Una poesia di Giuseppe Talia, Transumanare, con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

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foto Lorenzo Quinn

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor supervisore di tirocinio all’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze dell’Educazione Primaria. Pubblica le raccolte di poesie, Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; Come è Finita la Guerra di Troia non Ricordo, Edizioni Progetto Cultura, 2016. Nel 2018 è stata pubblicata la raccolta in edizione bilingue, Thalìa per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A., traduzioni di Nehemiah H. Brown. Nel medesimo anno è uscita la silloge La Musa Last Minute con Progetto Cultura di Roma. Ha pubblicato, inoltre, due libri sulla formazione del personale scolastico, L’integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, marzo 2011, curatela; AA. VV. Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea, Firenze 2013

Strilli Dono Appena un perimetroStrilli Lucio Mayoor Tosi Profilo di braccia

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

L’11 gennaio 1975, alcuni mesi prima di essere assassinato, Pier Paolo Pasolini ad un incontro nella biblioteca di Genzano di Roma con Franco Di Carlo, confida al giovanissimo critico che con Trasumanar e organizzar (1971), l’ultimo suo libro di poesia, era già evidente che il «Progetto», già ideato e programmato, fin dall’inizio degli anni sessanta, era giunto al capolinea: la transumanazione, eternizzazione e «santificazione» di se stesso in quanto poeta attraverso la sua «Pragmatica Azione e Organizzazione del “Fare Poetico”». Per scrivere nuova poesia, sarebbe stato necessario il «Rinnovamento del linguaggio poetico e della lingua della poesia, attraverso la mescolanza (alchemica) plurilinguistica e pluristilistica di atti espressivi e di stile, secondo l’esempio il modello e il paradigma dantesco (Divina Mimesis)», di provenienza alto-colta, medio-parlata, giornalistica e mass-mediatica: un messaggio e un linguaggio non-chiaro, criptico, ancipite, Ambiguo (“finché è vivo”), che solo con e dopo la morte sarebbe dovuto divenire espresso, esplicito. Con questa strategia comunicativa e con questo Codice Espressivo-Formale, tutto da decifrare, Pasolini consegnò i Segni-Segnali-Archetipi dell’unicità e irripetibilità del suo Progetto filosofico-poetico-esistenziale (e con questo noi intendiamo una sua possibile «solitaria avanguardia personale»), ben consapevole ormai della fine della poesia, della inesistenza del pubblico della poesia e dell’avvento di uno sviluppo capitalistico di cui i primi segnali erano la borghesizzazione del proletariato e la proletarizzazione della borghesia, con conseguente omologazione e massificazione antropologica, esistenziale, linguistico-espressiva e culturale.

Le generazioni di coloro che sono nati dagli anni sessanta in poi sono ancora arrovellate all’interno della «poetica del guado», come la chiamo io, credono in buona fede di aver preso un raffreddore, lo deducono dai sintomi, dagli accessi di tosse acuta e dalla terapia a base di aspirine, e invece si tratta di polmonite. Il fatto è che c’è stato un errore nella diagnosi, nella prognosi e nella terapia. Il resto, sono i giorni nostri. Il «guado» è la fine del novecento, la fine delle ideologie, la fine della letteratura, la fine della poesia, la fine della non-poesia, la fine delle post-avanguardie e delle post-retroguardie; il «guado» è questa radura stilistica dove tutti gli stili si equivalgono nel linguaggio proporzionale e promozionale della comunicazione sede del post-contemporaneo; il Dopo il Moderno, è categoria imprescindibile, perché ci mette nel luogo dove è finito il Moderno ed inizia una età nuova, l’età globale. Con questa categoria possiamo tracciare «la linea» tra il vecchio modo di pensare il pensiero critico e il nuovo, tra l’antica temporalità e la nuova. Quello che vedono le nuove generazioni è la fine della letteratura, la letteratura della comunicazione, una pianura piatta dove non c’è nemmeno un’ombra, un albero, una altura, un palazzo, quello che vedono è una immensa pianura-radura e ne restano soddisfatti. Noi invece, noi della «nuova ontologia estetica», nati a ridosso degli anni cinquanta, sul crinale tra gli anni quaranta e i cinquanta, noi che siamo venuti troppo tardi, perché abitavamo il Moderno e ci siamo trovati, improvvidamente e d’un balzo, nel Dopo il Moderno, nel decennio della stagnazione politica, stilistica e spirituale, noi che proveniamo dal lontano novecento, abbiamo le idee chiare, ci siamo mitridatizzati, ci siamo inoculati per troppo tempo quantità millimetriche di elementi nocivi, quegli elementi che, paradossalmente, hanno fortificato le nostre resistenze, le nostre difese. Sì, abbiamo avuto dei pessimi maestri ed è stata una buona scuola. Sappiamo da dove veniamo… E sappiamo che cosa cerchiamo.

Giuseppe Talia proviene dalla esplosione delle sue vocali avvenuta alla fine degli anni novanta con Le Vocali Vissute (1999). Da quella esplosione delle parole inutili, intorbidate da ideologemi scaltri ma fasulli della fine del novecento, da quella esperienza Talia ne è uscito fortificato, ha riposizionato i suoi strumenti linguistici, ha riposizionato per bene il suo periscopio ed è ritornato al genere della poesia argomentazione, alla poesia invettiva di Pasolini, richiamata anche nel titolo. Un genere di poesia che richiede polmoni e dizione sicura. L’età globale richiede una poesia all’altezza dei tempi.

È stato detto che l’epoca contemporanea è «l’era della tecnica», in quanto la tecnica è «culturalmente cieca» come affermava Carl Schmitt; che la «tecnica» non ha in sé il criterio guida delle sue possibili utilizzazioni, può essere utilizzata da chiunque, da un poeta o da un modesto letterato, dallo Stato di diritto come dallo Stato autoritario, è un «terreno neutro» che si offre alla occupazione e alla utilizzazione, è una struttura neutralizzante e spoliticizzante. È uno spazio a-politico. La tecnica attende il soggetto che voglia usarla. È per questo motivo che Pasolini in Trasumanar e organizzar (1971) ha rifiutato la tecnica poetica del suo tempo; è per questo motivo che Giuseppe Talia, dopo il trionfo della tecnica poetica contenuta nel libro La Musa Last Minute (2018), adesso, la rigetta e si affida alla affabulazione tipica dell’invettiva e della oratoria, ma così facendo cade nell’aporia della tecnica medesima. Quella non-tecnica che Pasolini e Talia impiegano, nelle loro mani si converte ancora una volta in tecnica, tecnica versificatoria; in altre parole, non si può sfuggire alla dialettica antinomica che lega la civiltà moderna alla tecnica perché le sue radici risiedono in qualcosa che non è tecnico affatto: nei rapporti di produzione e nelle forze produttive, nonché nelle ideologie. Ma è esattamente questo il motore che muove la nuova ontologia estetica rispetto alla restante poesia di oggi, che la NOE è perfettamente consapevole della antinomia di fondo che lega la tecnica poetica alla produzione poetica dei nostri giorni.

