
Saul Steinberg, Lady in bath 1959
Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo (Bologna 1923, Roma 1977), ormai riconosciuta come una delle voci poetiche più alte del novecento, è stata straordinaria ed originale interprete della più profonda spiritualità insita nella letteratura europea. Appassionata studiosa di Hofmannsthal, rivisitò il mondo misterioso delle fiabe svelandone le trascendenti simbologie. Fu traduttrice e critica di originale metodologia, enucleando dalle opere letterarie l’idea del destino e il dominio della legge di necessità sulle vicende umane che l’arte esprime in una aurea di bellezza. Appartenne al ristretto nucleo di intellettuali che avviarono l’introduzione di Simone Weil in Italia.
Negli anni cinquanta maturò la sua prima formazione nella Firenze dei grandi poeti del tempo ove conobbe Gianfranco Draghi che la indusse a pubblicare i suoi primi saggi su “ La Posta Letteraria del Corriere dell’Adda e del Ticino”.Dal ’56 si trasferì per sempre a Roma. Studiosa di spessore leopardiano, stabilì intensi sodalizi umani e spirituali e innumerevoli frequentazioni di grandissimo rilievo, basti menzionare: Luzi, Traverso, Turoldo, Bigongiari, Merini, Bemporad, Bazlen, Dalmati, Pound, Montale, Williams, Pieracci Harwell, Malaparte, Silone, Monicelli e Scheiwiller. Tra i filosofi ricordiamo Elémire Zolla, Andrea Emo, Lanzo del Vasto, Maria Zambrano, Danilo Dolci che sostenne nei momenti difficili, ed Ernst Bernhard che le fece conoscere il pensiero di Jung, di cui era stato allievo. Fu consulente editoriale, scrisse su importantissime riviste e studiò l’esicasmo, la mistica occidentale ed orientale, i grandi classici e i poeti di ogni tempo. La sua “metafisica della bellezza” la indusse a una controversa e profonda riflessione sulla liturgia, ritenendo la sacralità dei riti e la comprensione del valore della trascendenza efficaci difese dalla minaccia della despiritualizzazione del mondo incombente sulla modernità che secondo la Campo, in una certa misura, è disattenta alla bellezza ed esposta alla vanificazione delle intenzioni. L’architettura culturale e spirituale dell’universo campiano si desume anche dai tanti e ricchi epistolari. In particolare dalle “Lettere a Mita” (la scrittrice Margherita Pieracci Harwell), uno degli epistolari più affabulanti di tutta la letteratura italiana, è infatti possibile ricostruire la storia di un’anima che palpita per l’incanto e la tragedia della vita. Vita che per la Campo è teatro della sfida al destino condotta dalla poesia e dal sacro.

Saul Steinberg, Masquerade, 1959
Cristina Campo La tigre assenza
*
Ahi che la Tigre,
la tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola
pura
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
non divori la bocca
e la preghiera…
La neve era sospesa tra la notte e le strade
Come il destino tra la mano e il fiore.
In un suono soave
Di campane diletto sei venuto…
Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
O tenera tempesta
Notturna, volto umano!
(ora tutta la vita è nel mio sguardo,
stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).
da Passo d’addio
For last year’s words belong to last years language
and next year’s words await another voice.
Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.
Trema l’ultimo canto nelle altane
dove sole era l’ombra e ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.
E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.
*
Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.
Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate di sassi…
O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
“Nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta”.
*
Ora che capovolta è la clessidra,
che l’avvenire, questo caldo sole,
già mi sorge alle spalle, con gli uccelli
ritornerò senza dolore
a Bellosguardo: là posai la gola
su verdi ghigliottine di cancelli
e di un eterno rosa
vibravano le mani, denudate di fiori.
Oscillante tra il fuoco degli uliveti,
brillava Ottobre antico, nuovo amore.
Muta, affilavo il cuore
al taglio di impensabili aquiloni
(già prossimi, già nostri, già lontani):
aeree bare, tumuli nevosi
del mio domani giovane, del sole.
*
E’ rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu parola
che tramutavi il sangue in lacrime.
Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…
Torno sola…
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli
nella mia lieve tunica di fuoco.
*
La neve era sospesa tra la notte e le strade
come il destino tra la mano e il fiore.
In un suono soave
di campane diletto sei venuto…
Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
O tenera tempesta
notturna, volto umano!
(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,
stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).
*
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto,
lungo le notti piovose che io m’accendo
nel buio delle pupille,
tu, senza più fanciulla che disperda le voci…
Strade che l’innocenza vuole ignorare e brucia
di offrire, chiusa e nuda, senza palpebre o labbra!
Poiché dove tu passi è Samarcanda,
e sciolgono i silenzi, tappeti di respiri,
consumano i grani dell’ansia –
e attento: fra pietra e pietra corre un filo di sangue,
la dove giunge il tuo piede.
*
Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere,
inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;
ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte.
E la mia valle rosata dagli uliveti
e la città intricata dei miei amori
siano richiuse come breve palmo,
il mio palmo segnato da tutte le mie morti.
O Medio Oriente disteso dalla sua voce,
voglio destarmi sulla via di Damasco –
né mai lo sguardo aver levato a un cielo
altro dal suo, da tanta gioia in croce.
*
Devota come ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,
su acutissime làmine
in bianca maglia d’ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…
da Quadernetto
Un anno… Tratteneva la sua stella
il cielo del”Avvento. Sulla bocca
senza febbre o paura la mia mano
ti disegnava, oscura, una parola.
E la sfera dell’anima e dell’anno
vibrava in cima a uno zampillo d’oro
alto e sottile, il sangue.
Ne tremavano
sorridenti gli sguardi – all’accostarsi
buio di quel guardiano incorruttibile
che nei giardini chiude le fontane.
