
No, non ci sono mai stato
Vladimir Holan (Praga 1905-1980). Dopo la prima raccolta di versi, Il ventaglio delirante (1926), maturata, sia pure con originalità di dettato e di temi, nel clima del poetismo, si tenne sempre in disparte dalle correnti letterarie contemporanee. La sua vocazione alla solitudine si manifestò anche in una impressionante scelta esistenziale: a partire dall’ultima guerra e fino alla morte, osservò nella sua casa nell’isola di Kampa (Praga) una rigorosa autoreclusione. La sua poesia densamente intellettualistica, ricca di metafore insieme oscure e cristalline e tesa a distillare i nuclei metafisici del rapporto fra uomo e realtà (Trionfo della morte, 1930, nt; L’arco, 1934, nt), si volse, a contatto con i tragici avvenimenti della guerra e dell’occupazione nazista, verso una maggiore affabilità, raggiungendo a tratti una semplice e grandiosa eloquenza epica (Primo testamento, 1940, nt; Terezka Planetova, 1944, nt; Viaggio d’una nuvola, 1945, nt; Ringraziamento all’Unione Sovietica, 1945, nt; Requiem, 1945, nt; Soldati rossi, 1956, nt). Dopo questa parentesi, H. abbandonò definitivamente i temi politici e tornò, approfondendole, alle sue ardue visioni interiori. Nel poema Una notte con Amleto (1964), gli incubi della fantasia del poeta parlano per bocca di una stralunata reincarnazione dell’eroe shakespeariano, in un frenetico sovrapporsi di tempi storici e di motivi mitici ed etnologici. Nella produzione degli ultimi anni si ricordano: Ma c’è la musica (1968, nt), Un gallo a Esculapio (1970, nt), I documenti (1976, nt), Tutto è silenzio (1977, nt). Pur nel suo itinerario isolato e singolare, la poesia di H. – una delle più compiute espressioni della lirica del Novecento – dimostra una spontanea contiguità con alcune costanti della poesia ceca: la tensione barocca con i suoi possibili sbocchi surrealisti; l’ispirazione notturna, che ha il massimo esempio nell’opera di Mácha e che in Holan è, soprattutto, presenza occulta della morte come matrice della vita.
Sapeva di dover continuare per questa via angusta, ma questa via, del tutto spopolata e priva di pietre miliari, d’un tratto gli apparve inghirlandata di alberi in fiore, dei quali non gli era stata fatta alcuna menzione. Di colpo si verificò un cortocircuito meditativo, e quei dettagli interni, che si rinnovavano con implacabile ripetitività, presero a scurirsi, come a dimostrare che anche la nostra anima avevano portato la luce elettrica nei suoi anfratti. Un’obiezione inconsueta ma concomitante, proclamata ma inaudita, un punto saldo, un sommario certo che conclude (non impune) la prospettiva della propria sicumera, tutto ciò presente nelle supposizioni del suo smarrimento amplificava l’ammissione nella certezza, tutto ciò che era soltanto falsità e a cui si poteva sempre sommare la menzogna, la condizione aguzza del diamante, rassicurata dal languido ermellino, il superamento dei rimorsi, che consente di soccombere, lo sviluppo spirale dei presagi, i particolari della sconfitta, tutto ciò con cui indaffarò la confidente apprensione, vale a dire migliaia di congetture e la pallida prominenza delle supposizioni, che subornano la vigilanza al consenso – tutto questo era ora roccia, impilata in forma grezza oltre il velo di queste pause fruttuose, tratti e luci franti, e non intensi (tale era la conoscenza teorica della loro scelta).
Il passato di alcuni rami, irradiato dal germoglio presente, allo stesso tempo con l’intera corona del mandorlo, corroborata da un candeliere deforme…, persistevano qui, accesi da ogni sfumatura di calore, nella fragranza, per così dire, delle droghe, che agita l’aldilà dell’allucinazione.
Ma i ciliegi, i meli e i peri di questa primavera inaspettata culminarono in un’esitazione in fiore: qui nello smalto conico del sorriso, lì nella fettuccia che sventola dal velario malaccortamente chiuso, altrove nei toni, risvegliati non tanto dai tocchi quanto piuttosto dal levarsi in aria delle api, che sciamano in nuvolette e si affrettano tra dei e provvigioni.
*
Non sapremo mai quale stato serrò o sprigionò colui che si appressa alla lettura; quale cristallo di beata concentrazione, quale cupo masso di meditazione pone sulla pagina, in modo che rimanga più a lungo spalancata; quale soffio di povertà, di qualificante e raffinata attenzione, lassitudine o eccitazione disperda, al contrario, le pagine.
Un soffio simile, il soffio del pomeriggio d’un tratto eccitato – il vento – alita tra gli alberi in fiore del preludio, come se volesse impoverire la ricchezza della loro bellezza e saggiare così la sua forza o debolezza.
Il pellegrino smarrito sente in che modo laggiù, dove il fiore del silenzio incontra una deviazione di polline, ogni fogliolina, ogni petalo si accomiati taciturno e, pur tessendo la caduta, è lui che nel ruolo ignudo dell’aria insegna al vento l’indumento.
