota di «indicibile», altrimenti la lingua, anzi, il linguaggio, cesserebbe semplicemente di esistere.
La poesia, l’arte, si occupano in primissimo luogo di percepire e dire nel «dicibile» quella quota di «indicibile» che è già nel linguaggio. È ovvio che la «nuova poesia» si occupi di quel dicibile che comprende in sé una maggiore quota di «indicibile».
Se riflettiamo un momento sull’«indicibile» sul quale viene costruita tutta la poesia (e in particolare la poesia della nuova ontologia estetica), ci rendiamo conto che è proprio la necessità di indicare-accennare-alludere all’«indicibile» (cioè all’ombra del linguaggio) a rendere necessario un diverso modo di intendere ed impiegare il linguaggio poetico.
Finirei col dire, parafrasando Agamben, che «non il dicibile ma l’indicibile costituisce il problema con cui la poesia deve ogni volta tornare a misurarsi».
Risposta:
«Non l’indicibile, ma il dicibile costituisce il problema con cui la filosofia deve ogni volta tornare a misurarsi. L’indicibile non è infatti che una presupposizione del linguaggio. Non appena vi è linguaggio, la cosa nominata viene presupposta come il non-linguistico o l’irrelato con cui il linguaggio ha stabilito la sua relazione. Questo potere presupponente è così forte, che noi immaginiamo il non linguistico come qualcosa di indicibile e di irrelato che cerchiamo in qualche modo di afferrare come tale, senza accorgerci che in questo modo non facciamo altro che tentare di afferrare l’ombra del linguaggio. L’indicibile è, in questo senso, una categoria genuinamente linguistica, che solo un essere parlante può concepire. Per questo Benjamin, nella lettera a Buber del luglio 1916, poteva dire di una “cristallina eliminazione dell’indicibile nel linguaggio”: l’indicibile non ha luogo fuori dal linguaggio come un oscuro presupposto, ma, in quanto tale, può essere eliminato soltanto nel linguaggio.
Cercheremo di dimostrare che, al contrario, il dicibile è una categoria non linguistica, ma genuinamente ontologica. L’eliminazione dell’indicibile nel linguaggio coincide con l’esposizione del dicibile come compito filosofico. Per questo il dicibile non può mai darsi, come l’indicibile, prima o dopo il linguaggio: scaturisce insieme ad esso e resta, tuttavia, irriducibile ad esso»1]
Domanda:
Allora, come fare per varcare quella soglia che è sorvegliata dalla Musa e che non è possibile superare se non mediante un evento che cade dal cielo, una Teia moira, una divina frenesia?
Risposta:
Occorre risalire al di là dell’ispirazione verso quell’evento di parola, la cui soglia è custodita e sbarrata dalla Musa. Mentre i poeti, i rapsodi e, più in generale, ogni uomo virtuoso agisce per una Teia moira, un destino divino di cui non è in grado di dar conto, si tratta di fondare i discorsi e le azioni in un luogo più originario dell’ispirazione musaica e della sua mania… In questione è qui il luogo proprio della filosofia: esso coincide con quello della Musa, cioè con l’origine della parola – è, in questo senso, necessariamente proemiale. Situandosi in questo modo nell’evento originario del linguaggio, il filosofo riconduce l’uomo nel luogo del suo divenire umano, a partire dal quale soltanto egli può ricordarsi del tempo in cui non era ancora uomo. La filosofia scavalca il principio musaico in direzione della memoria, di Mnemosine come madre delle Muse e in questo modo libera l’uomo dalla Teia moira e rende possibile il pensiero.
Domanda:
L’evento è nel linguaggio?
Risposta:
L’evento, che è in questione nel linguaggio, può essere solo annunciato o congedato, mai detto (non che esso sia indicibile – indicibile significa solo im-predicibile; esso coincide, piuttosto, col darsi dei discorsi, col fatto che gli uomini non cessano di parlarsi l’un l’altro). Ciò che del linguaggio si riesce a dire è solo prefazione o postilla e i filosofi si distinguono secondo che preferiscano la prima o la seconda, si attengano al momento poetico del pensiero (la poesia è sempre annuncio) o al gesto di chi, in ultimo, depone la lira e contempla. In ogni caso, ciò che si contempla è il non-detto, il congedo dalla parola coincide con il suo annuncio.
1] G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 pp. 59-60
La scrittura poetica è «una produzione di significati»,
un atto di im-posizione del linguaggio alle cose; quando invece la posizione del poetico dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio, sostare un passo indietro, un attimo prima che la parola ci raggiunga, dall’esterno, con la sua dote di «imposizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger; se invece andiamo oltre, se procediamo verso il linguaggio, con attese, con im-posizioni, con Gestell, ecco che quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, il nostro linguaggio verrà intaccato dalla «imposizione» dei linguaggi che provengono dall’esterno, dal mondo dell’utilitarietà, dal mondo delle condotte, delle pratiche, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria im-posizione.
Il problema è molto complesso e non riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema dell’io che impera nel mondo tecnologizzato delle società mass-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere buona poesia, l’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione; l’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria sopravvivenza, lavora per i progetti di auto organizzazione dell’io, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nella comunità linguistica e mediatica, non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.
La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più accreditati, altro non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici, scrittura utilitaria, impositiva, progettante, narrativizzante, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria, che è l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, scrittura da risultato, che parla con un linguaggio imperativo, giustificato, giustificatorio.
Qualcuno mi chiederà: «che cosa intendi per linguaggio giustificatorio»? Risponderei così: con linguaggio giustificatorio intendo la posizione del «poeta» che si pone in un angolino del «mondo» e di lì si interroga e interroga il «creato» alla ricerca di un «senso» che giustifichi la propria esistenza. Ebbene, questa è una finzione e un falso, è una posizione imbonitoria, assolutoria, in quanto si assume un Gestell, un podio, e ci si mette in posa, in alto sullo zoccolo, proprio come una statua, e di lì si sciorinano pensieri meditabondi, efflorescenze di narcisismi. La poesia che si fa oggi è ricchissima di cotali «poeti» che oggi sono di moda e vengono celebrati. Un nome per tutti: Franco Arminio, incomparabile nell’adamismo della sua positura assolutoria dalla quale sciorina incensamenti alla pacificazione, buonismi e banalismi in grande quantità.
Qualche tempo fa un poeta mi ha scritto che non «condivide affatto il [mio] giudizio apocalittico» sulla morte della poesia italiana, che invece godrebbe, a suo parere, di ottima salute. Al di là dei convincimenti personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, penso, e ho tentato di argomentare questo mio pensiero in varie mie pubblicazioni, che la poesia di questi ultimi decenni sia stata fatta per esigenze privatistiche, psicologiche, per ragioni encomiastiche di status symbol, per personalismi, per narcisismo, senza alcun progetto culturale e consapevolezza storico culturale della poesia del novecento. La mia impressione, spero di sbagliarmi, è che la poesia italiana di queste ultime decadi è un genere di scrittura privatistica priva di valore culturale, un genere di scrittura non retta da alcuna normazione di poetica, alcuna episteme direbbe un filosofo. Una scrittura imbonitoria.
L’uomo abita l’ombra delle parole, la giostra dell’ombra delle parole. Un “animale metafisico” lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l’ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l’uomo legge l’universo.
«Quegli sguardi dall'abisso... noi guardiamo dentro quelle pupille enormi, nere, lucenti come sfere d'ossidiana, e vediamo l'abisso. Ma loro verso cosa guardano? Verso di noi guardano. E vedono in noi l'abisso»
Il Mangiaparole – Come abbonarsi alla rivista, Quota ordinaria € 25, Quota sostenitore € 50 + copia di un Libro in omaggio a scelta della collana Il Dado e la Clessidra
Trimestrale di Poesia Critica e Contemporaneistica Il Mangiaparole n. 1
La Nuova Ontologia Estetica, Poetry kitchen – La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità. La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. Gli scrittori e i preti sono i camerieri. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura
Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica
Ogni felicità è frammento di tutta la felicità che si nega agli uomini e che essi si negano
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri
Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, utilissima per l’autoconservazione
Un angelo zoppo ci venne incontro e disse, senza guardarci: “malediciamo il nome di Dio.”
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti (Hegel)
Sortilegio e ideologia sono la stessa cosa (T.W. Adorno) Si può dire… che l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio. Dio, valore e termine ultimo della trascendenza, rappresenta il limite permanente in base al quale l’uomo si fa annunciare ciò che è. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, o, se si preferisce, l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio (J.P. Sartre)
Alfredo de Palchi monografia – Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate
Donatella Costantina Giancaspero
Vincenzo Petronelli La tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
La poesia è scrittura della nostra preistoria
Il soggetto non è mai del tutto soggetto, l’oggetto oggetto
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato
Il piacere sensoriale, a volte punito da un misto di ascetismo e di autoritarismo, è divenuto storicamente nemico immediato dell’arte: l’eufonia del suono, l’armonia dei colori, la soavità sono divenute pacchianeria e marchio dell’industria culturale (Adorno)
L’io penetra l’oggetto pensandolo e immaginandolo
Helle Busacca La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen.