(Capodanno ’53-’54)
*
Il maestro d’arco
Tu, Assente che bisogna amare…
termine che ci sfuggi e che ci insegui
come ombra d’uccello sul sentiero:
io non ti voglio più cercare.
Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,
se la corda del cuore non sia tesa:
il maestro d’arco zen così m’insegna
che da tremila anni Ti vede.
(Giardino Bonaccossi
ottobre ’54, a B.B.)
*
da Poesie sparse
Oltre il tempo, oltre un angolo
Wath sorrow
beside your sadness
and what beauty
(W.C. Williams)
Troppe cose hanno accolto le tue palpebre
l’attenzione t’ha consumato le ciglia.
Troppe vie t’hanno ripetuta,
stretta, inseguita.
La città da secoli ti divora
ma per te travede, sogno e sfacelo,
di luci e piogge, lacrime senili
sulla ragazza che passa
febbrile, indomabile, oltre il tempo, oltre un angolo.
Ritorna! Gridano i vecchi di Santa Maria del Pianto,
la ronda della piscina di Siloè
con i cani, gl’ibridi, gli spettri
che non si sanno e tu sai
radicati con te
nel glutine blu dell’asfalto
e credono al tuo fiore che avvampa, bianco –
poiché tutti viviamo di stelle spente.

Saul Steinberg, Masquerade, 1959
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Come ricordato da Rossella Farnese, il nodo storico-stilistico, il problema strategico nel quale inquadrare il libro d’esordio di Cristina Campo La tigre Assenza uscito nel 1956 con la benemerita Scheiwiller è quello indicato da Alessandro Scarsella il quale propende per la collocazione della Campo nella linea del modernismo europeo:
«In quanto caso letterario Cristina Campo ripropone con urgenza la questione del modernismo in Italia […] Con la polemica sul verso libero […] l’evoluzione del modernismo italiano assume un rapporto di liquidazione con le forme chiuse di versificazione.»
Sarà da qui che dobbiamo inquadrare la poesia italiana che il quel medesimo anno (1956) vedrà la pubblicazione di Laborintus di Edoardo Sanguineti, opera che si pone agli antipodi del libro campiano. Accludo di seguito alle poesie campiane alcuni brani di Laborintus di Sanguineti da cui risulta lampante la distanza abissale tra la poesia della Campo e il mistilinguismo sanguinetiano. Del resto, tra le due posizioni di poetica non poteva esservi alcun collegamento o comunicazione, tanta e tale risulta la differenza da rendere i due linguaggi poetici assolutamente estranei ed incompatibili.
Noi conosciamo l’ordine degli eventi che sono accaduti in seguito, lo sperimentalismo di Sanguineti risulterà vincitore assoluto con la successiva neoavanguardia mentre la poesia di rastremato lirismo della Campo verrà ad occupare un posto del tutto secondario e laterale. Ma il problema vero è che in Italia verrà smarrita la linea del modernismo europeo (che occuperà poeti dissimili tra di loro ma uniti da un medesimo filo rouge: Cristina Campo, Ennio Flaiano, Alfredo de Palchi, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca e, negli anni novanta: Anna Ventura, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher). Si tratta di una linea vincente quella del connubio tra sperimentalismo e la deriva narrativizzante che offuscherà ed offusca ancora oggi la linea del modernismo della poesia italiana che resterà, per così dire, zoppa, che verrà interrotta, e semmai ripresa soltanto oggi su di uno zoccolo filosofico ben ponderato con la nostra proposta di una «nuova ontologia estetica».
Non è un caso che la linea modernista della poesia europea verrà ripresa e sviluppata soltanto oggi dagli autori della «nuova ontologia estetica», quando l’egemonia delle linee prevalenti: lo sperimentalismo, il neorealismo topologico della scuola lombarda e il minimalismo romano-lombardo verranno meno.
Leggiamo una poesia del 1964 di Alfredo de Palchi
Alfredo de Palchi
(incomunicazione)
frammenti secchi singhiozzi, turbinio
interno – mi ascolti
congelando alla parete una stampa
di olmi fiume e strada
– che ho perso –
mentre con sola immaginazione parlo
al compatto vuoto del soffitto
che dici, seccamente il tuo “perché”
frantuma il silenzio dell’ufficio
– la segretaria al telefono… –
oltre l’uscio lunedì all’una
risponde e a me sabato all’una
il dottore.. incredibile,
che ne so –
il “perché” è domanda stupida
– difficile –
impossibile estrarlo, rimane una cava
paleolitica,
impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo “perché”
non ho colpe,
altri, i complessi
del paleolitico superiore –
“che fa la segretaria”
si tratta d’isolamento
incompiutezza –
(stesura del 1964, poi pubblicata in Sessioni con l’analista, 1967)
Ed ecco come commenta questo testo Giorgio Linguaglossa in un paragrafo della sua monografia dedicata alla poesia di Alfredo de Palchi, Quando la biografia diventa mito, (Progetto Cultura, 2016, pp. 150 € 12):
“La poesia inizia con il termine «(incomunicazione)» messo tra parentesi e finisce con la parola «incompiutezza», senza parentesi. C’è un dialogo, ma del tutto slogato, dissestato, de-territorializato, che non obbedisce più alla legislazione della sintassi. Qual è l’oggetto?, non si sa, ci sono «frammenti», «singhiozzi», compare un «mi ascolti», ma non sappiamo chi sia l’interlocutore che dovrebbe porsi in posizione di ascolto. Si progredisce nei tre quattro versi seguenti a tentoni, fino ad incontrare: «parlo al compatto vuoto del soffitto». Si cerca un «perché», si va alla ricerca di un «perché» come un commissario va alla ricerca delle tracce del delitto; nella composizione sono inseriti spezzoni di dialoghi, dialoghi espliciti e dialoghi impliciti, proposizioni implicite di un monologo pensato. C’è una «segretaria al telefono», ma non si capisce bene se sia lei ad inserirsi nel dialogo o se stia tentando di «cauterizzarlo», come si cauterizza una escrescenza. Il dialogo (o meglio il monologo) non va alla ricerca del senso, piuttosto lo fugge con tutte le sue forze, vuole divincolarsi dal legame col «senso», vuole liberarsi dalla soggezione del «senso», così come parimenti vuole liberarsi dalla «soggezione della sintassi», dal potere estraneo e impositivo della logica, suprema inerenza della sintassi”.