Per il pellegrino è un incantesimo: corrente, onda, originate da cosa? Dal rovesciamento del calice o dal suo eccessivo riempirsi? Era necessaria la violenza, la negligenza o magari la generosità? Qui nella notte, comunque, a me interessa soprattutto lui… Quando – osservando gli alberi – dissi tra me e me: quale brutalità fu plausibilmente impiegata in queste delicate costruzioni, avevo in mente già lui. Mi sorprese. Infiamma la voglia con la curiosità in qualche illuminazione superiore, sotto la quale di certo vive (o microscopio dissettivo dello spirito) ma allo stesso tempo qui mi sento cupo come il fondo dell’abisso tra le somiglianze di noi due e in attesa di cadervi. Ne so talmente poco che l’intendo come vivente, visto che tutto vive e santifica o sacrifica con il proprio opposto; come un abbaiato che possiede e allo stesso tempo di cui difetta; come un’isoletta nell’immaginazione, che da essa diventa mare; come una marionetta che mette piede tra il no e la transitorietà e che previene la sintesi; come una domanda: fin dove spunta dalla corporalità colui che, nell’estasi dello spirito e catturandone la freccia, afferrò l’arco del corpo… Ma il raggiungimento è talmente acuto che ci separa dal raggiunto con uno spazio fluente, implementato da una chimera, un fantasma.
Siamo sull’Acheron… Qui qualcuno infrange il timone di Caronte… Ci perderemo, avendo rifiutato il divagare… E ci perderemo nel divagare, dal momento che c’è sempre qualche chimera che ci chiama a sé, attirandoci nel punto che abbiamo appena abbandonato…
*
Continuo. Così come si aiutava a portare qualcosa di troppo enigmatico, pesante poggiando semplicemente la mano sulla colonna e la molteplicità del pensiero con la mano a sostegno della fronte –, il pellegrino (tuttora davanti agli alberi, come desumo) prende una decisione, fa calare il suo braccio nella bisaccia deposta e si avvia in direzione di Věžná.
È una costruzione diruta, celata – per così dire – tra il fogliame stormente dell’albero genealogico dei signori di Wistful, una costruzione che, come preferisce credere il mio gioco all’inganno con la colpa del riso, era stato offerto come dimora all’altro. Sul lato nord se ne può già scorgere l’angolo e la torretta. Lì, di notte, la lampada da studio, che semina sulle pagine una rugginosa violenza, rimarrà un po’ smorzata e lascerà ad altri gli accentuanti lavori circolari, in modo che la cinghia del fiume metta in moto le rotelle delle loro settimane.
Gli astuti delle fughe cercano un complice e quello la via per dimostrare le loro verità e una ricompensa immaginaria. E non è per lui già sufficiente ricompensa il circondarsi di solitudine e del muro di cinta? Ricorda, in modo che in alcuni punti sia massiccio solo in apparenza. Si metterà in marcia da qui oppure sarà assalito… L’altro mi appare come un insieme sfocato, senza che ne riconosca i singoli… Mi chiedo ancora se non sia stato capace di raggiungerlo solo perché sono affetto da presbitismo. E, pensando a quest’essere, al quale è già stato forse dato il benvenuto e sta salendo le scale, potrei fornirmi questa risposta: certo sono qui, ma è talmente lontano che mi invierò da lì alcune lettere.
Enigmi in cui l’ordito dei concetti non si fa concettosità, con una torsione barocca continuamente sconfessata e deviata dall’uso ostinato dei puntini di sospensione; e in cui la chiusa sentenziosa non è un oracolo astratto e allineato a un’idea di verità ma una constatazione accanitamente terrestre e umana, inchiodata al paradosso, che «conosce non conoscendo». Già negli anni quaranta, nel diario pubblicato con il titolo Lemuria, Holan scrisse: «Che sia la musica, là dove comincio a non capire! Sogno il diario perduto di Orfeo sulla navigazione con gli Argonauti, sogno le partiture smarrite di Pindaro e il ritratto scomparso di Cecilia Gallerani». L’ultimo tempo della sua poesia è, nelle parole dei curatori, «l’estrema propaggine di quel “folle tentativo”» che fu per lui l’armonia atonale: richiamandosi alle tecniche della musica seriale, allineava e incrociava cellule di suoni minimi, groppi di fonemi, annodando crampi di senso sottratto in uno spazio reinventato fra pensiero e distrazione, scatenando cortocircuiti in una logica dell’inconseguenza apparente che chiama il lettore a ripensarsi dentro le sue nuove dimensioni. «Sempre cerchiamo il centro … Ma lui, come un punto, / è cieco … Cercando il suo cuore, / cerchiamo la cecità … E da tempo già ciechi, / siamo soltanto un tastare».
La sua è una poesia non euclidea che porta in sé anche un tratto taoista, la cui via indica innanzitutto la non ricerca di una via; una voce volta a volta evanescente o convulsa, febbrile, attonita e spietatamente saggia, che commercia con i piani più sfuggenti e definitivi dell’essere, dove il mondo e la presenza umana ormai non sono altro se non un fondale per le evoluzioni inafferrabili della coscienza che si scrive.
La sua vocazione più forte, in cui precipitano anche la maledizione del sesso e dell’infanzia irraggiungibile, è diretta alla scoperta della «morte prima della vita» come dimora primigenia ed eternamente perduta, sotto la sferza dell’irrevocabile: «Quello che bramate, e cercate, / quello che servite, e amate, / e invocate, perché vivete – / lo esaudirà per voi forse il destino, / ma voi non ci sarete …». Estremo erede di Baudelaire e di Rilke, Vladimír Holan si interroga sull’atemporalità come alternativa a un esistere materiato di muri (grande metafora ossessiva di Holan, così come la cecità e il buio). Ma la commedia tragica della conoscenza si risolve, negli ultimi vertiginosi testi, in un giro a vuoto, in un gioco a somma zero: «La vita è un ben leggibile mistero. / Meno male che non sappiamo leggere!».
