Giorgio Linguaglossa
29 novembre 2018 alle 10:06
dal poeta Guglielmo Aprile ricevo queste poesie.
Chiedo: a quale tipo di ontologia estetica appartiene la ricerca del poeta?
Stralcio dalla prefazione (“Il viaggio finisce qui”)
“La distruzione del “sacro”, causata dall’avvento della modernità, comporta la perdita di ogni valore e l’incapacità di trovare risposte ai quesiti esistenziali e di giustificare la realtà e l’esistenza umana provocando il conseguente trionfo dell’insignificante e del nulla. La contemporanea speculazione filosofica offre sicura testimonianza del baratro in cui siamo caduti, anche perché si aggiunge la sfiducia di risalire la china. L’autore che in modo più evidente esprime questa crisi è Federico Nietzsche, il quale nell’ultima opera, Volontà di potenza, dopo aver invano cercato il senso dell’universo e delle vicende umane, scopre che tale senso non c’è e che, dopo aver postulato un criterio sistematico come base di tutto il reale, giunge alla conclusione che tale elemento non esiste. Di fronte all’individuo non rimane che un mondo senza ordine, senza struttura, senza finalità (…). Ma dopo più di cento anni, nonostante tutti i tentativi, ci si accorge che l’ansia metafisica, di cui Aprile è lucido testimone, non ha esaurito il suo anelito (…).”
“La poesia simbolica, in primo luogo, è poesia totale, poesia che deriva dall’integralità e della concretezza dell’essere umano, che non è solo ragione né solo sentimento, che non è solo materia né solo un aggregato di meccanismi psichici, ma vive ed opera in una condizione che supera il dominio dei sensi (…); così la mentalità simbolica postula un’altra realtà: accanto al presente l’assente, al passato il futuro, alla materia lo spirito, all’espressione il pensiero, all’ “enigma” la realtà che si cela dietro lo specchio. Il simbolo non è solo traccia di “altro”, ma indica anche che quell’ “altro” conta di più.”
Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive e lavora a Verona. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali Il dio che vaga col vento (Puntoacapo Editrice), “Nessun mattino sarà mai l’ultimo” (Zone), L’assedio di Famagosta (Lietocolle), Calypso (Oedipus); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.
Prognosi
Conosco il destino delle auto incidentate,
mi smantelleranno
pezzo per pezzo, i beni in ipoteca
si svalutano, o si danno alla Caritas;
rifiuterò le cure palliative,
la chimica farà valere i suoi diritti:
presto avrà fine questa serie di oneri
così sterile,
digitare il codice di accesso,
orientare lo stendibiancheria
verso nord al mattino,
andare ad urinare ogni tre ore.
Di questo passo
Ci si incammina verso una probabile
liquidazione totale,
a breve è previsto l’esproprio,
dichiarato incapace di intendere e volere
il vecchio che provvedeva a sfamare
i piccioni dell’intero quartiere;
a partire dal primo di ogni mese
scatta la detrazione,
la confisca è immediata,
le ali di paglia finiscono all’asta,
si mettono i sigilli
ai cassetti in cui non abbiamo guardato,
si archiviano le domande
scadute per decorrenza dei termini.
Foce del mondo
Il bidone dell’indifferenziata
trabocca ogni giorno di più
di cartoline dalla luna di miele
e attestati di frequenza,
due foche morte sul cuscino,
giuramenti d’amore
e notti in ospedale.
Tanto si finisce scaricati
in ogni caso
in un cimitero di scarpe rotte,
tutto intorno papaveri in coro
che fiammeggiano indifferenti;
una botta con il giornale e la mosca
è una macchia su un muro, e sarà
come se non fossimo mai nati.
Catarsi
Occorre rigore
per segnare con la calce la fronte alle strade,
il fuoco è il più igienico metodo
di smaltimento del superfluo:
cibo perfetto per le fiamme
i giornali in sala d’attesa,
buoni sconto e proposte immobiliari
ultravantaggiose traboccano
dalla cassetta postale (dobbiamo
svuotarla ogni giorno), l’universo
ci invia con puntualità la parcella;
migliaia di scarpe allacciate per migliaia di mattine
dirette in nessun altro posto
che l’inceneritore,
quello che avanza della cremazione
si butta giù nel lavandino.
Ultima corsa
Inutile portarsi dietro l’intero guardaroba
in vista del viaggio.
Tanto non passano la dogana
le cornici dorate
e le teste di orso impagliate,
l’abbronzatura presto sarà sparita;
andato perso il bagaglio
per colpa dei ladri o per la fretta
di non perdere una coincidenza.
Ogni sera la stessa stazione anonima,
fa paura
dopo l’ultima corsa: è qui che scendo,
i fanali mi compatiscono,
la valigia vuota eppure così pesante.
Il gioco della morra
L’ospite ama fare improvvisate,
verrà a citofonarmi
quando sono in pigiama o sotto la doccia:
jazzista dei calendari,
si beffa dei pronostici,
è il fattore sorpresa
che lo rende imbattibile alle carte,
ha una mano
veloce e furbissima, con cui apre
a caso ogni giorno i suoi elenchi,
possiede in rubrica i recapiti
di tutti gli imboscati,
potrebbe in qualunque momento
raggiungerli, non è che per pigrizia
se non lo ha fatto ancora.
Lucio Mayoor Tosi
29 novembre 2018 alle 11:29
Gli manca solo la “mazza” del punto. Sì, di usarlo più spesso. Se ne leggerebbero delle belle, che queste già lo sono indiscutibilmente.
Speriamo che l’Europa dei commercialisti ci dia il lasciapassare per sostenere gli esclusi dal “progresso”. Tra questi non mancano poeti che hanno famiglia, oppure no ma che almeno non abbiano da tremare per il freddo mentre scrivono per l’umanità intera… Certo, poi gli assegnerebbero un lavoro, il che potrebbe essere anche peggio
Giorgio Linguaglossa
29 novembre 2018 alle 11:20
«…anche la struttura sintattica del discorso ermeneutico deve mutare profondamente. Non si tratta più di comporre frasi con soggetto e predicato, che presumono l’accettazione dello schema metafisico sostanza-accidente. perché simili frasi, grammaticalmente strutturate in modo “metafisico”, nel loro carattere definito, concludono ragionamenti, enunciano soluzioni, ma non restano fedeli al carattere eventuale dell’essere, e quindi alla forma non-conclusiva dell’interpretazione. Lo stesso uso della copula, che istituisce il nesso tra soggetto predicato istituisce anche il nesso fra la struttura della proposizione e quella della realtà, per cui la logica classica fa risiedere la verità nel giudizio e non nella parola isolata
Assunto come copula, l’essere è ridotto a essere dell’ente, e il linguaggio a segno dell’ente. In questa accezione, il linguaggio non dice più niente, non parla, perché non mostra (zeigen), ma semplicemente indica (zeichen) e rinvia alla cosa che si suppone significante per sé, indipendentemente dalla parola che la nomina e, nominandola le dà l’essere, la evoca dal nascondimento».
- Galimberti, op. cit. p. 642
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
29 novembre 2018 alle 12:51
Più che “poesia simbolica” questa di Guglielmo Aprile mi sembra poesia post-simbolica, e la considero di eccellente fattura perché tiene il linguaggio con il piede premuto sul pedale basso, così il lessico è ridotto all’essenziale, c’è una economia spartana dei «resti» linguistici… a suo modo anche Aprile specula sui «resti», sugli «scampoli», sulle vendite all’asta degli spezzoni dei linguaggi come sostiene da tempo la NOE, e questo è un elemento molto positivo. A mio avviso, otterrebbe risultati ancora migliori se mobilitasse nei testi anche le categorie dello shifter, dell’entanglement e della intersezione dei piani spaziali e temporali, se indebolisse la struttura articolatoria del linguaggio sintattico per introdurre nei testi una sufficiente dose di distassia e di dismetria, otterrebbe in questo modo maggiore imprevedibilità, maggiore movimento interno… Forse oggi che i linguaggi sono entrati nell’epoca della piccola glaciazione, cioè che sono entrati in fase di ibernazione è problematico accedere ad una estetica delle emozioni di eliotiana memoria.
[The only way of expressing emotion in the form of the art is by finding an “objective correlative”; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked… The artistic “inevitability” lies in this complete adequacy of the external to the emotion.
[…]
No poet, no artist of any art, has his complete meaning alone. His significance, his appreciation is the appreciation of his relation to the dead poets and artists. You cannot value him alone; you must set him, for contrast and comparison, among the dead. I mean this as a principle of aesthetic, not merely historical, criticism]
È possibile che i linguaggi delle società post-democratiche e delle comunità a tecnologia complessa diventino e diventeranno sempre più raffreddati, talché già accade e accadrà che sarà sempre più difficile suscitare da tali corpi combusti una emozione… accade e accadrà che i nuovi linguaggi poetici perderanno definitivamente contatto con la tradizione come l’abbiamo conosciuta con la poesia di Eliot e, più in generale, con la trasmissione della poesia del modernismo europeo…
Tutto ciò premesso, ritengo i testi molto riusciti. Complimenti.
T.S. Eliot, The sacred wood (1920)
Giorgio Linguaglossa
In cammino verso una «patria metafisica delle parole»
Ci sono epoche in cui è problematico adire un linguaggio, epoche in cui la via di accesso al linguaggio è sbarrata, ostruita.
L’impossibilità di ricorrere al linguaggio della tradizione della poesia ci costringe a porre al centro della nostra attenzione il problema del linguaggio, o meglio, della mancanza del discorso, della mancanza della parola adatta, poiché il linguaggio non può essere considerato come un mezzo, uno strumento mediante il quale l’uomo può dispiegare la sua potenza e la potenza della techne.
Le poesie postate sopra e questa di Giuseppe Talia ci forniscono un campo dove esercitare la nostra riflessione. La poesia si pone come «dialogo». Talia riparte da una mia poesia (nella quale dichiaravo essere il generale Germanico) e mi risponde, dopo un paio di mesi, come se nulla fosse, come se l’immaginario fosse ben più importante dell’attuale (e infatti lo è). Con questo stratagemma Talia de-soggettiva la propria egoità e risponde per il mezzo di un personaggio immaginario e simbolico che è altro da Giuseppe Talia.
È paradossale scoprire che il linguaggio ci parla meglio quando può parlare mediante una maschera, mediante un altro personaggio che abita il nostro immaginario. In questo modo noi riusciamo a de-soggettivizzare il linguaggio, a distaccarlo dalla nostra soggettività, a liberarlo. E il linguaggio così liberato può raggiungerci con maggiore autenticità. È il linguaggio del dialogo tra due immaginari, perché in realtà noi colloquiamo sempre tramite l’immaginario e il simbolico, mai tramite il letterale e il referente in senso stretto. Per comunicare noi abbiamo sempre bisogno dell’immaginario e del simbolico.
La mancanza del nostro vocabolario non è soltanto povertà di parole o lacuna linguistica ma è essa stessa un aspetto dell’essere: se qualcosa manca vuol dire che l’essere non è in grado di parlare, non ha le parole adatte, e non si manifesta. E allora il poeta deve andarsele a costruire le parole adatte, deve andarsele a cercare. Così, il linguaggio poetico diventa una via regia che ci può condurre in prossimità dell’essere, in quanto l’essere si dà sempre come evento linguistico, come evento di pensiero che il vocabolario Zanichelli registra diligentemente ad opera, ex post, dei suoi curatori.
Quando l’essere si sottrae al linguaggio è perché non può eventuarsi in un’epoca, perché l’epoca è ancora estranea, deve ancora venire, è immatura, è appena nata o è funestata da pregiudizi, da falsa coscienza, da inautenticità. E allora bisogna cercare una nuova patria metafisica che abiti un altro linguaggio, bisogna mettersi in viaggio per la ricerca delle parole, quelle parole che consentono alle cose di ad-venire, di avvicinarsi. Il linguaggio presenta sempre le cose ordinate in un ordito, in un mondo, in un ambiente linguistico che dona alle parole un senso e un significato. Il linguaggio non è un ente ma è ciò mediante cui ogni ente può venire alla luce, può venire alla significazione.