Edith Dzieduszycka. Avevano corso,/ di giorno e di notte,/ poi di nuovo di giorno,/ e ancora di notte./ Avevano corso/ come bestie assetate,/ in cerca del ruscello al quale abbeverarsi
Letizia Leone: Il diavolo indossa un camice bianco/ E stacca pezzi di carne dalla carne/ Del mondo/ Con aghi, occhi a punta, lame, rasoi // Non affonda la mano/ ma ferro disinfettato./ Non si sporca
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine (Eraclito) – Roma, 1997, Giorgio Linguaglossa e Antonella Zagaroli
Cara Signora Schubert, mi capita di vedere nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile A Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro (Ewa Lipska)
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania./ “Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”./ La donna guarda attraverso le fessure della tapparella./ Ha sentito sbattere la portiera (Lucio Mayoor Tosi)
Anna Ventura conserva le parole tra le righe della sua scrittura come si mette un cibo in frigorifero
Domando al piombo perché ti sei lasciato fondere in pallottola? Ti sei forse scordato degli alchimisti? (Ch. Simic)
La precarietà del pensiero non identificante che indugia sulle cose. La tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla, litiga di nascosto con lo specchio (Gino Rago)
Le parole sono i raggi ultravioletti dell’anima
Maria Rosaria Madonna, cover 1992
Iosif Brodskij Le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia
Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente
Trattare tutte le cose come un terzo pensiero che ci osserva
Edith Dzieduszycka
Alfredo de Palchi, a 12 anni/ meschino nella tuta lurida di grassi/ per motori a nafta/ consegno 5 lire/ (la settimana—domenica compresa)/ nella busta troppo larga al nonno anarchico/ mangiato dal cancro
Mauro Pierno, Compostaggi – Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, condizionata storicamente e socialmente. Il contenuto di verità dell’assente è indifferente (T.W. Adorno)
La poesia di Giuseppe Talia proviene da una grande deflagrazione delle parole e della stessa tradizione del ‘900
Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano [Maria Rosaria Madonna]
in cover Maria Rosaria Madonna
La poesia di Mario Gabriele è un film, una successione di fotogrammi in un orologio senza lancette. «Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione» (T.W. Adorno)
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,/ separava la pula dal grano,/ chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei./ Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777./ Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time. (Mario Gabriele)
Gezim Hajdari, Il poietès è il più grande positivo perché porta le cose all’essere dal nulla
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi sono le cose della vita, gli eventi che ci accadono, gli eventi omnibus»diceva Ortega y Gasset
Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue
Un Enigma ci parla, ma noi non comprendiamo quella lingua. L’Enigma non può essere sciolto, può solo essere vissuto
Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?
Quando una categoria si modifica muta la costellazione di tutte le altre (Adorno)
Letizia Leone
Giorgio Agamben Da quella lontananza rovesciata raggiungiamo la lontananza nostalgica. Non essere a casa propria ovunque
Critica della Ragione sufficiente
Il postino della verità non passa né due volte né una volta, non passa mai. Non c’è alcuna verità nella soggettività, non c’è alcuna verità nel canto degli uccelli nel bosco che tanto piaceva all’estetica kantiana
Mario Gabriele, Una fila di caravan al centro della/ piazza con gente venuta da Trescore e da Milano ad ascoltare Licinio:/-Questa è Yasmina da Madhia che nella vita ha tradito e amato,/ per questo la lasceremo ai lupi e ai cani
Predrag Bjelosevic
Gino Rago, Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,/ risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,/ il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua
Le parole che scriviamo ci parlano di altre parole che non conosciamo
Le parole sono finestre che aggettano sul labirinto che noi siamo
Anna Ventura, Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio di luce della lampada.
Era piccola la casa, accanto a un cimitero romano. I suoi vetri tremavano per via di carri armati e caccia (Charles Simic)
Roberto Bertoldo
Donatella Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, 2016
Alle 18 torna Milena. Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni. Sale il fumo fino alla lampada. Andrea rinnova aria fresca (Mario Gabriele)
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra (Giacomo Marramao)
Lucio Mayoor Tosi, – Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson. – Ci vuole della cannella sul Lìsson? – Sì, perché no./ Lo sai che sono innamorata di te
Gezim Hajdari
Carlo Livia, La prigione celeste
Ewa Tagher
Wystan Hugh Auden
Petr Kral
Michal Ajvaz
Mario Lunetta
Ubaldo de Robertis
Jorge Luis Borges
Giuseppe Talia
Kjell Espmark
Tomas Tranströmer
Salman Rushdie
Osip Mandel’stam
Iosif Brodskij
Boris Pasternak
Cesare Pavese
Georg Trakl
Sabino Caronia
Vladimir Majakovskij
Il Mangiaparole n. 10
Pier Paolo Pasolini
Czeslaw Milosz
Salman Rushdie
Alejandra Alfaro Alfieri
Duska Vrhovac
Fernanda Romagnoli
Antologia della Poetry kitchen – Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
Marie Laure Colasson
Lorenzo Calogero
Predrag Bjelosevic
Petr Kral Il Mangiaparole
Zbigniew Herbert
Bertolt Brecht
Werner Aspenström
Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa
Fernando Pessoa
Giuseppe Ungaretti
Eugenio Montale
Paul Celan
Ezra Pound
Edgar Allan Poe
T.S. Eliot
Samuel Beckett
Franco Fortini
Allen Ginsberg
Charles Bukowski
Agota Kristof
Derek Walcott
Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
Marina Petrillo
Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto e abita presso l’Hotel Insonnia
Fernando Pessoa
Jacopo Ricciardi
Jacopo Ricciardi
Samuel Beckett
Anna Ventura, «Tra le parole e le cose occorre una grande distanza»
Guido Galdini, Le parole sono schegge di appunti precolombiani – è uno specchio per le allodole/ o sono allodole per lo specchio/ o le allodole sono lo specchio?
Guido Galdini
Mauro Pierno, Lo statuto recondito delle parole dimenticate
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.
La morte è padrona assoluta della scena. Il bambino vestito di bianco – (bianco e nero non sono i colori che meglio si addicono alla morte, o a un nuovo inizio?) – suona qualcosa che i sensi non percepiscono in un primo momento. Il lungo momento della fine della religione positiva (fine delle immagini di Dio). Anche il mare non ha più anima (e lo sguardo meravigliato dell’uomo “eterno” potrà mai cambiare?). Quel bambino continua a suonare. E’ il canto delle sirene o il canto del bambino che ascoltiamo? Ci saranno i vivi alla fine del lutto?
Forse alcuni poeti scrivono un’unica grande poesia, capace di contenere in sintesi molto di una vita, di molte vite, di luoghi diversi e a più dimensioni.
Gli angeli comunicano l’estraneità dell’artista in ogni mondo. La distanza dell’arte dalla Storia. La sua necessità. Distante e necessaria. L’attrazione se ne sta lì.
Paul Valéry scrive : «le gout est fait de mille dégoûts».
Definizione provocazione choc che ci introduce all’interno del concetto di «gusto», concetto che racchiude in sé la massima incontraddittorietà del contraddittorio, ovvero, il «gusto» è un atto incontraddittorio (Kant parlava del “giudizio estetico a priori”) proprio perché contiene in sé tutte le contraddittorietà possibili e pensabili. Io la metterei così: tutte le contraddittorietà possibili e pensabili formano la incontraddittorietà del giudizio di gusto, il quale è in sé una aporia, ma non per un errore del nostro intelletto quanto perché il suo interno è un «luogo» incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà.
In questa accezione, in questa mia poesia ho tentato la confluenza e convergenza della massima possibile estensione del contraddittorio che dà luogo alla incontraddittorietà complessiva. Non so se ci sono, almeno in parte, riuscito, ma il tentativo andava fatto e l’ho fatto nell’orizzonte di una «nuova poesia», la quale non può essere interpretata con le categorie con cui si è soliti interpretare la poesia del novecento italiano, essendo essa estranea a quelle categorie critiche.
La conclusione mi sembra chiara a questo punto: una poesia se è nuova richiede sempre la costruzione di nuove categorie ermeneutiche, altrimenti diventa incomprensibile. Anzi, la poesia tende a sottrarsi a qualsiasi atto di intellezione che pretenda di inoltrarsi al suo interno. In questo senso, ogni poesia, se è nuova, si presenta con le vesti dell’Enigma, non essendo essa pensabile con le categorie della vecchia metafisica.
Siamo ancora alla caverna di Platone, siamo ancora davanti allo specchio e ci si domanda: qual è la più bella di tutto il reame? Fontana, tagliando la tela, dimostra che dietro la tela non c’è nulla. L’estetica, come branca filosofica della metafisica, più che la ricerca di ciò che piace, di ciò che è unico, di ciò che può far guadagnare, di ciò che ” somiglia al reale” o di ciò che assomiglia alla verità, deve parlare. Si sa, tuttavia, che quando manca chi ascolta, ma si è dinanzi a chi vuole imbrogliare o guadagnare, è inutile parlare.
“[…]l’idea che compito dell’arte è la trasmissione (Überlieferung) della tradizione mediante la negazione della stessa, il passato che non può essere riscattato può essere redento grazie all’atto della trasmissione in quanto passato non redento.
Il passato, ovvero, la memoria, che l’arte redime nell’apparenza, riconosce il suo esser passato perché l’arte lo invera mediante un atto di estraneazione radicale.
Di qui la melancholia dello sguardo dell’angelo dell’arte che osserva il cumulo di rovine del passato.”[…]
Mi pare che sia questo il passaggio più impegnativo e lacerante dell’ottima intervista che il nostro Giorgio fa ad Agamben. E chiedo lumi all’intervistatore che pone all’intervistato le domande intelligenti:
quando nella sua risposta Agamben introduce la ‘memoria’ in rapporto al passato non fa un balzo verso ciò che tu, Giorgio Linguaglossa, in un capitolo della Critica della Ragione Sufficiente hai proposto come ‘Quadridimensionalismo’? Vale a dire la ‘prospettiva dell’osservatore proustiano esterno al flusso spazio-tempo?”
gr
caro Gino Rago,
penso che hai tirato in ballo un concetto lunare, del «quadridimensionalismo» in poesia in Italia non ne ha parlato nessuno, tranne Maurizio Ferraris con il suo recente libro titolato Emergenze (Einaudi, 2017), che abbiamo prontamente ripreso e segnalato su queste colonne. La poesia italiana continua a dormire i suoi sonni unidirezionali. Il «quadridimensionalismo» ha molti punti di contatto con la «memoria». Io che non sono un filosofo posso solo accennare al problema, sta ai filosofi illuminarci su questo punto.
Già nel 1913 quando gli acmeisti pubblicano i loro Manifesti, è chiaro che la memoria e il quadridimensionalismo entrano di prepotenza nella poesia europea, anche se lo stesso Mandel’stam, il più acuto teorico del movimento, non riesce a mettere del tutto a fuoco il problema, lui si ferma al «mondo tridimensionale», però, anche così getta le basi della successiva migliore poesia europea che si svilupperà nel novecento.