Giovanni Raboni
dalla prefazione a Il poeta murato di Vladimìr Holan
edizioni “Fondo Pier Paolo Pasolini”, Roma, 1991
(…) Nessuno di noi vuole per altro nascondersi, o nascondere al lettore, che non solo la copertina di questo libro, ma il libro stesso – la sua esistenza, la sua comparsa in questa collana – è o può sembrare una sorta di ossimoro. Quando, nel 1975, compì settant’anni Holan, una rivista italiana (…) pubblicò, assieme a una sua breve poesia inedita (…), anche dei versi, pure inediti, di Pasolini, intitolati «Guardo le finestre chiuse della casa di Holan» [Questo verso compare ora nel Frammento I in Bestia da stile, ndr]. E questi versi erano, anzi sono (anzi possono sembrare) un attacco a Holan, che Pasolini descrive come un eremita «divenuto venerabile» la cui privatezza è «vezzeggiata e protetta» dalle «migliori signore borghesi», un vecchio malato le cui mani «non gli servono più se non a tremare» e che sorbisce «brodi e tè/ come un piccolo sublime porco ferito/ ingrugnato e affabile», un «poeta da teatro» che fa «il gesto di scrivere poesia anziché scrivere poesia». … Nella decisione di pubblicare questo libro nei “Quaderni di Pier Paolo Pasolini” qualcuno potrebbe vedere una volontà di paradosso, una bizzarra e un po’ sconsiderata provocazione. Come interpretare, come giudicare altrimenti la presenza di un poeta che Pasolini non amava, al quale Pasolini si rivolgeva con dura estraneità e quasi con ripugnanza, nella collana che porta il suo nome?
Si rassicuri il lettore: le cose non stanno così. Che Pasolini, lungi dal non amare la poesia di Holan, la apprezzasse grandemente e desiderasse conoscerla più di quanto la conosceva, lo prova in modo inequivocabile un articolo uscito il 14 aprile 1974 sul «Corriere della Sera» (…) : «Un’ombra che prese corpo , un “nome” che è diventato un fatto. Holan è entrato nel novero dei poeti letti». E allora? Come si conciliano queste parole di naturale “consenso”, di lieta soddisfazione per un incontro ormai realizzato, con il ritratto impietosamente negativo consegnato ai suoi versi? La spiegazione dell’enigma è abbastanza semplice (…). La poesia [contro Holan] non è una poesia a sé stante (…) ma è parte di un lungo travagliato lavoro di Pasolini durato un intero decennio attorno alla sua ultima opera teatrale, Bestia da stile. (…). Intento a scrivere e riscrivere accanitamente, con Bestia da stile, una sorta di autobiografia tragica in cui il protagonista (cioè lui stesso) è “mascherato” da Jan Palach e ambienti e vicende subiscono di conseguenza, pur mantenendo ben visibile in filigrana la loro vera identità, cronologia e storia, un puntiglioso e volutamente incredibile “viraggio” praghese, Pasolini fu colpito, leggendo l’”Almanacco dello specchio”, non solo dai testi di Holan, ma anche dalla condizione di Holan, la quale veniva descritta nell’introduzione, premessa ai testi delle traduttrice – premessa in cui si poteva leggere, e Pasolini certamente lesse, del «leggendario, volontario isolamento» del poeta, ossia di come egli, »rinchiuso nella sua casa praghese sull’isola di Kampa» rifiutasse «con drammatica, ormai irreversibile ostinazione, ogni sortita, materiale o metaforica, nel tempo e nello spazio presenti». Non occorre essere un detective per capire come l’immaginazione di Pasolini si sia potuta fulmineamente impadronire di questa notizia e, sull’onda della sua suggestione, trasformare Holan in un personaggio aggiunto di Bestia da stile, in una sorta di antagonista a posteriori di Pasolini-Palach. Al «poeta da teatro» che, recluso volontariamente nella sua torre d’avorio, fa «il gesto di scrivere poesia» e coltiva la propria «santità» sotto la protezione della migliore borghesia, Pasolini-Palach (non dimentichiamo che è Jan, nel Frammento a pronunciare la requisitoria) contrappone la diversissima condizione da lui scelta: «io che mi spendo», «la possibilità che ho depennato», «il fatto/ di sé esempio, come tu hai fatto, non era affar mio» (…). Non credo occorra aggiungere altro (…). Se non temessi di apparire troppo malizioso (…), insisterei (mentre mi limito ad accennarvi) sulla mia impressione che il poeta vezzeggiato, decrepito e tremante, ritrovato nei versi di Pasolini assomigli infinitamente di più al vecchio Montale che a Holan, di cui chi andò a trovarlo in quegli anni (cosa che Pasolini, a quanto mi risulta, non fece, né allora né mai) ricorda la sanguigna robustezza contadina e l’apparentemente incrollabile salute, a dispetto delle micidiali sigarette che fumava di continuo e del fiasco di vino rosso che teneva accanto a sé sul tavolo del suo studio-fortezza.
di Fabio Pedone
https://ilmanifesto.it – 5 luglio 2015
Poco prima di morire, Jaroslav Seifert disse a un amico: «Io probabilmente rimango nella poesia ceca. Ma con me finisce un’epoca … Una nuova epoca ebbe inizio con Holan, il più grande tra noi, poiché aprì alla poesia ceca nuovi orizzonti, non ancora mappati, che neanch’io comprendo ancora». Non solo nella poesia ceca, ma in quella europea e mondiale, Vladimír Holan ha aperto un territorio ignoto, i cui punti cardinali sono abissalmente diversi da quelli conosciuti.