«Per il principio di ragion sufficiente una simile affermazione suona paradossale, perché è impossibile che la parola, non essendo, possa dare l’essere alla cosa. La paradossalità si risolve osservando che il principio di ragion sufficiente, come principio della metafisica, tratta la parola come una cosa, e così perde ciò per cui essa parla. La parola parla non quando è “oggettivata”, ma quando, liberata da ogni spessore ontico, porta, inoggettivabile, la cosa alla presenza (…) nella lingua della metafisica occidentale, il linguaggio s’è trattenuto in se stesso, s’è rifiutato. Anzi, scrive Heidegger:
“Più di un fatto porta a pensare che è proprio l’essenza del linguaggio che ricusa di farsi parola, di dirsi cioè in quella lingua nella quale noi facciamo asserzioni sul linguaggio: se sempre il linguaggio ricusa in questo senso la sua essenza, allora questo rifiuto fa parte dell’essenza del linguaggio. Il linguaggio non solo si trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma, trattenendosi esso in sé con la sua origine, nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale comunemente ci muoviamo”.
Ciò induce a cercare nel detto il non detto, nell’esplicitazione totale compiuta dalla metafisica, che ora non ha più niente da dire, quanto è rimasto implicito e così trattenuto. Il compito ermeneutico che Heidegger propone al pensiero, che ormai non ha più futuro nell’ambito metafisico, è quello di pensare il non-pensato, che racchiude il senso di ciò che è pensato. Il compito non può essere eseguito nella forma dell’enunciazione-esplicitazione propria della metafisica, perché in questa forma si lascia pensare solo l’ente, non l’essere che si rifiuta a ogni esplicitazione e a ogni enunciazione, perché non è mai ciò che si pensa, ma sempre ciò in cui si pensa.
Al linguaggio metafisico, che dice come le cose sono, occorre sostituire un linguaggio che non dice, ma rinvia dal detto a ciò che non è detto e che dal detto è richiamato. Il rinvio non risale alla causa, ma colloca nel luogo (Ort) da cui ogni dire (Er-ört-erung) si invia. Erörterung, alla lettera, significa “discussione”, ma nell’uso heideggeriamo significa, coerentemente con l’etimo, “collocazione” (erörten, mettere in un luogo, in un Ort, collocare). Comprendere un’espressione linguistica non significa allora capire ciò che dice, ma collocare ciò che dice in ciò che non dice, eppure richiama».1
1] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, 2005, p. 622
Una volta un interlocutore mi ha chiesto: «che cos’è la patria metafisica delle parole»?
Io gli ho risposto più o meno così:
che c’è una patria metafisica dei colori che appartiene ai pittori, una patria metafisica delle forme plastiche che compete agli scultori, c’è poi quella dimensione dove ci sono le parole che un poeta può adottare; ho detto proprio così: «adottare», nel senso di come si adotta un figlio, come si adotta un bene prezioso, come si adottano le cose importanti… tutte le parole che non vengono adottate sono parole spurie, posticce che non possono interessare un poeta. E poi aggiunsi: di solito accade che in una o più epoche le parole della «patria linguistica» siano ostili ad essere ricevute, ostili alla ricezione, sono quelle epoche nelle quali i poeti hanno le loro ragioni «forti», nelle quali fungono da anfitrioni, da maggiordomi, da direttori di carcere che pensano che le parole sia possibile metterle in reclusione, che credono di poter usare l’astuzia per catturare le parole. Davvero sciocchi costoro se credono di andare a caccia delle parole con l’acchiappafarfalle! Le cose non stanno affatto così. Le parole fuggono davanti al chiasso mediatico, alle ipotiposi dei poeti laureati e impomatati, le parole si ritraggono nel loro guscio metafisico e non escono più allo scoperto, se ne stanno rintanate per lunghi lustri e a volte per secoli interi…
Ed è quello che accade oggi quando assistiamo ad un livello poetico di serial-poesia quanto mai democratico. Le parole della patria metafisica non amano le democrazie dei sordi, preferiscono le democrazie degli affamati e degli assetati, a volte preferiscono addirittura le epoche del whistful thinking come la nostra, del mondo ad una unica dimensione…
A volte accade che qualche maldestro riesca a catturare qualche parola che incautamente fuoriesca dal suo pertugio della patria metafisica, ma si inganna perché si ritrova tra le dita soltanto il polline delle ali di quelle fragilissime farfalle multicolori, soltanto il polline…
Paola Renzetti
27 novembre 2018 alle 17.45
Il canto silenzioso delle lumache, non è un ossimoro, ma uno dei tanti fenomeni della natura, davanti al quale, se ci è dato di assistere, si rimane incantati. E tutto per la riproduzione della specie. Si deve scendere proprio alla terra, per poi risalire. Un’immagine bella del lavorìo silenzioso, quasi del sonno (o sogno) in cui fermenta la creazione, anche in fondo ai vicoli.
Incantati si rimane in questo luogo, per la bellezza del pensiero, delle parole, anche e soprattutto, quando creano inciampo, nell’arrancare infruttuoso.
Non ci si intende in luoghi come questi dove non c’è presenza fisica (vantaggi e svantaggi). O ci si intende almeno come fuori, nella vita (problema del linguaggio e della comunicazione, così ben evidenziato) Come in un caleidoscopio, fluttuano pensieri, idee, suggerimenti ed emozioni, tra luci ed ombre.
Giorgio Linguaglossa
27 novembre alle 19.45
Non un granello di polvere tra i corpi
refrigerati.
Ho lasciato il mio guardaroba
tra mille anni.
Del finale della composizione di Lucio Mayoor Tosi non ho nulla da dire, perché si può dire qualcosa che ha significato, ma di ciò di cui non c’è un significato, che cosa si può dire? Nulla, rispondo. A volte, Lucio riesce magnificamente a dire certe cose che non hanno significato, ma non perché egli cerchi il non-significato quanto perché le frasi più scintillanti in realtà sono quelle che non hanno significato, e che però, per motivi misteriosi, ci parlano, sembrano fornirci un senso, anzi, quelle sono le uniche parole che per noi hanno un senso, un senso fondante, un senso s-fondato. E questo al di là di ogni petizione di poetica del post-surrealismo. Direi che Lucio Mayoor Tosi ha ampliato il raggio d’azione della nuova ontologia estetica, ne ha spostato a dismisura i confini. Lucio non segue nessuna poetica post-surreale perché non ne ha bisogno, già lui pensa in modo scopertamente e ingenuamente surreale, quando l’ingenuità trova la coincidenza con la radice della parola attigua: il genio infatti è ingenuo, profondamente ingenuo e inoffensivo perché non produce calcoli, non adotta le opportunità. Trovo il finale di questa composizione davvero esilarante, felicissimo, perché sposta e mischia i tempi passato presente e futuro e li mette all’incontrario, mette la composizione a camminare sulla testa, all’incontrario, e poi dice che tutto va bene, un modo molto improprio per prendere congedo dal significato, da ogni significato, perché non c’è un significato della «cosa», non ci sono questità delle cose che valgano la pena di essere prese sul serio, appunto perché sono cose serissime, e quindi indifendibili… Le cose non ci parlano più della loro cosità, il nostro linguaggio è incapace, è incapiente, non riesce più ad ospitarle. Il linguaggio è semplicemente inadeguato. Tutto qui.
Gino Rago
Caro Giorgio Linguaglossa,
è degna della massima approvazione la tua ermeneutica sui lavori poetici di Lucio Mayoor Tosi e di Giuseppe Talia i cui versi hanno destato anche in me intensa ammirazione. Lo stesso dicasi per l’analisi lucida e competente che dedichi ai versi di Donatella Costantina Giancaspero e di Mauro Pierno. In particolare, accanto all’abilità di Lucio M. T. di mescolare i tempi, e alla felice facoltà di ibridazione linguistica di Giuseppe Talia, mi ha colpito la tua frase:
“Le cose non ci parlano più della loro cosità, il nostro linguaggio è incapace, è incapiente, non riesce più ad ospitarle…”
in cui ci offri una meditazione sulla quale fare ritorno.
Giorgio Linguaglossa
caro Gino Rago,
il problema della poesia moderna è proprio questo, quello che tu hai colto in quella mia riga e mezzo, è una affermazione a prima vista sconcertante ma è da qui che dobbiamo ripartire, esattamente:
“Le cose non ci parlano più della loro cosità, il nostro linguaggio è incapace, è incapiente, non riesce più ad ospitarle…”.
Da questa constatazione ne derivano delle conseguenze nella scrittura. Chi non ha ben compreso questo punto, lo dico da anni, continuerà a fare poesia eufonica, succedaneo e relitto del bel verso sonoro della tradizione italiana da Saba a Penna fino agli ultimi neo-metrici… ma quella è una poesia che nasce già morta. È finita nel dimenticatoio della storia: «bella» ma infedele, infedele ai nostri tempi. Bisogna ritornare ad interrogarci sul perché «le cose non ci parlano più della loro cosità». La più grande poetessa italiana che ha messo sotto la lente di ingrandimento questa problematica è stata Anna Ventura, fin dal suo libro di esordio titolato Brillanti di bottiglia (1978), dove le «cose» brillano come «brillanti di bottiglia». Dopo Anna Ventura le cose hanno smesso di parlarci, o meglio, ci parlano come «brillanti di bottiglia», con una luce falsa, fatua, sporca, opaca… L’aporia della cose coincide con l’aporia del presente e con l’opacità dell’aporia, con la scomparsa dell’aporia della memoria… tutte questioni che nella poesia degli ultimi decenni io non vedo recapitate… Mi rendo conto di dire delle cose marziane, di apparire come un marziano che mastica concetti marziani, la poesia italiana dorme da cinque decenni il suo sonno medio-mediatico, e lì sta bene, con tutti gli impiegati della poesia ai bottoni del linguaggio «comunitario». Leggo di poeti che vanno sul terrazzo di casa per parlare con la luna e a rivolgerle delle interrogazioni, che scimmiottano Leopardi, altri che lanciano dei proclami buonisti e federalisti alle genti di tutto il mondo per la fratellanza universale… ma qui, ovviamente, siamo alla idiozia, allo sciocchezzaio.
L’aporia del presente L’ingresso del fattore T (il tempo) nella poesia della nuova ontologia estetica. Il Tempo… c’è e non c’è, è qualcosa di incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà.
In una certa misura la problematica del Fattore T (tempo) è anch’esso centrale nella «nuova poesia». Per esempio, Mauro Pierno e Lucio Mayoor Tosi si arrischiano a scrivere una poesia fatta tutta nel «presente», una poesia irriflessiva, estemporanea, casuale… si badi, non affatto parole in libertà quanto parole del presente, che galleggiano solo nel presente. Cosa affatto semplice. Incredibile. Anche questa è una modalità per catturare il fattore T.
Io, invece, adotto un’altra strategia. Lascio le mie poesie per molti anni sempre vive, nella memoria del computer (Fattore T.) e nella mia mente (due modi di esistenza del Fattore T); in questo modo la poesia resta aperta come sul tavolo dell’obitorio, dissezionata… All’improvviso, accade durante gli anni che varie esperienze di letture e di vita mi portano nuovi stimoli, nuove idee, nuove frasi che mi chiedono di entrare in quella o in quell’altra poesia… Così le mie poesie crescono e concrescono, come foreste tropicali, grazie all’ausilio attivo del fattore T.
In questo lavoro di attivo coinvolgimento del Fattore T., il Tempo interviene attivamente, si introduce nella casa linguistica come un padrone; io, il mio Ego, si è nel frattempo fatto da parte, anzi, è stato fatto sloggiare. Adesso la casa linguistica è abitata solo dal fattore T., è esso che guida la composizione verso il suo sviluppo. Proprio ieri, ascoltando delle canzoni jazz della cantante svedese Gunhild Carling con la sua band straordinaria, ho avuto in regalo la visita del fattore T: molti spezzoni di frasi hanno bussato alla porta delle mie case linguistiche e sono entrate; alcune sono entrate di prepotenza senza neanche bussare o chiedere permesso, sono loro, mi sono detto, i veri padroni delle mie case linguistiche!.
Per esempio, Mauro Pierno procede in modo opposto, vuole abitare esclusivamente il «presente». Ma, caro Pierno, il «presente» assoluto non esiste! Questo lo sappiamo da Agostino di Ippona e da Derrida i quali hanno fatto una disamina precisissima della inesistenza del «presente»; anche Husserl ha precisato che il «presente» in sé non esiste, che il «presente» è fatto di un «non-presente»… E allora cosa dovremmo dedurne? Che la poesia di Mauro Pierno non esiste? In effetti è così, la poesia di Mauro Pierno nei suoi momenti più riusciti, è fatta di presente e di non-presente, di presenza e di assenza.