Strilli Mauro Pierno Dopo aver saltellatoStrilli Maria Rosaria Madonna Alle 18 in puntoTransumanare di Giuseppe Talia

Caro mio che ciurli nel manico, a me tu non mi freghi più!
In questi ultimi tredici anni sotto il mio ponte
È passata tanta di quell’acqua che nemmeno l’alluvione:
acqua chiara, successi professionali, libri, e dei più vari,
come la mia biografia recita.
E invece nella tua vita in questi ultimi tredici anni, cosa è passato?
Acqua scura. Un cuore aperto per prendere aria.
Finito quello pseudo lavoro alla cartiera di famiglia e
un qualche mio viaggio da tappezzeria sul divanetto di pelle nera.
Evasione, carta sporca da mettere come centrino sotto l’argenteria:
la famula di dio et mediatrix.

E cosa è stato il tuo prosieguo? Un tentativo politico
naufragato nei marosi. Una finanziaria fallimentare.
Boccherini o Bacchelli? Saranno gli stessi zolfanelli?
La cicatrice sulla guancia sinistra dell’arricciaburro.

Finita l’epoca degli incarichi di prestigio – Signor Presidente!
– del gas e delle venature del marmo di Carrara. I Mugnai
con la farina dell’altrui sacco. Squadra, compasso e parcheggi.
E così, tra una perdita e un guadagno, Musil in te si ricompone
del tutto privo di autentici interessi: #Avvocato42.

Dici, anzi dubiti, di allusioni mie circa quel che potrebbe
Esserci tra noi. Ti rispondo: l’ultimo pellegrinaggio
sul divano della cartiera risale al settembre 2006, giorno in cui
dopo il rito dell’abbeveratoio, guardando nell’abisso dei tuoi occhi
nocciola, misi a nudo il Re: non c’era corona, né trono
nemmeno lo scettro. Era tutto fallace. Erano piccoli insetti
pubici da eliminate con il MoM. Eri informatissimo sui rimedi
perché in anni in cui hai dato il culo da Milano a Sarzana,
passando per tutta la Toscana, Bologna e il primo amore ,
con qualche puntatina nelle Marche (anche se fuori mano),
Roma e Napoli, di pidocchi ne hai conosciuti tanti.

Ed eri molto più divertente allora di adesso. Più spensierato.
Irrispettoso. Devoto a Priapo, alla cosmogonia dell’erezione,
della devastazione, dell’annegamento, della cancellazione:
“Giuseppe, al momento non ci sono le condizioni perché
L’ultimo napoletano mi ha distrutto.”
Una pietra tombale.

Ed ora tu pensi che io possa alludere a un nostro ipotetico ritorno?
Agli Ugonotti di dopo tredici lunghi anni dalla notte di San Bartolomeo?
Al conte Ugolino rinchiuso nella Muda dai ghibellini?
E dacché i miei occhi che non si sono mai più posati sui tuoi,
tu pensi che io voglia minimamente alludere alle tue
probabili vene varicose? Agli psicofarmaci che prendi
per darti una qualche qualità? Ai betabloccanti che assumi
per necessità? Al disastro della tua vita? Al divorzio alle porte
(Proud Mary), al tuo giovane amante che nascondi
sotto il tappeto e che mai vedrà la luce, nonostante tu l’abbia piazzato
in qualche azienda di famiglia? Alla luce della consapevolezza
(la luce dell’amore vero e di necessità virtù), schiavo di un buongiorno
per tutto il giorno, di una telefonatina all’ora stabilità, di una qualche uscita
in maschera, un sushi, un tutti gusti da leccare, un lunario da sbarcare?

E ci hai provato ad ingabbiarmi di nuovo in un “buongiorno”.
Se non che io, con uno scatto di reni non ho decostruito
Il tuo piccolo mito: “la pecora nera sceglie sempre il buonasera.”

E credi ancora che uno come me possa alludere? Possa ritornare
ad incontrarti furtivamente in un parcheggio di Chiesina Uzzanese
per poi sentirti elogiare quanto un Sin Sine Die sia bello?
Oppure fare a gara con il venditore di cucine di Prato, povero diavolo calvo
che ti allietava di domenica nella sua casina tutta ordinatina?

I libri di Sin Sine Die! Che avrà mai scritto? Poesie, romanzi, saggi
Libri scolastici? No, libri sulla cristalloterapia. Allora ti dico:
prova a sostituire i betabloccanti con il cristallo di rocca, gli psicofarmaci
con l’ametista e vediamo quale sarà l’effetto terapeutico. Prova, invece,
a leggere una mia poesia, le poche pagine del romanzo che ho scritto
di Don José e di Giuditta, e dimmi se i tuoi grumi di sangue e il tuo umore
esangue non ne guadagnano in salute e in bellezza.

Tu hai avuto la sfortuna di conoscere un Poeta. Ritieniti fortunato.

40 commenti

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40 risposte a “Una poesia di Giuseppe Talia, Transumanare, con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

  1. Un amico mi ha chiesto che cosa intenda con l’espressione «patria metafisica delle parole».
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/06/una-poesia-di-giuseppe-talia-transumanare-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-43709
    Ecco, io di fronte a una tale domanda mi trovo un po’ in difficoltà, perché qui ci vorrebbe un filosofo per poter rispondere, ed io che non sono un filosofo posso solo tentare alcune considerazioni che improvviso qui.

    La questione è cruciale. E concerne il fatto che ad esempio Giuseppe Talia abbia dovuto attendere ben 19 anni, dal 1999 (anno dell’esplosione delle sue vocali vissute) ad oggi, 2018. Innanzitutto, «una patria metafisica» non è un atto gratuito di cui un poeta può disporre ma è un orizzonte storico-destinale, un orizzonte trascendentale che agisce al di sopra e indipendentemente dalle possibilità espressive di ciascun artista. Un poeta può solo restare in attesa che questo orizzonte trascendentale si avvicini e si offra, ma questa attesa non dovrà essere passiva ma attiva, il lavoro da fare è restare in posizione di ascolto di una «situazione» linguistica e spirituale, di una «questità delle cose».