Marie Laure Colasson, acrilico, 35×35 2020
da Laborintus (1956), di Edoardo Sanguineti
1
composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis
riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie eri il mio corpo
immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica spirituale
-noi che riceviamo la qualità dai tempi
tu e tu mio spazioso corpo ,
di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell’ idea del nuoto
sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso
lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica
composta terra delle distensioni dialogiche insistenze intemperanti
le condizioni esterne è evidente esistono realmente queste
[condizioni
esistevano prima di noi ed esisteranno dopo di noi qui è il
[dibattimento
liberazioni frequenza e forza e agitazione potenziata e altro
aliquotlineae desiderantur
dove dormi cuore ritagliato
e incollato e illustrato con documentazioni viscerali dove soprattutto
vedete igienicamente nell’acqua antifermentativa ma fissati adesso
quelli i nani extratemporali i nani insomma o Ellie
nell’ aria inquinata
in un costante cratere anatomico ellittico
perché ulteriormente diremo che non possono crescere
tu sempre la mia natura e rasserenata tu canzone metodologica
periferica introspezione dell’introversione forza centrifuga delimitata
Ellie tenue corpo di peccaminose escrescenze
che possiamo roteare
e rivolgere e odorare e adorare nel tempo
desiderantur (essi)
analizzatori e analizzatrici desiderantur (essi) personaggi anche
ed erotici e sofisticati
desiderantur desiderantur
14.
con le quattro tonsille in fermentazione con le trombe con i cadaveri
con le sinagoghe devo sostituirti con le stazioni termali con i logaritmi
con i circhi equestri
con dieci monosillabi che esprimano dolore
con dieci numeri brevi che esprimano perturbazioni
mettere la polvere
nei tuoi denti le pastiglie nei tuoi tappeti aprire le mie sorgenti
dentro il tuo antichissimo atlante
i tuoi fiori sospenderò finalmente
ai testicoli dei cimiteri ai divani del tuo ingegno
intestinale
devo con opportunità i tuoi almanacchi dal mio argento escludere
i tuoi tamburi dalle mie vesciche
il tuo arcipelago dai miei giornali
pitagorici
piangere la pietra e la pietra e la pietra
la pietra ininterrottamente con il ghetto delle immaginazioni
in supplicazioni sognate di pietra
ma pietra che non porta distrazione
esplorare i colori della tua lingua come morti vermi mistici
di lacrime di pietra
ma pietra irrimediabilmente morale
.
il tuo filamento patetico rifiuta le scodelle truccate
i corpi ulcerati così vicini al disfacimento
con la lima ispida
devo trattare i tuoi alberi del pane
devo mangiare il fuoco e la teosofia
trattare anche l’ospedale psichiatrico dei tuoi deserti rocciosi
oh più tollerante di qualche foresta
più nervale di qualsiasi nervo e pertanto scopertamente fibrosa
tratto la tua recisione e quando batte le immagini il tuo sputo spasmodico
oh esultanza per gli aghi sub specie mortis
e adesso
il nonparlare il nonpensare il nonpiangere
disperatamente parlano pensano piangono durante il ventre della torpedine
in ipso nudo amore carnali
in ipso animae et corporis matrimonio
per quale causa vomitano le tuniche intima anima e bastonano l’estate
e con la coda stimolano il sale e la pioggia?
23
s.d. ma 1951 (unruhig) καί κρίνουσιν e socchiudo gli occhi
οἱ πολλοί e mi domanda (L): fai il giuoco delle luci?
καί κατά τῆς μουσικῆς ἔρgα ah quale continuità! andante K. 467
qui è bella la regione (lago di Sompunt) e tu sei l’inverno Laszo veramente
et j’y mis du raisonnement e non basta et du pathétique e non basta
ancora καί τά τῶν ποιητῶν and CAPITAL LETTERS
et ce mélange de comique ah sono avvilito adesso et de pathétique
una tristezza ah in me contengo qui devoit plaire
sono dimesso et devoit même sono dimesso, non umile
surprendre! ma distratto da futilità ma immerso in qualche cosa
and CREATURES gli amori OF THE MIND di spiacevole realmente
très-intéressant mi è accaduto dans le pathétique un incidente
che dans le comique mi autorizza très-agréable
a soffrire!
e qui convien ricordarsi che Aristotile
sí c’è la tristezza mi dice c’è anche questo ma non questo
oltanto, io ho capito and REPRESENTATIONS non si vale mai
OF THE THINGS delle parole passioni o patetico per significar
le perturbazioni and SEMINAL PRINCIPLES dell’animo; et πάθη
tragicam scaenam fecit πάθημα e L ma leggi lambda: in quel momento
πaθητικόν
ho capito καί κρίνουσιν ἄμεινον egli intende
sempre di significar le fisiche and ALPHABETICAL NOTIONS affezioni
del corpo: come sono i colpi
i tormenti è come se io mi spogliassi le ferite le morti
di fronte a te
et de ea commentarium reliquit
(de λ) ecc. de morte ho capito
che non avevo (coloro che non sono trascurati!) mai
RADICAL IRRADIATIONS ecco: avuto niente
e ho trovato (in quel momento); che cosa può trovare
chi non ha mai avuto niente?