È proprio questa l’aporia della «cosa» di cui dicevo in un precedente commento, la «cosa» che esiste soltanto nel «presente», o che addirittura è scomparsa dal «presente» perché si è persa, è andata distrutta, è stata rubata etc… Ecco, dicevo, quella «cosa» misteriosa costituisce una insopprimibile aporia del mio pensiero, sta qui e non sta qui, è nella mia memoria e non più nella mia memoria… c’è e non c’è, è qualcosa di incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà…
Per fare un esempio diverso, la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è tutta basata su fotogrammi impressi nella memoria. Si tratta di ricordi che sono stati elaborati dall’inconscio e che si sono fissati, raggelati. In quei fotogrammi il Fattore T è stato raggelato, fermato, se ne sta lì, immobile, tagliato fuori dalla vita reale, dall’esistenza nel presente. Il lavoro della poetessa si muove «attorno» e «dentro» questo fotogramma dandogli uno sviluppo metaforico e metonimico. La metafora e la metonimia sono i due binari lungo i quali si sviluppa la sua poesia, sono i trasformatori che traslocano la pulsazione debole del fotogramma in icone linguistiche, in segni, in parole. È una strategia di cattura del fattore T, del tempo. Il tempo viene messo in scatola, viene inscatolato, e così neutralizzato. E questa è ancora un’altra procedura tipica della sensibilità della «nuova ontologia estetica». Non più una poesia a pendio elegiaco come quella della tradizione del novecento italiano ed europeo, ma una poesia della pianura della prosa, che impiega fraseologie piane, ipotoniche, lessico basso e raffreddato, ritmi ipotonici, toni cloridrici…
La prova inconfutabile dell’esistenza del «nulla» è data dall’esistenza del «presente». Là dove c’è il presente si dà il nulla, là dove si dà il nulla c’è il presente. Logico, no? Il presente è l’attualizzarsi del nulla (in termini emiani), e il nulla si attualizza nel presente. L’esserci è immerso nel nulla (das hineingewordenheit des Nischts – cit. Heidegger); appunto, l’esserci è sempre presente, presente in figura. Figura del nulla.
“La prova inconfutabile dell’esistenza del «nulla» è data dall’esistenza del «presente». Là dove c’è il presente si dà il nulla, là dove si dà il nulla c’è il presente. Logico, no? Il presente è l’attualizzarsi del nulla (in termini emiani), e il nulla si attualizza nel presente.”
——-
I sogni.
Di chi sono i miei sogni?
Davvero se potessi non sognare i sogni non miei!
E sognerei metropoli… metropoli di chi? e di che cosa fatte?
Di terrestrità?!
Anche se altrove la materia si ripete… sono altrove: almeno!
Ho il non-spazio che m’attende e che conosco…
il viandante, il pellegrino… illimitati nei tragitti e nei sentieri,
e non esiste un non-luogo che non conosco
sono io che devono conoscere, trovare, cercare…
sono il loro Ignoto, il Nulla, il Vuoto, il Tutto
e il Resto!
Sulle rive invano cercheremo un albero, un oceano, un cantuccio…
la distruzione sarà più che il nostro pane quotidiano…
sarà una tendenza – senza… fine!
Non si canta il nulla che non esiste – si canta quello che esiste – NOI!
Antonio Sagredo
Roma, 7/8 aprile 2015
Riflessione di Marina Petrillo sul Tempo
TEMPO: SCISSURA DELL’ETERNO
Se fossimo in quell’attimo fuggevole che chiamiamo Tempo, non porremmo oltre noi l’ interrogativo sull’antico dilemma, poiché ne saremmo centro; ma l’io vibrante interferisce e la comprensione delinea un orizzonte volto a cogliere ciò che viviamo nella successione solita: passato presente futuro. Dato quale presupposto il tocco di un avvenire in gestazione ove il presente agita un antico passato, a tratti balugina l’idea non astratta, di una visione concava della successione temporale, una curvatura che andrebbe a colmare la logica sequenzialità in contemporaneità.
Come nella memoria cellulare in cui ogni singolo elemento contiene in sé il germe di ciò che è stato, così nella valutazione di ciò che consideriamo tempo, ogni singola esperienza connota in grembo ciò che è stato e sarà, sino a ridurre a mero esperire ogni aspetto dell’esistere scisso dalla sua connotazione matematica. Respiro di geometria sacra diviene il vivere, in cui lo Spirito eterno fugge da ogni improbabile secondarietà per divenire cooperante con il corpo incarnato e la sua Anima. Così, di peregrinazione in peregrinazione, oltre questo piano che richiede il suo tributo di apparente dualità, nulla avviene secondo una scansione lineare, già suono di vissuto o divenire.
Il nostro tratto esperienziale si accorda in armonia totale con il livello di consapevolezza acquisito, sino ad Essere. Essere significante, ovvero nell’appartenere interamente a ciò che il disegno divino ha scelto per la nostra evoluzione, in successione co-agente, in un algoritmo assoluto, essenziale per ciascun umano. Così, il nostro agire si allinea e si azzera ogni elemento egoico al fine di aderire al Progetto del Creatore. Il libero arbitrio dato alle umane creature incarnate, si flette al vento dello Spirito imperante, creando la successione a-temporale più consona al cambiamento, al consolidamento, alla comprensione iniziale di ciò che si è.
Se la curvatura spazio temporale viene assimilata al proprio tratto esperienziale, tutto avviene secondo una sinfonia perfetta. In tale perfezione, ogni cosa è paradigma della precedente e preludio alla successiva: in realtà, né l’una né l’altra cosa, solo un flusso continuo che la convenzione del tempo lineare interrompe concettualmente ma non sostanzialmente.
Si è di fronte ad una trasmutazione del concetto di Tempo poiché il Tempo non è un concetto. I concetti sono tributi che l’uomo offre al suo intelletto. Il Divino che è in noi opera diversamente, esce da ogni concettualità adescata da conoscenze millenarie appartenenti ad altra realtà ora superata. Per cui, i tre passaggi attraverso i quali abbiamo permeato la nostra cultura, si dissolvono e concedono respiro ad una visione altra, in sintonia con il grado più elevato di Presenza. Se ‘presenti’, noi siamo Agenti e Co-Agenti di un Sistema alto, in cui non può non delinearsi il non-tempo….
Da una annotazione di Adalberto Coltelluccio.
https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm
Il neoplatonico Damascio, nell’opera Dubitationes et solutiones de primis principiis, Paris 1899, sostiene che il Principio Ineffabile (tò apòrretos) del tutto non coincide con l’Uno e si trova epékeina tou henòs, al di là dell’Uno (quest’ultimo denominato da lui, talvolta, «indicibile», arrètos, ma mai «ineffabile»). Il Meta-Principio, insomma, non è identificabile con niente, e non è definibile in nessun modo, neanche come indefinibile: «Infatti, noi non lo [l’Ineffabile] diciamo neppure ‘totalmente inconoscibile’, in modo che esso, essendo qualcos’altra cosa, possieda per natura l’inconoscibilità; ma non lo diciamo né ‘ente’, né ‘uno’, né ‘tutto’, né ‘principio del tutto’, né ‘al di là del tutto’; noi riteniamo di non predicare di esso assolutamente nulla. Dunque, neppure questi predicati costituiscono la natura di esso e neppure ‘il nulla’» (cfr. Damascio, De Princ. I, p. 13.17-21). In tal modo, il paradosso auto-referenziale è lo sbocco aporetico necessario di qualsiasi discorso sull’Assoluto, del quale si può parlare soltanto attraverso continui «capovolgimenti» o «inversioni» del logos; infatti, afferma Damascio, «se invece è necessario dare qualche indicazione [del Principio], bisogna allora servirsi delle negazioni di questi predicati; dire che non è né uno né molti, né generatore né non generatore, né causa né non causa. Bisogna per l’appunto servirsi di queste negazioni che, non so come, si capovolgono [peritrépesthai] totalmente all’infinito» (cfr. Damascio, De Princ. I 22, 15-19 e I 26, 3-5, corsivo mio [Adalberto Coltelluccio]).
«Cosa è la presenza? La presenza è la presenza del togliersi, cioè l’attualità del togliersi. […] La presenza non è un immediato. […] Il negarsi del presente è il suo esser atto, esser in atto, esser presente, attuale […]. Il nulla giustifica, fonda l’originarietà dell’attuale. Appunto perché il nulla è attuale. L’attuale non contiene il nulla staticamente, come un recipiente, ma attualmente, negandosi, togliendosi.» 1]
La assoluta co-originarietà o simultanea coincidenza di essere e nulla, di identità e non-identità nel principio, viene ancora di più messa in gioco in quest’altro passo di Emo, in cui viene indicato anche il motivo per cui il nulla è nell’Inizio, motivo che risiede nel fatto che l’origine è proprio l’annullarsi stesso dell’Inizio, un distanziarsi da se stesso in quanto Abisso infinitamente imploso nel non darsi assoluto: «Il nulla è l’assoluto che si annulla, appunto perché il nulla è l’assoluto […] L’origine è il nulla, in quanto è l’origine che si annulla […], cioè è l’annullarsi dell’origine; l’origine è l’atto dell’annullarsi, del suo annullarsi» (ivi, p. 53).
1. Cfr. Andrea Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989.
pp. 10-11. [Libro esaurito]
Il «tempo» che ci è concesso sul pianeta terra è il reddito di cittadinanza concessoci dalla «presenza» del nulla, il quale attualizzandosi si eventua nell’esserci.
Per Gino Rago,
un suggerimento di una poetessa che lui ama:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/04/07/dodici-poesie-di-ewa-lipska-1945-traduzione-e-commento-di-paolo-statuti/
Tre poesie di Davide Morelli
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/30/guglielmo-aprile-poesie-da-il-viaggio-finisce-qui-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-dialoghi-e-commenti-in-cammino-verso-una-patria-metafisica-delle-parole-laporia-del-pr/comment-page-1/#comment-42644
Web:
Gli ominidi
divennero bipedi
per guardare meglio le stelle.
L’ho trovato scritto
nell’enciclopedia
delle bufale.
I siti più visitati
sono quelli porno.
I social sono enormi cimiteri
di profili di morti
(più che di amici
parlerei di contatti).
Sono preoccupato perché
al momento della dipartita
non potrò più fare
egosurfing
e continueranno
ad inviarmi spam.
Un fiore:
Un fiore secco dimenticato in un libro
è quello che resta di una storia.
L’ho trovato rovistando nella mia stanza.
Nessuna finzione o vezzo: è tutto vero.
Da allora ho repulsione dei fiori
che non saranno mai quel fiore
e anche della luna
che sembra sempre la stessa,
eppure non sarà mai più
quella di quella sera.
Moriremo e saremo anche noi
fiori secchi tra le pagine del tempo.
Interrogativi:
La morte tocca a tutti. Anche
la sofferenza, ma in modo disuguale.
Viene da chiedersi perché ad alcuni
tocca più sofferenza? Forse espiano in vita
i loro peccati, anticipando i tempi?
Mi chiedo anche come farà
a giudicare tutti in modo equanime,
avendoci fatto così diversi
e avendoci dato differenti opportunità.
Ho altri rovelli nella mente,
a cui nessuno può dare risposta.
Non si tratta qui di conoscenza
dell’umano. Tutto ciò va oltre.
Poi ti dico esitante che la luce,
prima o poi,
giunge lo stesso nell’abisso
o almeno io lo spero.
Chi chiami Dio forse
arriva anche ad abbracciare
l’inferno
dall’alto della sua misericordia.
Per il momento cerchiamo
per quanto è possibile
di abbracciare le cose
con quel poco di ragione e di cuore
che ci resta.
Davide Morelli è nato a Pontedera nel 1972. Si è laureato in psicologia con una tesi sul mobbing. Alcuni suoi testi sono apparsi su “Nazione indiana”, “Poetarum silva”, “La mosca”, “Il filo rosso”, “L’ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale”, Nugae”, “Poesia da fare”, “La clessidra”, “Il segnale”, “Italian poetry review”. Ha pubblicato due ebook su LaRecherche.it. Oltre a componimenti poetici (o aspiranti tali) scrive anche aforismi, recensioni, saggi brevi e racconti brevi. È comparso in alcune antologie della Lietocolle. È stato inserito nell’antologia “Calpestare l’oblio”(a cura di Davide Nota). Gestisce il blog Also sprach.
di Antonietta Tiberia
Ha pubblicato nel 2012 “I racconti del ponte” (Ed. Progetto Cultura) e nel 2010 un libro di racconti e versi, Calpestando le aiuole. È redattrice della rivista Línfera, fondata nel 2006 presso il Café Notegen di Roma dal Movimento della Neo-rinascenza letteraria. Ha pubblicato articoli, racconti, poesie, prefazioni, traduzioni su quotidiani, riviste cartacee e on-line e su varie antologie.
