
in foto, Roberto Bertoldo con Alfredo de Palchi, 2006
L’originalità e l’indipendenza in campo poetico di Alfredo de Palchi (nato nel 1926) sono da tempo accertate. Come poeta italiano che vive negli Stati Uniti da più di cinquanta anni, che continua a scrivere esclusivamente in italiano, e le cui opere sono state in buona parte tradotte in inglese, de Palchi emerge per i suoi tersi e tesi versi svolti con sintattica audacia, per i salti semantici (ciò che richiama il concetto di Josif Brodskij di poesia che «accelera il pensiero»), e per l’autoanalisi mai sentimentale, con tonalità che vanno dal sarcasmo alla glorificazione dell’Eros. Gli argomenti poetici l’autore li trae dalla propria esperienza, e ciò vale in particolare per la produzione giovanile, che evoca il ragazzo povero e orfano del padre, le sofferenze patite durante la seconda guerra mondiale e l’ingiusta carcerazione subita nel dopoguerra. Negli anni successivi, de Palchi lascia alle spalle le sofferenze del tempo di guerra, e volge invece lo sguardo al rapporto uomo-donna, esaltando il piacere sessuale. Si interessa anche alla scienza, in particolare alla biologia e alla geologia. Il modo preciso e nel contempo idiosincratico con cui il poeta introduce la scienza nella sua visione tragica del comportamento dell’uomo e in genere della condizione umana, già da solo lo distingue da altri poeti europei e americani suoi contemporanei. La produzione recente mette in scena la lotta del poeta con una figura che sembra rappresentare la morte. Una ricca scelta dell’opera poetica di Alfredo de Palchi con testo a fronte si trova in: Paradigm: New and Selected Poems 1947-2009 (Chelsea Editions, 2013), tradotto in italiano con il titolo Paradigma: tutte le poesie 1947-2005 (Mimesis / Hebenon, 2006), Foemina Tellus (Joker, 2010) e Nihil (Stampa2009). Si veda anche la raccolta di saggi Una vita scommessa in poesia: Omaggio ad Alfredo di Palchi (edita da Luigi Fontanella, Gradiva Publications, 2011) e la monografia critica ad Alfredo de Palchi a cura di Giorgio Linguaglossa, Quando la biografia diventa mito, (Progetto Cultura, 2016).
(John Taylor)
http://www.alfredodepalchi.com/interviste/int_de%20Palchi.html

Alfredo de Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2010
Intervista
- Tu hai vissuto in Italia, in Francia e negli Stati Uniti. Come e quanto hanno individualmente influito questi Paesi, dal punto di vista sia culturale sia politico, sulla tua poesia?
ADP. Preambolo: Nel penitenziario di Procida, tra una ventina di prigionieri politici che occupava il camerone, ebbi l’immensa fortuna di incontrare e di conoscere il trentaduenne ufficiale dell’esercito Ennio Contini. Io ne avevo appena diciotto. Ricorda che parlo di tante cose anche in nome di Ennio, perché l’Italia, oltre a mantenere non democraticamente da decine di anni al potere politico le imbarazzanti stesse facce da sberle di destra e di sinistra, corrotti criminali delinquenti ladri, ha quella letteraria divisa anch’essa in due blocchi, uno degli eletti: grande editoria; l’altro del gregge: piccola editoria. Per essere considerati tra gli eletti non si capisce bene cosa occorra avere: talento? Non sempre. Per essere considerati del gregge non è necessario spoetizzare. La situazione si mischia, però senti l’aria soffiarti verso gli eletti o il gregge. Il blocco degli eletti è insignito di poteri che governano quello del gregge che, belando sottovoce, accetta la propria funzione di capro espiatorio o, peggio, di minore. Questa invisibile siepe aggrega il gregge pacifico nel proprio pascolo, rifiuta di sommuovere il fondo delle acque inquinate. Oppure qualche pecora si azzarda a belare ruffianerie al sospettato inclito con la delusione di sentirsi una eletta. Se invece una pecora timidamente si ribella, sottovoce bela all’orecchio di quella accanto: per carità non facciamo chiasso.
A cavallo della siepe si profila il dissidente, l’emarginato, che non si propone agli eletti e al gregge, che non offre loro la soddisfazione di farsi sgozzare: è l’ideale fantomatico Don Chisciotte provocatore che non sussurra ruffianerie, che parla ad alta voce.
Eccomi allora alla tua domanda, alla quale rispondo così: i carnefici comunisti della mia zona natale, mitomani di una resistenza inesistente fino all’arrivo delle truppe alleate, non spararono una fucilata ai soldati tedeschi in ritirata che dinamitavano i ponti antichi di Verona.
Già a guerra finita, i comandanti colonnelli, anonimi e non, come i Luigi Longo, i Sandro Pertini, agirono da criminali comuni. Tutto ciò è ancora adesso nella falsità della resistente pretesa e nel giro della stampa. Però dimostrarono grande eroismo traumatizzandomi il corpo gracile con sevizie portate addosso per un paio di anni, di spararmi alle gambe addosso una vetrina (mi salvò dall’essere ucciso un manipolo di americani nel paese e l’ufficiale, o caporale che fosse, dette una potente sberla a Nerone Cella, mio principale carnefice, che lo salutava con il pugno chiuso), e di imporre al pubblico ministero con le leggi dell’occupazione, maggio 1945, di assicurarmi la pena di morte.
A quella richiesta abbozzai un sorriso nervoso di incredulità e di terrore. Nell’aula salì un grido sanguinario “bieco, bieco”; anche sul giornale il giorno dopo si leggeva “con bieco cinismo…”; interpretavano il mio sorriso nervoso come una sfida. Il giudice, ammonitomi per essermi tolto giacca e camicia in aula perché notasse le condizioni del corpo, senza un testimone contro o a favore e senza una prova sul mio presunto operato durante la Repubblica Sociale Italiana, mi condannò all’ergastolo. Ma, tra gli aguzzini, due annegarono nell’Adige, uno travolto in motocicletta, e il mio “preferito”, Nerone Cella, sbattuto in galera per violenza carnale e rapina a mano armata. Questo ladro di galline e criminale cominciò ad avere visione di cristi e di madonne e con l’assistenza della chiesa vide anni prima di me la libertà per riprendere la carriera di ladro e di criminale fino alla fine della sua miserabile vita. È la storia della cosiddetta resistenza. Ammetto che vi sono stati, e vi sono tuttora, comunisti gentiluomini, alcuni conosciuti con amicizia, tuttavia riporto la brutalità e la vigliaccheria in generale con il disdegno dei miei versi scritti nel 1947:
Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi della intelligenza e del neutro
coraggio aggredito…
e con quelli del 2005 che chiudono il volume Paradigma:
Io che stupefatto mi trovo
arreso a questa vita scalcinata
non mi sgretolo quanto l’antico
casolare che abitate – qui
amebe infelici
vi scambiate in gente plebea per divulgare
il mito vile di voi
vili anche di volto.