TUTTO; and ARCHETYPAL IDEAS!
this immensely varied subject-matter is expressed!
et j’avois satisfait le goût baroque de mes compatriotes!
26
ah il mio sonno; e ah? e involuzione? e ah e oh? devoluzione? (e uh?)
e volizione! e nel tuo aspetto e infinito e generantur!
ex putrefactione; complesse terre; ex superfluitate;
livida Palus
livida nascitur bene strutturata Palus; lividissima (lividissima terra)
(lividissima): cuius aqua est livida; (aqua) nascitur! (aqua) lividissima!
et omnia corpora oh strutture! corpora o strutture mortuorum
corpora mortua o strutture putrescunt; generantur! amori!
resolvuntur;
(λ) lividissima λ! lividissima! (palus)
particolarissima minima; minima pietra; definizione; sonno; universo;
Laszo? una definizione! (ah λ) complesse terre; nascitur!
ah inconfondibile precisabile! ah inconfondibile! minima!
oh iterazione! oh pietra! oh identica identica sempre;
dentica oh! alla tua essenza amore identica!
alla tua vita e generazione! e volizione! (corruzione) perché essenze
le origini; essenze;
e ah e oh? (terre?)
complesse composte terre (pietre); universali; Palus;
(pietre?) al tuo lividore; amore; al tuo dolore; uguale tu!
una definizione tu! liquore! definizione! di Laszo definizione!
generazione tu! liquore liquore tu! lividissima mater:
Mi scrive un interlocutore sulla mia email che secondo lui il mio “Punto di vista” è una mia «opinione, non un fatto», e che secondo lui bisogna stare ai “fatti” e che, infatti, «gli storici della poesia italiana del secondo novecento non hanno mai preso in considerazione la mia interpretazione.»
Al gentile interlocutore, rimprovero che ciò che lui considera un “fatto” (cioè che la storia della poesia italiana non ha mai considerato il mio punto di vista), non è un “fatto” ma è anch’esso una “interpretazione” e, come tale ha validità nell’ambito della pluralità delle “interpretazioni”.
Rilevo poi che gli unici “fatti” (come lui li chiama) da prendere in esame sono, a mio modesto avviso, esclusivamente i libri di poesia pubblicati. Tutto il resto sono nostre «interpretazioni», cioè considerazioni personali più o meno attendibili, più o meno opinabili e che il «valore» delle singole interpretazioni non lo fa la «maggioranza» delle interpretazioni ma lo farà semmai la storia, ovvero, il tempo.
Due poesie di Maria Rosaria Madonna
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/15/cristina-campo-poesie-da-la-tigre-assenza-1956margherita-pieracci-harwell-adelphi-1991-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa-e-alcuni-brani-da-laborintus-1956-di-edoardo-sanguinet/comment-page-1/#comment-39570
Posto qui di seguito due poesie di Maria Rosaria Madonna degli anni novanta (le poesie sono adesso rinvenibili nel volume edito da Progetto Cultura, Maria Rosaria Madonna, Stige. Tutte le Poesie (1990-2002) edito nel 2018, pp. 150 € 12. Chiunque potrà notare come il suo discorso poetico sia uno sviluppo della poetica di Cristina Campo de La tigre assenza, la famosa linea modernista della poesia italiana del secondo novecento che, secondo alcuni, non è mai esistita.
Maria Rosaria Madonna
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.
(cit. da Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo di M.R.Madonna, a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2016)
Commento analitico di Giorgio Linguaglossa
«È un nuovo inizio». Così inizia la poesia. Ma che significa? Inizio di che cosa? Di che cosa si parla? – Il secondo emistichio complica la questione perché non risponde al primo emistichio ma si limita a prolungarne l’eco di dubbio travestito in una forma assertiva: «Freddo feldspato di silenzio». Il tono assertivo contrasta singolarmente con il dubbio e l’ambiguità che promana da quelle due prime proposizioni assertorie.
Il secondo verso aggiunge ambiguità e dubbio. Il terzo e il quarto verso sciolgono ogni dubbio, qui siamo nel mondo onirico-surreale, illogico e irrazionale perché si dice che il «mare è un aquilone che un bambino tiene per una cordicella». Un non-sense.
Il quinto verso cambia spartito, c’è un «vento» (che è detto «antico») che «solfeggia» «per il bosco». Stiamo attenti alla dizione «solfeggia», una scelta verbale che serve ad introdurre un mondo di suoni determinato dal vento che attraversa il «bosco». Si parla forse qui del bosco inteso come mero paesaggio? O si tratta di un «altro» bosco? Io ritengo che qui si tratti di un «altro» bosco, e precisamente il «bosco» quale metafora e simbolo dell’Essere. È dell’Essere che qui si parla, non certo del bosco come paesaggio.
Il sesto verso. Qui il poeta si rivolge direttamente al lettore e gli dice: «lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma». Anche qui la scelta della immagine corriva induce il lettore in imbarazzo. dice il poeta: «lo puoi afferrare». Che cosa il lettore può «afferrare»? Il bosco del paesaggio? No di certo, qui ad essere in questione è l’Essere. Allora, l’Essere è come una «palla di gomma che rimbalza contro il muro»? «e torna indietro»?
Che cos’è che «torna indietro»? – Ma è chiaro: è l’Essere che qui «torna indietro», scrive con un raffinatissimo tocco meta ironico il poeta. È l’essere che «torna indietro». Enunciato ambiguo e sibillino, travestito sub specie di frasario assertorio.
Alle 18 in punto il tram sferraglia
Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.
Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.
ottimo articolo, poi con le imago di Saul Steinberg direi ancora più prezioso!
r.m.
questo è un pezzo del film di Francesco Maselli “Gli indifferenti” (1964) dal romanzo omonimo di Moravia. Mi chiedo quale film di oggi potrebbe rappresentare adeguatamente la crisi morale, politica, spirituale ed estetica dei giorni nostri…
Il confronto tra la scrittura di Cristina Campo e quella di Edoardo Sanguineti è denso di significati, espliciti ed impliciti. Nei fatidici anni ’50 convivevano le istanze più disparate. La tradizione accademica, l’esperienza ermetica nelle sue varie declinazioni, il contingentismo montaliano e poi, improvvisamente, germina lo sperimentalismo del giovanissimo Sanguineti. Un sacrilegio. Il plurilinguismo. Il caos mentale che stravolge la struttura della forma poesia. E via di seguito…
Il maquillage
Si sta ancora truccando. È dal ’56.
Ad ogni nuovo maquillage appare sempre diversa.
Il rimmel esalta l’allarme degli occhi.
Per questo vorrebbe trascinarsi fuori dalla ghigliottina del tempo.
Le parole si muovevano da una parte all’altra
con occhi allarmati, scodinzolando le pelurie.
Una birra locale o uno scotch d’importazione?
Evadere. Evadere da ogni prigionia..
Aria. Aria. Da ogni cancello.
Il destino è tra una sbarra e l’altra.
“È una festa?” “Ma no! È solo un drinck!”
“Devo vestirmi con eleganza?”
“Non è necessario!” “ Non sono formalisti?”
“Ma no! È solo un di bazar da dopoguerra!”
Mio dio, i suoi occhi erano diventati parole
e le parole occhi. Mille occhi su tutto il corpo.
“Conosco l’intera vicenda. E non è favola da bambini.”
“Dal suo discorso si evince che lei nasconda qualcosa.”
È comprensibile!
I pensieri fanno parte del mondo delle parole?
Centinaia di selfie: ma rimane sempre invisibile.
Una cornice patetica intorno alla palude.
In fondo ogni poesia assomiglia a chiunque
fuorché a chi la scrive.
caro Giuseppe Gallo,
…quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (opera scritta dal 1945 al 1950 e pubblicata negli Stati Uniti nel 1997) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1956) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile intellettuale antidemotico, uno stile in diminuendo che avrà una lunghissima vita ma fantasmatica, uno stile da larva, da «ectoplasma» costretto a nuotare nella volgarità della nuova civiltà dei consumi).
Ecco la grande crisi esistenziale di uno scrittore a Roma, La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, 2013
un ritratto di tantissimi finti scrittori e poeti dei giorni nostri…
Caro Giorgio Linguaglossa, Sono perfettamente d’accordo .Bisogna rimettersi in viaggio per “l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale” come tu dici, ma quel deserto non era solo ghiaccio. Penso che la Palus putredinis sia stata anche un’oasi, accidentale o programmatica, non saprei dire, ma sicuramente un luogo dove far respirare aria nuova ai cammelli e ai beduini. Dopo Laborintus la forma poesia non potrà essere più quella della tradizione. Il substrato ideologico, le analisi sulla natura del linguaggio, i rapporti con la contemporaneità, la psicanalisi, Lacan, ecc., complicheranno ancora di più ciò che era già complicato. Ma è in quel tempo e in quelle condizioni date,
“le condizioni esterne è evidente esistono realmente queste
[condizioni
esistevano prima di noi ed esisteranno dopo di noi”
che abbiamo potuto utilizzare ulteriori strumenti di indagine e di conoscenza. Voglio dire che di quel periodo “sperimentale” non possiamo farne a meno.
Ti vorrei ricordare la sottile, ma efficace, polemica dello stesso Zanzotto con il Sanguineti del ’63. Dietro quella polemica c’era anche ammirazione per il lavoro svolto dal nostro “novissimo”. Non voglio dilungarmi oltre. Ormai abbiamo superato quella fase. Non abbiamo trovato la pietra filosofale nemmeno attraverso il flogisto e il fuoco, però adesso
“il nonparlare il nonpensare il nonpiangere
disperatamente parlano pensano piangono durante il ventre della torpedine”,
o almeno tornano a respirare.
Sui rizomi sono spuntate innumerevoli “peccaminose escrescenze” e, forse, sulle nostre labbra anche “dieci monosillabi che esprimono dolore”.
La Grande Bellezza e il grande vuoto…in cui tutti ci muoviamo. Caro Giorgio, io non so se serva a qualcosa sparare a zero sui finti scrittori e poeti del nostro tempo. Chi sono poi? Quelli che contribuiscono a reiterare il vuoto, non avendo nulla di rilevante da dire? Forse c’è chi si sporca le mani davvero e non per finta. Speriamo più di qualcuno. Tanti sono gli spunti di riflessione proposti sul blog ( lectio magistralis di Galimberti ad es.). Dopo le sperimentazioni del Novecento e tutte le possibili contaminazioni, si giunge a un ipotetico grado zero nelle arti, a una ripartenza, contemporaneamente a un arretramento culturale che investe ogni ambito; l’artista si trova a creare tra le rovine ma non lo fa dal nulla… c’è sempre quella Grande Bellezza.
Bellezza è anche oscurità, contrasto, imperfezione…grido
cari Paola e Giuseppe,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/15/cristina-campo-poesie-da-la-tigre-assenza-1956margherita-pieracci-harwell-adelphi-1991-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa-e-alcuni-brani-da-laborintus-1956-di-edoardo-sanguinet/comment-page-1/#comment-39584
Abitiamo tutti una «frontiera», anche linguistica, poiché non abbiamo più una «patria».
