
Lorenzo Pompeo, foto, sedie di Cracovia
Ewa Lipska, poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia il 10 ottobre 1945. Nella stessa città si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti. Dal 1970 al 1980 responsabile del settore poesia della casa editrice Wydawnictwo Literackie. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto diversi importanti premi per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte in molte lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: Ja (Io, 2004), Pogłos (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e Droga pani Schubert… (Cara signora Schubert…, 2012).
Per il suo anno di nascita e per quello del debutto, avvenuto nel 1967 con il volume Wiersze (Poesie), Ewa Lipska appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937). La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante. La sua poesia si concentra sui sentimenti della sofferenza e della paura, sulla fragilità dell’esistenza condannata a morire. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive:
«La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska). Si avrebbe voglia di dire la Lipska è una poetessa sociale nel senso che non c’è per lei niente di intimo che non sia al tempo stesso quotidiano, formulabile sociologicamente».
(Paolo Statuti)

Parigi, cappelli, foto di Lorenzo Pompeo
Nota di Lorenzo Pompeo
Queste cinque traduzioni sono tratte dall’ultima raccolta di Ewa Lipska Pamięć operacyjna (trad. it.: “memoria operativa” Wydawnictwo literackie, Cracovia 2017). Il mio primo incontro con questa poetessa di Cracovia risale al lontano 1994, quando pubblicai sulla rivista «Poiesis» alcune mie traduzioni. Successivamente sono uscite in Italia le sue poesie in volume, nel 2013 (L’occhio incrinato del tempo, per i tipi della Armando Editore) e nel 2017 (Il lettore di impronte digitali, Donzelli). Quella della Lipska è una voce che fortunatamente comincia a farsi sentire anche in Italia. Il suo ultimo lavoro, nel quale mi sono casualmente imbattuto in libreria a Cracovia, è l’ultima tappa di un lungo cammino cominciato nel 1967 con il suo primo tomo di poesia, Wiersze. Dal momento che si tratta di una figura che già dovrebbe essere nota al lettore italiano, il quale per pigrizia magari l’ha già associata alla sua più nota collega e amica Wysława Szymbroska, non ritengo necessario e/o utile ripercorrere tutte le tappe del suo percorso dal debutto fino a quest’ultimo tomo, che cade proprio a cinquanta anni dal debutto. Mi limito quindi ad alcune note al margine: il suo stile rimane immutato negli anni, assolutamente riconoscibile. La sua è una voce chiara e cristallina. Quello della Lipska è un linguaggio semplice, che punta dritto allo scopo. Non una sola parola superflua o ridondante (non offre particolare difficoltà al traduttore, che però deve prestare molta attenzione all’economia della lingua). La sottile ironia è da sempre la sua arma preferita. Con il passare degli anni forse colpisce ancora di più il nesso della sua recente poesia con il rumoroso mondo contemporaneo, per intenderci: quello dei social media e delle Fake News. Ewa Lipska non ha mai smesso di guardare il mondo che la circonda con quel certo scetticismo di chi proviene da un paese nel quale se ne sono viste di tutti i colori. Ed è per questo che la sua poesia appare, oggi come ieri, impermeabile alle retoriche di qualsiasi segno. La sua poesia è universale, ma allo stesso tempo, nel bene e nel male, profondamente radicata nella Polonia. Il tema centrale, intorno al quale ruotano i suoi versi, è il tempo, nella sua doppia valenza storica e metafisica. Questo si avverte chiaramente anche nei versi di queste ultima raccolta. Quando in Oggetto volante la poetessa parla di “passato ristrutturato” sembra riferirsi alla “rilettura del passato” che nel dibattito politico di questi ultimi anni in Polonia sembra assumere uno schiacciante peso specifico. (anche in Gita si ritorna al passato, ma, come ironicamente nota l’autrice, è solo una esercitazione tratta da una commedia). Con la breve poesia La storia la riflessione della poetessa su questo tema trova un punto fermo di eccezionale chiarezza.