    Il poeta ha il compito di intercettare quelle correnti impetuose che lo possano dirigere verso le parole. La «patria metafisica delle parole» è innanzitutto un «luogo». Il «grande cantiere di sopravvivenze» delle parole che si sono ritirate in una nuvola, un cantiere non molto diverso dal «magazzino di costumi teatrali» a cui Nietzsche paragona il «giardino della storia» nella seconda Considerazione inattuale(1874), nel quale l’uomo si aggira senza incontrare alcuna identità forte, ma soltanto un ventaglio di «maschere» da indossare.

    I modi di sopravvivenza di questo «cantiere di sopravvivenza» qual è la poesia non fa differenza, la nuova ontologia estetica è uno dei «quartieri di sopravvivenza» che oggi si incontrano sempre più raramente in alcuni angoli remoti del pianeta. In questo «quartiere» il Ge-Stell trova abitazione nel luogo ontologico del Geschick. Ma questo evento (Er-eignis) si verifica sempre più di rado e in particolarissimi momenti della storia degli uomini.

    Una analisi testuale delle parole delle poesie di Mario Gabriele, di Donatella Costantina Giancaspero o di Marina Petrillo, ad esempio, potrebbe illuminare l’alchimia chimica che si stabilisce alle volte tra le parole e che si eventua in quella «nuvola» di parole che verranno poi ad addensarsi in una pioggia battente…

    «Il mondo dell’ontologia ermeneutica… non è né la “gabbia d’acciaio” dell’organizzazione totale, né la glorificazione del simulacro di Deleuze: è invece il mondo del nichilismo in atto, dove l’essere ha una chance di ridarsi come autentico solo nella forma dell’impoverimento – non la povertà dell’ascesi ancora legata al mito di trovare al fondo il nocciolo splendente del vero valore, ma la povertà dell’inapparente-marginale, della contaminazione vissuta come unico possibile Ausweg dai sogni della metafisica comunque camuffati. (Forse il cargo cult è anch’esso “un primo lampeggiare dell’Ereignis”). L’antropologia non è – e così l’ermeneutica – né l’incontro con l’alterità radicale né la “sistemazione” scientifica del fenomeno umano in termini di strutture; si ripiega probabilmente, nella sua forma… di dialogo con l’arcaico – ma nell’unico modo in cui l’arché può darsi nell’epoca della metafisica compiuta: la forma della sopravvivenza, della marginalità e della contaminazione».1]

    Le «maschere» sono nient’altro che dei simulacri che attendono i personaggi della nostra alterità.

    Corre l’obbligo porsi due domande terribili:
    Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
    Quale è il compito della poesia dinanzi a questo evento epocale?

    Allora, apparirà chiaro che quella simbiosi chimica delle parole che avviene attraverso il tempo e le temporalità può eventuarsi mediante un processo di metaforizzazioni: dalla cosa all’immagine mentale e da questa alla parola. La metaforizzazione ci porta «fuori» dal discorso ordinario, quello dell’epoca e dei suoi linguaggi di settore. Questo esser «fuori» è un attributo fondamentale dell’esser «altro» del linguaggio della poesia, altrimenti sarebbe «dentro», e precipiterebbe nei linguaggi di nicchia e di settore dell’evo mediatico.

    L’epoca della metafisica compiuta è quella che richiede una filosofia ermeneutica e un’arte ermeneutica, che è un altro modo di porre la questione dell’«ermeneutica [come] forma della dissoluzione dell’essere».2]
    L’esercizio della memoria si dà soltanto sul presupposto della perdita della memoria. L’esercizio della memoria è l’esercizio della nostra mortalità. «L’esercizio della mortalità, che fonda la totalità ermeneutica dell’esistenza, si chiarisce nelle opere del tardo Heidegger come An-denken, pensiero rammemorante. È ripercorrendo la storia della metafisica come oblio dell’essere che l’esserci si decide per la propria morte e in tal modo si fonda come totalità ermeneutica, il cui fondamento consiste nell’assenza di fondamento».3]

    ] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985 p. 170
    2] Ibidem p. 164
    3] Ibidem p. 127

  2. Mi pare molto vero, il presagio di Pasolini (o la constatazione) sulla fine della poesia. Ma a questa fine non c’è rassegnazione. Da questo, il permanere dell’officina e la tenacia. L’orizzonte c’è (per ora), ma è cambiato e cambierà. Questa è convinzione.
    Posto qui una mia poesia, trafugando una particella da quell’alchimia, non solo metereologica che sta sopra di noi (ognuno ha un cielo diverso).

    Era un presagio di pioggia?

    Sempre un senso di perdita
    sempre un senso di sconfitta.

    E’ solo apparenza la quiete delle cose
    irretite di luce nebbiosa
    prima dell’Inverno.

    Tutto si muove.

    Un sogno all’alba
    il precipitare della Terra
    verso il sasso frantumato
    dei passi a cumuli
    nella mia stanza
    rappresa nel vortice, la sfera.

    Saliva a zero
    e l’angoscia di trovarsi
    nel presagio.

    Non fu vero?

    E l’orizzonte in cui senza fermarsi
    trascorrono sversati, i nostri resti.

    La sponda dilavata del canale
    topo, gazza, coniglio
    ognuno ha la sua strada.

    Un’officina di maschere
    dietro le quinte, vesti
    e appigli di poesia.

    Nuvole in cordata
    verso le cime
    della falange senza armi,
    ricordi…

    Tutto era vero. Oggi
    quel velo di pioggia battente
    nel profumo (sognato)
    di vittoria..

  3. cara Paola,

    noto che la vicinanza dell’Ombra ti fa bene. La poesia mostra dei passi in avanti straordinari rispetto alle poesie del tuo ultimo libro. A mio avviso dovresti fare maggiore attenzione ad evitare i riferimento troppo diretti al vissuto privato, come ad esempio io primi due versi che io toglierei:

    Sempre un senso di perdita
    sempre un senso di sconfitta.

    La poesia si presenta meglio senza quei due versi. E poi lavorerei sul metro, alternando versi lunghi a versi brevi o brevissimi in modo da dare maggiore ariosità al dettato…

  4. Grazie Giorgio. Non so, cosa dire. Il libro è mio, ma non è solo mio. Di questo sono sicura. Lo stile è quello di cui potevo disporre, comunque mi appartiene. I versi che tu toglieresti, esprimono quello che leggo nelle persone e nei luoghi che incontro, soprattutto nelle strade di periferia milanese (e non solo).