Settenari per lavastoviglie
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/30/guglielmo-aprile-poesie-da-il-viaggio-finisce-qui-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-dialoghi-e-commenti-in-cammino-verso-una-patria-metafisica-delle-parole-laporia-del-pr/comment-page-1/#comment-42648
Lavastoviglie nuova.
Istruzioni per l’uso.
Norme da rispettare
per un buon risultato:
tazze e bicchieri
nel cesto superiore,
pentole e piatti invece
dentro il cesto inferiore.
Sistemare i coltelli
col lato acuminato
rivolto verso il basso.
Rimuovere i residui
grossolani di cibo.
Il coperchio si chiude
con scatto percettibile.
Per svuotarla si inizi
da sotto verso il sopra.
Ci vorrebbe un programma
dettagliato e completo
che si sappia adeguare
automaticamente
ad ogni cambiamento,
per vivere la vita
e raggiungere sempre
il miglior risultato.
Ci sarà uno scienziato
che sappia provvedere?
(Roma, settembre 2018)
Limericks
Ho chiesto a un uomo arcigno di Livorno
il favore di togliersi di torno.
Mi ha guardato con viso accigliato
e poi m’ha detto: – “Lei è un maleducato!”
quell’arcigno signore di Livorno.
Un uomo mite di Strangolagalli
sofferente da tempo per i calli
decise di andare dal dentista
che gli prescrisse gli occhiali da vista.
E da allora non soffre più di calli
quell’uomo mite di Strangolagalli.
C’è un leone ruggente di Mentone
che non vuole giocare più a pallone
e con una zampata
manda nella scarpata
la sfera, quel leone di Mentone.
Il gatto randagio
C’è un gatto randagio
che sta mogio mogio
nel primo meriggio
di un giorno di maggio
cercando rifugio
da un cane malvagio
che ha aperto un pertugio
per prendere alloggio
in quel romitaggio.
Il gatto randagio
in quel pomeriggio
sbirciato un rifugio
con molto coraggio
sfuggendo al segugio
risale il ciliegio
piantato sul poggio
e dietro il rameggio
scansando il litigio
conserva il prestigio
schivando il contagio.
Che grande prodigio!
È degno di elogio.
(23 aprile 2018)
La lumaca parca
Una lumaca parca
rimasta priva d’arca
se n’andava lasciva
lasciando la sua scia
che al sole scintillava
ma lei non ci badava
e proseguiva altera
seguendo una chimera:
– «Io sono una farfalla».
Però era una balla.
Otto Cer e Rina Aspi
Otto Cer e Aspi Rina
se ne vanno ogni mattina
sul carrello da infermiere
che ha da fare il suo mestiere.
– Infermiere, ho mal di testa! –
Rina Aspi, lesta lesta,
entro l’acqua è presto sciolta
e l’attesa è molto corta.
Se la bella innamorata
dentro l’acqua s’è squagliata,
non si duole Cer Ottino
perché pensa che a un bambino
il sorriso tornerà
e felice lui sarà.
– Questa garza non si tiene! –
Ma Cer Otto lo sa bene:
con le forbici di netto
si ritaglia un bel pezzetto.
Poi un altro e un altro ancora
per tenere la garzuola
che ben ferma adesso sta.
– Chi mi vuole? Eccomi qua!
sembra dire a tutti quanti.
I suoi usi sono tanti
che nemmeno lui li sa.
Versi zoologici
In città va a passeggio
il cincillà.
Sul mar Nero
vola alto lo sparviero.
In giardino
sull’amaca
dorme bene
una lumaca
e c’è pure la cicala
che per bere
va a Marsala.
Là vicino
c’è una zebra
che strimpella
sulla cetra.
Un cane abbaia
sopra una sdraia
e un gatto miagola
per una fragola.
Acrostici
con cambio di iniziale e indovinello
Col suo abbaiare
Allontana persone
Non gradite
E può mordere.
Per averlo ogni giorno c’è chi prega
Alternative sono le brioches
Non si può fare se non c’è calore
E lo si può mangiare a tutte l’ore.
Raramente si incontrano in città
Anche se sono anfibie.
Non puoi trovarle sopra i marciapiedi
E te le puoi mangiare fritte o in brodo.
Sono sempre grato a Giorgio perché è tra i pochissimi oggi che sappia individuare, nella foschia di una scrittura ancora non giunta a maturazione, le vie da seguire e quelle da evitare in vista di una approssimazione a un esito espressivo adeguato all’intento; le sue analisi sono costruttive : Colgono lucidamente gli anelli deboli ma suggeriscono anche i giusti correttivi
Nel caso del mio temtativo sopra citato, volevo che l’abbassamento del linguaggio fosse deducibile da una certa prospettiva sul mondo, ma sapevo anche che il realismo é una palude in cui c’è rischio di soffocare; pertanto il solo modo per eludere l’appiattimento prosastico sarebbe nel portare la temperatura semantica delle parole al suo grado più alto, in modo da sconvolgere il vissuto proiettandolo in immagini dal tono onirico, dalla densità visionaria e allucinata..
Mi rendo conto che un tale obiettivo, che forse non è poi tanto diverso da quello di alcuni ospiti de L’ombra, é impervio e, almeno per me, ancora di là da venire: e spesso mi ritrovo in molte cose scritte da Lucio, dallo stesso Giorgio e da tanti altri assai più che nelle mie…
Entrambi questi lavori di Davide Morelli e di Antonietta Tiberia, che vanno in direzioni sghembe, hanno però un terreno comune: l’adesione al gioco di riflessi degli specchi. Non impiegano più il linguaggio metafisico che dice le cose come si crede che siano ma, tramite un linguaggio sempre metafisico, che dice le cose come non sono più. Il punto di partenza è la sospensione del giudizio, lo scetticismo elevato a metodo: far parlare il linguaggio tramite i limerick di Antonietta Tiberia o tramite il dis-allontanamento di Davide Morelli. Non ci sono più le vie verso la verità perché già la verità stessa è in procinto di non-essere e non oscilliamo più come Hamlet tra l’essere e il nulla ma tra il nulla e il nulla in un gioco di rifrazioni di specchi tra due nulla che si auto annullano.
Ci si avvicina a grandi passi alla fine della gloriosa metafisica dell’Occidente, che è finita con un frrr… non siamo più in attesa di tempi migliori, non siamo più in attesa di nulla…
Noi oggi siamo usciti dalla Storia e siamo entrati nella post-storia, nella storialità. Che significa? Detto così, siamo entrati in un mondo dove tutto il passato si allontana alla velocità dell’espansione dell’universo e il futuro sembra così vicino che possiamo toccarlo con mano. In questo spazio-tempo compresso noi non possiamo che abitare che le nostre «Stanze interiori», dal titolo di un prossimo libro di poesia di Tiziana Antonilli, queste «stanze», simili a piccole fortezze costruite con gli stuzzicadenti e gli zolfanelli. Non abbiamo più una religio che ci tenga tutti uniti, né una ideologia entro la quale riconoscerci, anche le «Forme» sono scomparse, affondate, dipartite… siamo rimasti soli con il nostro foro interiore…
«Si tratta − spiegava Adorno nel 1947, concludendo i suoi Minima moralia − di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica».
Questi autori pur prediligendo il gioco di specchi, non lo riducono a esercizio di stile, disinteressato o assolutizzato e chiuso, a «fortezza costruita con gli stuzzicadenti», diceva Leonardo Sinisgalli, il poeta delle ‘due culture’ (quella scientifica e quella umanistica, ovviamente)».
In questa situazione di estraneità reciproca alla quale ci ha condotti l’età della dimenticanza dell’essere, quella epoca che ha visto il dissolversi dell’essere nel «valore», dell’essere «che non ne è più nulla» diceva il tardo Heidegger invitandoci a «lasciar perdere l’essere». Drammatico, no? Viviamo sotto l’egida di Sua Maestà il valore di scambio, esso è il Regolo che regola e dirige le nostre esistenze, a noi la nostra epoca non ha dato altro che una stanza interiore fatta con gli stuzzicadenti e gli zolfanelli, ci ha lasciato in eredità miliardi di «frammenti» che galleggiano sul mare della datità. Tutto quello che noi possiamo fare è aggrapparci a questi «frammenti» e tenerci a galla per un po’, in attesa di tempi migliori…
Una poesia di Lucio Mayoor Tosi che mi sono preso la briga di suddividere in distici (irregolari qua e là), Lucio mi perdonerà…
Nautilus
Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
Non so se spaventa l’automobile futurista,
oppure sono i pensieri. Quei due
che passano.
Rosetta col pensiero di morire proprio qui
nel vicolo. L’animo sulla ghiaia.
Pensieri che vanno in aria allacciati con altri;
alcuni indietreggiano, poi tornano decorati
di crisantemi.
Non per me, che ho da scrivere una storia:
di lei e suo marito, dentro il bicchiere capovolto.
Casa di vetro, con giardino. Il cane Buf
che non mi può vedere. Rosetta gli dice
«Buf, smettila!»
Ma è come non ci fosse nessuno.
Le cose sembrano ferme, perché chissà
quale distanza le separa. Anni e anni luce
aggrappati agli attaccapanni, tra le maniche
delle giacche. Qualche inverno da noi,
di macchie e rattoppi.
Chi scendeva e saliva le scale, già qui
prima di arrivare. E andarsene lentamente.
(Devo ricordarmi di comprare i croccantini,
solo pollo, per il gatto di Rosetta. Dicono
che non è morta. E’ al ricovero).
Fa paura il tempo quando passa.
In fotografia la vestaglia di felpa. Cento,
duecento vestaglie. Estate e inverno,
Rosetta e suo marito ancora giovani,
le stanze da pitturare.
Dipingo un segno sui muri, viola che va oltre,
dietro le spalle, nell’ombra futura. Da qui
a qui. Non ha senso, Rosetta. Niente ha senso.
La scatola dei profumi – Ride. I profumi!
– Sa, io aspettai centinaia d’anni prima di nascere.
Ho rischiato di finire in una nidiata di topolini
di campagna. Tanto mi piacevano. Ti sentono.
Anche se arrivi invisibile.
– A lei questo non può succedere, facile
che sia stato ucciso dai bolscevichi. Anzi, lo so.
Quando? Alle tre del pomeriggio. Non ricorda
le foglie, quel turbine di vento?
Si guardi. – Io sono vecchia, ho smesso di guardarmi.
Allora le scarpe. E’ comunque così che doveva andare.
C’è risentimento.
Scende dal naso una goccia di mare.
Morire è inutile. Faccio le valige. Fingo di metterci
qualcosa. Recito la vita. Entro, esco. Chiudo la porta.
Calpesto l’erba che infesta a primavera.
Il tempo fa questo e altro. Ci butto l’acqua sporca
dei pavimenti, con la candeggina. Qui è pieno
di pensieri. Nessuno li toglie.
Io per questo scrivo invisibile, una storia
silenziosa. Capovolta. Col giardino, il cane Buf.
Annessi e connessi alla rete, Metro, Linea 2.
L’infinito dentale. L’Arco della Pace a Milano.
Tutto e tutti con e senza cappello, le buone idee.
Un minuto di pioggia. Una scatoletta.
La picchi sul tavolo capovolta. Dai una passata
e guardi altrove. Lo stra-ba-dan dei vagoni.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Lucio caro,
questa è una poesia eccezionale, c’è tutto di tutto e sei riuscito a metterci anche il nulla + nulla. Incredibile: più ci metti le cose più si crea e aumenta il nulla. C’è la delicatezza delle note di Erik Satie in C’era una volta Parigi e la dolcezza di Amapola di Ennio Morricone. Allora, penso che è vera la teoria di Erik Verlinde secondo il quale non c’è mai stato alcun big bang ma la materia viene creata continuamente dal nulla, solo che noi non ce ne accorgiamo. Dice più o meno così Verlinde, che quando la concentrazione della materia si rarefà e giunge ad un estremo di rarefazione, a quel punto si produce altra materia, compaiono delle cose che si chiamano particelle elementari. Così, anche la poesia ha i suoi tempi di maturazione, solo che non sono i poeti che lo decidono, è il Signor tempo che decide come e quando i tempi sono maturi per una nuova poesia. Quando la materia della poesia si rarefa fino ad un grado elevatissimo di rarefazione, allora compare all’improvviso la poesia. Semplicemente giunge a maturazione. È solo una questione di tempo. E allora noi dobbiamo fare un elogio della lentezza alla lentezza del tempo che ci guida e amministra le nostre proprietà, o quello che crediamo sia di nostra proprietà.
caro Lucio hai scritto un’altra poesia che ben si associa alle tue precedenti.Questa, assieme al testo di Donatella Giancaspero,con l’incipit “Ripieghiamo in direzione del bar” e a “Il bacio è la tomba di Dio” di Linguaglossa, sono le migliori performance della nuova ontologia estetica. Laddove sembrava assistere in questi anni a una tabula rasa della poesia italiana, ora i più scettici devono ricredersi di fronte alle magnifiche fioriture poetiche, che lasciano sperare in una nuova primavera.Lo dico senza enfasi, ma sulle risultanze estetiche dei versi sopra citati..