La frase di Lautreamont «les jugements sur la poésie ont plus de valeur que la poésie», segna la prima notizia della disfatta della «poesia» nel mondo del Moderno. Il poeta francese mette il dito sulla piaga, afferra con incredibile perentorietà in anticipo sul suo tempo che nelle condizioni del nuovo mondo capitalistico la «poesia» ha perduto «valore», al punto che i «giudizi sulla poesia» valgono di più della «poesia» stessa. È una constatazione spettrale. Sarà da qui che prenderanno le mosse le avanguardie artistiche del novecento, nel tentativo, disperato e impossibile, di ridare vigore al «valeur» della «poesia». Su questo piano inclinato gli artisti e i poeti del Moderno tenteranno tutte le carte pur di non arrendersi a quel terribile verdetto di Lautreamont.
La poesia modernista europea da Pessoa, Eliot e Mandel’štam fino ad Herbert e Petr Král ha tentato in tutti i modi di sottrarre la «poesia» al tragico statuto di insignificanza che sembra essere il destino dell’opera d’arte nei paesi dell’Occidente.
Il «resto» lo «fondano i poeti». Sta a noi fondare poeticamente ciò che «resta». In questa direzione di pensiero il campo da arare che ci attende è ben vasto… ciascuno può scegliere una direzione di ricerca, ma entro il comune orizzonte di una comune patria metafisica.
caro Giorgio,
dopo le tante dissertazioni critiche operate da te su questa Rivista, credo sia giunto il momento di redigere un MANIFESTO, in modo da percorrere una comune strada poetica, libera da equivoci direzionali, come mutamento linguistico e culturale, senza inondazioni e fragilità psicoestetiche, che rendono fuorviante il concetto di nuova ontologia.So che è un impegno difficile a realizzare. Tuttavia, ci sono le premesse per liberalizzare un discorso di disarticolizzazione sintattica, giudicato negativamente da Mengaldo, in merito alla Neoavanguardia,riferendosi in modo specifico, a tutte le forme espressive dei vari spezzoni semantici, visti come segnali di impossibilità storica nel significare e nel comunicare. Se tutto ciò può apparire agli occhi di critici e lettori, come una strada senza uscita, allora percorriamo pure questa via, iniziata pochi anni fa, senza la quale la poesia torna a naufragare nel mare della oggettività e dell’Egocentrismo.
dalla Sez. 1 de I platani sul Tevere diventano betulle é di prossima pubblicazione con le Edizioni Progetto Cultura, Roma*
Gino Rago
Quadridimensionalismo
La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.
Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?
Fanno riapparire il tempo nello spazio?
[…]
Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalle profondità delle quattro dimensioni.
Perché l’uomo è spaziotempo,
al profondo, nel lungo e nel largo
soltanto l’uomo lega ciò che è stato,
il tempo perduto, il tempo passato.
Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.
E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra.
*La madeleine è il dolce di Marcel Proust
gr
Giorgio Linguaglossa mi (e ci) pone altre 3 domande.
1) quali sono le esperienze significative che la poesia deve prendere in considerazione?
2) la mancanza di un «luogo», di una polis, quali conseguenze hanno e avranno sull’avvenire e il presente della poesia?
3) è possibile la poesia in un mondo privo di metafisica?
Tre domande terribili, da far tremare i polsi.
Queste istanze nel loro enorme peso di etica e di estetica, di forma e di contenuto, di lingua e di stile, di metrica e di tono, di senso e di suono, interpellano le nostre coscienze e il nostro stesso modo di stare in poesia, di fare poesia in un rinnovato spirito del tempo.
Alle 3 domande provo a dare una risposta mettendo tra di loro in relazione di prosa poetica o di poesia in prosa due reziari-uomini-di-questo-tempo scagliati nell’arena-mondo-del-nostro-tempo con pochi arnesi-parole-senza-più-suono allo scopo di irretire il vuoto con il gesto-atto-poetico-di-questo-tempo, nella poesia 1, e il tentativo del superamento della ‘metafora tridimensionale’ spazio-tempo-passato verso il quadridimensionalismo spazio-tempo-percezione passato-memoria, secondo la prospettiva dell’osservatore proustiano…[dal dialogo Maurizio Ferrari-Giorgio Linguaglossa, in La Critica della Ragione Sufficiente, ( pagine 74/77)].
Dalla Sez 1 de I Platani sul Tevere Diventano Betulle [di prossima pubblicazione con le Edizioni Progetto Cultura, Roma*
Gino Rago
1) L’atto poetico nel vuoto
«Ci interessa la forma del limone
non il limone».*
*[Questo scrissero sul manifesto formalista quegli artisti
Nell’ammutinamento sui battelli del figurativismo
E del narrativismo.
Ma fu sera e mattina sulla Forma]
[…]
Un reziario nell’arena. Con un altro reziario un po’ più antico
Ma nella stessa arena. Verso chi tridenti e reti?
Chi o cosa vogliono irretire, senza corazza ed elmo?
Il Vuoto? Vogliono imprigionare il Vuoto
con un balzo estetico.
Perché la bellezza è nel vuoto?
[…]
I due reziari all’unisono: «Perché se sei nel vuoto,
se davvero ti senti nel vuoto, devi agire prima che il vuoto ti risucchi…
È il gesto che salva. È l’urto tra l’atto poetico e il vuoto
che genera lo spazio e il tempo,
perché il vuoto e il nulla non coincidono affatto.
La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
Perché il vuoto si può costruire, come al silenzio si può insegnare a parlare,
ma occorrono le parole-stringhe a cinque dimensioni».
II
Roma. Due reziari seduti a un tavolino.
Il bar di via Gaspare Gozzi [la linea B della Metro sferraglia]
A una parete gli occhi e le rughe di Samuel Beckett.
Il barista si avvicina con due tazze fumanti, sorride.
L’uomo somiglia a José Saramago, dice: «Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola
tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
– «Una parola davvero scomoda» -, pensa l’interlocutore non visibile
che siede qui accanto nel bar,
la verità fa rima con varietà, questo lo affermava il Signor K. nella omonima
poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…
«Ma voi non siete ciò che dite, siete dei truffatori, siete…
il credito che le vostre parole vi danno».
2) Gino Rago
Quadridimensionalismo
La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.
Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?
Fanno riapparire il tempo nello spazio?
[…]
Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalle profondità delle quattro dimensioni.
Perché l’uomo è spaziotempo,
al profondo, nel lungo e nel largo
soltanto l’uomo lega ciò che è stato,
il tempo perduto, il tempo passato.
Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.
E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra.
*La «madeleine» è il dolce di Marcel Proust
gr
In queste poesie di Gino Rago, come in quelle di Mario Gabriele e, come in genere accade in varia misura nei poeti della nuova ontologia estetica, le poesie non hanno un oggetto specificato, un referente o un insieme di referenti circoscritti e riconoscibili, un significato, nulla di tutto ciò. Quello che noi chiamiamo il referente in questo tipo di poesia diventa il «dicibile» (il lékton degli stoici), ma ciò non comporta che tutto ciò che è dicibile abbia anche un significato. I due «reziari» che combattono nella arena non hanno un significato, sono dei «dicibili» che scavalcano qualsiasi significato. La poesia si preoccupa di «imprigionare il vuoto», di dare un significato al «vuoto», di renderlo in qualche modo manifesto, «dicibile»:
La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
La poesia di Rago è un mirabile esperimento di cattura di quello che il poeta chiama «vuoto che fluttua», poiché «La forma-poesia non è l’inizio/ ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua». Il «vuoto» per Rago è quella dimensione incorporea dove fluttuano le parole ancora non pronunciate, fonetizzate. Tutto il problema è il pronunciare quelle parole, ed ecco che le cose diventano dicibili. Il «vuoto» di Rago è quello spazio incorporeo nel quale fluttuano le parole incorporee perché ancora non-pronunciate, quello che la filosofia contemporanea denomina «la patria metafisica delle parole»; esse non sono né i nomi di cose, né i nomi di concetti, né i nomi di pensieri erranti. È la scoperta che le parole abitano la patria metafisica, e non dipendono per la loro esistenza né dai concetti né dalle cose. Il «senso» non è una cosa nascosta che si tratta semplicemente di scoprire, il «senso» è un analogon di un mito che noi possiamo interpretare in quanto fatto di linguaggio.
«Il bisogno di interpretare un linguaggio può sussistere unicamente per qualcuno che (per un istante o in permanenza) si colloca all’esterno di esso; e non può essere soddisfatto e scomparire solo quando ci si sente totalmente a proprio agio in quel linguaggio, quando ci si è appropriati di esso, in breve quando lo si parla. Una interpretazione è buona non quando non siamo in grado di interpretare ulteriormente ma quando non lo facciamo e non avvertiamo il bisogno di farlo. Se il senso è l’ultima interpretazione, quella che non si interpreta, è solo perché tale interpretazione ci soddisfa, perché abbiamo (la sensazione di aver) compreso. “Ciò che avviene” osserva Wittgenstein “non è che questo simbolo non può più essere interpretato, bensì: io non interpreto. Non interpreto perché mi sento a mio agio nell’immagine presente. Quando interpreto, avanzo sul cammino del pensiero innalzandomi da un gradino all’altro».1
Ad un certo punto Rago rimescola le carte, chiama in causa una mia poesia e un personaggio contenuto in alcune mie poesie, il Signor K., e lo fa interagire nella sua poesia:
«Vi ammiro,
voi conoscete la doppiezza delle parole, nelle vostre poesie una parola
tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità».
– «Una parola davvero scomoda» -, pensa l’interlocutore non visibile
che siede qui accanto nel bar,
la verità fa rima con varietà, questo lo affermava il Signor K. nella omonima
poesia di Linguaglossa, dove il Signor K. fuma
un sigaro italiano e cincischia con il revolver…
Tutte le cose sono confuse, si mischiano, si dividono, si trasformano e diventano altro, il reale e l’immaginario sono posti sullo stesso piano scosceso che ci conduce verso il «nulla», «la stessa parola» è afflitta da «doppiezza», «la verità fa rima con varietà» e, come nella poesia del novecento, «una parola tira l’altra e con la stessa parola si può dire la verità». È questa, propriamente, la dimensione del lékton, del «dicibile» degli stoici, quella dimensione che non è composta da parole, o da pensieri, o da cose definite, palpabili… ma da qualcosa che sfugge e per le quali dobbiamo cercare le parole…
Facciamo un passo indietro. Agamben ci dice:
«Ammonio ci informa che gli stoici inserivano, secondo lui inutilmente, fra il concetto e la cosa un terzo, che chiamavano dicibile (lékton).