Si deve alla genialità di Angelo Maria Ripellino, suo ammiratore e amico, se il nome di questo solitario praghese ha fatto emigrare la sua fama dall’Italia in tutto il mondo. Quando nel 1966 uscì Una notte con Amleto nella «bianca» Einaudi, tradotto da Ripellino, il mondo letterario italiano si accorse di trovarsi di fronte a un poeta al quale avrebbe poi sempre guardato con enorme rispetto se non con venerazione. Recensendo l’Almanacco dello «Specchio» 1974, che ospitava traduzioni di Serena Vitale dalla raccolta In progresso, dedicata da Holan a Ripellino, Pasolini parlò del compiersi di un miracolo: «Holan è entrato nel novero dei poeti letti».
In anni più vicini ai nostri, venne inaugurato un provvidenziale progetto di traduzione dall’ultimo tempo della poesia di Holan, quello che fa riferimento grosso modo alle quattro raccolte finali. Si deve a Marco Ceriani, con la guida attenta di Giovanni Raboni, l’insistenza su questo percorso scandito da diverse pubblicazioni in rivista e in volumi importanti, tra cui Il poeta murato (uscito nel 1991 per le edizioni del Fondo Pier Paolo Pasolini) e A tutto silenzio, apparso nel 2005 negli Oscar Mondadori.
L’approdo più recente, che negli auspici migliori dovrebbe reimmettere un gigante della statura di Holan nel circolo dei poeti letti in Italia, è un’antologia autenticamente corposa, che comprende più di trecento poesie di Holan con traduzione dal ceco di Vlasta Fesslová riportata in versi italiani da Marco Ceriani, pubblicata dalle edizioni Arcipelago con il titolo Addio? (prefazione di Giovanni Raboni).

Sono stufo ormai della vostra sfronatezza…
Poesie di Vladimir Holan
Morte
Da tempo ci troviamo faccia a faccia,
tu come tu e io come paura.
Di te non so nulla. E tu, sai cos’è la vita?
E cosa i tuoi occhi? Può darsi
che tu veda tutto mentre io non vedo che te.
Ma quello che giù nella femmina è
aperto mi sgomenta come la tua bocca da baciare,
che si rifiuta cocciuta da muta,
e attende ed è attesa …
Vita
Mentre chissà dove al cospetto d’una madre di dolore
a cui morì una figliola
hanno fermato tutti gli orologi
perché lei non sapesse quando avrà luogo il funerale –
qui, proprio qui,
un piccino entra in una botteguccia
e chiede mezzo chilo
di riso per il cane: “Al babbo
piace tanto” dice.
E ieri un bambino è nato lì vicino.
Quando l’hanno mostrato, oggi, alla madre
lei ha detto “ Ha cinque ciglia in tutto
a entrambi gli occhi …”
Il tramonto del sole
Il deretano del cielo sferza da un acquivento
fino al sangue … E ancora in disparte
di nuvolaglie le garze … Con certezza
non è data sapere che cosa là in fondo
la terra patisce, prima di passarlo …
Ma gli uomini furiosamente
mordono quello che amano:
la frutta, le labbra e i seni …
Però solo i bambini possono ancora,
ma non posso oltre … Non c’è speranza
che si trovi una palla nel loro campo da gioco …
Vi prego
Si, anche il cordoglio è una passione,
la quale ama, ma non capisce
né ciò che è rifiutato, né l’opposto limite …
Che altro può fare se non
appoggiarsi in se stessa
così, di contro a ciò che è stato omesso,
quando vien meno tutto il resto
a un tal segno che non si giungerebbe a fine?
Sì, anche il cordoglio è un passione,
che capisce, ma senza amore …
Non
La tempesta … A metà del cammino ti ha su per giù sorpreso,
da dove non c’è mezzo tu torni e mezzo non c’è che tu prosegua,
e sopraggiunge un alcunché di diverso
e giunga or ora a questo …
L’erba il cespuglio l’albero più s’avvicinano
quando sono fuggiti … Gli animali
è come se avessero il sesso giusto in paradiso …
Il serpente soltanto si lascerebbe sedurre
dal latte della primipara, ma anch’esso
cerca dove essere il più solo
per una lunga distanza
e nel sangue senza sangue … Il nero
davanti al nero arretra … Non più di quanto creda…
Nasci, pati, mori…
(…)
Incapacemente tace la tua vita
perduta nel cuore, non trovata nell’amore
Perché?
Perché piangi? Perché il veduto già
è cieco? Perché non sai
come mutarti nell’immutabile?
Perché non hai d’intuito come gli abiti
toglierti e scoprirti rivestendoti?
Perché non sei mai bastantemente la tua presenza?
Mia cara, i dèmoni c’erano già prima allora,
quando non c’erano ancora …
No, mai
No, non ci sono mai stato
E la vostra presenza
era come se fosse ventura. Sognata?
Da chi? Lo riconoscerò ancora?
Oppure tutto questo era soltanto
il coraggio della vanità senza la vanità,
affinché non vi fermaste
là dove non siete
e foste là dove non sareste?
O voi immatura!
La morte soltanto
L’antichissimo orrore, l’antichissimo spavento
e non ha che un volto infantile … È perché
in coscienza non ce ne confessiamo
colpevoli, visto che è la madre
a starci vicini. Ed è lei
che chiede sempre: “Va già meglio?”
La morte soltanto è senza domande … Appartata …
Arte per arte …
Nuda I
Mentre il cieco origlia dentro la porta delle visioni
tu, di schiena contro il porcile, vedi
come il destino, accanto, nel giardino
sputa sulla foglia di lampone …
La presenza in due posti,
strada facendo parla dalla veglia al sonno …
Ma le vesti della terra puniscono
con la dimenticanza i corpi
Todo
Così come per poco, solo per poco s’eccita
la tempesta primaverile ed è
quando alle travi i fulmini si scagliano,
i fulmini oscuramente sensuali –
anche l’amante è tua solo per un momento
e perché non lo sa, soltanto …
Ma tu, tu hai tanta notte ininterrotta in te
che diversamente saresti solo il buio …
Conversazione
Dissi: “No, non chiamatela
col nome di battesimo!”