E l’Italia della sinistra continua a dare del “fascista” a chiunque non si adegui alla sua ideologia, dimenticando che da oltre sessant’anni predica. Il fascismo predicò la propria ideologia soltanto per vent’anni. Alla mia scarcerazione, 1951, già consideravo la politica una calamità. E mentre ero in Italia, o a Parigi dove frequentavo gli ambienti di Saint Germain des Prés e Montparnasse, o nella Spagna di Franco, dove ero stato introdotto nell’ambiente anarchico clandestino di Barcellona, ebbi un paio di disavventure. Qualche anno dopo mi sarei arenato nella città di New York. Seguivo una anarchia mentale libera da costrizioni. Mi consideravo da sempre un apolitico: monarchico fascista repubblicano comunista liberale socialista = anarchico, senza mai il desiderio di dinamitare luoghi e gente.
Quei paesi indubbiamente devono aver influito, non saprei quanto e come, sulla mia intelligenza, e en passant sulla mia poesia; assolutamente zero sulla mia politica. La verità è che io, non seguace del voto, ho opinioni piuttosto deleterie: i politici d’ogni genere e degenere, sia che fingano di rappresentare i plebei, sia che siano tutti corrotti dalle corporazioni, sono vili e ladri. Di loro ho una opinione illimitatamente cinica. Culturalmente anarchico disciplinato, soltanto socievole con chi mi va di esserlo, Jai lu tous les livree, almeno tutti quelli che riuscii a leggere, e qualcosa deve aver penetrato la mia elegante selvatichezza. Perciò posso confermare che da cinquantacinque anni la mia esperienza culturale è internazionale.
-
Alfredo De Palchi e John Taylor Firenze 2012
La tua poesia, spesso appassionata e sarcastica al contempo, si misura con l’amore, il sesso, la religione, il difetto di libertà, ecc. Qual è la tematica che senti più tua?
ADP. Pare sia Amore = Sesso. Un amico gay svizzero, con il quale frequentavo l’Academie Julien, nel 1952 d’improvviso e senza un precedente motivo, mi chiese ad Argenteuil, proprio a casa di mia madre dove ogni domenica andavamo a sfamarci per bilanciare la nostra settimanale dieta di banane e birra, se ero più interessato al sesso oppure alla spiritualità. La sua curiosità era normale in quanto lui alla sera frequentava il suo ambiente ed io il mio. Lo sconcertai con la risposta repentina: sesso. Che però per me deve avere un legame con l’amore. Se anche l’amore significa spiritualità, allora sono anche spirituale. Ma ugualmente il mio cervello non sentiva vedeva e desiderava altro che sesso, ma da innamorato. A me stesso davo l’impressione di essere l’affamato. Lo ero in prigione, e in libertà benché ne avessi a scorpacciate, continuamente invasato, mai abbastanza, seppure fossi sfinito. La detenzione ebbe il merito di avermi appena diciottenne condannato psicologicamente all’appetito sessuale intessuto di miti e icone religiose, soprattutto il crocifisso, simbolo di tortura di un uomo giovane che sprigiona amore. Quanto a me, abolito il confronto, sono per sempre il simbolo dell’adolescente seviziato.
Che io sia un romantico? Lo sono in privato, non nella mia arte. Ecco la mia tortura fisica, psicologica e mentale: la tematica amore = sesso, che invade la mia poesia. Certe composizioni erotiche, mai volgari, per chi le legge letteralmente appaiono blasfeme. Invece, se lette attentamente, si percepisce la simbologia della mia spiritualità: amore = sesso di potenza e di liberazione.
“Il difetto di libertà” nel mio lavoro dev’essere all’inizio; nella prima raccolta, La buia danza di scorpione, compilata nei penitenziari di Procida e Civitavecchia dal 1947 al 1951 e che, organizzata anni dopo, la inserii nel volume mondadoriano Sessioni con l’analista ma per prelevarla all’ultimo momento dalla stampa. La consideravo differente in materiale e in stile. Comunque da cinquantacinque anni so che mi sentirei libero sotto qualsiasi dittatura. Quella staliniana, ad esempio, che auguravo e auguro ai comunisti italiani ideologicamente facinorosi tipo il defunto intellettuale Franco Fortini e tipo il melenso Fausto Bertinotti. A costoro consegnerei personalmente pala e piccone, o falce e martello, perché si guadagnino il vivere onestamente. Dopo sessantacinque anni di pseudo democrazia uno si sente obbligato a fare una scelta ideologica, intesa quella comunista. Infatti, seguita a sciacquare la mente degli operai e degli studenti prigionieri di sindacalisti e insegnanti scadenti, e ha la faccia di merda di accusare, fascista!, chi non è comunista. Come per dire che il comunismo è “libertà”.
- Quale consideri, tra i tuoi libri, quello più impegnato politicamente e socialmente?
ADP. Socialmente? Pare sia il libro mondadoriano, Sessioni con l’analista, compreso da Vittorio Sereni che lo pubblicò, ma che resta più o meno incompreso, nuovo, diverso e fuori dai gangheri usuali, dai pochissimi recensori che non seppero come trattarlo o che lo stangarono. Ripeto, pare socialmente, mai politicamente, perché nel 1970 lo suggerì il traduttore americano I. L. Salomon nella sua introduzione. L’impegno sociale, se c’è, è involontario e mi dispiace che ci sia.
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La liricità della tua scrittura è composta, ma riguardo l’aspetto della soggettività mi sembra che, a differenza dei poeti “civili”, il tuo “io” solo raramente possa essere inteso come un “noi”. Sei d’accordo?
ADP. Il mio “io” quanto il ‘tu” significa realmente “io” e “tu” – il quale “tu” significa “lei” che significa donna = amore = sesso = spiritualità = terra = natura, tutto al femminile. Mai “noi”. Se nel mio lavoro c’è un “noi” è una bestemmia, oppure il testo mi obbligò ad usarlo. Tuttavia quel “noi” significa ugualmente “io” e “tu”, il mio “io” e il “tu” implica la “mia” e la “sua” fisionomia terragna, che implicano il significato femminile universale del “noi” = “io” e “lei”.
- Ma proprio questa “donna”, che è anche “terra” “natura”, è una sorta di sineddoche che rende “civile”, nel senso di “universale”, la tua poesia. Quando ciò accade tu, sia pure indirettamente, sei un poeta civile, basta pensare a quanta indignazione, eretica e ironica, pervade molti tuoi versi.
ADP. Se mi interpreti “civile” per ritenere la “donna” “terra” “natura”, cioè “universale” il mio sentire e la mia visione, accetto. Vedi, quando poco fa mi credevo accusato di essere un poeta civile, ho visto subito le variazioni: diritti civili, guerra civile, morte civile, stato civile, ecc.. Quei soprusi purtroppo li ho conosciuti. Per questo dicevo che non sono poeta “civile”. Si dice che il tale è civile, che il tal’altro è incivile. “Noi”, gente, ci crediamo prescelti “civili” dal creatore, già inventato prima ancora che arrivassero gli scimmiotti progenitori i quali, con le foschie della mente continuamente coinvolta a sottrarsi dal pericolo, arrivano alle epoche moderne – ecco che “noi”, gente bruta e malefica, oltre a crederci prescelti ci autorizziamo di fare man bassa, far progredire la natura. Francamente, sin dai primi lumi di ragazzo “bastardo” emarginatosi dai prescelti e da quel progresso, mi sono intuito nella fertile femminilità creativa della donna = terra = natura.
- In che relazione ti senti con il simbolismo, allora? E con le avanguardie storiche?