Il passo in questione proviene dal commento di Ammonio al De interpretazione. Qui Aristotele definiva il processo dell'”interpretazione” attraverso tre elementi: le parole (phoné), i concetti (più precisamente le affezioni dell’anima), di cui le parole sono segni, e le cose (tà pragmata), di cui i concetti sono le similitudini. Il “dicibile” stoico, suggerisce Ammonio, non soltanto non è qualcosa di linguistico, ma non è nemmeno un concetto e neppure una cosa. Esso non ha luogo nella mente né semplicemente nella realtà, non appartiene né alla logica né alla fisica, ma sta in qualche modo fra di essi. È di questa situazione particolare fra la mente e le cose che si tratterà di tracciare una cartografia. È possibile, infatti, che questa situazione fra la mente e le cose sia propriamente lo spazio dell’essere, che il dicibile coincida, cioè, con l’ontologico.
[…]
Il significante (la parola significante) e l’oggetto (la cosa che vi corrisponde nella realtà, nei termini moderni il denotato) sono evidenti. Più problematico è lo statuto del semainomenon incorporeo, che gli studiosi moderni hanno identificato col concetto presente nella mente di un soggetto (simile al noema aristotelico secondo Ammonio) o col contenuto oggettivo di un pensiero, che esiste indipendentemente dall’attività mentale di un soggetto (come il “pensiero” – Gedanke – in Frege). 2]
1] J. Bouveresse in L. Wittgenstein, Nachlass Verwalter (1967) Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Adelphi, 1975 p. 73
2]G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 pp. 63-64
Credo che le domande che l’intervistatore pone all’intervistato nel corso della conversazione Agamben-Linguaglossa siano pertinenti se non derivanti da quest’altro colloquio a distanza di cui propongo uno stralcio nel tentativo di arricchire il dibattito intorno a questa pagina importantissima de L’Ombra:
M. Ferraris:
«[…] Nella prospettiva proustiana, la domanda ontologica “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori
interni allo spaziotempo?” ha una risposta tridimensionalista soltanto se ci si limita ad osservare con la percezione; la risposta risulta invece quadridimensionalista se si osserva anche con la memoria. Ecco perché Proust sostiene che la vera vita sia la letteratura: perché è la vita registrata, fissata in un documento e resa quadridimensionale…[…] A ben vedere, però, la quadridimensionalità fa parte di individui comuni che rientrano nella nostra esperienza più ordinaria…».
Giorgio Linguaglossa:
«Per rispondere a Maurizio Ferraris, il problema che si pone a noi oggi, a distanza di cento anni da ‘ La Recherche ‘ è questo: ma noi sappiamo che esso [il segno] esiste come «traccia» di un qualcosa che non le preesiste, di un passato che non è mai stato presente e che non può essere rievocato. Vale a dire che non possiamo ripetere l’operazione di Proust, la quadridimensionalità si deve vestire di nuovi modi di rappresentazione […]».
da Critica della Ragione Sufficiente, «Sul quadridimensionalismo» (Pagine 74/75)
Il bacio è la tomba di Dio
Cinque anni sono trascorsi dalla pubblicazione di Blumenbilder. Allora era una Natura morta con fiori, oggi una “torre del faro nella pianura di neve”. Il sentimento, tomaia del ciabattino, come Giorgio ama definirsi, è lo stesso. Si tratta chiaramente di sentimento sublimato, portato ai limiti del dicibile grazie a una tensione estetica costante, segnatamente post moderna ma proiettata nel nuovo, che va oltre il moderno. Strano disperante connubio tra futuro e decadenza. Venezia, appunto, in poesia sapienziale, dove abbondano citazioni colte e raffinate (La gondola a lutto), d’avanguardia ma demodé – termini che Giorgio ha sempre evitato, come “poetica”, perché non vi è nulla di definitivo e il percorso è in fieri.
Piuttosto vorrei dire del tono esplicativo, le descrizioni rapide ma rese esaustive (es. sopra l’ingresso della torre…/ il pavimento di linoleum bianco…) e della difficile conversione del linguaggio verso l’evocativo – ho letto che per Heidegger, l’Essere può manifestarsi nella parola evocativa. Giorgio Linguaglossa riesce nell’intento grazie all’alambicco della frammentazione – tipiche le sue sequenze solo nominali, fredde ma disorientanti es. “Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio. /Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.” ma in tono colloquiale aggiunge “Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare/il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro”. Chiusa la parentesi.
Straordinariamente chiara e illuminante la risposta di Agamben alla domanda di Linguaglossa: “per costruire un’arte diversa dovremmo uscire dalla metafisica?”
“Il complesso significante-significato fa, infatti, così indissolubilmente parte del patrimonio del nostro linguaggio, pensato metafisicamente come suono significante, che ogni tentativo di superarlo senza muoversi, nello stesso tempo, fuori dei confini della metafisica, è condannato a ricadere al di qua del suo obiettivo. La letteratura moderna offre fin troppi esempi di questo destino paradossale cui va incontro il Terrore”.
Un tentativo di interpretazione di
Il bacio è la tomba di Dio
Come ha lavorato Giorgio Linguaglossa per costruire questa architettura che non esito a definire di frontiera e a frammenti?
Di frontiera poiché ricorda un po’ l’acqua dolce quando sta per entrare nel mare e non è più dolce ma non è ancora salata,
di frontiera perché i versi giocano tra un ‘non più’ e un ‘non ancora’,
“[…]Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
“Non c’è anima più viva[…]
A frammenti poiché ormai è stato acquisito lo stato di consapevolezza che
il mondo contemporaneo è fatto di frammenti, come di frammenti si compongono le storie di frontiera. E anche i nostri sguardi si compongono di frammenti.
E che dire dei nostri incontri, incontri umani, se non che quasi sempre sono una successione di frammenti.
Ma poi nel corso della composizione poetica nel frammentismo serpeggia l’atto estetico del poeta e ricostruisce l’unità del tessuto poetico, ma non facendolo calare dall’alto come una entità astratta:
sono le parole stesse dell’autore che si organizzano a struttura unita, è l’idea di poeta-artifex.
Ne derivano andamenti plurali, ibridi, stratificati, tenuti coesi attraverso il parlato, attraverso i colloqui o i dialoghi diffusi nei versi.
Trovo efficace questo modo linguaglossiano di procedere, anzi mi spingerei a dire che forse questa è l’unica maniera di procedere per fronteggiare il vivere nel mondo e il suo giocare con gli specchi.
Il gesto estetico del poeta determina l’architettura unitaria della poesia raccattando i materiali sparpagliati nella mente del poeta, materiali di luoghi, di tempi, di storie, di avvenimenti, di eventi stampati come percezione del passato in un presente che Giorgio Linguaglossa assume come Memoria e così la poesia si fa ‘mito’ e vince l’oblio della memoria.
Ma bisogna per me introdurre anche una terza chiave di lettura per una interpretazione organica di Il bacio di Dio: il panorama della postmodernità, rivisitato nel campo espressivo integrale:
“[…] Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.
Wagner e List giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande.
Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’Amor profano»
[…. ]”
In tale panorama, il postmoderno, la dimensione culturale che continua a caratterizzare la nostra stagione di vita, si delineano scenari in grado di rompere con i tradizionali modelli ai quali la modernità ci aveva abituati, di riscrivere le coordinate spazio-temporali, di imporre pensieri liquidi e combinazioni tra mondi reali e mondi fittizi, moltiplicando le identità in nuove forme di conversazioni, anche attraverso la pervasività del digitale, ecc.,
Da qui le ri-scritture adottate da Giorgio Linguaglossa nella sua poesia per collage, ibridazioni, citazioni, mescolamenti di spazi e di tempi, di personaggi veri e finti, di luoghi reali e non-luoghi, di storia dell’arte e musica, e altro…
(ho scritto direttamente ed estemporaneamente, chiedo comprensione per eventuali errori)
Gino Rago
caro Gino,
grazie per questo tuo commento che illumina sui segreti della costruzione di questo «polittico». «Polittico» è la parola giusta, la poesia si compone di più poesie tenute insieme da un misterioso filo conduttore presente nella mia mente.
Ed ora un aneddoto:
cinque anni fa fui trasferito in un ufficio nel circondario del carcere di Rebibbia di Roma. L’ufficio era situato molto lontano, all’interno del circondario del carcere e dovevo ogni giorno fare a piedi un lunghissimo percorso all’interno del comprensorio del carcere, tra il muro di cinta e l’inferriata che dà sulla strada pubblica. E così, ogni giorno camminavo avendo alla mia sinistra il lugubre muro di cinta grigio di calcestruzzo con le torrette di avvistamento, e a destra il prato che confinava con la lunghissima inferriata che perimetra il complesso carcere, il più grande complesso carcerario d’Italia perché comprende ben 4 carceri con 4 direzioni distinte. Camminare accanto a quel muro lunghissimo è stata una esperienza fondamentale, con il sole e con la pioggia, sentivo il freddo del grigio del muro di calcestruzzo, di là i dannati, i detenuti, di qua gli uomini liberi…
All’improvviso, un giorno mi viene in mente il verso di inizio della poesia «Il bacio è la tomba di Dio» che non capii da dove fosse uscito, ma lo capii in seguito: il verso era la risposta che la mia mente dava per documentare la condizione spirituale del lunghissimo muro di calcestruzzo alla mia sinistra. La risposta mi era stata data con il verso di inizio; poi tutto il seguito della poesia non è altro che una serie di cripto citazioni e di rimandi a versi di altri poeti che nei successivi cinque anni mi venivano in mente, in modo da costituire un vero e proprio polittico, con salti spazio temporali, interventi di personaggi veri e di fantasia. La poesia – posso dirlo – si è venuta costruendo da sola, senza l’intervento del mio «io», o meglio, io mi sono occupato soltanto della regia esterna, tutto ciò che c’è dentro alla composizione si è formato da solo. Penso che ad un certo punto la poesia abbia iniziato ad esercitare una forza di attrazione verso tutto ciò che essa riteneva di dover attrarre ed ingurgitare, e così spezzoni di citazioni, frasi e icone immaginarie sono state attratte dalla frase di inizio: «il bacio è la tomba di Dio» che, in sé non significa un bel nulla perché vuole significare qualcosa che sta oltre le possibilità espressive del linguaggio ma che è contenuto nel linguaggio.