  5. Salvatore Martino

    Carissimo Giuseppe letto tre volte il tuo testo. Per me difficile penetrare nel tuo labirinto linguistico infarcito di citazioni e di luoghi comuni. Certo un
    abilissimo intermezzo linguistico, variopinto come un tappeto persiano.
    Quasi un gioco abissale di trapezista che disprezza il pericolo. Vortice del sesso, dell’eros, dell’invettiva , del distacco, dell’abbandono. Una storia di amore finito? Certamente qualcosa che per me va davvero oltre l’umano: Se volevi stupire hai centrato il bersaglio. Come spesso ti ho detto troppo cervello e poco addome, anche se in questi versi qua e là traspare. Non so da che parte affrontare ( mi concedi il gioco?) questi tuoi versi così diversi e rivoluzionari, forse straordinari, che lasciano perplesso il mio fragile intendimento.ma sono contento di leggere la tua spietata intelligenza, il tuo rigore linguistico, l’ironia e talvolta il sarcasmo, con i quali condisci i tuoi parti poetici.Quando ritornerai a Chiesina Uzzanese rammentami a Giovanni ma non a Carlo che rinnego dalla notte di San Bartolomeo. Che bella la cosmogonia dell’erezione! Purtroppo non sempre duratura. Alla mia ormai veneranda età tutto questo appare velato di Ombra, persino delle parole: Spero che altri commentino questi tuoi versi così labirintici e non esplichino la consueta vetrina autoreferenziale esibendo le proprie poesie

    • Giuseppe Talia

      Carissimo Salvatore,
      da tempo, dall’alto della tua grande conoscenza della cosa Poesia, leggendo i miei testi, mi dici che al di là della techne ci vuole sempre lo scavo, il cesello e l’abisso, quell’abisso che, come diceva Nietzsche, guardandolo ti guarda a sua volta. In questo mio Trasumanare, forse, ho buttato un occhio verso l’abisso e l’abisso ha guardato me.

      E ti ringrazio, caro amico, per queste tue preziose parole, “sono contento di leggere la tua spietata intelligenza, il tuo rigore linguistico, l’ironia e talvolta il sarcasmo, con i quali condisci i tuoi parti poetici”.

  6. Vero il vizio di essere se stessi, ma insieme c’è dell’altro. A me non dispiace questa chiamata di Salvatore e rispondo per quel che posso. I versi di Talia possono essere letti come una storia personale (come sembrano vere e reali le prose di certi scrittori!) ma anche come storia collettiva. Una volta si diceva: il personale è politico. Abbiamo frequentato qualcuno che ci ha deluso, ma non potevamo fare diversamente. Almeno l’intenzione è quella di non cascarci più. La cristalloterapia (vedi lucciole per lanterne o no vax end co) si rivela terapia inadeguata, meglio per ora leggersi un buon libro.

    • Ci troviamo di fronte ad un testo poetico long playing dalle effervescenze tematiche in continua fibrillazione e vocalità, sullo stile di Howl, anche se la parola s’ingorga di sequenze ritmiche e temporali, ma con una etichetta estetica, tutta sua e particolare.

  7. Giuseppe Talia

    Gentili Tutte/i, ringrazio fin qui quanti sono intervenuti, risponderò a breve con articolazione. Intanto faccio appello a quanto detto da Martino “vetrina autoreferenziale esibendo le proprie poesie”, e invito: nessuno, dico nessuno provi a inserire proprie poesie a questo post che non siano commenti alla poesia di cui sopra, certo che un simile appello provocherà una totale défaillance.
    Il testo di cui sopra è sacro.

    • La prossima volta che ci incontriamo
      non diciamo niente, ma proprio niente a Martino.

      La definizione di long playing è forte. (Una versione
      vera del lunghismo.) Difatti adesso la rileggo, un’altra volta. Lo prometto,

      e cosi suggerisco di fare a Tosi, alla Ventura, alla Dono
      a Costantina, mi manca La Donatella, a Rago, al Linguaglossa,

      a Galdini, a Gallo, e a tutti quelli che ci inseguono,
      Madonna!!!! dimenticavo la Ventura ,e Sagredo,(che poi deve essere un simpaticone) e LIvia.

      Intanto ti abbraccio tanto Peppino, ti saluta tanto anche la Ewa LIpska

      Grazie OMBRA.

      • Salvatore Martino

        Non capisco Pierno a che cosa lei voglia alludere scrivendo: non diciamo niente, ma proprio niente a Martino. Per fortuna stavolta non ci ha invaso con i suoi versi…è già sulla buona strada.Ma deve sempre ringraziare l’Ombra? Forse perché gentilmente le concede uno spazio di cui lei abusa?

  8. Accolgo l’invito di Giuseppe Talia a non postare proprie poesie in margine a questo post. Che dire? la poesia di Talia ci pone davanti a quell’antico problema già scorto da Pasolini nel gennaio 1975 nel corso dell’intervista a Franco Di Carlo, ovvero, della necessità della riforma del linguaggio poetico italiano in direzione del plurilinguismo e del pluristilismo. Cosa semplice a dirsi ma oltremodo difficile a farsi. Se guardiamo con uno sguardo ex post la poesia italiana venuta dopo l’anno di grazia 1975 ci accorgiamo che la poesia che è intervenuta in questi cinquanta anni si è mossa invece in direzione di un monolinguismo e di uno stile «cosmopolitico», cioè, unidirezionale, narrativo, egolalico. Sono contento che Talia abbia avuto il coraggio di ricominciare daccapo, riprendere il filo del discorso sulla riforma del linguaggio poetico italiano dal 1975 e abbia confezionato una poesia ricca di humus, di rancori, di passioni, di ubbìe anche, di idiosincrasie con uno stile che riflette tutte queste emozioni ed emotività, uno stile, come dire, sgangherato, falcidiato dalla emotività, rabbioso, a volte collerico, ma anche tenero, ricco di pietas. Talia ha scritto un lungo j’accuse, un atto d’accusa sulla condizione umana di oggi, come non si usava da tempo. Altro che disguidi sulla «luce artificiale», caro Sagredo, il mio era un appunto neutro, ma tu ci hai visto un «diminutivo», come tutti i poeti che salgono sul podio… in realtà tutta la poesia di alto livello di oggi è attinta dalla luce artificiale, noi stessi in ogni momento della giornata viviamo nella luce artificiale, qual è il problema? Anche la poesia di Talia è tutta immersa nella luce artificiale di un occhio che guarda e che legge, anche la poesia di Mario Gabriele è tutta verniciata di luce artificiale! Penso che possiamo mettere tranquillamente da parte come kitsch i poeti che ci parlano della bella luce del tramonto dorato…
    Cari amici, adesso che è uscito fuori che la automobile elettrica inquina più delle automobili diesel, possiamo stare tranquilli, ammettere che nella politica italiana è possibile sostenere tutto e il contrario di tutto, che il global warming è una invenzione di scienziati sciocchi, mentre il mondo di oggi è pieno di azzeccagarbugli… e allora penso che dovremmo tornare alla Critica del principio di ragion sufficiente, a quella ragione che vuole indicare per ogni fenomeno la causa prima per dare una lettura proposizionale-razionale al mondo. Oggi possiamo dire con Hegel che il reale è razionale e che il razionale è reale… ma si tratta di una tautologia, una banale equivalenza proposizionale che non significa nulla, che giustifica tutto e il contrario di tutto, che le auto elettriche sono più inquinanti delle auto diesel e a benzina, che la poesia lirica è inquinante come la poesia post-lirica… in realtà viviamo in un mondo che avvelena i pozzi della ragione, che intorbida tutto, e anche il giudizio estetico non ne esce bene