ADP. Il mio gusto, non lo studio, rifiuta la poesia ottocentesca italiana e quella crepuscolare. Perciò mi sono rivolto, da prigioniero, a quella francese, assistito dall’amico Ennio Contini.
Non saprei dire in che relazione mi senta con il simbolismo. Di sicuro amo alcuni simbolisti più di altri, e se c’è una relazione con uno di loro, bene, vuol dire che sono stato più intelligente di quanto mi credessi. Infatti, anni dopo nella Parigi del 1952, scoprii il volume De Baudelaire au surréalisme di Marcel Raymond (lo posseggo tuttora, scollato e stracciato dall’età), che nella mia testa primitivistica e anarchica di ignorante mi aprì universi che se fossi rimasto in Italia non avrei mai incontrati. Mi si indichi il lavoro di un “poeta” italiano dell’ottocento che sia in relazione con il simbolismo francese. Per me quell’epoca italiana, fino ai primi anni del 20mo secolo, si presenta con salici piangenti e trombe. Ancora adesso perseverano trombette trombe e tromboni, che penso non vogliano conoscere i propri nomi per evitare d’incontrarsi nel mio elenco.
Apprezzo in parte la poesia cubista, dadaista, e surrealista. A Castelfranco Veneto, nel 1961 durante il festival internazionale di poesia, incontrai Tristan Tzara e, essendo il solo apparentemente che ci tenesse a conoscerlo, per quasi tre giorni conversai con lui; i neo-avanguardisti, e il resto, correvano dietro a rumene e rumeni liberi di dover stare incollati ai loro commissari comunisti. Se nel mio lavoro c’è una relazione, c’è perché quelle avanguardie storiche sono cresciute da bocche rimaste interessanti. Rifiuto totalmente le neo-avanguardie rancide italiane degli anni ‘60: è zavorra, lo dico senza dovermi pentire; c’è abbastanza insensatezza da far ridere persino i bagonghi del circo. Tutte quelle fiacche e subito datate cartucce che spararono a zero, e tutte quelle più o meno recenti aride che si sparano addosso, non ammettono che l’avanguardia potrebbe trovarsi anche nella poesia formale con tanto di rima. Il dado l’ha tratto, ma Mallarmè scriveva in rima. Voglio dire che avanguardia, oppure originalità, è nel testo, non nel modo in cui si stende sulla pagina il vocabolario tra virgole virgolette parentesi, ecc.
- I poeti di Accademia da molti anni ormai fanno quadrato nel distruggere la poesia e nell’emarginare i poeti “espressivi”. Tu, come vittima, ne sai qualcosa. Ebbene, quali pericoli possono comportare, per la poesia e per gli uomini, questi versificatori accademici, questi trafficanti di morte verbale?
ADP. La mediocrità esiste da sempre, consacrata ad ogni generazione e stagione. In parte è il gusto prevalente dei chiamati a dirigere i cimiteri della poesia, talvolta a umiliare anche volontariamente chi scrive in un individuale canone. Esempio di un emarginato dal generale criticume: Dino Campana. Eccetto per quei rari, come Enrico Falqui, che lo individuarono quasi subito, o subito dopo la sua morte in manicomio, il resto della critica e degli addetti lo lasciò quasi ignoto fino agli anni ‘60. Già, è un matto. Nel 1961 lo menzionai a Vittorio Sereni, il quale, onesto e uomo sincero, ammise che Dino gli era rimasto nel dimenticatoio, impegnato com’era a badare con dei contemporanei rompicoglioni – proprio così disse alla fine di una giornata di lavoro negli uffici deserti quando il telefono squillava senza rispettare l’orario e Vittorio rispondeva stizzito. “Non badare a me, Vittorio”, dicevo; “no, sono sempre gli stessi rompicoglioni, giorno e sera!”. Da quel momento se l’è ricordato. Alla fine Dino ce l’ha fatta a scavalcare le trincee delle editorie e piazzarsi con un “oscar” nel mondo della cultura e delle miserabili antologie di trombette trombe e tromboni che seguono a strombettare con rigore osceno. Per darti un’idea: ci sono volumi di “meridiani” dedicati a un trombone ideologico della sinistra, e non ce ne è uno dedicato a Campana.
Per forza sono un emarginato. È impossibile che uno come me non lo sia. I motivi sono uguali a quelli già considerati. In più c’è che non sto zitto; che vorrebbero zittirmi con il loro silenzio sul mio lavoro per il mio pseudo “compromesso politico” di adolescente. Pensa che nel 1998 un “operatore culturale” della mia cittadina, Legnago, dalla fronte pelosa quanto i suoi compagni di rifondazione comunista, con una lettera sul giornale L’Arena di Verona contro la mia presenza, già dal 1955 esonerata e archiviata, mi figurava a diciassette anni un gerarca della RSI. Vorrebbero intimidirmi non scrivendone neanche negativamente. Se ne scrivessero si capirebbe che lo farebbero perché aizzati da me, come faccio adesso, o da chi… Non se lo permettono: un cerino di furbizia li abbaglia a non stroncare il mio lavoro per evitare la figuraccia totale. Più di così non possono essere bassamente luridi. Perché sin dai primi scarabocchi da moschicida si accorgono di essere posseduti dalla bile, di essere ceneri di seppelliti intracciabili nelle antologie e vari cimiteri curati da becchini dipendenti. Hanno l’ambizione sbagliata dei falliti dall’animo lurido. Per quanto mi riguarda, non soffro di gelosie e invidie, lavoro per la poesia di altri poeti, e quel poco che mi è riconosciuto me lo sono guadagnato con immensa fatica. Non c’è grande e piccolo editore che si vanti dell’onore di avermi rifiutato, non ho mai proposto il mio lavoro, caso mai hanno tutti il disonore di relegarmi nella indifferenza. Eccetto per la tua recente iniziativa e insistenza di propormi alla critica, ho la pretesa che la manna rosa delle case di tolleranza editoriali debba scoprirmi. Inoltre mai nessuno può accusarmi di ambizione sbagliata. Non ho mai chiesto e non chiedo favori a nessuno, e nessuno mai mi legge ai vari premi ai quali non partecipo. Al premio Viareggio dei 1967, opera prima sottoposta dalla Mondadori, non premiarono l’opera Sessioni con l’analista, finalista fino all’ultimo, perché allora si premiavano gli arrampicatori della cuccagna comunista – sfido chiunque, malgrado le false apparenze democratiche del mondo intellettuale, a giudicare adesso l’opera vincitrice con la mia senza “ideologia”. A un altro premio che vinsi nel 1988 vi partecipai perché invitato. So che tutti coloro coscienti della propria scarsezza, nel blocco degli eletti e nel blocco delle pecore, si riconoscono senza sorpresa nella esplicita didascalia all’inizio del volume Paradigma. Nel caso che nessuno l’abbia letta la ripeto qui:
Sono dannato a fissarvi negli occhi di roditori
poetucoli destinati a rosicchiare la vostra identità di amanuensi.
Se io le mollo, accetto di prenderle.