E lui.”Ma è proprio quello che le piace!”
Dissi: “No alla sua porta non bussate,
non è in casa forse e io ne avrei paura!”
E lui: “Macché, quella
è sempre dappertutto!”
Dissi: “Forse non si è ancora decisa.”
E lui: “Possibile che abbia una misura
lei che è senza confini?”
Solo così
– L’avidità degli occhi dinanzi allo sguardo dello spirito … Sapete,
ogni volta mi vergogno … Ma
se non ci è permesso facciamo ricorso alla violenza …
– Odiare per amore … E’ possibile?
– Mia cara, voi di lagrime avete colmi gli occhi …
– Amare per odio … E’ possibile?
– Mia cara, domandiamo all’inferno perché è ammalato
e lo amiamo,
ma lo odiamo perché è ammalato
– Pazzia!
– Ma non dovete rinunciarvi, poiché rinuncereste
all’ordine della vita, che non ha altra testimonianza …
– Perché scrivete poesia?
– ne va dell’esistenza …Di un’esistenza muta …
Da assoluto devoto di Vladimir Holan aggiungo qualche suggerimento di lettura.
Una notte con Amleto, nella traduzione di Ripellino, è di nuovo disponibile nelle edizioni SE.
La raccolta Mozartiana è disponibile in rete in PDF (nel Blog la dimora del tempo sospeso) a questo indirizzo:
Fai clic per accedere a vladimc3adr-holan-mozartiana-ii-1952-541.pdf
Buona lettura.
Poeta solitario che obbedisce a nessuna consorteria, dallo stile impeccabile, con le sue immagini, le sue metafore , il suo discorrere sulla propria vita, e sul rapporto con gli altri, ci scava nel profondo delle nostre anime, con il martello dello scultore, con la levità di un uccello.Commozione e meraviglia e pathos quando leggo i suoi versi.
“Perché piangi? Perché il veduto è già cieco? Perché non sai
come mutarti nell’immutabile?
Domande che intaccano il segreto più nascosto di noi tutti…e non hanno risposta. L’orrore e la paura che hanno un volto di bambino.. Il provato che diventa dettato universale, la cecità che ci consente le visioni, la terra che punisce i corpi con la dimenticanza. Il dialogo con l’Altro da sé, la morte appartata e senza domande.Che rammarico, come sovente mi accade, di non poter leggere questo straordinario poeta nella sua lingua di origine, e apprezzarne appieno il gioco limpido delle parole, la cadenza di musica, che si avverte persino nella traduzione.
Una meditazione stilistico-estetica impeccabile questa di Salvatore Martino sul respiro dei versi di Holan che oggi leggiamo sull’Ombra.
Una nota critica che non dimenticheremo.
Gino Rago
Gino carissimo le tue belle parole intorno al mio intervento mi stupiscono, ma nello stesso tempo mi riempiono di malcelato orgoglio. Uscite dalla tua penna di critico assai più valente e agguerrito e profondo di quanto io non sia suonano musica alle mie orecchie. Grazie affettuosamente Salvatore
Martino
Holan, Mozartiana
C’è un destino forzuto, allattato fino ai diciotto
e che continua a crescere anche soldato.
E ce n’è un altro che sui cori dei templi
stende la colofonia del demone
sull’arco del violino di Stradivari…
Ma c’è il silenzio, che merita il perdono
per non essersi fatto udire finché non è comparso lui…
Sette Domande di Giorgio Linguaglossa a Giorgio Agamben
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/15/vladimir-holan-1905-1980-poesie-un-brano-da-lemuria-a-cura-di-antonio-parente-traduzioni-di-angelo-maria-ripellino-con-uno-stralcio-della-prefazione-di-giovanni-raboni-a-il-poeta-m/comment-page-1/#comment-44867
Domanda:
Le chiedo di conoscere il suo pensiero intorno alla situazione dell’arte di oggi, spiegarci cosa intende quando scrive che «l’opera d’arte diventa per noi intelligibile soltanto attraverso il confronto con la sua ombra». Il concetto di «ombra» è per noi della nuova ontologia estetica particolarmente importante per introdurre una riflessione sull’arte di oggi. Ad esempio un’arte interamente illuminata dalla luce al neon è un’arte senz’ombra? E possiamo definire questa forma d’arte, Kitsch? Possiamo dire che un’arte senz’ombra è un’arte Kitsch?
Risposta:
L’arte contemporanea ci presenta, sempre più spesso delle produzioni di fronte alle quali non è più possibile far ricorso al tradizionale meccanismo del giudizio estetico, e per le quali la coppia antagonista arte, non-arte ci appare assolutamente inadeguata. Davanti a un ready-made, per esempio, in cui l’estraneità del principio creativo-formale è stata sostituita dalla estraneazione dell’oggetto non-artistico che viene immesso a forza nella sfera dell’arte, il giudizio critico si confronta, per così dire, immediatamente con se stesso, o, per essere più precisi, con la propria immagine rovesciata: ciò che esso deve ricondurre alla non-arte è, infatti, già di per sé non-arte, e la sua operazione si esaurisce così in un semplice accertamento di identità. L’arte contemporanea, nelle sue più recenti tendenze, ha portato ancora più innanzi questo processo, e ha finito col realizzare quel reciprocal ready-made a cui pensava Duchamp quando suggeriva di usare un Rembrandt come tavolo da stiro. La sua oggettualità spinta rende, attraverso fori, macchie, fessure e l’uso di materiali extra-pittorici, a identificare sempre più l’opera d’arte col prodotto non-artistico. Prendendo coscienza della propria ombra, l’arte accoglie così immediatamente in sé la propria negazione, e, colmando la distanza che la separava dalla critica, diventa essa stessa il logos dell’arte e della sua ombra, cioè riflessione critica sull’arte, arte.