  9. gino rago

    “[…[acqua chiara, successi professionali, libri, e dei più vari,
    come la mia biografia recita.
    E invece nella tua vita in questi ultimi tredici anni, cosa è passato?
    Acqua scura[…] “:
    scontro, non soltanto dialettico, fra l’acqua chiara e quella scura come correlativi oggettivi di due maniere antitetiche di concepire il proprio stare nel mondo, il proprio modo di leggere, interpretare, assumere in sé le ragioni del mondo fino a farne modalità esistenziali: c’è anche altro in questo poemetto di Giuseppe Talia, e quando dico ‘altro’ non intendo altri temi o motivi poetici,
    intendo ‘altro’ linguistico-stilistico-tonale-metrico, come ha bene evidenziato Giorgio Linguaglossa nella sua nota introduttiva e ben colto anche Mario Gabriele nella sua asciuttezza, nella essenzialità della sua nota.
    Transumanare di Giuseppe Talia è un congedo dichiarato da ciò che, anche in narrativa, viene detto “stile Novecento”. E’ un raro caso di coabitazione o se si vuole di corrispondenza piena fra intenzioni d’arte ed esito estetico finale.Non voglio cadere nelle trappole del banale scomodando eros, thanatos e altro. Questa di Talia è una seria e ben riuscita testimonianza di poesia moderna, si colloca oltre il ‘900

    Gino Rago

  10. Giuseppe Gallo

    Leggendo e rileggendo il “poemetto” di Talia, per seguire il consiglio di Martino e di Pierno, ho sentito nella mia memoria il fruscio di ciò che il venerando Carducci faceva dire al suo “sonetto”: le movenze del cherubino, il mormorio dell’acqua, lo strale adamantino, la nota de’ rusignoli sotto i cipressi toscani e non più ionii,, estasi e pianto, ira ed arte… io né decimo o undicesimo, ma solamente postremo, non posso far altro che augurare al mio corregionale, che quanto “Il cervello e l’addome” gli hanno fatto scrivere possa Transumanare anche in mantuana ambrosia e venosino miel…

  11. Narciso dice
    Caro Giuseppe, bisogna avere un po’ di caos dentro
    per creare una stella che danza
    Il tuo sacro furore rammenta antiche virtù
    I tuoi pensieri sono pugnali affilati
    con cui laceri carne e plastica
    di questi uomini vuoti
    dalla testa di paglia
    che errano nel grande deposito
    di merci e fuochi fatui
    Ma attento a non feriti anche tu
    Guarda quelle vetrate
    una volta questo era un tempio
    e ora è una spelonca di ladri
    Ricorda quella fanciulla vestita di bianco
    che passando disse:qui non mi sono mai sentita a casa
    nel più antico ricordo mi fu tolto qualcosa che mi manca
    rabbrividiva nel cuore della nostalgia
    si faceva chiamare Emily

  12. Salvatore Martino

    Ho appreso soltanto oggi dal marito che la nostra cara Mariella Colonna ci ha lasciati il 9 di ottobre. Non avendo letto nulla su l’Ombra lo comunico con mio grande dolore. La morte di un poeta è sempre qualcosa di inquietante che ci affonda nel mistero, e questa volta non delle parole:

  13. antonio sagredo

    Hai ragione, carissimo Linguaglossa….
    ma io non sono su un podio, ma su un trono, come in una foto Ejzenstejn sul trono dello zar dopo la rivoluzione d’ottobre.

  14. Giovanni Ragno

    “Se non che io, con uno scatto di reni non ho decostruito”…

    definire questo un verso? ( come tanti altri)
    Ci vuole una faccia di bronzo!

    G. R.

    • Giuseppe Talia

      Anticamente i bonzi erano considerati preziosi, molto più dei marmi, che in epoca romana, a basso costo, riproducevano opere in bronzo dell’antica Grecia.
      Dire a me che ho una faccia di bronzo è un complimento.
      Dire a LEI, A-ragno che ha una faccia di marmo non è un complimento.

      Lei preferisce sicuramente i fuochi artificiali tipo questi: E io vidi, non so, patiboli in stiffelius e quinte martoriate come golgotha
      e coi reggicalze ben in vista alati putti e sacerdoti celebrare beati,
      sotto i portici del granchio, sanguinanti spine, lombi e glutei!

      Ma caro A-Ragno i fuochi artificiali sono fuochi fatui. Bisogna sempre aspettare la successiva festa estiva di paese per vederne di nuovi, dimenticando quelli della stagione passata.

  15. antonio sagredo

    A parte la simpatia che provo verso Talia, devo dire che i suoi versi hanno si una cinetica inconsueta all’interno di ciascuna parola, ma a scapito talvolta del significante che la esprime; con ciò voglio sottolineare che quel che appare più prosastico doverebbe cedere il posto a una musicalità che porrebbe lo stesso verso in un luogo poetico altrove… magari talvolta il verso mascherato da evocazione sarebbe un prodigio e questo per non cedere a un significato troppo realistico; comunque tutti i riferimenti culturali e dei luoghi subordinati al raccontare frenetico – similare questo al vagabondare talvolta senza meta – mi fanno pensare all’influenza di certa poesia americana dagli ’50 agli anni ’70’, e che tuttora è valida, ma solo per il lettore americano medio.
    Il verso finale è autobiografico, e mi riguarda, anche!

    “Tu hai avuto la sfortuna di conoscere un Poeta. Ritieniti fortunato.”