Ma c’è una differenza profonda che ci separa: io, con pochi altri, generoso, che amo e rispetto davvero la poesia, onesto e simpatico con tanto di prove; loro generosi nello scambio, avari falsi gelosi invidiosi, e antipatici musoni con tanto di prove; tutti giudicati dal tempo che setaccia la sabbia, scarta il marciume, seppellisce le immondizie, e brilla con il poco su cui vale fermarsi.
Io e la mia arte non abbiamo fretta.
-
Prima parlavi di Campana “vero poeta”. Naturalmente concordo, ma basta per te a farlo grande? Io lo reputo, proprio per il suo canone, un epigono. Con ciò lo proteggo e sostengo per la potenza della sua poesia, che però, in questo opposta alla tua, è più visionaria che umana.
ADP. Per fortuna è il suo proprio epigono. Rimane l’unica propria esperienza incontrollata eppure cristallina e nel suo modo controllata. È l’istinto dell’artista visionario. T’immagini tante campanelle imitatrici di Campana? È un poeta da non imitare. Confrontando la sua poesia alla mia dici che la sua è opposta alla mia, più umana. Spero non lo sia, preferisco averla feroce dell’animale dolce che ha il proprio canone, cioè l’istinto; perciò, se il poeta è un artista, possiede il candore e il canone dell’animale.
- Paradigma è il titolo del libro che raccoglie tutta la tua poesia fino al 2005 ed è ripreso da un tuo libro del 2001. Puoi spiegare questo titolo?
ADP. Sí, lo spiego più avanti. Il libro del 2001 con alcune recensioni positive è passato inosservato e non distribuito per disinteresse dell’editore o tipografo che sia. Permettimi allora di arrivare al finale enigma del titolo raccontando in breve un evento in cui non vi era un altro “animale”.
Invitato a recitare tre mie poesie a una conferenza sui canoni della poesia italiana contemporanea, quel giorno fin dall’alba non mi sentivo bene. Tuttavia da giorni avevo deciso di mancare all’appuntamento per evitare il traumatico scossone che mi ero ripromesso di combinare leggendo, non le poesie già stampate nel catalogo della giornata, ma la pagina che avrei scritto per l’occasione. Perché attirarmi addosso l’inimicizia inutile di inutili? Infatti, il mattino dopo, alle otto, al telefono mi si chiede cosa mi avesse trattenuto a casa. Non dico la verità originale, ma l’altra verità più facile da dire: non stavo bene. Mi si suggerisce di parteciparvi quel giorno, 28 ottobre. “Va bene” rispondo, “faccio la mia marcia”. Nel teatro dichiarano pagine sui canoni. Durante una pausa riconosco delle persone e ci salutiamo. Non conosco altre, provenienti dall’Italia. Nessuno ci presenta ed io, carogna di snob arrogante quando mi necessita di esserlo, sto alla larga. Alla ripresa la moderatrice m’introduce al pubblico. Alla fine della mia breve recita, inizia un elenco di interminabili versificatori. Ascolto esterrefatto.
Al termine della conferenza mi si chiede quale specifico significato abbia il titolo della mia opera Paradigma. Colgo l’inaspettata occasione per rispondere alla tua domanda, riprendendo in maniera diversa il filo di quello che mi ero promesso di dire: “Ho ascoltato oggi tutta la poesia casalinga che si possa ascoltare. Paradigma significa semplicemente esempio per i cosiddetti poeti italiani che dovrebbero leggermi e imitarmi”. La moderatrice commenta sulla mia presunta modestia. “È vero, troppa”, rispondo ridendo. Con anticipata soddisfazione mi accorgo che i presenti, benché incuriositi, mi evitano.
- Che differenza riscontri tra il mondo degli autori italiani in Italia e quello, ridotto, degli autori italiani in America?
ADP. Veramente, con il mio comportamento antidiplomatico, insegno una lezione poetica al mondo dell’omertà della poesia italiana residente in Italia. Una voce sibillina mi ispira la lezione.
Si dice che il manipolo di scrittori italiani che vive e lavora negli Stati Uniti sia deriso e non rispettato dall’esercito di “poeti” che vive e muore sulla carta in Italia; e che l’esercito, in questo caso più ignorante che ridicolo, si è autoeletto superiore al manipolo. È probabile che resti un sussurro, e basta. Ma lo stesso necessita la chiarificazione seguente: l’esercito di Caporetto, fasciatasi con pezze da piedi la testa piena di vanvere, troppo spesso usa il manipolo perché questo brighi e si sbrighi a pubblicare in versione americana nelle nostre riviste e in libri le loro meningiti che ancora troppo spesso si rivelano statiche cascate di vocabolari.
L’esercito non apprezza che il manipolo si dedichi, senza chiedere scambi, a far conoscere la poesia italiana, la quale, nonostante la nostra passione e generosità di umiliati, rimane umiliata e difficile a farsi valere in questo continente che tende ad ignorare l’opera straniera. Io ne so qualcosa come Chelsea Editions, e ne sa qualcosa Luigi Fontanella con la sua Gradiva Publications. Ma vale insistere? Sí, senza dubbio, anche se l’esercito disdegna ciò che è dovuto. Non so cosa i miei colleghi in America pensino. Ma io, condiscendente, con fermezza dico che se va tutto bene la parte migliore dell’esercito si pareggia, tecnicamente, ma con scadente esito di poesia, con quella del manipolo che ha più vasta conoscenza di vita. È che l’esercito non ha niente da dire in quanto non ha niente da dire, barricato com’è nel suo vuoto. La poesia è vera, non quando la si narra o la si descrive a vuoto, ma soltanto se c’è del vissuto che si svela in immagini saltellanti sulla pagina. La poesia è o non è. Confermo che il più della poesia calcante il canone o i canoni stabiliti, e quella che calca una pseudo avanguardia ottusa di sciocchezze, sono orrende quanto l’aborto, oppure, meno crudele, sfociano in quello stesso risultato: il fallimento. Da qui ti fai una idea che io, benché schiaffi lì e calci là, amo e difendo la poesia del blocco degli eletti e di quello del gregge. Dipende. Però sono cosciente delle mie sconfitte contro i mulini a vento, sconfitte che mi accelerano la volontà di appellarmi alla giustizia della poesia anche in nome di chi, in disparte, non grida o bela lo scandalo, e lascia aggrandire il nulla. Qualche rara persona assisterà. Qualche critico onesto. In attesa, democraticamente incito quell’esercito di spenti mulini a vento di smettere di sventagliare aria e a limitare l’annientamento delle foreste.
- Bene, caro Alfredo, l’intervista è giunta al termine, lascio a te l’ultima parola.
ADP. Questa intervista, per la quale ti sono riconoscente, contiene un po’ di tanti pensieri, intuizioni, lecite esagerazioni, vicende della mia esistenza priva di vocaboli patetici. Non scherzo se ripeto che la mia lezione è validissima ai presunti poeti di casta e di espressione casalinga. Ai quali, non appena terminato di leggere con rabbia e invidia l’intervista e i saggi, consiglio di aprirsi al vero, seguendo, magari di nascosto e insultandomi, l’esempio: il mio PARADIGMA (2013).
Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove ha diretto per molti anni la rivista “Chelsea” (chiusa nel 2007). Dirige tuttora la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e svolge, un’intensa attività editoriale. Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista(Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L. Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010). Nel 2016 esce Nihil (Stampa2009) con prefazione di Maurizio Cucchi. Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966); ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.