«L’impostura più grande, la folle illusione, la follia estrema è che il nome e la cosa coincidano.» Scrive Pier Aldo Rovatti:1]
«L’illusione che si ripresenta ad ogni frase è che il nome e la cosa coincidano e che il soggetto parlante sparisca: sparisca non come enunciante della frase ma perché vi ha preso completamente dimora. L’unico modo di maneggiare questa illusione non è di farla sparire, ma al contrario di riconoscerla, di farla pesare sulla frase: attraverso il margine, la paradossalità che resta praticabile, in un gioco inevitabilmente in perdita e che deve sapere di esserlo».1]
Un poeta o uno scrittore del nostro tempo non può non assumere in pieno la condizione di perdita, di finitezza e di pragmatica finitudine dell’uomo contemporaneo che abita una zona di frontiera, l’unica soglia abitabile, anzi l’unica dimora possibile che è data all’uomo di oggi. Le condizioni di inabitabilità del luogo e della lingua coincidono, ed è questo, propriamente, il «luogo della poesia moderna». Non sono più condivisibili le priorità linguistiche che puntavano tutto sul significante (la lezione di Sanguineti è stata utilissima, non lo nego affatto caro Giuseppe, ma dopo Laborintus, Sanguineti come poeta è letteralmente finito, il suo miglior lavoro rimane quello d’esordio), dicevo che oggi non è più prioritario l’esigenza dello stile né il tema del linguaggio, oggi il poeta è rimasto orfano di entrambi: dello stile e del linguaggio condiviso o non condiviso con una tradizione, e questa duplice condizione estraneità e di orfanità è propria della poesia più esigente e avveduta dei giorni nostri. La tradizione, come un grande veliero che ha preso il largo, se ne è andata a farsi benedire, una intera cultura si è inabissata nel chiacchiericcio e nel banalismo… a me dispiace dover essere così caustico, ma ho il vantaggio di vivere a Roma, la città più disossata e più torpidinosa d’Italia, qui davvero si tocca con mano il degrado, una mediocrità inaffondabile, la signora Raggi con i suoi accoliti, e prima ancora Marino che se ne andava, beato lui alle Maldive a fare i bagni mentre i Casamonica facevano un funerale in aperto rito mafioso con tanto di musica del Padrino, e prima ancora il fascista Alemanno (parente forse degli Alemanni che nel 180 d.c. attentarono all’Impero romano?, e prima ancora Rutelli e Veltroni, mediocri entrambi amministratori di una decadenza abissale!). Ecco, io ho questo vantaggio, di essere testimone di una decadenza che soltanto chi vive a Roma e ha un po’ di corti circuiti mentali se ne può accorgere…
In una Danimarca travolta dalla peste e sprofondata nella disperazione torna dalle crociate il nobile cavaliere Antonius Block. Al suo arrivo sulla spiaggia trova ad attenderlo la Morte, che ha scelto proprio quel momento per portarlo con sé. Il cavaliere decide di sfidarla a scacchi: inizia una partita che sarà giocata nel corso di vari incontri, mentre Antonius e lo scudiero Jöns attraversano la Danimarca e incontrano molte persone, pronte a espiare con dure punizioni i propri peccati o a godere senza freni degli ultimi istanti. Il cavaliere s’imbatte anche in una famiglia di saltimbanchi, che sembrano non accorgersi della tragedia che li circonda, uniti dall’amore e dal rispetto reciproco… [sinossi]
Quando l’agnello aprì il settimo sigillo,
nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora
e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio
e furono loro date sette trombe.
[Apocalisse, 8, I]
Mi chiedo spesso, quando leggo una poesia o un romanzo italiani, a quale film della odierna filmografia italiana possa ragguagliarli e non trovo, ahimè, nulla, nulla cui possa ragguagliare quelle storie che ho letto. E allora, penso che qualche domanda dovremmo porcela, dovremmo chiederci perché l’odierna filmografia italiana è ricchissima di barzellette e di storie stereotipate raccontate con un linguaggio filmico stereotipato. Quando invece leggo una poesia di Kjell Espmark vedo in filigrana il grande cinema di Bergman. Non a caso. Forse, mi chiedo, la poesia italiana degli ultimi decenni non presenta nulla di importante? Di importante da poter interessare un regista? – Ricordo una frase di Milosz il quale commentando le poesie di Eliot dice che non si potrebbero comprendere i Film di Antonioni se non tenessimo conto di certe atmosfere de La terra desolata (1922) di Eliot. L’affermazione di Milosz mi colpì molto e cominciai a chiedermi se la poesia italiana che stiamo facendo, la nuova ontologia estetica, un giorno possa ispirare la regia di un regista del futuro. Io penso di sì, la nuova ontologia estetica richiede fortemente una nuova fenomenologia filmica per essere compresa. Ecco dunque che siamo arrivati al punto: una nuova estetica poetica richiede sempre l’accompagnamento delle arti sorelle: la filmografia, l’arte figurativa, la scultura, la musica di ricerca, la danza… Se leggiamo queste poesie di Kjell Espmark, autore svedese ormai novantaduenne non possiamo non pensare a certe atmosfere dei film di Bergman.
Mi ha colpito molto il titolo di uno dei libri di poesia di Espmark: «Lo spazio interiore». Ecco, qui siamo all’interno di una concettualità che vorrei fosse la nostra casa comune, nostra dico della nuova ontologia estetica: creare spazi, creare tempi, moltiplicare gli spazi e i tempi, demoltiplicare le immagini, defondamentalizzare la costruzione sintattica, defondamentalizzare la colonna sonora della forma-poesia: eliminare il più possibile i verbi (che il più delle volte sono dei sostituti del nome), eliminare le soggettività (vuote e inutili) dell’io, raccontare sì ma senza l’ausilio scontato della ipostasi dell’io come collante e centro di tutte le cose. Dobbiamo porre in primo piano quando scriviamo una poesia, lo «spazio interno» e il «tempo interno», tutto il resto è secondario…
1] P.A. Rovatti, Abitare la distanza, 2001 p. 32
La «patria metafisica delle parole» la trovi nelle discariche abusive
cari amici,
Quando si sale su un podio, qualsiasi podio, la Musa fugge a gambe levate. Questo principio lo vorrei scolpito nel marmo.