  16. Questa poesia a me sembra pasoliniana solo per giudizio estetico. Mi riesce difficile immaginare che il poeta di Trasumanar e organizzar avrebbe potuto occuparsi di faccende affettive personali, e a questa maniera. Comunque io Pasolini l’ho sempre letto con fatica, e come poeta nemmeno mi piace tanto. La differenza, tra questa poesia di Talia e altre della NOE, sta nel fatto che i poeti NOE non possono prendersi tanto sul serio; gliene manca il tempo e forse anche la volontà; perché soggetto e oggetto nella NOE sono sempre fuori posto, decentrati, sia rispetto alla tradizione, compresa la recente del P. P. Pasolini, che ontologicamente per dove va a posizionarsi e quale importanza o valore viene assegnato all’io.
    Stiamo quindi parlando di una poesia scritta alla maniera di, e immagino che il titolo sia stato posto a fatto compiuto, appunto per valutazione estetica. Ma tutto sommato si tratta di un buon componimento. Talia ha buona penna.

    • Giuseppe Talia

      Pasolini si è sempre occupato di faccende affettive personali, da quelle ha mosso tutta la sua opera, a partire da “Poesia a Casarza”.

      Tosi, studia!!!

  17. Però io penso che Giuseppe Talia abbia scritto una poesia che ri-parte da Trasumanar (1971) di Pasolini per andare oltre di essa; riepiloga il tempo trascorso dalla pubblicazione di Trasumanar e giunge in pieno Dopo il Moderno, ai giorni nostri; e in tale tragitto si porta dietro le escrescenze, le cisti, le bolle (d’aria), le cicatrici, le scorie di ciò che questo tragitto storicamente ha comportato e comporta. In tal senso, Talia va oltre Pasolini, fa un passo avanti, lo rimedita e lo porta ad ulteriori traguardi… Nella scrittura di Talia ci sono moltissimi rottami del privato, rottami che l’autore non prende mai sul serio, né tantomeno ne fa una ironia. Voglio dire che Talia non fa una poesia SUI rottami del quotidiano e del privato come hanno fatto più o meno bene e più o meno in modo convincente e condivisibile Patrizia Cavalli e Valentino Zeichen, con annessa schiera di numerosissimi epigoni, a me pare che Talia si muova in un diverso orizzonte di azione: lui fa poesia DEI rottami, non sui rottami. In questa accezione lui si pone come rottame tra i rottami, si pone già fuori delle poetiche del privatismo e del quotidianismo che hanno fatto una poesia SUI rottami e le macerie del quotidiano. La differenza è sottile ma decisiva. La differenza fa il distinguo.

    Di quella eredità metafisica, di quello stato di cose, Talia non sa che farsene, nella sua composizione non è importante il significato ideologico o civile come accadeva nell’ultimo Pasolini, è importante aver archiviato quella esperienza per poterne aprire un’altra. A mio avviso Talia individua una nuova costellazione storico-ontologica nella quale già siamo, già tutti ci troviamo: una questità di cose con annesse le parole dell’epoca della stagnazione e della recessione, un vocabolario fitto di ubbìe e idiosincrasie e umori atrabiliari, un mondo di rottami dal cui orizzonte è bandita la fuoriuscita. In Talia c’è la consapevolezza che il nostro nuovo orizzonte destinale è questo e non altro, costituito da ciò che è andato perduto e rimosso, dai liquami e dalle refurtive degli scippi della recessione. Se leggiamo con attenzione il suo lessico ci troviamo questo universo di parole, quella costellazione linguistica che corrisponde alla nostra questità delle cose.

    • Giuseppe Talia

      Giorgio, grazie. Ma non dirlo così forte. Più forte lo dici e più sarà la resistenza anche sorprendentemente tra gli accoliti della NOE di cui si registra una dubitatio, e questo mi fa molto riflettere.
      Con Howl di Ginsberg, per esempio, io non ho nulla a che fare.
      Io sono un centauro.

      • Caro Talia,
        quando dici che il tuo testo “è sacro per via della pancia e dei polmoni da cui è stato emesso”, perché allora disconoscere, la mia citazione di Howl di Ginsberg, e prendo a caso la poesia “America”, ma ce ne sono tante, che quando le scrisse avevano la stessa pancia e polmoni da cui tu hai tratto Transumanare?

        • Giuseppe Talia

          Caro Mario M. Gabriele, a differenza di Ginsberg io non urlo, io scaglio frecce, anche se non tutte centrano il bersaglio.
          Se poi l’analogia con Howl che tu trovi con il testo di cui sopra si riferisce a una presunta “diversità”, in pari con Ginsberg e con Pasolini, allora ne prendo le debite distanze e cito: “Io non sono io né sono l’altro” come scrive Mário de Sá-Carneiro.

          Sulla sacralità del testo, il discorso è complesso: provocazione, ma poi non tanto; argine all’egolatria (tu, caro amico, ne sei immune); richiesta di contenuti di sostanza e forma. E ringrazio quanti si siano astenuti dall’inserire proprie poesie in questo post.
          Io, personalmente, preferisco il silenzio al chiasso.

  18. Tutto in un verso la teatralità scomposta della nostra contemporaneità.
    “Tu hai avuto la sfortuna di conoscere un Poeta. Ritieniti fortunato.”
    Rincorriamo il teatro, la forma del dialogo primordiale, la forma del
    tetè-a-teté. Il tentativo di Talia risponde a questo imperativo. Superare
    se stessi recitando la parte di un poeta consapevolmente fortunato che incontra guitti e teatranti storici e letterati.

    Sono tentato di postare qui una su Pasolini, non lo faccio(l’ho già fatto!) e chiedo scusa a Salvatore Martino, scherzavo.

    A proposito di teatro… Antonio Casagrande che interpreta il poeta Strada:

    Grazie Ombra.

  19. Giuseppe Talia

    Noam Chomsky ne’ “Il Mistero del Linguaggio” (Raffaele Cortina Editore 2018), afferma che le lingue cambiano ma non si evolvono, nel senso che non sono le lingue a evolversi quanto la capacità linguistica: “Un fatto apparentemente consolidato riguardante l’evoluzione del linguaggio è che essa non abbia avuto luogo negli ultimi cinquantamila anni, o anche più, da quando i nostri antenati lasciarono l’Africa.”

    Se le lingue non si evolvono, ma cambia la capacità linguistica, Chomsky e il recente programma biolinguistico, “ben lungi di lamentarsi dell’esistenza di misteri per gli esseri umani”, riferiscono di una recentissima ricerca biologica del linguaggio, la quale, partendo da una terminologia corrente, individua il linguaggio interno, o I-linguaggio, quale base (segni acustici per il pensiero), definita come grammatica generativa, per arrivare a una supposta grammatica universale (GU). Gli esprimenti con i topi sul riconoscimento è essenziale in quanto pongono il problema sulle componenti innate, e quindi biologiche, della nostra natura.