Alla terzina di poeti sopra citati, per una mia fuga di neuroni, non ho citato i testi recenti di Gino Rago, al quale chiedo scusa, e di altri poeti che nella NOE si riconoscono.
C’è del pessimismo nelle parole qui riportate di Emo – l’origine è l’atto dell’annullarsi – e anche in quelle struggenti di Giorgio Linguaglossa, quando scrive della “dimenticanza dell’essere”. Ma Emo dice bene quando afferma che “La presenza è la presenza del togliersi”; solo non dice che togliersi è riferito al tempo. Il pensiero, siccome è linguaggio, per esserci ha bisogno di porzioni di tempo – “solito”, come lo definisce la Petrillo, passato presente e futuro.
Pensiero e tempo vanno insieme, non si dà pensiero senza tempo (per me, uno e l’altro, hanno anche fisicità). Fuori dal tempo c’è il nulla; che detto così, e poi ripetuto, può dare spavento; ma tanto nel nulla ci stiamo per lo più senza saperlo. Possiamo però toglierci, appunto, come scriveva Emo. Diventare pura osservazione. E dopo qualche sospiro, scrivere al massimo un haiku.
Pensare essendo porta facilmente a identificazione con l’io (pensante): penso, dunque sono – facilmente identificato.
E’ una gabbia da cui si può uscire, qui su l’Ombra si è già detto molto in proposito.
Caro Giorgio,
l’esecuzione in distici è splendida. Attenta all’irregolarità, felicemente interpretativa. Grazie.
caro Lucio,
credo che Andrea Emo quando scrive che «la presenza è la presenza del togliersi» si riferisca non al tempo, o almeno non soltanto al tempo quanto, appunto, alla «presenza», che è una Figura del Nulla. Geniale intuizione del filosofo perché riporta d’un colpo tutte le categorie dell’esserci in quella fondamentale che tutte le risolve: che è il «nulla».
In proposito, considero geniale il tentativo del neoplatonico pagano Damascio che offre una speculazione intenta a sottrarre da sotto i piedi del cristianesimo alla sua epoca imperante, l’appoggio concettuale, sottraendo il Meta Principio, l’ineffabile (to apòrretos) all’Uno, in modo da introdurre una temibile difficoltà nel sostenere la validità dell’Inizio, se non come auto inabissarsi dell’Inizio stesso, e quindi dell’auto annullamento del dio unico. Difficoltà che Damascio risolve con la sua dialettica del nulla e della auto nullificazione della stessa dialettica che non può, non è in grado, di dire nulla sul Nulla assoluto. Un risultato grandioso del pensiero dinanzi al quale i padri della Chiesa restarono muti non essendo in grado di opporre granché a questo terribile apoftegma. In proposito, la filosofia contemporanea mi sembra che stia ancora ferma, su questo punto, sulla dialettica auto nullificante del Nulla Assoluto. E qui anche Andrea Emo.
Mi ha colpito molto in questa pagina ricchissima dell’Ombra, il brano sul «tempo» di Marina Petrillo che qui riporto:
«Si è di fronte ad una trasmutazione del concetto di Tempo poiché il Tempo non è un concetto. I concetti sono tributi che l’uomo offre al suo intelletto. Il Divino che è in noi opera diversamente, esce da ogni concettualità adescata da conoscenze millenarie appartenenti ad altra realtà ora superata. Per cui, i tre passaggi attraverso i quali abbiamo permeato la nostra cultura, si dissolvono e concedono respiro ad una visione altra, in sintonia con il grado più elevato di Presenza. Se ‘presenti’, noi siamo Agenti e Co-Agenti di un Sistema alto, in cui non può non delinearsi il non-tempo….».
Ciò che dimostra, una volta di più, che la problematica centrale della nuova ontologia estetica e della nuova filosofia è il problema del fattore T (il Tempo).
Vorrei concludere così: se non si comprende che il Fattore T e il Fattore S sono i protagonisti principali della nuova Forma-poesia, non si è capito nulla della poesia contemporanea.
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
Una poesia di Lucio Mayoor Tosi che mi sono preso la briga di suddividere in distici (irregolari qua e là), Lucio mi perdonerà…
Nautilus
Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
Non so se spaventa l’automobile futurista,
oppure sono i pensieri. Quei due
che passano.
Rosetta col pensiero di morire proprio qui
nel vicolo. L’animo sulla ghiaia.
Pensieri che vanno in aria allacciati con altri;
alcuni indietreggiano, poi tornano decorati
di crisantemi.
Non per me, che ho da scrivere una storia:
di lei e suo marito, dentro il bicchiere capovolto.
Casa di vetro, con giardino. Il cane Buf
che non mi può vedere. Rosetta gli dice
«Buf, smettila!»
Ma è come non ci fosse nessuno.
Le cose sembrano ferme, perché chissà
quale distanza le separa. Anni e anni luce
aggrappati agli attaccapanni, tra le maniche
delle giacche. Qualche inverno da noi,
di macchie e rattoppi.
Chi scendeva e saliva le scale, già qui
prima di arrivare. E andarsene lentamente.
(Devo ricordarmi di comprare i croccantini,
solo pollo, per il gatto di Rosetta. Dicono
che non è morta. E’ al ricovero).
Fa paura il tempo quando passa.
In fotografia la vestaglia di felpa. Cento,
duecento vestaglie. Estate e inverno,
Rosetta e suo marito ancora giovani,
le stanze da pitturare.
Dipingo un segno sui muri, viola che va oltre,
dietro le spalle, nell’ombra futura. Da qui
a qui. Non ha senso, Rosetta. Niente ha senso.
La scatola dei profumi – Ride. I profumi!
– Sa, io aspettai centinaia d’anni prima di nascere.
Ho rischiato di finire in una nidiata di topolini
di campagna. Tanto mi piacevano. Ti sentono.
Anche se arrivi invisibile.
– A lei questo non può succedere, facile
che sia stato ucciso dai bolscevichi. Anzi, lo so.
Quando? Alle tre del pomeriggio. Non ricorda
le foglie, quel turbine di vento?
Si guardi. – Io sono vecchia, ho smesso di guardarmi.
Allora le scarpe. E’ comunque così che doveva andare.
C’è risentimento.
Scende dal naso una goccia di mare.
Morire è inutile. Faccio le valige. Fingo di metterci
qualcosa. Recito la vita. Entro, esco. Chiudo la porta.
Calpesto l’erba che infesta a primavera.
Il tempo fa questo e altro. Ci butto l’acqua sporca
dei pavimenti, con la candeggina. Qui è pieno
di pensieri. Nessuno li toglie.
Io per questo scrivo invisibile, una storia
silenziosa. Capovolta. Col giardino, il cane Buf.
Annessi e connessi alla rete, Metro, Linea 2.
L’infinito dentale. L’Arco della Pace a Milano.
Tutto e tutti con e senza cappello, le buone idee.
Un minuto di pioggia. Una scatoletta.
La picchi sul tavolo capovolta. Dai una passata
e guardi altrove. Lo stra-ba-dan dei vagoni.
Commento di Giorgio Linguaglossa
“Dio è l’infinito negarsi. La dimensione interiore del negarsi è infinita, è l’infinito. E il negarsi è l’individualità dell’infinito.”
“Soltanto l’assoluto e l’universale può morire; noi moriamo in quanto siamo il morire dell’assoluto.”
Andrea Emo
La suggestione della riflessione della Petrillo promana dalla intuizione della dissoluzione della esperienza concettuale e ontologizzante dell’essere-nulla, fra cui non è possibile porre confine, che muta in scelta etica, di rinuncia alla dimensione egoica per “naufragare dolcemente” nella infinita trascendenza divina. E’ l’esperienza universale della mistica e poesia che sa ricomporre le aporie sorte dalla metafisica platonica e dalla sua codificazione e formalizzazione aristotelica e cartesiana, (materia- spirito, io- Dio, essere-nulla, libertà- necessità ) che nella visione-contemplazione estatica ( Eckart, Giovanni della Croce, Cusano, Hans Kuhn, Dietrich Bonhoeffer, ecc.) si intuiscono appartenenti alla mistificante traduzione verbale e concettuale operata dal pensiero vincolato ai paradigmi della vecchia metafisica, non alle autentiche strutture dell’Essere.
Dopo l’eternità
a Livia
Ci hanno gettato in una prateria di stelle senza senso
Aspettiamo quell’assurdo Sempre per toccarci
Per entrare nel sogno delle gocce di Chopin
Io ho un fulmine immobile fra le mani
tu muti in cielo un oceano di sospiri
Il grido delle statue infelici
è il codice dimenticato nei boschi
Il sesso della notte perseguita i miei pensieri
Nel teatro degli amplessi le macchine nude
rovistano fra peccati e anime dipinte
Il profumo della Dea langue sugli spalti
La limpida cascata del sacrilegio
sceglie il quadrante più oscuro
per gettarci nell’uragano immobile
Respiro appena per paura di precipitare
dalla cristalliera di questo amore
Il tuo sguardo trattiene a stento
il silenzio dei violini azzurri
negli specchi offuscati del Paradiso
Se mi baci l’angelo furioso distrugge
i sigilli falsi della notte
Se mi trascini nella ferita celeste
il profumo dell’abisso fa impazzire
gli oscuri guardiani dell’alba
carissimo Carlo Livia, faccio un esperimento: risolvo in distici questa tua prova poetica. Io la preferirei così. Proposta: i due aggettivi che ho messo tra le parentesi quadre io li toglierei.
Dopo l’eternità
a Livia
Ci hanno gettato in una prateria di stelle senza senso
Aspettiamo quell’assurdo Sempre per toccarci
Per entrare nel sogno delle gocce di Chopin
Io ho un fulmine immobile fra le mani
tu muti in cielo un oceano di sospiri
Il grido delle statue infelici
è il codice dimenticato nei boschi
Il sesso della notte perseguita i miei pensieri
Nel teatro degli amplessi le macchine nude
rovistano fra peccati e anime dipinte
Il profumo della Dea langue sugli spalti
La limpida cascata del sacrilegio
sceglie il quadrante più oscuro
per gettarci nell’uragano immobile
Respiro appena per paura di precipitare
dalla cristalliera di questo amore
Il tuo sguardo trattiene a stento
il silenzio dei violini [azzurri]
negli specchi offuscati del Paradiso
Se mi baci l’angelo furioso distrugge
i sigilli falsi della notte
Se mi trascini nella ferita [celeste]
il profumo dell’abisso fa impazzire
gli oscuri guardiani dell’alba
Proprio da questa Pagina de L’Ombra delle Parole che qui caro Giorgio segnali, una pagina del 2015, è partita la mia infatuazione per la Lipska. Oggi è amore consapevole per questa voce poetica unica, inimitabile, perché è voce di poesia che sa passeggiare sul vuoto. Paolo Statuti ha saputo renderla efficace, nelle sue traduzioni. Ma non sottovaluterei sul piano tonale-linguistico i lavori di traduzione di Ewa Lipska che a noi due, caro Giorgio Linguglossa, Lorenzo Pompeo ci ha giungere da Cracovia.
A ogni buon conto, subito ho fatto mie tanto le impronte digitali quanto l’occhio incrinato del tempo…
E ciò che più per me conta ne ho interiorizzato il manifesto poetico dopo che, attraverso Jolanda W., la collaboratrice fedele di Ewa Lipska, mi è giunto in un biglietto senza firma in calce…
Condivido con te, caro Giorgio Linguaglossa, con i magnifici, poeti della NOE, con G. Aprile [cui la pagina odierna è dedicata] e con le lettrici e i lettori del blog, il testo del biglietto che Jolanda W. mi ha recapitato.
Gino Rago
[la poesia, la caccia]
“Caro Signor G. R.,
sono Jolanda W., di nuovo irrompo nella Sua vita.
Senza preavvisi.