Alfredo de Palchi
da Sessioni con l’analista (1964–1966) opera edita nel 1967
— difficile —
dico
tavolo con carta, cenere
di sigaretta, dizionari, penna (o macchina),
scheggia d’albero poggiacarte con corteccia,
pietrificato
— quanti milioni d’anni? —
interessante: la geologia ruga,
è
sulla asimmetria facciate di . . .
il sole che entra a stecche
dalle persiane, la gomma per fregare
(troppo tardi)
il già scritto da gli inquisitori
dai testimoni non avuti
— difficile —
non so come, da quale mia geologica età
cominciare: estrarre il magma;
impossibile
comunicare il gergo inconcluso
attorcigliato, cespuglio vivo di serpi
il verbo, vero,
negli occhi che sigillano gli oggetti
i gesti oltre il bianco
la pupilla fiammante d’impudicizia
— difficile —
quanto l’esteriore
conforto, il comportamento di eretto,
gelido — in me il vivo
cespuglio che si cela! come dirlo allora,
se non si evolve se non
trasforma un gergo udibile —
3
esempio: ragazzo timido, chiuso
colmo di vergogne concrete
— si tratta del paese —
considera le provocazioni morbose;
non chiederle a me, direi una reale
storia ma diversa
— e del coniglio —
sotto la tettoia di zinco
ondulata nel cortile:
lo tolsi dalla gabbia per le zampe
posteriori, il taglio
della mano (debole) colpì;
il suo lamento di bambino chiuso
— ancora mi è vivo —
evitò la mia fine indecisa;
e mollandolo a terra scappai
sugli argini dell’Adige
(di marzo ogni anno tra i ghiacci
del fiume St. Lawrence a migliaia le foche
sono suggellate a colpi di remo e il belare
delle spellate vive . . . )
per tre giorni, iniquo
con il coniglio (il suo lamento di bambino chiuso)
negli occhi, sotto la pelle
— è ancora vivo il lamento —
e ancora, non pace
“perché”
non so, o forse so
il perdono del lamento di bambino chiuso
della sua pietà / non riesco alla pace
ma alle crepature
del cuore in multitudine
multeplice
con il suo lamento di coniglio —
4
strumenti: ben
disegnati precisi numerati
non occorre contarli: hanno già l’osseo colore;
nella cava il paleontologo
scoprirà la scatola blindata di lettere
che dissertano l’uomo, alcuni ossi
su cui sono visibili tracce
delle malefatte — e nel libro
spiegherà che gli strumenti automatici
erano (sono) necessari ai robots primitivi
“spiega”
lo so, il mio dire
non mi esamina o spiega, eppure . . .
(la segretaria incrocia le gambe sotto il tavolo
e vedendomi in occhiali neri
“interessante”
commenta “ma ti nascondi”)
è chiaro
— sono ancora nascosto —
non più per paura benché questa sia . . . per
autopreservazione
“perché” paura, accetta i risultati,
affronta . . . difficile
l’autopreservazione,
capisci? se tu mi avessi visto allora
nel fosso, dopo che il camion . . .
(il camion traversa il paese
infila una strada di campagna seminata
di buche / ai lati fossi filari di olmi /
addosso alla cabina metallicamente
riparato pure dai compagni che al niente
puntano fucili e mitra)
— capisci che si tratta di strumenti —
(ho il ’91 tra le gambe)
di colpo spari e io
— già nel fosso —
alla mia prima azione guerriera non riuscii . . .
me la feci nei pantaloni kaki
l’acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
“leva la sicurezza bastardo” urlò il sergente Luigi
— fu l’ultimo sparo in ritardo —
dal fosso al cielo di pece
strizzando gli occhi
la faccia altrove — risero:
”sono scappati
hai bucato il culo bucato dei ribelli”
— capisci? se la ridevano —
mentre io non pensavo
no, alla preservazione.
La intuivo nel fosso —
5
— anni dopo il coniglio (dicembre 1944)
la notte è lucida; nel salone della mensa
si balla al giradischi
— il fornaio all’uscio, sulla piazza,
fuma la caporale —
le ragazze ci sono: Adele Clara Lucia: tutte —
nel chiuso dietro una porta picchiano oppure
usano una dinamo a manovella: le grida
d’un malmenato sconnettono la canzone
ma che tristezza in cor
mi sento stasera
e la Clara, grassa, “perché”
notte senza luna notte
senz’amore
sì, senza amore —
esce, corda al collo, il picchiato:
la faccia maciullata:
inosservato passa in mezzo al ballo
e poi dalla piazza
— a pochi passi dal fornaio —
al raschiare del giradischi
più non penso a te
si ode lo sparo
— capisci, non c’è “perché” —
ghigno che ride il capitano Carella della ferroviaria
dice divertito al comandante
— è caduto, si è fatto male —
una macchia stesa
“perché”
bene, Dario che già crivellò nei campi
due ribelli spara una raffica
— ancora non è morto —
a terra un incubo, sa . . .
— rantola —
mi chino, il capo ha buchi,
muove le gambe negli stivali; attorno fascisti e ragazze; deciso
Luigi con la pistola a tamburo
gli inchioda la tempia
che tuttora mi assimila con la sua sutura —
6
pago, non per il “perché” ho visto,
per aver ucciso con la mia presenza
(mea culpa, mea culpa
— poiché dicevo la verità fui picchiato,
forzato a tacere, dai fascisti
e poi seviziato dai ribelli —
di non essere rimasto segreto)
dopo
(l’accusa, vendetta dei fascisti
che ammettono la mia testimonianza)
il mio urlare: sì — sì
sotto le sevizie
(scarponi chiodati sui fianchi
cinghiate sul petto e sulla schiena
fogli di giornale in fiamma alle ascelle)
al già scritto e il mio firmare (pistola alla nuca)
con la mano di Nerone Cella
— poi mi vedo nudo sull’assito
morso dal mio sangue e dalla bava —
L’ha ribloggato su RIDONDANZE.
dalla Sez. I Poeti de I platani sul Tevere diventano betulle, di prox pubblicazione per Progetto Cultura Edizioni (Appunti critici di Giorgio Linguaglossa in Prefazione, Commenti di Rossana Levati in Postfazione)
Gino Rago
Per un altro genetliaco di Alfredo de Palchi
La tua vita disciolta nei versi
Ci hai detto:« Con la poesia uccidete la morte.
Fatelo per la libertà di tutti.
Dello sfruttato e dello sfruttatore».
Alfredo attraversa un Secolo di orrori.
Il dolore di Vallejo è stato il tuo dolore.
Nel petto. Nel bavero. Nel pane. Nel bicchiere.
Nei versi hai dato i baci che non potevi dare.
Soltanto la morte morirà
E la formica porterà briciole
Alla bestia incatenata. Alla sua bruta delicatezza.
«Uccidiamo la morte con i versi, solo la morte morirà»
“Io e la mia arte non abbiamo fretta”. Come mi piace, questa affermazione di De Palchi! Comprende la consapevolezza del suo valore, tenace contro ogni incomprensione passata o attuale. Si getta il seme dell’arte come ogni altro seme, senza preoccuparsi della zolla in cui andrà a fiorire, e del molto tempo di attesa che precederà la fioritura. Potrebbe passare tanto tempo, che il primo seminatore venga dimenticato e la fioritura attribuita a chi non la merita. Ma l’Opera resta; come la Storia, cammina per conto suo.