    Detto questo, entro direttamente nella questione testo. Diverso è il concetto di “verso” che è una complicazione non sempre riconducibile a una unità metrica in quanto l’unità metrica, lungi dall’essere un monolite, cambia nel tempo e nelle epoche. La furia iconoclasta di Rimbaud ne’ “Una Stagione all’Inferno” ne è prova lampante, come pure in tutta l’opera di Esenin e in particolare in L’uomo nero: “Amico mio, amico mio, sono molto molto malato.”

    Con queste premesse, nel testo di Transumanar (dico non a caso testo, organico, e non verso/versi) si può ravvisare un modello (Trasumana e Organizzar) e nel modello un cambio linguistico, posto che non si può parlare di evoluzione, semmai di paradigma, o per meglio dire di “una patria metafisica delle parole” nell’accezione indicata da Linguaglossa.

    La patria metafisica delle parole si raggiunge non sempre nella consapevolezza iniziale, come nella pratica, quanto piuttosto in “un orizzonte storico-destinale un orizzonte trascendentale che agisce al di sopra e indipendentemente dalle possibilità espressive di ciascun artista.” (Linguaglossa).

    Il testo di cui sopra, dunque, è sacro per via della pancia e dei polmoni da cui è stato emesso, dalla verità in esso contenuta, verità esperienziale come quella dei topi nel labirinto o nella ruota: linguaggio biologico più che linguaggio razionale.

  20. Soltanto una psicologia storicamente orientata, soltanto una concezione storicistica del linguaggio interiore potrà portare alla comprensione di un problema così complesso…Abbiamo visto che il rapporto tra pensiero e parola è processo vivente di incarnazione del pensiero e della parola; la parola privata del pensiero è parola morta. Come scrive il poeta:
    “Imputridiscono le parole morte
    come, nel distrutto alveare, le api” (Gumilev)
    ma anche il pensiero non realizzatosi nella parola resta qualcosa di analogo alle ombre dello Stige.
    …il legame tra pensiero e parola non è già dato a priori, non è fissato una volta per sempre, ma costituisce un processo di sviluppo e si evolve con esso stesso… da “Pensiero e linguaggio” di Lev Vygotsky

    Quindi evoluzione del pensiero e del linguaggio in stretta connessione (anche storica)…

    Proporre come conclusione un’origine biologica della verità esperienzale, direi che contraddice quanto riferito più sopra (patria metafisica delle parole). Il sacro visto nella sua verità esperienziale, non può fare a meno della ragione, per essere rivelato e riconosciuto.

  21. Giuseppe Talia

    Gentile Paola Renzetti,
    capisco bene il suo punto di vista anche se riscontro un errore di base. Il termine evoluzione riferito al linguaggio non è da intendersi come sinonimo, cioè sviluppo, cambiamento, crescita, trasformazione, quanto invece nella sua assolutezza darwiniana.

    Anche io, durante la lettura di Chomsky rimasi scettico su questo punto, fin quando non ho sistemato il “pensiero” anche attraverso le connessioni neurobiologiche (processi chimici e fisiologici).

    “Il problema dell’evoluzione del linguaggio è emerso a metà del XX secolo, quando vennero compiuti i primi sforzi per costruire una spiegazione del linguaggio come di un oggetto biologico interno a un individuo, cogliendo così quella che potremmo definire la proprietà di base del linguaggio umano: ogni linguaggio genera un insieme infinito e discreto di espressioni strutturate gerarchicamente, con interpretazioni sistematiche alle interfacce con gli altri due sistemi interni, il sistema sensorimotorio per l’esternalizzazione e il sistema concettuale per le inferenze, le interpretazioni, la pianificazione, l’organizzazione dell’azione e altri elementi di ciò che informalmente è chiamato “pensiero”. (1)

    Per secoli, almeno fin dal ‘600, chimica e fisica non sono mai riuscite a comunicare efficientemente, ma solo recentemente con la scoperta della fisica quantistica, le due scienze hanno cominciato finalmente a cooperare. Non lo affermo io, vi sono programmi sperimentali in tal senso e, credo, oltremodo, che Giorgio Linguaglossa quando nei suoi scritti teorici parla di atomi, di universi, di dimensioni, come anche di cosità della cosa e via dicendo, stia mettendo in comunicazione teorie e “pensiero” recenti.

    “La Grammatica Universale determina la classe di meccanismi generativi che soddisfano la proprietà di base e gli elementi atomici che entrano nella computazione.
    Questi elementi atomici costituiscono un mistero profondo. Gli elementi minimi che veicolano significato nel linguaggio umano – simili alle parole, ma che non sono parole – sono radicalmente differenti da qualsiasi altra cosa conosciuta nei sistemi di comunicazione animale.” (2)

    Quando Linguaglossa parla di età della stagnazione, di recessione, di patria metafisica delle parole egli non fa solo analisi storica, ma individua anche un probabile luogo di incontro. La patria metafisica delle parole non contraddice affatto una supposta origine biologica del linguaggio, al contrario, essendo essa stessa interna al linguaggio; inoltre (nuova) patria, metafisica e parole è la formula per cui Hegel e Heidegger comunicano (fisica e chimica).

    (1) Noam Chomsky, Il mistero del Linguaggio, Nuove prospettive, Raffaello Cortina Editore, 2018, pagg. 47,48.
    (2) Ibidem, pag. 49

  22. La ringrazio per le sue precisazioni, ma non credo che Vigotsky intendesse parlare di evoluzione in senso prettamente naturalistico e biologico, senz’altro, no. Prese le distanze sia dall’idealismo, sia dal determinismo positivistico nell’ affermare la necessità di una psicologia storicamente orientata. Lei giustamente pone l’accento sulla funzione generativa del linguaggio, biologicamente fondata. Prendo atto delle fonti certo, ma le scoperte e le accentuazioni possono dialogare e integrarsi. Io “simpatizzo” per un’evoluzione della personalità (anche del linguaggio) comunque influenzata storicamente e suscettibile di cambiamenti, aperta agli scenari imprevedibili della libertà e della possibilità del riscatto umano.

    • Giuseppe Talia

      Gentile, è un piacere interloquire con Lei. Lei è una psicologa?
      Già Descartes parlava del libero arbitrio come la “cosa più nobile” che abbiamo, “non vi è nulla che comprendiamo più evidentemente e più perfettamente.”
      Il buon Vigotsky e il buon Dewey sono/sarebbero d’accordo.