In un certo senso, la poesia non sarebbe venuta fuori se non avessi accettato di far fare al mio «io» un passo indietro e di porre come orizzonte della significazione e del senso l’indicibile come compito precipuo della poesia.
Soltanto qualche giorno fa il mio ultimo tocco è stato di suddividere la poesia in distici. E il lavoro lo considero ormai ultimato. Dunque, cinque anni di lavoro.
Perchè tutta l’arte contemporanea è impregnata da una ineludibile, terribile e affascinante tensione dissacratoria e autodistruttiva, da una disperata necessità di mettere a morte qualcosa che non vuole e non può finire, di violare un confine irraggiungibile, accedere all’inconoscibile, a un un “altro pensiero”, completamente diverso dal consueto, dove incontrare il “dio che solo ci può salvare” (Heidegger), perchè “l’arte vale più della verità”
( Nietzsche) ?
Perchè…il bambino si guarda attorno, nella sala deserta, chiama qualcuno che non risponde.
Poi…il profumo del sogno, le porte si spalancano, entra un cielo ferito, creature di sonno uccidono il tempo, l’amore è un uragano di specchi, Dio un sospiro, la notte grida e raccoglie i suoi incesti, la macchina nasconde le forme dell’inizio.
Il dolore segna il confine, il pensiero è un sogno crocifisso.
Il pianto del bambino, la musica violata, l’angelo che si svena, il precipizio che sorride e accarezza…
cari amici,
il post di oggi è moto importante perché ci aiuta, ci dà delle indicazioni per andare avanti. Purtroppo mi sono preso un virus intestinale e oggi sono proprio senza forze. Spero domani di essere in grado di dire qualcosa.
Riguardo alla idea del Manifesto rilanciata da Mario Gabriele, vorrei sapere cosa ne pensate Voi lettori dell’Ombra…
Caro Giorgio, la prima cura contro qualunque disturbo intestinale è il caldo; provvedi a indossare biancheria di lana,pantaloni pesanti, e praticare una dieta equilibrata, di tipo mediterraneo,E,innanzitutto, non stare a lavorare anche di notte,incurante di qualunque disagio,Io non sto al meglio,ma la mia condizione rientra pienamente nella mia realtà di ansia esasperata,che pretendo di gestire da sola, con esiti sempre più modesti,nonchè nell’età,nella malattia, nei dispiaceri passati e presenti.Tu hai ancora anni da poter sperdere nella vita attiva e nel lavoro,hai il dovere di stare bene, anche per gli altri.Buon Natale,col vento del mare, Anna
A proposito della poesia del «dicibile» e dell’«indicibile»
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/18/dieci-domande-di-giorgio-linguaglossa-a-giorgio-agamben-sullangelo-della-storia-e-sullangelo-dellarte-con-una-poesia-inedita-da-la-notte-e-la-tomba-di-dio/comment-page-1/#comment-46261
carissima Anna,
grazie per questi tuoi consigli, li seguirò senz’altro e sarò più prudente nel cibo. Non era nulla di particolare, un virus che già oggi il mio fisico ha debellato.
Ritorno al post in vetrina, che credo sia importantissimo, perché solleva un’altra questione cruciale, anche se non viene espressamente nominata, il problema dell’indicibile nel linguaggio e, quindi, nella poesia. Il problema non è affatto di poco conto, ma è centrale. Per esempio, in una poesia di buona fattura come quella postata tre giorni addietro, di Lorenzo Mullon, noi troviamo piacere a scoprire che il «detto», la «onoma» corrisponde perfettamente alla «res». Le poesie di Mullon sono piacevoli perché sono interamente significate, si fermano al «detto» delle «cose». La poesia di Mullon (lo prendo in esame perché è l’esempio perfetto di quanto voglio dire) si ferma al «dicibile». Tutto ciò che viene detto risulta completamente comprensibile.
Se prendiamo, ad esempio, la mia poesia compresa nel post attuale, ci troviamo davanti al tentativo di forzare al massimo grado le porte del «dicibile» per sondare la dimensione dell’«indicibile». Se avete la bontà e la pazienza di rileggere la poesia, già dalle prime righe siamo proiettati in una situazione ultronea: una «Torre» immersa nella neve (l’immagine mi è stata suggerita dalla fotografia di Evgenia Arbugaeva) con una scrittura sopra la porta d’ingresso, misteriosa e terrifica. I continui salti spazio-temporali, l’apparizione in presenza di personaggi storici (Wagner, List) o inventati, le voci esterne e le voci interne che confliggono, insomma tutta l’architettura complessiva del testo, tutte queste cose ci dicono che siamo in presenza di una situazione «indicibile» che richiede un modo di dire dell’«indicibile».
Voglio dire che una tale «questità di cose» come quella esposta nella mia poesia non sarebbe stato possibile nominarla mediante il linguaggio referenziale di Mullon, occorreva un altro concetto ed impiego del linguaggio poetico, occorreva pensare il linguaggio poetico come portatore di una entità di significazione «indicibile», appunto l’«ombra». E se riflettiamo un momento sull’«indicibile» sul quale viene costruita tutta la poesia (e in particolare la poesia della nuova ontologia estetica), ci rendiamo conto che è proprio la necessità di indicare-accennare-alludere all’«indicibile» (cioè all’ombra del linguaggio) a rendere necessario un diverso modo di intendere ed impiegare il linguaggio poetico.
Finirei col dire, parafrasando Agamben, che «non il dicibile ma l’indicibile costituisce il problema con cui la poesia deve ogni volta tornare a misurarsi».
Lascio la parola a Giorgio Agamben:
«Non l’indicibile, ma il dicibile costituisce il problema con cui la filosofia deve ogni volta tornare a misurarsi. L’indicibile non è infatti che una presupposizione del linguaggio. Non appena vi è linguaggio, la cosa nominata viene presupposta come il non-linguistico o l’irrelato con cui il linguaggio ha stabilito la sua relazione. Questo potere presupponente è così forte, che noi immaginiamo il non linguistico come qualcosa di indicibile e di irrelato che cerchiamo in qualche modo di afferrare come tale, senza accorgerci che in questo modo non facciamo altro che tentare di afferrare l’ombra del linguaggio. L’indicibile è, in questo senso, una categoria genuinamente linguistica, che solo un essere parlante può concepire. Per questo Benjamin, nella lettera a Buber del luglio 1916, poteva dire di una “cristallina eliminazione dell’indicibile nel linguaggio”: l’indicibile non ha luogo fuori dal linguaggio come un oscuro presupposto, ma, in quanto tale, può essere eliminato soltanto nel linguaggio.
Cercheremo di dimostrare che, al contrario, il dicibile è una categoria non linguistica, ma genuinamente ontologica. L’eliminazione dell’indicibile nel linguaggio coincide con l’esposizione del dicibile come compito filosofico. Per questo il dicibile non può mai darsi, come l’indicibile, prima o dopo il linguaggio: scaturisce insieme ad esso e resta, tuttavia, irriducibile ad esso»1]
1] G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 pp. 59-60
Caro Giorgio, tu ti sei preso un virus intestinale… e noi cosa dobbiamo dire fra le tue domande e le risposte di Agamben? Tra le considerazioni di Tosi e di Gino Rago? Le sollecitazioni di Mario Gabriele, Claudio Villa e Salvatore Martino? E soprattutto dopo aver meditato su “Il bacio è la tomba di Dio”? Forse anch’io devo seguire i consigli di Anna Ventura: indossare biancheria di lana, pantaloni pesanti e praticare una dieta… leggervi mi tramortisce, mi disorienta, mi provoca disagio e spaesamento… Nell’augurare a tutti felicissime feste, attendo il colpo di pistola, quello definitivo, di Pierno che non tarderà ad arrivare…
Una chiosa di Francesco Gallieri in versi sul problema della «coscienza», sul «vuoto» e sul «nulla»
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/18/dieci-domande-di-giorgio-linguaglossa-a-giorgio-agamben-sullangelo-della-storia-e-sullangelo-dellarte-con-una-poesia-inedita-da-la-notte-e-la-tomba-di-dio/comment-page-1/#comment-46268
La coscienza
Cos’è la coscienza?
Questo è il problema difficile. amico mio, l’hard problem.
I filosofi, i neurofilosofi e i neuroscienziati
hanno molto da dire sul problema difficile,
ovviamente in contrasto tra loro.
Molti sostengono che la coscienza
risiede soltanto nel cervello,
per altri è necessario l’intervento dell’intero corpo
e delle sue relazioni esterne.
Per alcuni, addirittura , la coscienza di un oggetto
non risiede nel corpo del soggetto
ma nell’oggetto stesso.
Mi limiterò a parlarti delle due teorie più in voga.
La prima, l’area di lavoro globale,
sostiene che quando le informazioni,
ancora dissociate nei vari canali cognitivi,
vengono trasmesse all’intero cervello,
generano l’attenzione su un pattern
che porta alla coscienza.
La seconda, la teoria dell’informazione integrata,
parte dai requisiti che l’esperienza personale
deve avere per rendere possibile la coscienza.
Afferma che l’esperienza esiste solo per chi la esperisce,
è definita in termini di contenuti,
è strutturata, informativa, olistica.
L’area di lavoro globale predice
che l’intelligenza artificiale avrà in futuro una coscienza,
mentre lo nega la teoria dell’informazione integrata.
Molti, che ritengono intelligenza e coscienza
non connesse, ma dissociate,
preferiscono la seconda.
In ogni caso nell’una e nell’altra teoria c’è
– a mio avviso –
uno iato epistemologico fra esperienza sensoriale
e manifestazione della coscienza,
che non risolve il problema difficile dei filosofi.
La dolce uscita di Hawking
Pare che il multiverso inflattivo
non sia più un frattale infinito
– ci dice il testamento di Hawking
A Smooth Exit from Eternal Inflation –
ma un numero limitato
una gamma minore di universi possibili.