Che dire della poesia di De Palchi? Mi entra nell’anima, mi commuove, il suo mondo personale grida al mondo di tutti,il suo microcosmo diviene il macrocosmo dove tutti ci riconosciamo…una scrittura febbrile, drammatica, ossessivamente lavorata di lima e di cesello, con un uso straordinario dell’idioma italico Le sue “prigioni”, le sue torture per una diversa concezione delle vita e della filosofia, della politica entrano a valanga nelle nostre anime, ci accomunano alla sua sorte…un poeta vero come pochissimi in questo nostro tempo…lontano dai tecnicismi imperanti gonfiati di intellettualismi aridi, questo rapporto virile con la morte e la sofferenza, l’orgoglioso rifiuto della classificazione omogenea,il dialogo con se stesso e l’Altro da se che diviene paradigma per noi tutti. la sua lucidità nell’affrontare temi scabrosi, il segreto di una scrittura che nasce dal profondo, guidata da una techné magistrale. Grazie Alfredo di illuminarci con il tuo esempio, il tuo dettato poetico. Auguri per questo ennesimo traguardo raggiunto.
Per Anna Ventura: tempo fa le mandai in due successive spedizioni una mia mail con commento entusiastico sulle sue poesie. Mai ricevuta risposta, e siccome le stesse mail non sono tornate indietro devo arguire chesiano giunte a destinazione. Mai una risposta, fatto che naturalmente mi addolora.
Per Alfredo Martino; addolora anche me il fatto che la mia risposta al tuo importante riscontro ( risposta che certamente c’è stata) non ti abbia raggiunto .Ultimamente, il mio computer fa qualche stranezza ,non è improbabile che il mio riscontro sia andato smarrito.Mi scuso, e ringrazio ora, sinceramente e profondamente.e ti prego vivamente, se hai ancora il testo, di inviarmelo di nuovo,Sono onorata dalla tua attenzione critica e tengo molto alla tua stima e alla tua amicizia,Auguri per le festività imminenti,e grazie ancora ,Un abbraccio fraterno.Anna Ventura
Carissima Anna, a parte l’avermi nuovamente battezzato con altro nome al poisto del mio :Salvatore, va tutto bene…sono orgoglioso delle parole che mi scrivi. Non ho ricevuto la tua mail e il fatto mi appariva strano…anche se ti conosco soltanto attraverso il blog, non potevo dubitare della tua correttezza. Comunque tutto chiaro e ti ringrazio profondamente per aver chiarito il possibile malinteso.Da poeta a poeta un abbraccio affettuoso con l’augurio di un anno nuovo poeticamente felice. Salvatore Martino
Carissimo Salvatore, mi scuso per l’errore del nome; ultimamente sono sempre più incline alla confusione, colpa della salute sempre meno solida, e dell’età che avanza .Ma ho sempre chiaro il tuo discorso poetico, e il tuo valore.Ti invio gli auguri più cari per la vita e per il lavoro.Un fraterno ab braccio, Anna Ventura
L’abbraccio e l’augurio carissima Anna sono ricambiati con profondo affetto e grande stima Salvatore
AUGURI ALFREDO
LO SCRIVO ANCHE QUA MA TU CONOSCI BENE LA MIA STIMA, ORMAI QUASI DECENNALE, CONFERMATA SIA NEGLI SCRITTI PUBBLICI CHE IN QUELLI PRIVATI. IL MIO AFFETTO TE LO COMUNICHERÒ A VOCE COME HO SEMPRE FATTO.
ANTONELLA
Unendomi alla stima per il poeta e all’affetto per l’uomo Alfredo de Palchi, e quindi agli auguri di tutti coloro che lo apprezzano, vorrei solo ricordare, per i motivi a cui accennerò dopo, che la suddetta intervista risale al 2007 ed è stata edita in AA.VV., “Alfredo de Palchi. La potenza della poesia”, Edizioni dell’Orso, Torino 2008. Dico questo a difesa della mia incolumità, visto che in poche ore mi hanno contattato 4 poeti che non sentivo da anni, da quando chiusi la rivista Hebenon (ah, vanità umana!), chiedendomi di intervistarli. Nella mia vita ho fatto solo 3 interviste, e diversi anni fa, a due poeti che stimo moltissimo, Alfredo de Palchi e il mai sufficientemente rimpianto Camillo Pennati, e ad un editore, di quelli con le palle e capace di investire soldi suoi, Gianfranco Monti, anche lui purtroppo scomparso. Non sono dunque, purtroppo per i redivivi, né un giornalista, né un critico, né un intervistatore.
Ogni nuova epoca si annuncia con un messaggio di nuova «rivelazione» unita a un minimo di occultamento, e si conclude con un minima «rivelazione» unita con un massimo di occultamento. L’Italia, per motivi storici è giunta tardi alla rivoluzione industriale, diciamo che negli anni a cavallo tra i cinquanta e i sessanta abbiamo avuto un’epoca modernista a insaputa degli stessi autori che hanno vissuto quell’epoca. In tal senso l’epoca della poesia modernista in Italia non c’è stata se non a sprazzi e a segmenti, con dei poeti «non-allineati» (come Alfredo de Palchi) o non-poeti (come Ennio Flaiano). Poi, come sappiamo, la poesia modernista italiana è stata soffocata dall’incipiente sperimentalismo e dalla sopravvivenza della poesia post-ermetica, soffocata ma non del tutto morta perché il fiume carsico della poesia modernista ogni tanto affiorava in superficie generando altri poeti non-allineati (penso a Ripellino, a Helle Busacca, a Maria Rosaria Madonna, ad Anna Ventura e a Giorgia Stecher negli anni novanta e alla nuova ontologia estetica oggi).
Penso che attualmente abitiamo un’epoca di massimo oscuramento, siamo alla fine di una lunga epoca di latenza della poesia che preannuncia un nuovo inizio…
Una intervista, immaginaria o reale, fatta a uno scrittore non più vivente o ancora in vita, diviene pregnante soltanto attraverso l’intelligenza delle domande poste all’interlocutore. L’intelligenza delle domande a sua volta si lega necessariamente alla conoscenza reale dell’opera dell’intervistato.
Non v’è alcun dubbio che le domande a suo tempo poste da Roberto Bertoldo ad Alfredo de Palchi nel corso della intervista sono intelligenti.
Tuttavia, dopo la monografia “Quando la biografia diventa mito” di Giorgio Linguaglossa resta assai poco da aggiungere sull’opera depalchiana.
Gino Rago
Bellissima intervista che offre una testimonianza ricca dell’esperienza esistenziale e poetica di Alfredo De Palchi.
L’emarginazione vissuta sotto il segno dell’autenticità diventa punto di forza dell’individualità stilistica del poeta, al di là di maniere sperimentali o “retoriche dominanti”. Un caso anomalo nel panorama delle patrie lettere e ha ragione Linguaglossa quando rileva che la poesia di De Palchi sarebbe stata più riconoscibile se letta in una ottica europea. Felice, dunque, che la personalità internazionale di De Palchi abbia inaugurato e “battezzato” il primo numero della rivista “Il Mangiaparole”.