La Signora Lipska è sempre in giro
ma ha lasciato un biglietto.
Mi prendo la libertà di spedirlo
all’indirizzo riservato che giace qui, sulla sua scrivania.
Forse la Signora Lipska desidera darLe
il suo vero manifesto poetico.
Lo conosco bene, glielo anticipo.
Per la Signora Ewa
la poesia è come andare a caccia,
un’orma dopo l’altra
con i battitori dietro i latrati delle parole.
[…]
So che Lei e il Suo amico di Istanbul
seguite nei versi
la rapace fonetica del bosco,
ma con il colpo in canna.
[…]
Tenete nel mirino del fucile la parola-preda,
inseguite la lingua
ma mai nel sottobosco romano o milanese.
Riconosciuta la preda-parola prendete la mira,
sparate, la parola mirata è là,
ridotta in polvere.
[…]
Tutte le altre parole non tenute sotto mira
si disperdono deluse.”
G.R.
(A) Guglielmo Aprile
Sei tu il più crudele dei mesi, Aprile? Il lapsus o il lupus in fabula?
Terribile e temibile dio che vaga col vento matto per finta
Tenero tattoo voodoo d’un temporale delle tempie e crolla il tempio
Vien giù il tempo trascorso nel trauma infantile con spille e spilloni
Con Pasqua alta nell’umore basso e ranuncoli e fresie e begonie e viole
Un prato di soprannomi e di afrori e di salvezza nel nome dei fiori.
Da La Musa Last Minute, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2018
Carissimi amici de L’Ombra, da mesi leggo i dettami che bisogna seguire voluti dalla NOE per scrivere poesia oggi. Sono invaso dai dubbi circa quanto io continui a comporre, quindi vi sottopongo l’ultimo mio testo, evaso dal mio stupore la notte scorsa. Vi chiedo umilmente se io debba continuare a scrivere o invece deporre per sempre penna e computer. Aspetto una gentile e crudele risposta. Salvatore Martino
Il mare
Così mentre sognava
vide una spiaggia correre
lungo il diaframma della sua costrizione
come se una scure
fosse calata sopra la testa
a dividere il bene dal male
dove si perdeva il suo pensiero
Il mare oscillava in una calma desertica
quasi che un vento l’avesse appianato
una tavola di noce scuro
levigata di cera
lungo un quieto orizzonte
che dominava ogni emozione
Quando il mare dorme
con tutti i suoi abissi
incute rispetto
e paura
come se da quel sonno profondo
potesse danzare
chissà quale terribile risposta
agli interrogativi che scuotono
i sentieri più nascosti
della nostra perdizione
La notte ultima di Novembre 2018
Welcome back Martin,
da tempo non ci si incontrava più su questa Rivista. Il silenzio, almeno da parte mia,mi portava a ipotizzare varie considerazioni. Ora, alla luce di questa tua poesia, riaffiorano pensieri più alogeni, nel senso del ritorno della luce sull’assenza.”Nella tua prigione-(scrive Giuseppe Talia su La musa last minute), -o stella blu, le braccia della Pizia / Trovano ammassi aperti di giganti, Kavasis, Eliot, Borghes / Una vita dedicata alla gravitazione di pregiate malvasie / Da cinquant’anni e oltre, l’almagesto nell’atto catartico / Del locus amoenus del Capricorno, a est del Sagittario / Tu, cancellazione, sfera ideale, nutri il marmo erbario). Non chiederci nessun parere sul tuo diritto di scrivere o meno versi. Tutto può nascere da un poeta che ha dedicato dal 1962 al 2013 ogni rifrazione contemporanea del nostro essere -qui e ora-. La tua fedeltà alla poesia, che piaccia o meno, resta un graffito nelle caverne della nostra società, sempre più decentrata. Siamo entrati in una dimensione del reale tecnologicamente avanzata, convergente verso una despiritualizzazione accompagnata da crisi ontologiche e di non senso. Non abbiamo uno Zenit, qualcosa che ci possa far approdare, anche con le occasioni poetiche, fuori dalla bufera del quotidiano. Il tuo ritorno alla poesia non tradisce mai il pensiero emozionale. In questa tensione la parola poetica si fa messaggio decisamente tonale e di assoluta trasposizione della realtà.
Le tue parole Mario suonano una musica dolce al mio spirito, insieme a quelle di Talia. Il mio chiedere “aiuto” a voi amici forse era un tantino provocatorio, ma rappresentava un tentativo di riprendere un discorso.Carissimo con i miei graffiti tento di trovare uno zenit, una risposta, magari muta o persino crudele agli interrogativi che “m’aggravan la fronte”, ricordando il Pirata di Bellini. Sì non voglio, né posso tradire il pensiero emozionale. A volte trovo che sia un elemento mancante nei poeti della NOE, e per il mio modo di intendere l’arte e la poesia in particolare, un elemento di fondamentale importanza. Mi rendo conto del lodevole tentativo di voi tutti di interpretare questo nostro tempo disarticolato e disfatto, di tentare nuove vie , un cambiamento forse necessario: e questo comporta dei rischi, primo fra tutti una certa consuetudine al disseccamento, ad uno spazio tecnicistico, dove la ricerca del linguaggio spesso mi appare fine a se stessa. Certo crisi ontologica e di non senso, che anch’io avverto chiaramente, e cerco di affrontarle con i miei modesti e antichi manufatti. Come accenna Lucio devo obbedire alla mia Musa, al mio daimon dico io, anche nel più totale isolamento.
Provo anch’io il gioco irriverente di trasformare in distico; tenuto conto, caro Martino, che secondo me il tuo scrivere prosastico ben si accompagna con un verso più lungo e disteso. In questa poesia, per altri criteri di giudizio ultra perfetta, noto qualche descrizione di troppo; ad esempio nella seconda strofa, quella lunga descrizione della tavola di noce scura, che poi è levigata di cera, nel quieto orizzonte; quieto, appunto, non si fosse capito già dalla “calma desertica”…
Voglio essere crudele, ma per dirti che dovresti solo preoccuparti di eseguire quello che ti impone la Musa; il sacrificio di essere soli, e di esserlo insieme. Rispettosamente.
Così mentre sognava vide una spiaggia correre
lungo il diaframma della sua costrizione
come se una scure fosse calata sopra la testa
a dividere il bene dal male
dove si perdeva il suo pensiero. Il mare oscillava
in una calma desertica, quasi che un vento
l’avesse appianato. Una tavola di noce scuro
levigata di cera lungo il quieto orizzonte
che dominava ogni emozione. Quando il mare dorme
con tutti i suoi abissi incute rispetto e paura; come se
da quel sonno profondo potesse danzare
chissà quale terribile risposta agli interrogativi
che scuotono i sentieri più nascosti
della nostra perdizione.
Nello stile NOE si avrebbe una maggiore frammentazione, al posto di tutti quei “come se” e “chissà quale”… Oltre che qualche indeterminativo in meno.
Ma avrei fatto meglio a lasciare solo “l’avesse appianato”. E da lì ripartire con altri distici.
Carissimo Lucio a parte la frammentazione che mi appare discutibile la tua osservazione di taglio che mi suggerisci è assolutamente da condividere.Grazie per le belle parole.
Un compendio perfetto…
Bentornato al nostro amico Salvatore Martino.
La tua poesia è bella, e, nella riscrittura fattane da Lucio Mayoor Tosi a mio avviso ne guadagna decisamente, il verso più disteso, paradossalmente, mette in evidenza le pause interne al verso che, invece, nella scrittura di origine vengono a perdersi. Ciò significa che dentro la tua mente creativa qualcosa di quanto andiamo dicendo e facendo in questi anni è penetrato, ha fatto breccia e tu ti sei aperto allo sviluppo stilistico. Come scrive Mario Gabriele, un poeta della tua lunghissima fedeltà ed esperienza non può arenarsi nel già noto. Quei «chissà» e «come se» invece mi convincono, nella tua scrittura introducono un disorientamento, una possibilizzazione del discorso poetico che non mi dispiace. Ma qui è ovvio siamo nell’ambito del gusto che può variare in ciascuno di noi. Complimenti.
Mamma mia! che belle parole carissimo Giorgio.Non so se quello che affermi sulla penetrazione di quanto trasmesso da voi poeti della NOE mi sia scivolato nell’anima, quindi nella scrittura, corrisponda a realtà…sai a volte siamo cattivi giudici di noi stessi. Confermo che sui distici non sono pienamente d’accordo anche se in passato ho spesso usato codesto passaggio stilistico. Questo testo è solo l’ultimo di un libro praticamente terminato di almeno 130 pagine. Non so se mai vedrà la luce, certo il lavorio di lima durerà ancora molto tempo. Purtroppo il vizio letale non riesce ad abbandonarmi, il mondo sotterraneo impone parole e immagini che premono per liberarsi alla luce. Perdona questa digressione narcisistica , ma grazie per la tua straordinaria lettura.
Bello, Salvatore, che tu sia tornato e tornato con questo testo.
“Quando il mare dorme / con tutti i suoi abissi incute rispetto e paura.”
Carissimo Giuseppe grazie per il tuo bentornato. Con piacere ritrovo il calore di amici poeti che mai avevo dimenticato, malgrado alcune divergenze di vedute…ma la poesia trascende ogni cosa.
Guglielmo Aprile, verso le impronte digitali di Ewa Lipska
La parola di Guglielmo Aprile è precisa, netta, pochi gli aggettivi, pochissimi i colori, è una parola chirurgica in grado di sezionare la realtà cercandone la poesia. Come i grandi poeti, e come proprio Ewa Lipska, G. Aprile fa poesia nella consapevolezza, tutta Lipskiana, che il nostro quotidiano non può rimanere orfano di parole. Deve dunque offrirsi alla poesia
“L’ospite ama fare improvvisate,
verrà a citofonarmi
quando sono in pigiama o sotto la doccia:[…]
Il cuore del poeta resta tale, un organo pulsante che tiene in piedi un sistema che genera immagini, pensieri, meditazioni subito da cogliere e trasformare in parole, come se andasse nel bosco delle parole a caccia della parola giusta.
In una narrazione poetica che non fa sconti, che mai si perde in lirismo scontato e molle, Guglielmo Aprile nei versi di questa pagina de L’Ombra mostra di saperlo fare, e non si sottrae all’emozione la quale prende altre vie… E come la Lipska ,[ ma anche come Milosz, Herbert, Szymborska (anche lei di Cracovia), Zagajevskij e Tadeusz Rozewicz], Guglielmo Aprile aggiunge nella torta dei suoi versi quel tocco di zenzero speciale: l’ironia.
Non sono poi tanti i poeti oggi in giro che colgono con parole necessarie il soffio della vita nell’istante in cui l’istante si dà, come in questi versi di Ewa Lipska sulla visita dei morti:
Ewa Lipska
Le visite dei morti
capitano sempre
in momenti inopportuni.
Mentre stiamo per andare al cinema.
In discoteca. Al supermercato.
E loro ci portano frammenti
di muri. Pezzi di lamiera.
Fili di ferro avvolti nel dolore.
E dicono imbarazzati
Eppure la morte è la vita stessa[…]
Gino Rago
Sconvolgente soprattutto quale sia il tipo di ‘dono’ che queste ‘visite’ vengono a portarci: macerie, residui di un mondo in decomposizione, scarti- ma che si caricano di senso perché in essi ritroviamo qualcosa che siamo noi
Caro Martino, per me la poesia è nodo inestricabile di pensiero ed emozione, e l’emozione è la dimensione in cui libertà e necessità coincidono, trascendendo ogni determinismo e finalismo: la poesia non serve a niente, non è serva di niente, se non a illuminarci della luce della bellezza spirituale che supera ogni giudizio e calcolo. In questo senso il tuo testo ( come altri che ho letto in passato ) è prezioso e necessario, e ti sono grato di avercelo donato.
Condivido del tutto il tuo pensiero caro Livia, come sempre straordinariamente pregnante, lucido, denso di bagliori e di luce. E grazie per il prezioso e necessario. Apprezzo molto anche i tuoi scritti poetici, che spesso mi emozionano.
“Vi chiedo umilmente se io debba continuare a scrivere o invece deporre per sempre penna e computer. Aspetto una gentile e crudele risposta. Salvatore Martino”… ed io che sono spietato con me stesso, nonostante le banali ridondanze (dicono) di cui sono intrisi i miei versi (ma non è vero!) Ti chiedo caro Salvatore di realizzare quanto Tu proponi a Te stesso.