Quando l’evoluzione all’indietro
arriva al limite del tempo di inflazione
il tempo non ha più significato
l’universo che emerge sul confine passato
è su larga scala liscio finito
più semplice
dell’omotetia interna di un frattale.
In più – ci dice Hawking –
sarebbe possibile in futuro
rilevare sperimentalmente
l’esistenza di altri universi
da una misurazione più accurata
della radiazione cosmica di fondo.
Confesso
– se ho ben capito la nuova teoria –
che preferisco il multiverso infinito.
Renderebbe più consistente la risposta
alla domanda del perché esistiamo:
semplicemente perché ci sono infinite
possibilità di esistere.
Il Vuoto e il Nulla
Se sei incerto
sul Vuoto e sul Nulla
posso – per quanto posso – aiutarti un po’.
Non ho dubbi
che la teoria quantistica ci insegni
( vedi un diagramma di Feynman del vuoto )
che il Vuoto non esiste
che l’intero spazio fisico è riempito
di particelle virtuali
che si creano
e simultaneamente si distruggono
che sottostanno al principio di indeterminazione
tempo-energia
e in qualche modo conservano
energia carica e quantità di moto.
Va bene. Ma il Nulla?
Questo è filosofico.
Potresti considerare il Nulla come una infinita tela di frammenti
che creano la vita
e la distruggono,
particelle virtuali che prendono in prestito
con possibilità infinite
l`energia per esistere
da una fluttuazione temporanea del nulla.
E così il nichilismo
che oggi impera
potrebbe disporre – potente ontologia –
di un campo immenso
di potenzialità.
IL BACIO E’ LA TOMBA DI DIO.
C’è un tramestio di Vita e Morte. Gli Spiriti bussano alla porta di Carl Gustav Jung. Septem sermones ad mortuos. Si affollano e muovono a sorte le proprie esistenze. Il Tempo non esiste, spazio vuoto al calcolo bergsoniano. La madeleine di Proust rinnova il suo gesto in eterno e tramortisce nella successione dell’istante.
Una sedia dondola, vuota,cedendo posto al Poeta. Disperso. Abitatore del Nulla, ovvero di ogni Spazio. L’Invisibile trascende se stesso e anima un Manifesto saturo di segni. Criptico assenso al dialogo sopra i massimi sistemi. L’osservatore che cammina o staziona in un spazio deve osservare dall’istante a ciò che è. Il reame della scienza contraddetta. Lo spaesamento del sillabario a scena inversa.
Giorgio e il suo D_o morto in in bacio. Impronunciabile. Poiché la Torre è nel lungo gesto, diluito, verso l’Assoluto. Nel gelido inverno delle coscienze rallentate a morte. A vita.
Con affetto, Marina
Ci riprovo!
…allora possiamo ricominciare a scrivere poesie.
GRAZIE OMBRA.
Auguri.
il mio antico e non vecchio ancora amico Antonio Sagredo non ama affatto gli angeli e tutte le storielle (dice lui) che hanno inventato intorno.
Un giorno di fine ottobre 1989 mi disse, quando ebbe terminato la stesure delle sue dieci “legioni”, che se fosse stato in grado di realizzare un qualcosa che avesse riguardato gli angeli, avrebbe realizzato un lager dove scannarli. Io gli risposi che era esageratamente spietato e crudele e gli ricordai il bene che questi esseri o creature hanno realizzato nella loro storia,
prescindendo dalla storia umana. Sagredo mi rispose con una risata sardonica e demenziale quasi da carnefice della Inquisizione spagnola…
insomma mi rispose soltanto con quella rista infernale, che ancora riccordo e che mi ha lasciato un brivido che persiste nel mio subinconscio.
Nonostante tutto decisi di restare suo amico, perché di questo poeta ne riconobbi tra i primi il valore.
Comunque BUONE FESTIVITA’
Giovanni Ragno
Se Linguaglossa dovesse ritenere che siano troppi i versi…. può tagliare quelli che desidera. Grazie.
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L’amico Ragno mi costringe a rispondere, e gli rispondo a mio modo con alcuni miei versi (pochi) e tra quelli più leggeri:
(i termini angelo/angeli ricorrono ben 78 volte – ho scelto al plurale)
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Forse che l’Appeso
esclude dal patibolo le proprie parole
o il boia s’infervora se la corda
è tenace e non vuole più impiccare?
So che gli angeli non amano gli Ordini
se non hanno per coda un concetto divino,
ma stragi, tormenti e scale
per uncinare legioni di battiti d’ali.
Sono quelli ovipari dalla spada onnisciente!
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… e allora io vidi le pietre giacere con gli stermini
e generare stelle e croci sulla Via dei Macelli,
il sangue in esili rivoli di fumo giocare agli epitaffi,
smaniose le sfere celesti… Dio e gli Angeli… disarmati!
I beffardi sorrisi delle marionette… consacrati…
(presi per mano quel buon diavolo
di Dio, lo accompagnai per portarlo
sulla buona strada: poverino, come un orfano
s’era smarrito da quando gli angeli
non lo avevano più riconosciuto).
Hanno venduto l’argento degli specchi sotto il Tempio!
Hanno pianto il tradimento ai quattro angoli – gli Angeli!
Hanno lacerato i nastri funebri come Furie, hanno pestato i fiori,
hanno implorato Iddio di lasciarLo in pace, di non torturarlo più!
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Mi circondano le tue labbra:
questi quattro candelabri accesi!
questi quattro angeli in calore – spadaccini!
queste farfalle gladiatrici!
spugne rossastre!
ventose che succhiano il mio pilastro,
e il mio capezzale!
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perché – spiegava – nel circo tutto è possibile,
anche l’esistenza degli dei, delle religioni come surrogati,
dei santi… dei martiri, e angeli a ufo di tutte le taglie,
e ancora sacerdoti: comparse-canaglie che mai svaniscono!
– perfino la dignità libertina degli eretici, dal cilindro!
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E mi circondano angeli cretini che ai tarocchi si giocano un capezzale
di sconfitte e di vittorie… candelabri, croci e mezzelune!
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Ah, i tempi pagani…
quando su ogni gradino c’era un sogno ad aspettarti,
quando nelle fucine il tabernacolo era sugli altari
e il volo degli ossessi… erano bianchi di sangue!
Demoni e angeli hanno generato un serpente sulla croce
e il vessillo lupesco delle notti,
perché le danze di Golgotha e Valpurga
generassero il canto del falco
che sanguina, sanguina…
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Questo secolo, ricordatevi, avrà il suo benestare dall’oblio
e io non devo brindare ai suoi trionfi, né alle sue esequie,
ché dietro il carro non vi sono angeli, né ceri in pianto,
ma un bimbo senz’arti dietro si trascina sul selciato.
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– mi sono ricordato l’infanzia delle vigilie eretiche…
bestemmie contro gli angeli e tutti gli dei in ogni tempo,
i pugni dei miei occhi contro tutti gli altari e i cristi crocefissi,
le omelie blasfeme da pulpiti e patiboli come frustate inquisitorie
perché interdetto è il condannare per chi il diniego e la smorfia
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E il lutto non s’addice più alle nostalgie dei nastri funebri, a quegli angeli
che sui feretri sono marionette…
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Non chiederò agli angeli scannati la farsa delle resurrezioni! Perché dai trionfi delle catastrofi accetterò soltanto gli stermini recidivi… e la mia fine!
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Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza
e sui moli sorridere ai suoni e ai rintocchi della Cenere, proprio noi gli assassinati
da Dio, dobbiamo scannare gli angeli per definizione come in un alogico assioma
interdetto alla finzione!
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E come in un mio verso antico mi riflettevo su Narciso
Che gli angeli scannava come agnelli,
Che spegneva i candelabri simili a patiboli
E oscillavano fiammelle orripilanti…
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E nelle mie Legioni cantai gli scannamenti degli angeli ossessi
Che alle ali negarono il volo come all’attore l’unico sospeso
Gesto…
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È ingiusto pensare che la poesia è soggetta agli angeli,
umilmente si crede che siano dei demoni.
L’umiltà dei poeti si genera in luoghi conosciuti,
la loro superbia è possanza della consapevolezza.
Quale creatura irrazionale desidera il potere degli angeli
che una sola lingua ciarlano in una casa non loro.
E che felici e gioiosi donano labbra e dita
per non mutare a loro vantaggio la sua destinazione?
(Dal signor Gallo che scrive :
“…attendo il colpo di pistola” e che senza saperlo fa il verso ad alcuni poeti russi (vedi più sotto) e in più è molto pericoloso avere tali presagi (non è questo il caso) e che è prerogativa dei poeti russi (sono in maggioranza)
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Quanto al “Bacio che è la tomba di Dio” (?! )….
una similare espressione troviamo in il poema “Il Demone” di Lermontov,
dove non è “di Dio”, ma è “divina”.
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Ai miei amici poeti
Chi è morto tragicamente, è un vero poeta,
E se al momento giusto, lo è del tutto.
Al numero 26 uno di loro andò dritto verso una pallottola,
Un altro infilò la testa nel cappio all’“Angleterre”. (1)
A 33 anni Cristo… (era un poeta, diceva:
“Su, non uccidere! Se ucciderai, io ti troverò dappertutto”).
Ma gli misero i chiodi alle mani, perché non combinasse qualcosa,
Perché non scrivesse e perché pensasse meno.
A me, a 37 anni, − ora come ora mi sta passando la sbornia.
Ed ecco rabbrividisco:
A questo numero, Puškin arrivò giusto in tempo per il suo duello
E Majakovskij incollò la tempia alla bocca della pistola. (2)
Fermiamoci al numero 37! Dio è perfido,
Pose la questione come aut-aut.
Byron e Rimbaud sono caduti a questa soglia,
Ma i nostri contemporanei l’hanno oltrepassata.
Il duello non ha avuto luogo o forse è stato rinviato,
A 33 anni c’è stata crocefissione ma non grave.
E a 33 anni non c’è stato sangue, ma che sangue?! E i capelli bianchi
Non hanno macchiato troppo le tempie.
E tirarsi un colpo? Da un pezzo il cuore è saltato in gola.
Pazienza, psicopatici e isterici!