Domanda:
Lei ha scritto: «dovunque il critico incontra l’arte la riconduce al suo opposto, dissolvendola nella non-arte; dovunque esercita la sua riflessione, porta il non-essere e l’ombra, come se per adorare l’arte non avesse altro mezzo che quello di celebrare una sorta di messa nera al deus inversus della non arte».
Se intendo bene il suo pensiero, il critico mette in opera un pensiero inverso che porta l’arte dal polo positivo al polo negativo dissolvendola nel Kitsch. Si tratta di un enigma o di una aporia?
Risposta:
«L’enigma di questo fondamento resta celato nell’origine e nel destino del pensiero moderno. Da quando Kant non riuscì a trovare una risposta soddisfacente alla sola domanda che conti veramente nella storia dell’estetica, e cioè: “come sono possibili, quanto al loro fondamento, i giudizi estetici a priori?”, questa macchia originale pesa su di noi ogni volta che pronunciamo un giudizio sull’arte.
Kant si era posto il problema del fondamento del giudizio estetico come problema della ricerca di una soluzione per l’Antinomia del gusto, che, nella seconda sezione della Critica del Giudizio, aveva compendiato in questa forma:
1) Tesi: il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti, perché, altrimenti, di esso si potrebbe disputare.
2) Antitesi: il giudizio di gusto si fonda sopra concetti, perché, altrimenti, non si potrebbe neppure contendere, qualunque fosse la diversità dei giudizi (non si potrebbe pretendere alla necessaria approvazione altrui)
Domanda:
Una antinomia, dunque?
Risposta:
Il giudizio estetico ci confronta così all’imbarazzante paradosso di uno strumento di cui non sappiamo fare a meno per conoscere l’opera d’arte e che, però, non soltanto non ci fa penetrare nella sua realtà, ma, rimandandoci continuamente a ciò che è altro da essa, ci presenta questa realtà come un puro e semplice nulla. Simile a una complessa e articolata teologia negativa, la critica cerca dovunque di aggirare l’incontornabile avvolgendosi nella sua ombra… e, presi in questa laboriosa edificazione del nulla, non ci accorgiamo che l’arte è divenuta, nel frattempo, un pianeta che volge verso di noi soltanto la sua faccia oscura, e che il giudizio estetico non è appunto che il logos, la riunione dell’arte e della sua ombra.
Se volessimo esprimere con una formula questo suo carattere, potremmo scrivere che il giudizio critico pensa l’arte come arte (barrata) intendendo così, che, dovunque e costantemente, esso immerge l’arte nella sua ombra, pensa l’arte come non-arte. Ed è quest’arte (barrata), cioè una pura ombra, che regna come valore supremo sull’orizzonte della terra aesthetica; ed è probabile che noi non potremo uscire da quest’orizzonte finché non ci saremo interrogati sul fondamento del giudizio estetico.
Domanda:
Ma l’esigenza di separare l’arte dalla non-arte è imprescindibile per il giudizio critico, pena l’autoannullamento di esso come giudizio critico.
Risposta:
Sembra che ogni volta che il giudizio estetico si prova a determinare che cos’è il bello, esso stringa fra le mani non il bello, ma la sua ombra, come se il suo vero oggetto fosse non tanto quel che l’arte è, ma quel che essa non è, non l’arte, ma la non-arte (…) Dobbiamo convenire, sia pure a malincuore, che tutto quel che il nostro giudizio critico ci suggerisce di fronte a un’opera d’arte appartiene proprio a quest’ombra, e che, separando l’arte dalla non-arte, nell’atto del giudizio noi facciamo della non-arte il contenuto dell’arte, ed è soltanto in questo calco negativo che riusciamo a ritrovarne la realtà.
Domanda:
Per costruire un’arte diversa dovremmo uscire dalla metafisica? E se non è possibile uscire dalla metafisica, è destino dell’arte ripetere se stessa fino all’estenuazione, fino all’esaurimento? Ma, ci sarà mai una Fine all’esaurimento?
Risposta:
Il complesso significante-significato fa, infatti, così indissolubilmente parte del patrimonio del nostro linguaggio, pensato metafisicamente come suono significante, che ogni tentativo di superarlo senza muoversi, nello stesso tempo, fuori dei confini della metafisica, è condannato a ricadere al di qua del suo obiettivo. La letteratura moderna offre fin troppi esempi di questo destino paradossale cui va incontro il Terrore. L’uomo integrale del Terrore è anche un homme-plume, e non è inutile ricordare che uno dei più puri interpreti del terrore nelle lettere, Mallarmé, è stato anche colui che ha finito col fare del libro l’universo più perfetto […] E siamo forse ora in grado di chiederci che cosa Nietzsche intendesse dire parlando di un’arte per artisti. Si tratta, cioè, semplicemente di uno spostamento del punto di vista tradizionale sull’arte, o non siamo piuttosto, in presenza di un mutamento nello statuto essenziale dell’opera d’arte che potrebbe darci ragione del suo attuale destino?
Domanda:
«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.»
Il famoso pezzo di Walter Benjamin delle Tesi, che interpreta la celebra tela del pittore Paul Klee ci suggerisce l’idea che compito dell’arte è la trasmissione (Überlieferung) della tradizione mediante la negazione della stessa, il passato che non può essere riscattato può essere redento grazie all’atto della trasmissione in quanto passato non redento. Il passato, ovvero, la memoria, che l’arte redime nell’apparenza, riconosce il suo esser passato perché l’arte lo invera mediante un atto di estraneazione radicale. Di qui la melancholia dello sguardo dell’angelo dell’arte che osserva il cumulo di rovine del passato.