Colgo l’occasione per inviare i miei più cari Auguri di un felice e sereno compleanno al nostro poeta…
Interessante intervista. Del resto ,qui, parlano due colossi .
Auguri a questo nostro grande Poeta. Buon compleanno !
Auguri, Alfredo, Buon Anniversario, come ami dire tu, invece che buon compleanno.
Giuseppe.
AUGURI, ALFREDO, BUON ANNIVERSARIO, COME AMI DIRE TU, INVECE CHE BUON COMPLEANNO.
GIUSEPPE.
RINNOVO QUI I MIEI AUGURI PIÙ AFFETTUOSI AL CARO ALFREDO DE PALCHI, GIÀ INVIATI QUESTA MATTINA PER E-MAIL, INSIEME A UN MIO PICCOLO OMAGGIO MUSICALE.
FELICE COMPLEANNO, POETA!!
Mi associo anch’io con questo intervento musicale agli auguri al poeta De Palchi.
Grazie.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/13/intervista-a-alfredo-de-palchi-a-cura-di-roberto-bertoldo-con-un-commento-di-john-taylor-per-il-92mo-compleanno-di-alfredo-de-palchi-poesie-scelte-da-sessioni-con-lanalista-1967/comment-page-1/#comment-44724
Prendo lo spunto dal primo libro di Alfredo de Palchi, Sessioni con l’analista (1967), per riepilogare la questione della «nuova poesia» italiana.
Di recente, Donatella Bisutti mi ha chiesto che cosa intendiamo per «nuova ontologia estetica».
Tento di rispondere brevemente. La domanda fondamentale che un poeta si deve porre è: Che cos’è l’essere e che cos’è il linguaggio? E qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio? Tutte le altre domande sono questioni secondarie, di contorno, e possiamo metterle da parte.
Perché la «nuova ontologia estetica»? Perché ogni nuova poesia è tale se riformula le categorie estetiche pregresse all’interno di una nuova visione.
Parlare di «ontologia estetica» implica parlare delle parole e del metro; nel linguaggio poetico la prima non si dà senza la seconda, ma è anche vero che ogni nuova poesia rinnova il modo di concettualizzare la «parola», il suo pondus all’interno del «metro».
Il «metro» secondo la nostra idea è una unità di misura di grandezza variabile, dobbiamo uscire fuori da un concetto di «metro» quale unità di misura fissa, statica ma entrare in sintonia con un pensiero che pensa il «metro» come una entità variabile, dinamica che varia con il variare delle grandezze (anch’esse variabili) che intervengono al suo «interno».
La «parola» quindi è una entità per sua essenza variabile (può essere rappresentata come una entità corpuscolare e come entità di frequenza sonora). Dirò, per semplificare, che non v’è un peso specifico costante di una «parola» ma vi sono tanti pesi della «parola» quanti sono i modi del suo manifestarsi all’interno di un «metro». Il «metro» sarebbe quindi una sorta di «onda pilota», o «onda di Bohm», come si dice nella fisica delle particelle subatomiche, un’onda che convoglia al suo interno le particelle che oscillano nell’universo.
Vi possono essere modi molto diversi di intendere questa «onda pilota», in questo concetto ci sta il «tonosimbolismo» della poesia di Roberto Bertoldo, una poesia intersemica e fonosimbolica e la poesia segmentata e frammentata di un Alfredo de Palchi; ci può stare il discorso poetico citazionista di un Mario M. Gabriele, il discorso poetico «caleidoscopico» di Steven Grieco Rathgeb, il mio frammentismo metafisico, ci può stare la ricerca iconica e simbolica di Letizia Leone in Viola norimberga (2018) e il frammentismo peristaltico di poeti come Francesca Dono con Fondamenta per lo specchio Progetto Cultura (2017), ci può stare il nuovo corso della poesia di Guido Galdini, di Donatella Costantina Giancaspero, di Carlo Livia, di Mauro Pierno e di altri poeti che si impegnano quotidianamente in questa direzione di ricerca. Ciascun poeta porta a questo salvadanaio una piccola monetina, un piccolo mattone. È la consapevolezza di un modo diverso di fare poesia che albeggia, un modo inaugurato da Tomas Tranströmer nel 1954 con il suo libro di esordio 17 poesie.
Questo nuovo concetto cambia radicalmente la forza gravitazionale della sintassi, il modo di porre l’una accanto all’altra le «parole», le quali, con tutta probabilità, obbediranno ad un diverso metronomo, non più quello fonetico e sonoro dell’endecasillabo che abbiamo conosciuto nella tradizione metrica italiana, ma ad un metronomo sostanzialmente ametrico. Non c’è più un metronomo perché non c’è più una unità metrica. Di qui la importanza degli elementi non fonetici della lingua (i punti, le virgole, i punti esclamativi e interrogativi, gli spazi, le interlinee etc.) ma che influiscono in maniera determinante a modellizzare la «parola» all’interno del nuovo «metro» ametrico. Di qui l’importanza di una sintassi franta. Ecco spiegato il valore fondamentale che svolge il punto in questo nuovo tipo di poesia, spesso in sostituzione della virgola o dei due punti. All’interno di questo nuovo modo di modellizzare le parole all’interno dei polinomi frastici si situa l’importanza fondamentale che rivestono le «immagini»; infatti le parole preferiscono abitare una immagine che non una proposizione articolata, perché nella immagine è immediatamente evidente la funzione simbolica del linguaggio poetico.
Ed ecco la parola chiave: il verbo «abitare». Le parole abitano un luogo che è fatto di spazio-tempo e di memoria. Le parole abitano la Memoria, e la Memoria abita l’Assoluto. Le parole sono entità temporali, sono il prodotto del tempo, sono la prova che il tempo fisico esiste veramente, non è una invenzione di poeti invasati, o forse il tempo che esiste è il tempo metafisico, l’aion, il tempo immagine mobile dell’eternità.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/13/intervista-a-alfredo-de-palchi-a-cura-di-roberto-bertoldo-con-un-commento-di-john-taylor-per-il-92mo-compleanno-di-alfredo-de-palchi-poesie-scelte-da-sessioni-con-lanalista-1967/comment-page-1/#comment-44751
Un pensiero intorno alla povertà delle parole
Quando si pensa ad una nuova opera, ad una nuova cosa, ad una nuova poesia pensiamo ad un «non ancora», e che cos’è questo «non ancora» che non riusciamo ad interpellare, a nominare? È l’impensato nel pensiero, l’impensato che sta al di là di ogni pensiero pensato… è il «non ancora» che guida il nostro pensiero verso la soglia dell’impensato. Allora, possiamo dire che è l’impensato che guida il pensiero verso il pensato…
La «metafora silenziosa» è l’impensato che fa irruzione nel pensiero.