I poeti camminano sul filo del rasoio
E si tagliano a sangue le loro anime scalze.
Il poeta ha un collo troppo lungo.
Accorciare il poeta! La conclusione è chiara, −
Ha un coltello conficcato! Ma lui è felice di pendere sgozzato
Dalla lama, per essere stato pericoloso!
Vi compatisco fanatici delle date e dei numeri fatali!
Languite come concubine nell’harem!
La durata della vita è aumentata, e forse anche la fine
Dei poeti si è spostata di un po’!
1971
Vladimir Semënovič Vysockij
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(l) Il riferimento è al poeta Lermontov, morto nel 1841 in seguito ad un duello, all’età di 26 anni.
Esenin si impiccò nell’hotel “Angleterre” nella notte tra il 26 e il 27 dicembre 1925.
(2) Puškin fu ferito a morte in un duello nel 1837.
Majakovskij si suicidò con un colpo di pistola nel 1930 all’età di 37 anni.
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a.s.
Puskin fu ucciso in un duello archietettato dallo ZAR
Lermontov… idem
Esenin, si impicco? Ridicolo! Fu impiccato!
Majakovskij, si sparò? Ridicolo: o fu costretto ad uccidersi o fu ucciso!
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in comune questi 4 poeti avevano possedevano il presagio di “dover” morire di morte violenta e per giunta non desiderata
finis
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Sei domande a Giorgio Agamben
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/18/dieci-domande-di-giorgio-linguaglossa-a-giorgio-agamben-sullangelo-della-storia-e-sullangelo-dellarte-con-una-poesia-inedita-da-la-notte-e-la-tomba-di-dio/comment-page-1/#comment-46676
Domanda:
Possiamo dire che con la nascita delle Muse nasce anche l’istanza enunciativa dell’io? Possiamo affermare che l’istanza enunciativa della prima persona si distacca dalla istanza enunciativa del canto corale qual era, presumibilmente, prima della nascita delle Muse? Le Muse infatti sono nove (Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania e Calliope) e il loro canto è discorde, dispari.
Possiamo dire che con la pluralità dispari delle Muse nasce anche l’istanza soggettiva dell’enunciazione, ed è essa stessa il prodotto della problematicità di aderire interamente al linguaggio nel quale ha preso dimora?
Risposta:
L’inno alle Muse, che fa da proemio alla Teogonia di Esiodo, mostra che i poeti sono per tempo consapevoli del problema che pone l’inizio del canto in un contesto musaico. La doppia struttura del proemio, che ripete due volte l’esordio (v.1: «Dalle Muse eliconie cominciamo»; e v. 36: «Dalle Muse cominciamo») non è dovuta soltanto alla necessità di introdurre l’inedito episodio dell’incontro del poeta con le Muse in una struttura innica tradizionale in cui esso non era assolutamente previsto. Vi è, per questa inaspettata ripetizione, un’altra e più significativa ragione, che concerne la stessa presa di parola da parte del poeta, o, più precisamente, la posizione dell’istanza enunciativa in un ambito in cui non è chiaro se essa spetti al poeta o alle Muse. Decisivi sono i vv. 22-25, in cui, come non hanno mancato di notare gli studiosi, il discorso trapassa bruscamente da una narrazione alla terza persona in un’istanza enunciativa contenente lo shifter «io»:
Esse (le Muse) una volta insegnarono a Esiodo un bel canto
mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicona:
questo discorso innanzitutto a me rivolsero le dee…
Si tratta, secondo ogni evidenza, di inserire l’io del poeta come soggetto dell’enunciazione in un contesto in cui l’inizio del canto appartiene incontestabilmente alle Muse, ed è, tuttavia, proferito dal poeta: «cominciamo dalle Muse» – o, meglio, se si tiene conto della forma media e non attiva del verbo: «Dalle Muse è l’inizio, dalle Muse iniziamo e siamo iniziati»; le Muse, infatti, dicono con voce concorde «ciò che è stato, ciò che sarà e ciò che fu» e il canto «scorre soave e instancabile dalle bocche» (vv. 38-40).
Il contrasto fra l’origine musaica della parola e l’istanza soggettiva dell’enunciazione è tanto più forte, in quanto tutto il resto dell’inno (e dell’intero poema…) riferisce in forma narrativa la nascita delle Muse da Mnemosine, che si unisce per nove notti a Zeus …
L’origine della parola è musaicamente – cioè musicalmente – determinata e il soggetto parlante – il poeta – deve ogni volta fare i conti con la problematicità del proprio inizio. Anche se la Musa ha perduto il significato cultuale che aveva nel mondo antico, il rango della poesia dipende ancora oggi dal modo in cui il poeta riesce a dare forma musicale alla difficoltà della sua presa di parola – da come, cioè, perviene a far propria una parola che non gli appartiene e alla quale si limita a prestare la voce.
La Musa canta, dà all’uomo il canto perché essa simboleggia l’impossibilità per l’essere parlante di appropriarsi integralmente del linguaggio di cui ha fatto la sua dimora vitale. Questa estraneità marca la distanza che separa il canto umano da quello degli altri esseri viventi. Vi è musica, l’uomo non si limita a parlare e sente, invece, il bisogno di cantare perché il linguaggio non è la sua voce, perché egli dimora nel linguaggio senza poterne fare la sua voce. Cantando, l’uomo celebra e commemora la voce che non ha più.
Per questo alla musica corrispondono necessariamente prima ancora che delle parole, delle tonalità emotive: equilibrate, coraggiose e ferme nel mondo dorico, lamentose e languide nello ionio e nel lido. Ed è singolare che ancora nel capolavoro della filosofia del ‘900, Essere e tempo, l’apertura originaria dell’uomo al mondo non avvenga attraverso la conoscenza razionale e il linguaggio, ma innanzitutto in una Stimmung, in una tonalità emotiva che il termine stesso rimanda alla sfera acustica (Stimme è la voce). La Musa – la musica – segna la scissione fra l’uomo e il suo linguaggio, fra la voce e il logos. L’apertura primaria al mondo non è logica, è musicale.
Domanda:
Io penso da tempo che ogni nuova poesia porta con sé una Grundstimmung (per Heidegger una «tonalità emotiva fondamentale») che dà alla poesia non soltanto una tonalità particolare ma una individualità tono-fono-simbolica inimitabile e indispensabile. Ecco perché i singoli modi di fare poesia sono incomunicabili in quanto sono individualità assolute; di qui la estrema difficoltà a distinguere e individuare una Grundstimmung dall’altra, di solito accade che quando sei nella nuvola tonale di una Grundstimmung non riesci ad uscirne se non a prezzo di ostacoli molto grandi, più grande di tutti è la difficoltà di superare il proprio gusto pregresso, abbandonare le confidenze musicali acquisite.
In tutte le epoche, ma nella nostra in particolare, si assiste al fenomeno dell’epigonismo di massa per cui un certo linguaggio poetico che, a detta dei più, contiene una «tonalità emotiva fondamentale», tende ad essere replicata all’infinito dalle masse e dalle tecniche di riproduzione di massa, ma al punto più basso, quello raggiungibile appunto dalle masse, e quello consentibile dalle istituzioni pubbliche e private che veicolano quel linguaggio poetico e musicale. Penso che le moderne democrazie dell’Occidente non si distinguano in nulla, da questo punto di vista, dalle demokrature di stampo putiniane, orbaniane e trumpiane. Lo scarsissimo livello delle democrazie occidentali trova il suo equivalente nello scarsissimo livello estetico della poesia che producono. Il fenomeno è fisiologicamente diverso da quello che filosofi come Horkheimer e Adorno tratteggiavano negli anni cinquanta quando parlavano di «industria culturale» e di «società di massa», oggi le nostre democrazie si avvalgono in larghissima scala della pessima musica che si veicola nel loro interno, in tal modo trovano più facile imporre una pessima politica e una demagogia millantatoria. Il decadimento del linguaggio poetico in auge nelle nostre democrazie occidentali è e sarà, presumibilmente, un fenomeno stabile indispensabile per la stabilizzazione e la standardizazione delle democrazie al loro livello più basso.
Risposta:
Se l’accesso alla parola è, in questo senso, musaicamente determinato, si comprende che per i Greci il nesso fra musica e politica fosse così evidente che Platone e Aristotele trattano delle questioni musicali solo nelle opere che essi chiamavano mousiké (che comprendeva la poesia, la musica in senso proprio e la danza) con la politica era così stretta che, nella Repubblica, Platone può sottoscrivere l’aforisma di Damone secondo cui «non si possono cambiare i modi musicali senza cambiare le leggi fondamentali della città» (424 c). Gli uomini si uniscono e organizzano le costituzioni delle loro città attraverso il linguaggio, ma l’esperienza del linguaggio – in quanto non è possibile afferrarne e padroneggiarne l’origine – è a sua volta già sempre musicalmente condizionata.
L’infondatezza del logos fonda il primato della musica e fa sì che ogni discorso sia già sempre musaicamente accordato. Per questo, ancor prima che attraverso tradizioni e precetti che si trasmettono nel medio della lingua, gli uomini in ogni tempo vengono più o meno consapevolmente educati e disposti politicamente attraverso la musica. I Greci sapevano perfettamente ciò che noi fingiamo di ignorare, e, cioè, che è possibile manipolare e controllare una società non soltanto attraverso il linguaggio, ma innanzitutto attraverso la musica. Come altrettanto e più efficace del comando dell’ufficiale è, per il soldato, lo squillo della tromba o il rullo del tamburo, così in ogni ambito e prima di ogni discorso, i sentimenti e gli stati d’animo che precedono l’azione e il pensiero sono determinati e orientati musicalmente. In questo senso, lo stato della musica (includendo in questo termine tutta la sfera che imprecisamente definiamo col termine «arte») definisce la condizione politica di una determinata società meglio e prima di qualsiasi altro indice e, se si vuole mutare veramente l’ordinamento di una città, è innanzitutto necessario riformarne la musica. La cattiva musica che invade oggi in ogni istante e in ogni luogo le nostre città è inseparabile dalla cattiva politica che le governa.