Risposta:
Se l’Angelus Novus di Klee è l’angelo della storia, nulla meglio della malinconica creatura alata di quest’incisione di Dürer potrebbe rappresentare l’angelo dell’arte. mentre l’angelo della storia ha lo sguardo rivolto al passato, ma non può arrestarsi nella sua incessante fuga a ritroso verso il futuro, l’angelo malinconico dell’incisione di Dürer guarda immobile davanti a sé. La tempesta del progresso che si è impigliata nelle ali dell’angelo della storia qui si è placata e l’angelo dell’arte sembra immerso in una dimensione atemporale, come se qualcosa, interrompendo il continuum della storia, avesse fissato la realtà circostante in una sorta di arresto messianico. Ma come gli eventi del passato appaiono all’angelo della storia come un cumulo di indecifrabili rovine, così gli utensili della vita attiva e gli altri oggetti che stanno sparsi intorno all’angelo malinconico hanno perso il significato di cui li investiva la loro utilizzabilità quotidiana e si sono caricati di un potenziale di estraneazione che ne fa la cifra di qualcosa di inafferrabile. Il passato che l’angelo della storia ha perso la capacità di comprendere ricompone davanti all’angelo dell’arte la sua figura; ma questa figura è l’immagine estraniata in cui il passato ritrova la sua verità solo a condizione di negarla e la conoscenza del nuovo è possibile solo nella non-verità del vecchio. La redenzione che l’angelo dell’arte offre al passato citandolo a comparire fuori del suo contesto reale nell’ultimo giorno del Giudizio estetico non è cioè nient’altro che la sua morte (o, meglio, la sua impossibilità di morire) nel museo dell’esteticità. E la malinconia dell’angelo è la coscienza di aver fatto dell’estraneazione il proprio mondo e la nostalgia di una realtà che egli non può possedere altrimenti che rendendola irreale.
Domanda:
La contesa tra l’Angelo della storia e l’Angelo dell’arte troverà mai la conciliazione? la sconfitta di entrambi è la sconfitta della memoria?
Risposta:
L’uomo non riesce più a trovare fra passato e futuro lo spazio del presente e si perde nel tempo lineare della storia. L’angelo della storia, le cui ali sono impigliate nella tempesta del progresso, e l’angelo dell’estetica, che fissa in una dimensione atemporale le rovine del passato, sono inseparabili. E finché l’uomo non avrà trovato un altro modo di comporre individualmente e collettivamente il conflitto tra vecchio e nuovo, appropriandosi così della propria storicità, un superamento dell’estetica che non si limiti a portarne all’estremo la lacerazione appare poco probabile.
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Nella prima fotografia : a destra è Holan – qui è nella sua casa sull’isola di Kampa, che è circondata dalle acque nere della Vltava, a Praga – in contro luce a sinistra è A.M. Ripellino.
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Mi sembra strano (ma strano non lo è affatto) che in tutto l’intervento non venga menzionato Giuseppe Dierna, che il maggior conoscitore (vivente) mondiale del poeta praghese e, dopo il Ripellino, il migliore dei traduttori della sua poesia.
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Riguardo a ciò che scrisse Raboni sono sempre validi i miei dubbi circa le sue interpretazioni di allora e che la querelle intorno a Montale e Pasolini (che difese non so con quale merito o demerito) non interessò più di tanto il Ripellino, dopo che in qualche maniera “aristocratica” furono apostrofati dallo slavista con distaccata ironia.
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Presentare Holan senza avere una visione storica della evoluzione della poesia ceca anche in rapporto alla poesia tutta europea dell’ epoca è una operazione parziale; p.e. ritornando alle origini della poesia holaniana si scoprono ascendenze precise degli autori del barocco boemo (non sto qui ad elencare i nomi di costoro); si scopre p.e. il debito che Holan (come tanti altri poeti) ebbe con Otokar Březina – oggetto della mia tesi di laurea (1868-1929 – vero spartiacque che segna il passaggio della poesia europea dall’ ‘800 al ‘ 900 – poesia che conosceva a menadito dal Medioevo in poi – e in più la grandiosità dei suoi versi è esemplare e non se ne vedono affatto in quel passaggio!).
Březina fu il padre di tutti i poeti cechi moderni (tra l’altro sintetizzò tutta la poesia europea dell’800!) anche se la moderna poesia ceca discende da Apollinaire (vedi gli studi del Ripellino e poi del Dierna), ma questa è una altra storia… e infatti leggere la “Storia della poesia ceca contemporanea” di A.M. Ripellino del 1950, Edizioni dell’Argo, Roma; questo studio del celeberrimo slavista regge benissimo a circa 70 anni dalla pubblicazione. —
— I maggiori poeti cechi hanno scritto e dedicato poesie a Březina; e nell’ Europa dei suoi tempi fu subito riconosciuto con decine e decine di studi e saggi.
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Sottolineare la sostanziale importanza dei rapporti continui e fruttuosi che Holan ebbe coi suoi amici-poeti di gran valore nel panorama europeo; in primis con F. Halas (fondamentali per me centinaia di suoi versi!), Seifert (il cui Nobel ricevuto fu il riconoscimento ufficiale della importanza della poesia ceca in Europa, più che un personale premio), J. Hora, V. Nezval ecc. (l’elenco è lungo).
Non aver dato il Nobel a Holan (mi fu detto da amici scrittori e artisti) significò anche non volere ripetere un caso alla “Pasternàk”; questo poeta russo fu molto amato da Holan; Nezval ebbe la fortuna di averlo incontrato due volte.