Ecco, la nuova ontologia estetica è il «non ancora», è quell’impensato che muove il pensiero verso il pensato… Privati dell’utopia dell’impensato, si ricade nel pensiero già pensato, nel pensiero routinario… Dobbiamo quindi abitare l’impensato, abituarci al pensiero di abitare il «non ancora», l’impensato…
Qualcuno mi ha mosso, ragionevolmente, un interrogativo intorno a ciò che ho tentato di abbozzare con il nome di «metafora silenziosa». Comprendo bene le ragioni di tale diffidenza, sono comprensibili, condivisibili ma proviamo ad andare un po’ al di là del pensiero corrente, proviamo a pensare alla «metafora silenziosa» come ad una manifestazione del linguaggio. Possiamo dire così: che la «metafora silenziosa» appare quando il linguaggio si ritrae; la metafora silenziosa si annuncia quando l’orizzonte linguistico si ritrae; dobbiamo allora pensare alla metafora non come ad un composto di nomi, non come ad un nome che proviene da altri nomi, quanto come un nome che appare quando gli altri nomi si ritirano dietro la soglia dell’orizzonte linguistico. La metafora silenziosa è qualcosa di analogo all’Umgreifende, qualcosa si manifesta e viene verso di noi quando non ci dirigiamo verso di lui, anzi, quando ci allontaniamo da lui, quando prendiamo congedo dalla povertà delle parole…
Allora, veramente accade che la parola si manifesta quando facciamo un passo indietro (zurück zu Schritt), quando pensiamo alla parola non per il suo rinvio ad altro ma per il suo non essere invio, o rinvio, per il suo non significato e non significabile, come a qualcosa che non può essere catturato, afferrato, preso (greifen) con la potenza della nostra volontà, ma che può essere preso soltanto mediante un atto di congedo da qualsiasi apprensione, con un passo indietro.
[Del termine Umgreifende sono state date numerose traduzioni tra cui menzioniamo ulteriorità (Luigi Pareyson), tutto-abbracciante (Cornelio Fabro), tutto-circonfondente (Renato De Rosa), comprensività infinita (Ottavia Abate), orizzonte circoscrivente (Enzo Paci); i francesi usano il termine englobant, enveloppant. Nella presente trattazione, una volta chiarito il senso, s’è preferito lasciare il termine nell’espressione tedesca, il cui significato emerge dalle parole che lo compongono: “greifen” che significa “afferrare, prendere”, e “um” che è una preposizione che dà il senso della “circoscrizione”, della com-prensione”. “Um-greifende” è allora “ciò che, afferrando, circoscrive; prendendo com-prende”. Ciò che è circoscritto e com-preso è, stante il senso dell’operazione filosofica fondamentale, sia il significato oltrepassato, sia l’orizzonte oltrepassante. L’uno è presente con l’altro, ogni significato è presente con la totalità del suo “altro”, e la loro compresenza è appunto l’Umgreifende.1]
1] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente Feltrinelli, 2017, p. 78
Con De Palchi – a differenza del 99% di chi attualmente scrive «poesia»-, dovremo fare i conti. Saranno conti molto salati.
Un pezzo di storia incarnata e fatta uomo: La sua testimonianza é una ferita aperta, nelle sue parole é distillata l’esperienza di una persona che ha attraversato la brutalità di un’epoca, la cecità culturale (nata da ignoranza, ma forse più verosimilmente da malafede) di cinquant’anni d passa di cultura italiana … Questi pochi frammenti danno la misura del personaggio e della sua statura, che spicca nella palude ancora di più in virtù dell’isolamento a cui è stato condannato (e che lo stesso adduce a ragioni di imperante conformismo ideologico). Non ho la sua stessa fiducia che il tempo risarcisca alla fine i torti del mondo, ma almeno nel suo caso sarebbe bello credere che lo spessore di un autore fosse proporzionale a quanto la sua parola non è stata compresa…
Il «rumore di fondo» dell’opera di esordio di Alfredo de Palchi, Sessioni con l’analista (1967)
caro Lucio,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/13/intervista-a-alfredo-de-palchi-a-cura-di-roberto-bertoldo-con-un-commento-di-john-taylor-per-il-92mo-compleanno-di-alfredo-de-palchi-poesie-scelte-da-sessioni-con-lanalista-1967/comment-page-1/#comment-44878
per rispondere alla tua riflessione, dico sì, penso che il critico, o il lettore quando deve sforzarsi perché non capisce, allora dà il meglio di sé. La modernità della poesia di Alfredo de Palchi penso che risieda nel fatto che lui interviene nel contesto dei linguaggi letterari correnti degli anni sessanta con una carica de-automatizzante che frantuma il tipo di comunicazione segnica in vigore in quei linguaggi letterari, e lo frantuma perché quel suo linguaggio si pone al di fuori dei linguaggi del cliché letterario vigente negli anni sessanta.
Direi che il linguaggio di de Palchi in Sessioni con l’analista (1967) ha la forza dirompente del linguaggio effettivamente parlato in una lingua letteraria che all’epoca non era in grado di sostenere l’urto di quel linguaggio che poteva apparire «barbarico» per la sua frontalità, perché si presentava come un «linguaggio naturale», non in linea di comunicazione con i linguaggi poetici dell’epoca. Questo fatto appare chiarissimo ad una lettura odierna. E infatti il libro di de Palchi fu accolto dalla critica degli anni sessanta in modo imbarazzato perché non si disponeva di chiavi adeguate di decodifica dei testi in quanto apparivano (ed erano) estranei all’allora incipiente sperimentalismo ed estranei anche alle retroguardie dei linguaggi post-ermetici. Ma io queste cose le ho descritte nella mia monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi, penso di essere stato esauriente, anzi, forse fin troppo esauriente.
Ad esempio, l’impiego delle lineette di de Palchi era un uso inedito, voleva significare che si trattava di un «linguaggio naturale» (usato come «rumore di fondo») immesso in un contesto letterario. A rileggere oggi le poesie di quel libro di esordio di de Palchi questo fatto si percepisce nitidamente. Si trattava di un uso assolutamente originale del «rumore» e della «biografia personale» che, in contatto con il«linguaggio naturale» reimmesso nel linguaggio poetico dell’epoca che rispondeva ad un diverso concetto storico di comunicazione, creava nel recettore disturbo, creava «incomunicazione» (dal titolo di una celebre poesia di de Palchi); de Palchi costruiva una modellizzazione secondaria del testo che acutizzava il contrasto tra i «rumori di fondo» del linguaggio naturale «automatico» in un contesto di attesa della struttura della forma-poesia che collideva con quella modellizzazione. Questo contrasto collisione era talmente forte che disturbava i lettori letterati dell’epoca perché li trovava del tutto impreparati a recepire e percepire questa problematica, li disturbava in quanto creava dis-automatismi nella ricezione del testo.
Io queste cose le ho descritte penso bene nella mia monografia critica, chi vuole può leggere e approfondire queste problematiche in quella sede.
Il problema di fondo che si pone oggi alla «nuova ontologia estetica», o comunque a chiunque voglia creare una «nuova poesia» è esattamente questo, ed è sempre lo stesso: come riuscire a creare dis-automatismi e dis-allineamenti semantici nel contesto dei linguaggi poetici ossificati dei giorni nostri…
Penso che oggi chiunque legga ad esempio la poesia di Mario Gabriele proverà disorientamento nel recepire un tipo di «composizione» che impiega i rottami e gli stracci, le fraseologie della civiltà letteraria trascorsa (cioè i «rumori di fondo») come un mosaico di specchi rotti che confliggono nel mentre che rimandano all’esterno, cioè al lettore, una molteplicità di riflessi e di immagini creando nel lettore una sorta di labirintite, di spaesamento…
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