      Mi permetto ancora di riportare uno stralcio di “Il mistero del linguaggio” di Chomsky:
      “I concetti di determinatezza e di casualità rientrano nel dominio della nostra capacità intellettiva. Potrebbe tuttavia emergere che “le azioni libere degli uomini” non possano essere adattate a questi termini, incluso l’aspetto creativo del linguaggio e il pensiero. Se così fosse, ciò potrebbe essere un problema di limitazioni cognitive – che non precluderebbe una teoria razionale di tali azioni, per quanto ciò sia lontano dalla comprensione scientifica attuale.
      Penso che, per onestà, dovremmo ammettere che di questi problemi capiamo ben poco di più oggi di quanto non ne capisse il filosofo e fisico spagnolo Juan Huarte cinquecento anni fa (…) Non sappiamo nemmeno se queste siano questioni che rientrano nell’ambito della comprensione umana, o se ricadano all’interno di ciò che Hume (1756, p. 503) considerava i segreti più profondi della natura, relegati a “quell’oscurità nella quale rimasero e rimarranno mai sempre”.

      Noam Chomsky, Il mistero del Linguaggio, Nuove prospettive, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, pagg. 44, 45.

  23. Io la penso come Orwell: siamo simpatici maialini con la strana capacità di produrre pensieri pittoreschi. Ma, se ridotti in miseria, anche bacarozzi; in questo caso do ragione a Kafka, il quale trattò di metamorfosi, più che di evoluzione. Poi, scusate, evolverci da che, se non sappiamo nemmeno quale sia il punto di partenza? In compenso sappiamo tutto, o quasi, di ciò che non siamo. Perché non siamo, appunto, e questo a me sembra evidente. Poi – perché fantasiosi, ma sotto sotto nemici dell’introspezione e della psicanalisi – possiamo darci all’io teatrale come fa Sagredo. Ma si tratta di pia illusione; in tanti casi non facciamo altro che ripetere l’esempio del colonnello che avevamo in casa, quello che ci ha cresciuti, ecc. ecc.
    Questo pensiero potrebbe mandare qualcuno in disperazione, ma so di altri, pochi, a cui l’idea di non essere piace e dà ristoro.

  24. ho riletto proprio adesso per l’ennesima volta il poemetto di Talia e devo ammettere che ad ogni lettura il testo ci guadagna, prova questa empirica della bontà del poemetto… È sì che si trattava di un compito difficilissimo quello di argomentare e contro argomentare tutto e nulla, omogeneizzare il diverso in un discorso di concordia discordante, far coabitare gli opposti e i distinti in un unico calderone linguistico, un pentolone in ebollizione. Il risultato finale è un poemetto attraversato da tante linee di forza divergenti che divergono sempre di più ma, paradossalmente, a lettura ultimata, ti accorgi che il tutto tiene, non collassa… e questo vorrà pur dire qualcosa, o no?

    • Giuseppe Talia

      Carissimo Giorgio/Germanico, oramai, e per fortuna, la nostra corrispondenza poetica si attesta su testi eroici: mi piace pensare che il ciclo Tallìa/Germanico possa diventare nel tempo un must.
      Tu ben sai, credo, che io solitamente non scrivo piaggerie, posso solo dire che io capisco quello che tu teorizzi, io ti seguo, io comprendo e rispondo come posso.

      • caro Tallia,

        Germanico consegna questa missiva ad uno schiavo fidato,
        spero che ti raggiunga al più presto.
        Le torbide vicende di questi ultimi anni mi hanno segnato nel profondo. Pensavo che le vittorie maturate sul campo contro i cimbri e i teutoni fossero foriere di benemerenze, e invece sono stato rimosso dalle mie legioni e dai miei commilitoni, promoveatur ut amoveatur, e confinato nella lontana provincia di Miromagnum. Esiliato, con tanto di onori e di allori. Da queste colline, nelle giornate asciutte posso scorgere il mare Egeo, il mare di Odisseo, azzurro con le barche a remi dei pescatori e le bianche vele; durante i mesi estivi una giovane cartaginese allieta i miei giorni afosi. Ascolta, il Senato è un covo di serpenti, gli ottimati si circondano di piaggiatori, di portaborse e di postulanti, la legge calpesta la legge, la crisi vendemmia le sue vittime, i contadini vengono espropriati e ridotti in schiavitù, le campagne si spopolano, le coscrizioni vanno deserte, l’Urbe ormai è sinonimo di corruzione e di deboscia… dimmi, quanto durerà questa lenta agonia? Quanto tempo ci separa dalla apocatastasi? Prima o poi i germani torneranno in forze, sanno della nostra debolezza, conoscono i nostri punti deboli, dai confini ci scrutano, attendono segnali…

  25. Ho riletto anch’io. Spiace per lo screzio intercorso tra Giuseppe e me, e ancora di più per essere stato io tanto lento nel capire ed apprezzare l’uso stretto del punto, l’andatura sostenuta che ora considero di bello stile NOE. O di bella prosa NOE, che è lo stesso. Il mio intervento di poco sopra aggiunge altra confusione: dicevo la mia sull’evoluzione, ammesso che abbia un qualche fondamento. ma non ne ha perché si stava parlando del linguaggio, e io lì non ci sono arrivato. Pazienza, dirò a Giuseppe le mie ragioni in privato. Grazie, portate pazienza.

  26. …E un guaio.
    Aver abbandonato la scrittura poetica per un confronto letterario non è da pensatori. Siamo e resteremo un popolo di teatranti!

    Diatribe duellanti. E non venite a parlarmi
    di sana polemica.

    Davvero resto infastidito, e comprendo le ragioni di Tosi. Se solo avessimo potuto scrivere e rispondere con poesie!

    Il senso della letteratura sarebbe salvo. È vero caro Rago!

    Autoreferenzialità del verso pare la nostra salvezza. Il nostro puro incontro.

    Questo ho sempre apprezzato dell’Ombra.

    Farmi sentire, farmi scrivere Poesie.

    Che poi le mie non piacciono a Salvatore Martino un po’ mi dispiace.

    Questo il senso del lunghissimo caro Ragno.

  27. Salvatore Martino

    Carissimo Pierno non è che non mi piacciano le sue poesie, trovo semplicemente, è soltanto una mia doxa, che siano lontane da quello che o intendo per poesia. Lei non deve curarsi delle mie impressioni, che possono essere fallaci, continui a scrivere, a studiare, a leggere , a interrogarsi al profondo, a lasciarsi penetrare da qualcosa che vive al di là di noi stessi, a dimenticare per un po’ la tecnica che obbedisce ciecamente alla NOE, a dimenticare il cervello in favore dello stomaco, ad essere un tantino più crudele con se stesso …e forse…

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