— Ritornare alla poesia di Holan oggi significa riprendere e ricucire il filo spezzato POESIA-FILOSOFIA-MITO : fondamenta che sono state messe da parte – per costruire cosa? Una poesia fragile che ci circonda e che personalmente mi deprime, ma spero di aver dato un minuscolo contributo per la sua distruzione.
a.s.
Spesso i critici danno il meglio di loro stessi quando non capiscono (non lo fanno solo i critici). E Holan offre loro continue sfide; con quei punti di sospensione… Pensare che non li sopporto, al posto dei punti potrebbe esserci nascosto un verso. Ma di versi poesia ve ne sono, come: – Perché scrivete poesia? / – ne va dell’esistenza …Di un’esistenza muta …
Un frammento posto tra punti di sospensione è per me un fatto bizzarro.
Al suo linguaggio prosastico preferisco quello di Alfredo De Palchi, ieri su questa rivista. Più moderno ed efficace.
Il «rumore di fondo» nella poesia d’esordio di Alfredo de Palchi, Sessioni con l’analista (1967)
caro Lucio,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/15/vladimir-holan-1905-1980-poesie-un-brano-da-lemuria-a-cura-di-antonio-parente-traduzioni-di-angelo-maria-ripellino-con-uno-stralcio-della-prefazione-di-giovanni-raboni-a-il-poeta-m/comment-page-1/#comment-44877
per rispondere alla tua riflessione, dico sì, penso che il critico, o il lettore quando deve sforzarsi perché non capisce, allora dà il meglio di sé. La modernità della poesia di Alfredo de Palchi penso che risieda nel fatto che lui interviene nel contesto dei linguaggi letterari correnti degli anni sessanta con una carica de-automatizzante che frantuma il tipo di comunicazione segnica in vigore in quei linguaggi letterari, e lo frantuma perché quel suo linguaggio si pone al di fuori dei linguaggi del cliché letterario vigente negli anni sessanta.
Direi che il linguaggio di de Palchi in Sessioni con l’analista (1967) ha la forza dirompente del linguaggio effettivamente parlato in una lingua letteraria che all’epoca non era in grado di sostenere l’urto di quel linguaggio che poteva apparire «barbarico» per la sua frontalità, perché si presentava come un «linguaggio naturale», non in linea di comunicazione con i linguaggi poetici dell’epoca. Questo fatto appare chiarissimo ad una lettura odierna. E infatti il libro di de Palchi fu accolto dalla critica degli anni sessanta in modo imbarazzato perché non si disponeva di chiavi adeguate di decodifica dei testi in quanto apparivano (ed erano) estranei all’allora incipiente sperimentalismo ed estranei anche alle retroguardie dei linguaggi post-ermetici. Ma io queste cose le ho descritte nella mia monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi, penso di essere stato esauriente, anzi, forse fin troppo esauriente.
Ad esempio, l’impiego delle lineette di de Palchi era un uso inedito, voleva significare che si trattava di un «linguaggio naturale» (usato come «rumore di fondo») immesso in un contesto letterario. A rileggere oggi le poesie di quel libro di esordio di de Palchi questo fatto si percepisce nitidamente. Si trattava di un uso assolutamente originale del «rumore» e della «biografia personale» che, in contatto con il«linguaggio naturale» reimmesso nel linguaggio poetico dell’epoca che rispondeva ad un diverso concetto storico di comunicazione, creava nel recettore disturbo, creava «incomunicazione» (dal titolo di una celebre poesia di de Palchi); de Palchi costruiva una modellizzazione secondaria del testo che acutizzava il contrasto tra i «rumori di fondo» del linguaggio naturale «automatico» in un contesto di attesa della struttura della forma-poesia che collideva con quella modellizzazione. Questo contrasto collisione era talmente forte che disturbava i lettori letterati dell’epoca perché li trovava del tutto impreparati a recepire e percepire questa problematica, li disturbava in quanto creava dis-automatismi nella ricezione del testo.
Io queste cose le ho descritte penso bene nella mia monografia critica, chi vuole può leggere e approfondire queste problematiche in quella sede.
Il problema di fondo che si pone oggi alla «nuova ontologia estetica», o comunque a chiunque voglia creare una «nuova poesia» è esattamente questo, ed è sempre lo stesso: come riuscire a creare dis-automatismi e dis-allineamenti semantici nel contesto dei linguaggi poetici ossificati dei giorni nostri…
Penso che oggi chiunque legga ad esempio la poesia di Mario Gabriele proverà disorientamento nel recepire un tipo di «composizione» che impiega i rottami e gli stracci, le fraseologie della civiltà letteraria trascorsa (cioè i «rumori di fondo») come un mosaico di specchi rotti che confliggono nel mentre che rimandano all’esterno, cioè al lettore, una molteplicità di riflessi e di immagini creando nel lettore una sorta di labirintite, di spaesamento…
Gli enigmi di Holan, accennati quanto basta, sono a volte dei veri rompicapo per chi volesse tentarne l’esegesi. Holan sembra chiamare a sé il linguaggio della critica, sul suo terreno.
Va anche detto che le sue poesie ci vengono tradotte, quindi se lo stile a me sembra sorpassato, in parte potrebbe dipendere da questo.
De Palchi invece scrive in italiano. Il tuo operato critico dei suoi confronti è ineccepibile, e non potrebbe essere diversamente.
Nel raffronto, qui chiaramente pretestuoso, mi fa capire che l’ammirazione per Holan, “un gigante della statura di Holan” (Raboni) secondo me non è del tutto giustificata.
Tutto infinitamente importante e meraviglioso! Ho sempre ammirato e amato molto la poesia di Holan. Grazie.