Domanda:
Il linguaggio poetico-musicale allora deve fare esperienza dell’infrangersi (lo «Zerbrechen» di Heidegger) del linguaggio contro gli scogli dei suoi limiti interni ed esterni, deve mostrare i segni e le cicatrici delle ferite che il linguaggio poetico reca in sé come memoria di quei conflitti con se stesso e il mondo. Un linguaggio poetico che non porta impresse su di sé le ferite, le stimmate di quello scontro è chiacchiera, parole al vento, parole fatte di acqua, nemico della memoria…
Risposta:
Il linguaggio si dà oggi come chiacchiera che non urta mai il proprio limite e sembra aver smarrito ogni consapevolezza del suo intimo nesso con ciò che non si può dire, cioè col tempo in cui l’uomo non era ancora parlante. A un linguaggio senza margini né frontiere corrisponde una musica non più musaicamente accordata e a una musica che ha voltato le spalle alla propria origine una politica senza consistenza né luogo. Dove tutto sembra indifferentemente potersi dire, il canto viene meno e, con questo, le tonalità emotive che musaicamente lo articolano. La nostra società – dove la musica sembra penetrare freneticamente in ogni luogo – è, in realtà, la prima comunità umana non musaicamente (o amusaicamente) accordata. La sensazione di generale depressione e apatia non fa che registrare la perdita del nesso musaico con il linguaggio, travestendo come una sindrome medica l’eclisse della politica che ne è il risultato. Ciò significa che il nesso musaico, che ha smarrito la sua relazione con i limiti del linguaggio, produce non più una Teia moira (ndr. invasamento divino), ma una sorta di missione o ispirazione bianca, che non si articola più secondo la pluralità dei contenuti musaici, ma gira per così dire a vuoto. Immemori della loro originaria solidarietà, linguaggio e musica dividono i loro destini e restano tuttavia uniti in una medesima vacuità.
È in questo senso che la filosofia può darsi oggi soltanto come riforma della musica. Poiché l’eclisse della politica fa tutt’uno con la perdita dell’esperienza del musaico, il compito politico è oggi costitutivamente un compito poetico, rispetto al quale è necessario che artisti e filosofi uniscano le loro forze. Gli uomini politici attuali non sono in grado di pensare perché tanto il loro linguaggio che la loro musica girano amusaicamente a vuoto. Se chiamiamo pensiero lo spazio che si apre ogni volta che accediamo all’esperienza del principio musaico della parola, allora è con l’incapacità di pensare del nostro tempo che dobbiamo misurarsi. E se, secondo il suggerimento di Hanna Arendt, il pensiero coincide con la capacità di interrompere il flusso insensato delle frasi e dei suoni, arrestare questo flusso per restituirlo al suo luogo musaico è oggi per eccellenza il compito filosofico.
Domanda:
però, nel concetto di lékton degli stoici, del «dicibile», vi è compreso anche l’«indicibile», perché altrimenti, se tutto ciò che è «dicibile» equivalesse al «detto», non ci sarebbe più bisogno della lingua, essendo tutte le cose già dette confluite nel detto e, quindi, nel dicibile. Ma siccome non tutto il «dicibile» è composto dal «dicibile» ma comprende anche un quid di «indicibile», ecco che appare chiarissimo questo nostro concetto di «dicibile» che comprende anche una quota di «indicibile», altrimenti la lingua, anzi, il linguaggio, cesserebbe semplicemente di esistere.
La poesia, l’arte, si occupano in primissimo luogo di percepire e dire nel «dicibile» quella quota di «indicibile» che è già nel linguaggio. È ovvio che la «nuova poesia» si occupi di quel dicibile che comprende in sé una maggiore quota di «indicibile».
Se riflettiamo un momento sull’«indicibile» sul quale viene costruita tutta la poesia (e in particolare la poesia della nuova ontologia estetica), ci rendiamo conto che è proprio la necessità di indicare-accennare-alludere all’«indicibile» (cioè all’ombra del linguaggio) a rendere necessario un diverso modo di intendere ed impiegare il linguaggio poetico.
Finirei col dire, parafrasando Agamben, che «non il dicibile ma l’indicibile costituisce il problema con cui la poesia deve ogni volta tornare a misurarsi».
Risposta:
«Non l’indicibile, ma il dicibile costituisce il problema con cui la filosofia deve ogni volta tornare a misurarsi. L’indicibile non è infatti che una presupposizione del linguaggio. Non appena vi è linguaggio, la cosa nominata viene presupposta come il non-linguistico o l’irrelato con cui il linguaggio ha stabilito la sua relazione. Questo potere presupponente è così forte, che noi immaginiamo il non linguistico come qualcosa di indicibile e di irrelato che cerchiamo in qualche modo di afferrare come tale, senza accorgerci che in questo modo non facciamo altro che tentare di afferrare l’ombra del linguaggio. L’indicibile è, in questo senso, una categoria genuinamente linguistica, che solo un essere parlante può concepire. Per questo Benjamin, nella lettera a Buber del luglio 1916, poteva dire di una “cristallina eliminazione dell’indicibile nel linguaggio”: l’indicibile non ha luogo fuori dal linguaggio come un oscuro presupposto, ma, in quanto tale, può essere eliminato soltanto nel linguaggio.
Cercheremo di dimostrare che, al contrario, il dicibile è una categoria non linguistica, ma genuinamente ontologica. L’eliminazione dell’indicibile nel linguaggio coincide con l’esposizione del dicibile come compito filosofico. Per questo il dicibile non può mai darsi, come l’indicibile, prima o dopo il linguaggio: scaturisce insieme ad esso e resta, tuttavia, irriducibile ad esso»1]
Domanda:
Allora, come fare per varcare quella soglia che è sorvegliata dalla Musa e che non è possibile superare se non mediante un evento che cade dal cielo, una Teia moira, una divina frenesia?
Risposta:
Occorre risalire al di là dell’ispirazione verso quell’evento di parola, la cui soglia è custodita e sbarrata dalla Musa. Mentre i poeti, i rapsodi e, più in generale, ogni uomo virtuoso agisce per una Teia moira, un destino divino di cui non è in grado di dar conto, si tratta di fondare i discorsi e le azioni in un luogo più originario dell’ispirazione musaica e della sua mania… In questione è qui il luogo proprio della filosofia: esso coincide con quello della Musa, cioè con l’origine della parola – è, in questo senso, necessariamente proemiale. Situandosi in questo modo nell’evento originario del linguaggio, il filosofo riconduce l’uomo nel luogo del suo divenire umano, a partire dal quale soltanto egli può ricordarsi del tempo in cui non era ancora uomo. La filosofia scavalca il principio musaico in direzione della memoria, di Mnemosine come madre delle Muse e in questo modo libera l’uomo dalla Teia moira e rende possibile il pensiero.
Domanda:
L’evento è nel linguaggio?
Risposta:
L’evento, che è in questione nel linguaggio, può essere solo annunciato o congedato, mai detto (non che esso sia indicibile – indicibile significa solo im-predicibile; esso coincide, piuttosto, col darsi dei discorsi, col fatto che gli uomini non cessano di parlarsi l’un l’altro). Ciò che del linguaggio si riesce a dire è solo prefazione o postilla e i filosofi si distinguono secondo che preferiscano la prima o la seconda, si attengano al momento poetico del pensiero (la poesia è sempre annuncio) o al gesto di chi, in ultimo, depone la lira e contempla. In ogni caso, ciò che si contempla è il non-detto, il congedo dalla parola coincide con il suo annuncio.
1] G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 pp. 59-60
La scrittura poetica è «una produzione di significati»,
un atto di im-posizione del linguaggio alle cose; quando invece la posizione del poetico dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio, sostare un passo indietro, un attimo prima che la parola ci raggiunga, dall’esterno, con la sua dote di «imposizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger; se invece andiamo oltre, se procediamo verso il linguaggio, con attese, con im-posizioni, con Gestell, ecco che quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, il nostro linguaggio verrà intaccato dalla «imposizione» dei linguaggi che provengono dall’esterno, dal mondo dell’utilitarietà, dal mondo delle condotte, delle pratiche, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria im-posizione.
Il problema è molto complesso e non riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema dell’io che impera nel mondo tecnologizzato delle società mass-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere buona poesia, l’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione; l’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria sopravvivenza, lavora per i progetti di auto organizzazione dell’io, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nella comunità linguistica e mediatica, non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.
La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più accreditati, altro non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici, scrittura utilitaria, impositiva, progettante, narrativizzante, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria, che è l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, scrittura da risultato, che parla con un linguaggio imperativo, giustificato, giustificatorio.
Qualcuno mi chiederà: «che cosa intendi per linguaggio giustificatorio»? Risponderei così: con linguaggio giustificatorio intendo la posizione del «poeta» che si pone in un angolino del «mondo» e di lì si interroga e interroga il «creato» alla ricerca di un «senso» che giustifichi la propria esistenza. Ebbene, questa è una finzione e un falso, è una posizione imbonitoria, assolutoria, in quanto si assume un Gestell, un podio, e ci si mette in posa, in alto sullo zoccolo, proprio come una statua, e di lì si sciorinano pensieri meditabondi, efflorescenze di narcisismi. La poesia che si fa oggi è ricchissima di cotali «poeti» che oggi sono di moda e vengono celebrati. Un nome per tutti: Franco Arminio, incomparabile nell’adamismo della sua positura assolutoria dalla quale sciorina incensamenti alla pacificazione, buonismi e banalismi in grande quantità.
Qualche tempo fa un poeta mi ha scritto che non «condivide affatto il [mio] giudizio apocalittico» sulla morte della poesia italiana, che invece godrebbe, a suo parere, di ottima salute. Al di là dei convincimenti personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, penso, e ho tentato di argomentare questo mio pensiero in varie mie pubblicazioni, che la poesia di questi ultimi decenni sia stata fatta per esigenze privatistiche, psicologiche, per ragioni encomiastiche di status symbol, per personalismi, per narcisismo, senza alcun progetto culturale e consapevolezza storico culturale della poesia del novecento. La mia impressione, spero di sbagliarmi, è che la poesia italiana di queste ultime decadi è un genere di scrittura privatistica priva di valore culturale, un genere di scrittura non retta da alcuna normazione di poetica, alcuna episteme direbbe un filosofo. Una scrittura imbonitoria.