Chiedo aiuto a Gino Rago per avere un suo pensiero circa la sua «poetica degli stracci»… ormai per fare poesia ci dobbiamo rivolgere al rigattiere, al robivecchi e, possibilmente, alle discariche abusive che spuntano come funghi dal territorio disastrato di questo paese. Penso che dobbiamo falcidiare tutti i cippi, funerari o meno, tutti i podi, tutte le stele e le colonne di marmo, la poesia la dobbiamo fare con gli stracci sporchi, togliere tutte le superfetazioni, tutte le lucidature, tutti i detersivi… «ciò che rimane lo fondano i poeti» diceva Hölderlin, appunto, prendiamolo in parola: ciò che rimane dalle discariche delle parole è poesia…
La poesia la trovi nelle discariche delle parole, nelle parole abbandonate perché non più utili, che non servono più a niente… tutto il resto, quello che si legge oggidì, sono superfetazioni letterarie… la Musa la trovi tra il rancido delle discariche piuttosto che nei salotti del dolore manifesto…
La «patria metafisica delle parole» la trovi nelle discariche abusive, nella terra dei fuochi, negli incendi di parole appiccati dai piromani e dagli imbroglioni di parole, dagli imbonitori di parole…
Ad esempio, ecco una poesia fatta con gli «stracci»:
Gino Rago
Prima Lettera a Ewa Lipska
[Il liquido reagente]
Cara Signora Ewa Lipska,
( p.c. caro Signor Giorgio Linguaglossa )
[non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso.
La signora Schubert è morta all’improvviso. Povera e sola.
Non più di cinque persone al suo funerale,
senza pianti né fiori.]
[…]
[La mia amica di Vienna mi ha consolato.
Non più di cinque persone al funerale della Signora Schubert,
ma la Bahnhofstrasse si fermò al passaggio del carro senza fiori.
Nessuno ha bevuto vin brûlé o cioccolata calda.
La Signora Ewa Lipska gode di ottima salute.
Scrive poesie come impronte digitali e sintetiche
come fuochi d’artificio.
Con poche amiche passeggia intorno al lago artificiale.
Parla della vita, del caso, del destino]
Lei da poeta sa che i nostri versi sono cani randagi,
ululano alla poesia come i lupi alla luna.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
Lei dice che possediamo il Liquido Reagente.
Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma dell’Occidente?
E il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno della Felicità
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle scarpe
che si toccano sotto il tavolo.
Lei sa meglio d’altri
che il motore della sofferenza dei poeti gracchia sempre
nello stesso istante del mondo
[questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande]
Caro Gino Rago,
la tua è una «poesia-polittico», hai inventato di sana pianta un nuovo genere della poesia del Dopo il Moderno. La tua «poesia-polittico» è simile ad un affresco rinascimentale dove ci sono molte e disparate cose qua e là: nelle bandelle ci sono i committenti (i poeti interlocutori), delle dame che accompagnano il trionfo di Venere e Adone, in un’altra bandella c’è una tomba nella neve con su scritto un nome: Herr Cogito, c’è del «Liquido reagente» che non si sa a cosa debba reagire; c’è un personaggio inventato da Ewa Lipska: la Signora Schubert, c’è una misteriosa «amica di Vienna», ci sono delle missive non giunte a destinazione, c’è uno scambio di vedute tra interlocutori distanti migliaia di chilometri in un mondo ad una unica dimensione (sovranista, mediatico e populista), etc. In questo mondo globale ad unica dimensione, tu riadotti il genere della missiva per fare un monologo globale a 360 gradi, la tua poesia riprende a fare dei grandi affreschi con del ready-made, con stralci-stracci di lettere immaginarie, mai inviate e di poesie nostre e altrui, con gli stracci del nostro mondo…
«portiamo in giro il nostro passato/ in una busta di plastica del supermercato»
In un certo senso sei andato molto oltre la grande elegia del passato recente che ha in Brodskij il suo grande poeta irripetibile, ma con lui e dopo di lui l’elegia è diventata impercorribile perché una elegia per fiorire ha bisogno di una «casa», di una Heimat, di un «esilio», di una nostalgia… noi oggi non abbiamo più una «casa» dove sostare e non possiamo avere neanche la nobiltà di un «esilio», e allora non rimane che la «poesia cartografia», la «poesia-polittico», la poesia che sfonda e sfocia nel futuro e nel passato ma senza alcun rammarico, come su una slitta, senza nostalgia, senza elegia, e, direi, anche senza un presente… Nella tua poesia c’è tutto: il passato, il futuro, ma, incredibile, non c’è il presente, sintomo evidente di una anomalia del nostro mondo… E se non c’è un presente non ci può essere neanche una casa del presente… non possiamo neanche uscire da una casa perché non abbiamo più una casa, una Heimat, non possiamo neanche intraprendere un viaggio, perché dove potremmo andare se siamo rimasti senza una casa alla quale ritornare? Appunto: in nessun luogo. E qui sembrerebbe che la vicenda metafisica dell’homo sapiens e della metafisica occidentale sia arrivata a compimento…
Le parole dei poeti diventano sempre più «deboli», la significazione poetica diventa «debole», le parole si sono raffreddate e indebolite… ci sono in giro delle notizie, delle percezioni circa questo ondeggiante indebolimento delle parole; anche i colori dell’odierno design (vedi il design di Lucio Mayoor Tosi) sembrano attecchiti dal medesimo indebolimento, diventano meno intensi, meno traumatici, si sbiadiscono, assumono lateralità, sembrano quasi perdere sostanza, sembrano attinti da una forza nientificante e nullificante. Non ci sono più oggi, e sarebbe impensabile, i colori formattati alla maniera della avanguardia pop degli anni Sessanta; sono lontanissimi i tempi dei colori squillanti e piatti di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, oggi i colori dell’odierno design sono freddi e slontananti, deboli e gracili. Oggi ci muoviamo in un universo simbolico fitto di indebolimento e di cancellazione della memoria, sembra quasi impossibile riprendere il bandolo di una parola pesante, sembra uno sforzo titanico, una inutile fatica di Sisifo. Eppure, è soltanto in questa dimensione amniotica che la poesia di oggi può muoversi, non c’è altra strada che inoltrarsi in questo universo di parole slontananti, in via di indebolimento.