Io l’ho fatto da tempo ordinando alla mia Musa (un tempo materna) ora matrigna di lasciarmi in pace e di trovarsi altri poeti molto più giovani di me.Lei ha obbedito ed io sono sereno: ho sempre temuto di ripetermi, la iterazione
corrode….
Mi sono svegliato alle 3 di questa notte da un sogno orribile, e ho maledetto i sogni, specie dei poeti.
Antonio S.
Seguirò certamente il tuo prezioso consiglio carissimo Antonio, cercando di evitare le iterazioni che verranno a visitarmi senza alcun dubbio.Ti prego di continuare sulla strada dei sogni.
Guglielmo Aprile, verso le impronte digitali di Ewa Lipska
La parola di Guglielmo Aprile è precisa, netta, pochi gli aggettivi, pochissimi i colori, è una parola chirurgica in grado di sezionare la realtà cercandone la poesia. Come i grandi poeti, e come proprio Ewa Lipska, Guglielmo Aprile fa poesia nella consapevolezza, tutta Lipskiana, che il nostro quotidiano non può rimanere orfano di parole. Deve dunque offrirsi alla poesia
“L’ospite ama fare improvvisate,
verrà a citofonarmi
quando sono in pigiama o sotto la doccia:[…]
Il cuore del poeta resta tale, un organo pulsante che tiene in piedi un sistema che genera immagini, pensieri, meditazioni, subito da cogliere e trasformare in parole, come se il poeta andasse nel bosco delle parole a caccia della parola giusta.
In una narrazione poetica che non fa sconti, che mai si perde in lirismo scontato e molle, Guglielmo Aprile nei versi di questa pagina de L’Ombra mostra di saperlo fare, e non si sottrae all’emozione la quale prende altre vie…E come la Lipska ,[ ma anche come Milosz, Herbert, Szymborska (anche lei di Cracovia), Zagajevskij e Tadeusz], Guglielmo Aprile aggiunge nella torta dei suoi versi quel tocco di zenzero speciale: l’ironia.
Non sono poi tanti i poeti oggi in giro che colgono con parole necessarie il soffio della vita nell’istante in cui la vita si dà, come in questi versi di Ewa Lipska sulla visita dei morti
Ewa Lipska
Le visite dei morti
capitano sempre
in momenti inopportuni.
Mentre stiamo per andare al cinema.
In discoteca. Al supermercato[…]
E dicono imbarazzati
Eppure la morte è la vita stessa[…]
Diversi da quello di Guglielmo Aprile risultano alla mia lettura i respiri poetici di Lucio Mayoor Tosi e di Salvatore Martino nelle rispettive composizioni gustate su questa pagina de L’Ombra, composizioni poetiche le quali meritano un accostamento analitico ad hoc…
Gino Rago
Amo i poeti perché solo nel loro FarWest ci si può ferire a morte con un aggettivo. Se poi tra questi ve ne sono che provengono dal teatro, allora è inevitabile che si finisca in tragedia.
Chiedo a Giorgio: come possiamo porre la questione dell’io, qualora ci si trovi al cospetto di un ‘io’ Titanico – alla Walt Whitman, per capirci, o come Majakovskij o, ultimo ma solo per cronologia, il Carmelo Bene?
Ecco, come si fa a liberare il titanico dalle catene che lo vorrebbero costringere alla normalità o, peggio, alla cosalità?
caro Lucio,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/30/guglielmo-aprile-poesie-da-il-viaggio-finisce-qui-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-dialoghi-e-commenti-in-cammino-verso-una-patria-metafisica-delle-parole-laporia-del-pr/comment-page-1/#comment-43251
ti dico la verità, non ho mai sopportato la poesia di Walt Whitman… sono più di trent’anni che tento di leggerla, ma mi ripugna, appena leggo qualche riga mi metto a ridere… trenta e più anni fa lessi che Mandel’stam stimava molto la poesia di Walt Whitman… allora mi chiesi che cosa potesse trovare il raffinatissimo Mandel’stam in un barbaro come Whitman… non l’ho mai capito, o forse lo capisco molto bene, quell’io iperprostatico di Whitman mi ripugna sempre di più, più passano gli anni i mesi e i giorni più mi ripugna. E mi fa ridere. Foglie d’erba (1855) lo trovo un libro comico. Whitman era un barbaro, mentre io sono un prodotto della decadenza, della raffinata decadenza dell’Occidente, quel barbaro visigoto mi fa ribrezzo…
E mi chiedo: Che cosa poteva avere in comune il pagano raffinato Rutilio Namaziano con il goto Alarico? Nulla, proprio nulla…
Ecco alcuni brani di poesie del barbaro Walt Witman
Io esisto come sono, questo è abbastanza, se nessun altro al mondo ne fosse a conoscenza, sarei contento, e se tutti ne fossero a conoscenza, sarei contento.
Io canto l’individuo, la singola persona,
Al tempo stesso canto la Democrazia, la massa.
L’organismo, da capo a piedi, canto,
La semplice fisionomia, il cervello da soli non sono degni
della Musa: la Forma integrale ne è ben più degna,
E la Femmina canto parimenti che il Maschio.
Canto la vita immensa in passione, pulsazioni e forza,
Lieto, per le più libere azioni che sotto leggi divine si attuano,
Canto l’Uomo Moderno.
Quando i lillà fioriranno, l’ultima volta, nel prato davanti alla casa,
E il grande astro nel cielo d’occidente calava presto la sera,
Io ero in lutto, e sempre lo sarò, ogni volta che torni primavera.
Primavera che sempre ritorni, sempre mi porterai questa triade,
i lillà perennemente in fiore, l’astro che tramonta ad occidente,
Ed il pensiero di colui che amo.
Cogli la rosa quando è il momento,
ché il tempo lo sai che vola…
e lo stesso fiore che oggi sboccia
domani appassirà.
Urrà per coloro che hanno fallito!
E per coloro le cui navi da guerra sono affondate in mare!
E per quegli stessi che sono affondati in mare!
E per tutti i generali che hanno perso le loro battaglie!
E per tutti gli eroi sopraffatti!
E per gli innumerevoli eroi sconosciuti, pari ai grandi eroi conosciuti!
Schiudo l’abbaino di notte e contemplo i sistemi sparsi pel cielo,
e ciò che vedo non è che l’orlo dei più remoti sistemi.
Oltre, sempre oltre essi spaziano, in perenne espansione,
in là, più in là, ognora più in là.
Pochi quadrilioni di ere, pochi ottilioni di leghe cubiche, non turbano lo spazio né lo rendono impaziente,
non sono che parti, ogni cosa non è che una parte.
Spingi lo sguardo il più lontano che puoi, oltre quello è l’illimite spazio,
conta il più alto che puoi, oltre quello vi è il tempo infinito.
A partire da quest’ora mi ordino libero di limiti e linee immaginarie,
vado ove voglio, totale e assoluto signore di me,
do ascolto agli altri, considerando bene quello che dicono,
m’arresto, ricerco, ricevo, contemplo,
dolcemente, ma con volontà incoercibile, mi svincolo dalle remore che trattenermi vorrebbero.
Inalo grandi sorsate di spazio,
l’est e l’ovest sono miei, il nord e il sud sono miei.
Sono più ampio e migliore di quanto pensassi,
ignoravo di possedere tante virtù.
Ecco la prova definitiva della saggezza,
la saggezza non supera la sua prova finale nelle scuole,
la saggezza non può venire trasmessa da chi la possiede a un altro che non la possiede,
la saggezza pertiene all’anima, non è suscettibile di prove, costituisce la propria prova,
Oh, la gioia del mio spirito – dalla gabbia è fuggito – e come un fulmine guizza!
Non basta più avere il globo intero e una certa estensione di tempo,
voglio migliaia di globi, e tempo infinito.
Soffino pure i venti del nord,
nasca il giorno o cali la notte,
a casa, o sui fiumi e montagne lontane,
cantando ed obliando il passare del tempo,
mentre noi due stiamo insieme
[Questi versi di Walt Whitman vengono letti nel film Non c’è due senza quattro]
Oh me, oh vita, domande come queste mi perseguitano.
Infiniti cortei di infedeli. Città gremite di stolti.
Che v’è di nuovo in tutto questo, oh me, oh vita?
Risposta.
Che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità,
che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso. Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.
Una grande città è quella che ha gli uomini, le donne più grandi,
anche con poche meschine capanne resta la più grande città della terra
Celebro me stesso,
E ciò che immagino tu immaginerai,
Perché ogni atomo che appartiene a me appartiene davvero anche a te.
Ora io vedo il segreto per la creazione delle persone migliori. È crescere all’aria aperta e mangiare e dormire con la terra.
Il sesso contiene tutto, corpi, anime, significati, prove, purezze, squisitezze, risultati, pronunciamenti, tutte le speranze, beneficenze, conferimenti, tutte le passioni, amori, bellezze, piaceri della terra, tutti i governi, i giudici, gli dei.
Mostrando la cosa migliore e separandola dalla peggiore, ogni età sfida l’altra,
Conoscendo la forma perfetta e l’equilibrio delle cose, mentre quelle discutono io taccio, mi bagno nell’acqua e ammiro me stesso.
Subito è sorta e si è diffusa intorno a me la pace e la gioia e la consapevolezza che superano ogni arte e argomento terreno.
E so che la mano di Dio è la promessa della mia,
E so che lo spirito di Dio è fratello del mio,
E che ogni uomo nato su questa terra è anche mio fratello, e che ogni donna mi è sorella e amante,
E che la chiglia della creazione è amore.
In ogni persona ritrovo me stesso, non uno che mi superi, non uno che valga un chicco d’orzo di meno,
e il bene e il male che dico di me lo dico pure di loro.
Credo in te, anima mia,
l’altro che io sono non deve umiliarsi di fronte a te,
e tu non devi umiliarti di fronte a lui.
Ozia con me sull’erba,
libera la tua gola da ogni impedimento,
né parole, né musica o rima voglio,
né consuetudini né discorsi,
neppure i migliori, soltanto la tua calma voce bivalve,
il suo mormorio mi piace.
Credo che potrei voltare la schiena e andare a vivere con gli animali, così placidi e contenti,
mi fermo e li contemplo per ore e ore.
Non s’affannano mai, non gemono per la loro condizione,
non vegliano al buio a piangere i loro peccati,
non mi danno disgusto discutendo sui loro doveri verso Dio,
nessuno è insoddisfatto, nessuno impazzisce per smania di possedere,
nessuno s’inginocchia davanti a un suo simile, né ad altri della sua specie vissuti migliaia di anni fa,
nessuno è rispettabile o infelice per la terra universa.
Istanti nativi – quando a me al fin giungete – ah, siete già qui ora.
Datemi adesso soltanto libidinose gioie,
datemi il succo delle mie passioni, datemi vita rozza e materiale.
(Questi versi di Walt Withman sono citati nel film Non c’è due senza quattro)
Per avere grandi poeti ci vuole anche un grande pubblico.
Chiara e dolce è l’anima mia, e chiaro e dolce è tutto ciò che non è l’anima mia.
Gli scommettitori sanno che il cavallo chiamato ‘Moralità’ raramente va oltre il palo, laddove il ronzino chiamato ‘Proprio Interesse’ corre sempre una buona gara.
Le battaglie si vincono e si perdono con identico cuore. Io faccio rullare i tamburi per tutti i morti, Per essi faccio squillare le trombe in tono alto e lieto, Vivan coloro che caddero, viva chi perde in mare i propri vascelli. Vivan coloro che affondano con essi. Vivan tutti i generali sconfitti e tutti gli eroi schiacciati e gli innumerevoli eroi sconosciuti, uguali ai più grandi e conosciuti eroi.
Sono quel che sono, e questo è sufficiente,
E se nessun altro al mondo se ne accorge, sono contento,
E se tutti se ne accorgono sono ugualmente contento.
C’è un mondo intero che se ne accorge, e per me di gran lunga il più grande,
E questo sono io,
E se arrivo a capirmi oggi o tra diecimila
o dieci milioni di anni,
Posso accettarlo allegramente ora o, altrettanto
allegramente, posso aspettare.
Dopotutto, la grande lezione è che nessuno spettacolo naturale – né le Alpi, né il Niagara, né lo Yosemite, o qualsiasi altro – è più grandioso e più bello del normale sorgere e tramontare del sole, più bello della terra o del cielo, degli alberi o dell’erba.
Che cos’è l’erba?
Mi chiese un bambino portandomene a piene mani;
come potevo rispondergli?
Non so meglio di lui che cosa sia.
Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione,
fatto col verde tessuto della speranza.