Oggi sarebbe impossibile scrivere una poesia come Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini o come La Beltà (1968) di Zanzotto perché entrambe quelle opere presupponevano una «casa», una Heimat… oggi noi non abbiamo altro linguaggio che questo della tua lingua di ruggine di ferro, quello di Mario Gabriele fatto di frantumi di specchi di altri linguaggi, oggi abbiamo un linguaggio fatto di frantumi di specchi… ed è con questo linguaggio che dobbiamo fare i conti, chi non l’ha capito continua a fare la poesia del post-minimalismo, della retorizzazione del corpo, del privatismo… l’aveva capito bene Helle Busacca quando dà alle stampe I quanti del suicidio (1972) con quel suo linguaggio da spazzatura, vile e sordido, volutamente a-poetico o Maria Rosaria Madonna quando scrive in quel suo linguaggio di frantumi di specchi che è il neolatino di Stige (1992) libro ripubblicato con le poesie inedite: Stige. Tutte le poesie (1990-2002) da Progetto Cultura (2018) che raccomando a tutti di leggere, uno dei capolavori della poesia del novecento italiano.
Adesso, finalmente, la poesia italiana ha ripreso a pensare in grande, a tracciare il cardo e il decumano di una «poesia polittico» che abbraccia il pensato e l’impensato, il dicibile e l’indicibile, il possibile e l’impossibile.
Per altezza di impegno edittale la tua poesia mi fa pensare a libri come Lettere alla Signora Schubert di Ewa Lipska e al ciclo di poesie de Il Signor Cogito di Zbigniew Herbert, tu ritorni al punto della vexata quaestio: il problema del nome e della cosa e se la poesia debba nominare la cosa o no, se il discorso nominante ha ancora senso o no, se il discorso nominante sia parola del destino o no: «E questo nome ora è il mio destino». La lingua diventa istanza di verità solo con la coscienza della non identità dell’espressione con il denotato, solo se la lingua accetta l’assunto secondo il quale nell’espressione nome e cosa si diversificano, tendono ad allontanarsi.
(Giorgio Linguaglossa)
Lettera mai spedita a Giorgio Linguaglossa e a Rossella Farnese
Caro Giorgio Linguaglossa, cara Rossella Farnese,
sono Fiorenza M., ho ereditato le carte
della mistica della perfezione, della donna filocalica,
come in certi ambienti si diceva di Cristina Campo.
Le carte di Cristina-Vittoria sono tanti rubini.
Eccone uno per voi due,
la lettera datata 25 giugno 1956.
“ Cara Mita,
mi scusi se ho tardato a risponderle.
Ho voluto vedere quasi ogni giorno la Signora Alvaro.
[…] Di Alvaro mi è sempre più difficile dire.
Tento appena di decifrare questa storia,
che mi ha travolta in 2 mesi fino al limite di una vita.
Ero là l’ultima notte, per molte ore sola con lui.
La signora, quella notte, non era in grado di assisterlo.
Ebbe il grande eroismo ( per una donna della sua tempra)
di rimanere quasi sempre distesa, nella sua stanza, pregando.
Fu una notte molto lunga.
Ho ancora negli orecchi il brusio della pioggia e il tuono del suo respiro,
fino alle 4,50. Non so dirle se se n’è andato sereno.
Dalle 8,30 non era più cosciente
( non almeno alla nostra presenza).
Se n’è andato ad occhi chiusi,
dopo una lotta che appariva una suprema concentrazione.
Certo l’agonia non è che il simbolo di ben altro e non sapremo,
finché viviamo, in quali zone si svolga.
Aveva, quando è spirato, la febbre a 41,7.
Lo tenevo tra le mie braccia, già esanime,
mentre la donna che ci aiutava gli infilava il pigiama azzurro,
e ancora bruciava,
bruciava tutto – come i bambini che dormono con la febbre…
All’alba era tutto in ordine.
La signora ha potuto vederlo nella sua bellezza,
giovane come ai tempi del loro matrimonio.
Lo ricopriva una coperta bianca,
il sole giocava fra le rose sul comodino.
I ragazzini già si rincorrevano, sui gradini della Trinità dei Monti.
Qualcuno ha preso la maschera del suo viso.
Ma lei lo troverà in un suo racconto, come l’ho visto io,
Come un luogo sacro ed amato,
qualcosa di terribile e di maestoso,
che ci ha fatto soffrire …
La signora lo baciava sulle labbra, gli diceva con un sorriso.
Arrivederci caro.
Alvaro è morto stamattina, alle 4,45.
Aveva 41,7 di temperatura,
eravamo soli, lui, l’infermiera e io.
Pioveva forte…”
Caro Giorgio Linguaglossa, cara Rossella Farnese,
stiamo apprendendo insieme
l’arte di guardare l’erba dalla parte delle radici.
gr
Ogni volta che leggo le poesie di Cristina Campo è come se leggessi le poesie di Emily Dickinson e qualche volta persino di John Donne.
Diversa la Campo de “Gli Imperdonabili”: La passione della perfezione viene tardi. O, per meglio dire, si manifesta tardi come passione cosciente.