O forse è il fazzoletto del Signore,
un ricordo profumato lasciato cadere di proposito,
con la cifra del proprietario in un angolo
sicchè possiamo vederla e domandarci di chi può essere?
O forse l’erba stessa è un bambino,
il bimbo generato dalla vegetazione.
O un geroglifico uniforme che voglia dire,
crescendo tanto in ampi spazi che in strette fasce di terra,
fra bianchi e gente di colore, Canachi, Virginiani,
Membri del Congresso, gente comune,
io do loro la stessa cosa e li accolgo nello stesso modo.
Niente è mai veramente perduto, o può essere perduto,
Nessuna nascita, forma, identità – nessun oggetto del mondo.
Nessuna vita, nessuna forza, nessuna cosa visibile;
L’apparenza non deve ostacolare, né l’ambito mutato confonderti il cervello.
Sole sfacciato, non ho bisogno del tuo calore, torna a coricarti!
La tua luce è solo in superficie, io forzo le superfici e anche le profondità.
L’arte dell’arte, la gloria dell’espressione, il lume solare della lettura è la semplicità.
Per Lucio Tosi:Caro Lucio, sai quanto io apprezzi la tua poesia: ogni parola è un piccolo diamante grezzo ,”una scatoletta”può contenere
l’universo; Da bambina collezionavo bottigliucce ,che spesso portavo con me ,nelle visite alle mie amichette.Le mamme detestavano le bottgigliucce; una ne fece quasi una crociata,ma io non feci una piega; decisi di portare con me le bottigliucce solo in luoghi sicuri,dove c’era ab bastanza fantasia per poterle accettare,Faccio, più o meno, così con tutte le mie cose,anche ora che sono vecchia
Grazie, Anna Ventura
per le belle parole. Ricordo che Letizia Leone, nel commentare alcune mie poesie disse che alla mia scrittura non corrisponde l’età anagrafica – ho 64 anni. Come te, rimango fedele a quel mondo fantastico, ma devo molto alla psico terapia se oggi ne sono diventato consapevole.
Caro Mayoor ,
Tu scrivi : ” Se poi tra questi ve ne sono che provengono dal teatro, allora è inevitabile che si finisca in tragedia.”
Ma hai dimenticato la farsa che è più tragica della tragedia (ricorda quel ventennio nefasto!).
Quanto al “titanico” non credo che Walt Whitman lo sia stato; un titatino forse:, un titano di certo per gli intellettuali americani, capaci per arroganza di affermare, p.e., che Jack Keourak lo sia stato per davvero, quando le sue opere, specie “On the road”” è un testo di quarta categoria; prova a mettere di fronte “Il viaggio al termine della notte” di Celine; o il viaggio di “America” di Kafka; o ancora il viaggio americano del 1925 di Majakovskij; e ancora quello di Federico Garcia Lorca.
Hart Crane, a mio modo di vedere la Poesia, si mette nel taschino di dietro il
Whitman.
Davanti a questi scrittori che non volevano essere titani, specie Kafka, gli scrittori americani che si credono ancora emancipati dall’Europa, svaniscono. E quegli scrittori americani che hanno davvero valore sono tutti di origine europea; è ovvio che ci siano delle eccezioni (sono pochissimi) soltanto perché onesti nel dichiarare la loro discendenza.
E per finire, e se vuoi per ridere, se leggi (di nuovo ?!) la prefazione dei miei CAPRICCI, anche a me hanno dato del “titano” e critici di valore mi hanno appioppato autori così grandi che mi sono ritirato nel mio cantuccio o nel nero sottoscala, come Mandel’stam ….. ma io ho riso, ma amaramente.
E su Carmelo Bene, mi piacerebbe sapere da quanti ne parlano ( a vanvera) se hanno davvero letto le sue opere – e non solo opere ha scritto! : il fatto è che si arrestano alla superficie, –
potrei continuare, – ma a che pro?
E Ti posso dire che se Tu mi dai del “ridondante” è perché non hai letto bene i miei versi.
Adieu,
a. s.
—————————————————————————
“Assunto come copula, l’essere è ridotto a essere dell’ente, e il linguaggio a segno dell’ente. In questa accezione, il linguaggio non dice più niente, non parla, perché non mostra (zeigen), ma semplicemente indica (zeichen) e rinvia alla cosa che si suppone significante per sé, indipendentemente dalla parola che la nomina e, nominandola le dà l’essere, la evoca dal nascondimento».”
Ben detto, caro Linguaglossa, e a proposito ricalchi alcuni miei versi.
—
Una volta lo spettro di noi stessi ci faceva vivi o disumani
perché un addio non fosse solo un incendio da domare,
e mi seduce il contagio che sopporta la rovina della carne,
– e più di tutte le sciocchezze temo il ferino oltraggio
e lo stupore che il coito sia meno di un prezioso, o vano istante
—
E del mio affetto ne hai fatto un nastro funebre che m’attorciglia
le labbra in un nodo scorsoio poi che i baci sono dei tramonti
rancidi ed io sono per te nemmeno il calco di una maschera
che del sublime recitato ha soltanto un ricordo evanescente.
La giostra degli affetti s’è schiantata quel giorno in un’alcova
che senza requie non sapeva dei nostri corpi i compiuti atti,
ma la sincronia degli sguardi era più che un coito ininterrotto…
sapevamo che le lingue nostre non erano che l’inizio d’una tragedia!
————————————
Sognano giardini pensili come bave dalle bocche,
nel coito tutti i delitti e i tradimenti della specie!
Umano troppo umano è un errore filosofico e serafico,
dalle narici il dolore oscilla come lo stronzo di un impiccato.
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Nel tabernacolo, noi sappiamo, vive e vegeta
un doppio inganno: il dèmone e il divino
che copulando dettano scritture al cielo
e aspergono ovunque tragedie sulla terra.
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Promise a un se stesso – sosia infernale – le meraviglie tutte della Terra
e degli Universi… tutti!
Fu tentato da un altro se stesso a una vittoriosa copula!
Non si raccapezzava più… s’era allenato fin dall’infanzia alla Passione!
A una metafisica finzione!
Non ne poteva più!
Era stufo!
Ma non poteva più rinnegare la sua parola!
Passò allora il testimone alla sua controfigura…
lo istruì il Maestro, perché condannasse chi in nome suo era strumento di stermini…
li conosceva bene i suoi sacerdoti: questi attori-lupi-sciacalli-iene… non vi è fine…
ma non era sua la gola… già piagata gola – dalle Sette Misericordie!
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ringrazio per la pazienza i lettori
as
Sarà perché associo Whitman alla pittura dei paesaggisti del romanticismo americano; prima dell’arrivo di Hopper; quegli spazi grandi il doppio dei Turner… Un poeta che osi cominciare una propria poesia con la parola “Io”, o è un incosciente, oppure sa di essere quelle montagne e tutti quei fiumi, Dio in terra; o tutta la Russia, tutta la Rivoluzione…
Tu, Giorgio, propendi a credere che Whitman appartenga agli incoscienti. Anzi, ne sei certo. Io invece mi stavo chiedendo se Antonio Sagredo e in modo diverso, Salvatore Martino, non fossero ammaliati da quell’ultimo io che vive l’attore in scena, prima di scomparire. E’ la morte.
….bene, d’accordo su Hopper e Turner, che non oso giudicare se non più che bene…. ma l’Io come faccio Io a rinunciare all’Io? E Turner e ancora di più Turner al proprio Io non hanno mai rinunciato… è sorgente da cui tutto parte compreso il nulla!
“Su tutto ciò che ho scritto pongo il mio nulla!”
Eppure non sono incosciente! Ma quando scrivi “Dio in terra e similari
espressioni non fai critica costruttiva e oggettiva, ma critica spicciola, banale, e non è da Te. Linguaglossa non propende, ma afferma e dichiara, come me quando dico “titanino” che è più che uno dispregiativo: è un non amore, un disamore insomma un rifiuto!
Il poeta Otokar Brezina, ceco-moravo, il maggiore in Europa per cultura poetica, lo tenne in gran conto, ma per poco tempo, poi lo definì evanescente, privo di sostanza, inconcludente, con quella epica da Far West
repressa.
Discorso complesso, probabilmente dovuto a una vecchia idea che potrei lasciare andare; quella delle star a cui un io ipertrofico, che sopra ho chiamato titanico, consente il superamento dell’io comune, ingenuo e artisticamente deficitario. Avrai senz’altro letto il Diario di Nižinskij, non un rigo senza che l’io venga decantato, al punto che non lo si avverte più. Ma bisogna mantenersi straordinariamente alti per poter giungere a questo risultato. Questa era la vecchia idea. Si tratta però di una via che non ho mai tentato, anche perché una minima conoscenza della psicanalisi può bastare per rendersi conto che un io di questo genere trova spesso le sue origini in famiglia, nel rapporto sofferto con l’autorità paterna, ecc.
“Dio in terra” mi è arrivato per tanta poesia di tono ecclesiastico. Ma si sta nell’incoscienza.
… e quanto alla “frammentazione”, di cui ho detto e scritto con grandissimo affetto e amore, tutto il positivo che ero in grado di esprimere e che mi trovava d’accordo con l’amico filosofo-poeta Andrzej Nowicki (1919-20111) , con cui ho diviso centinaia di pagine di corrispondenza e di passioni per i mondi eretici e pagani, e che prossimo, spinto da lui prima sua della definitiva e unica partenza… scrissi :
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a Andrzej Nowicki
FRAGMENT…AZIONE
Ti stai avvicinando al più lontano dei pensieri radianti:
– quello che non esiste ancora e che possiede il tutto
– quello che sarà in tutti i luoghi ancora sconosciuti
– quello che rimanda la conoscenza ad altra conoscenza,
come una risacca senza requie e che sa il mobile infinito.
Il traguardo è già dietro alle tue spalle ed è un luogo
conquistato, ma altri luoghi affollano nuovi pensieri
e molteplici spazi aspettano i soggetti: quante filosofie
ancora abbiamo da conquistare! Le Muse vogliono baciare
l’ultimo frammento, invano! Brunite sono le parole nei cieli!
L’imperfezione giuliana trionfa sul concetto monolitico:
spazza via l’assoluto indegno, le totalità inutili!
La parola-ingresso frantuma l’autostrada in milioni di sentieri!
Rivoli di culture s’intrecciano, si assorbono, si superano…
Lo specchio degli Artefici s’è rotto! Si spargono dovunque luminose
scintille di pensieri: volano via le vele dei Saperi – per altre terre!
Antonio Sagredo
Vermicino, 16 settembre 2010
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frammentazione non è l’opposto dell’Io, ne è invece il trionfo e la celebrazione, come dice questa ultima strofa
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Ehi!
Signori!
Amatori
di sacrilegi,
di delitti,
di macelli
ma ciò che è più terribile
l’avete visto:
il mio viso,
quando
io
sono assolutamente tranquillo?
E sento
che l’io
per me è poco.
Qualcuno da me si sprigiona ostinato.
1916
ogni sera una pentola cambia posto. Poco fa i manici e l’interno al primo vuoto di Dicembre. E’ stata sullo scolapiatti.
Per i graffi di un fornello tutto incrostato dal gas. Lo diceva sempre la nonna: amore mio mettici dentro una minestra di spine.
Quelle belle calze di carne e di nylon appena smagliate dai buchi del fumo.
Due braccia hanno preso gli angoli a campana.
La dorsale seducente . Neanche fosse il pisciatoio del cane . Una scatola di seconda mano nella luce perduta fino al coperchio.
Del fine danno equiparato a festa escogitato appena
e di soppiatto esploso, sovviene pure, al fine sai l’allegria sommessa
la messa sazia, di uno scolapasta arreso. Lo vedi pudico, un elmo
riverso, steso, sulla dimessa riva (cucina) sconfitto a conca.
Tralasciato ha la limacciosa riva riverbero assolo di uno spaghetto al sugo
che all’odor di Seppia, l’amido scolato, ha pure l’amico, il poeta insigne
che l’Osso torvo ridusse a canto, che vivo spolpi, che a fuoco lento assapori spento. E svenne pure all’estasiato encomio il rigo, il salmo, il tripudiare esploso.
Grazie Ombra.
A mio umilissimo parere invece questa poesia simbolica lo é. Le immagini non vanno prese alla lettera, ma spostano il senso al di là del loro valore convenzionale: rimandano a un senso altro rispetto a quello corrente, un senso che è obliquo, non precisato e non definito e perciò sono dei simboli, ma non cronaca e non realismo minimale del vissuto, dimensione a cui c’è solo una allusione e molto velata