Ewa Lipska
Ewa Lipska Cinque poesie inedite da: Pamięć operacyjna (2017)
Trafficavamo con Shakespeare
fin dalla più tenera età.
Il divieto della lirica
non ha avuto alcun effetto.
Il capo di tutti i capi
il padrino
del mio debutto
mi diede le prime istruzioni:
Non c’è arte
senza violenza
senza violentare le parole
e senza il terrore dello stile.
Abbiamo mangiato i cornetti siciliani
dalla cipria della nebbia mattutina.
fino a oggi
mi addormento tra i versi
con la pistola carica.
Colpo fortunato
quando sorge il successo del sole.
*
Oggetto volante
Tempo spietato.
Memoria in esilio.
Come fosse colpevole.
Ci sediamo nella camera fredda,
Un tramonto insensibile.
Una vecchia zitella
riempie i bicchierini di ricordi.
Come fosse un passato ristrutturato
ma ognuna di noi
rimane sulle sue.
Ricordi?
Ci siamo stesi sui romanzi
come su lenzuola d’amore:
Assalomme, assalomme…
Corpi
colti in flagrante
prima dell’esilio
verso il viale dei benemeriti.
Ma io sono ancora
il tuo oggetto volante
e non fare finta
di infischiartene.
.
Gita
Abbiamo fatto una gita.
Respira ancora e vivi!
Carne di capra, fette di melanzana. Feta.
Soluzione di mare del sud.
Tutti i frutti d’Europa.
Afa in azione.
Dalla parte del prato il libro dei canti.
D’un tratto il paesaggio è partito.
È comparsa una valle scura.
Indossava un’uniforme.
Le voci puntate dal silenziatore
verso di noi
ci parlano,
ma non riusciamo a udirli.
Faccia a terra
abbiamo respirato le nostre
radici.
Risultò
che era una esercitazione da una commedia.
Un esercizio nel campo
della rissa politica.
E anche se a volte lo scherzo
si tramuta in terrore
siamo tornati a casa tutti interi.
Respira ancora e vivi!
.
Reportage dal sogno
Non è più l’angelo ma solo il custode.
Controlla i nostri documenti.
Per la città passa proprio
Dio in uniforme
con la sacra radiotrasmittente.
Sbirro! – lo chiamano i bambini
mentre salutano con le bandierine.
È sempre la stessa cosa –
nota un giornalista
al posto di guardia della chiesa.
C’è la paura. Ci sono gli eroi.
C’è il nemico. Ci sono i canti.
Si ode il grido dell’incenso
.
La storia
Fermo. Non scappare davanti a lei.
Non la provocare.
Non fare
movimenti bruschi.
Non voltarti dall’altra parte di colpo.
Lei non ti farà del male
fino a che
non le toglierai
la scodella con il suo cibo.

foto di Lorenzo Pompeo
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Nelle poesie di Ewa Lipska risulta evidente ciò che evidente non è, che l’esistenza degli umani in Occidente è ridotta a «nuda vita», la «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente svolgono una funzione centrale. La questità delle cose così come sono non corrisponde alla questità delle cose così come ci appaiono, e questo fenomeno risulta manifesto nella migliore poesia europea. Le cose nel mondo capitalistico ad economia globale ci appaiono immodificabili, eterne, ci appaiono stabili, ma in verità è soltanto una apparenza… le cose in realtà sono in divenire, non sono affatto stabili, in esse ci possiamo rispecchiare come in uno specchio deformante, le figure che appaiono nello specchio siamo noi…
La traduzione di «Selbstständigkeit delle cose» è: Stabilità per se stesse delle cose. Fin quando le «cose» ci appaiono ferme e stabili, la nostra esistenza ci può apparire anch’essa ferma e stabile, siamo rassicurati nel nostro esserci, siamo consolati e avviluppati in questa stabilità e nei suoi codici. L’esistenza dell’esserci non potrebbe verificarsi se non fossimo certi della Selbstständigkeit delle cose, quelle cose che possiamo toccare ogni minuto, ogni giorno e rassicurarci che esse siano lì per noi, per sempre… e tra le cose ci sono le credenze, le ideologie, gli ideologemi, le opinioni, le religioni… tutto ciò che ci appare stabile in realtà non è stabile affatto, la stabilità che noi vediamo è un atto di auto illusione, un fantasma che ci rassicura. L’esserci vuole sempre essere rassicurato e curato dalle proprie credenze, l’esserci non può sopravvivere senza credenze, ogni comunità umana non potrebbe sopravvivere se privata delle sue credenze…
Ma, all’improvviso, si apre il vuoto. Vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… e tutto sprofonda nel vacuum del vuoto. L’esserci ha terrore del vuoto, e cerca di riempirlo in tutti i modi e con tutti i mezzi: con le credenze (Trump, Orban, Putin, Salvini, papa Francesco, Cristianesimo, Islam, Lega, 5Stelle, PD, Unione europea, Cina, Russia, Mondo etc…)
Oggi, nelle società post-democratiche dell’occidente l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vita vegetativa biologica, e il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori, è la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma e a «chiacchiera». Per esempio ciò che si legge nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera della pancia», «chiacchiera» di esistenze ridotte a «nuda vita».
Dice Giorgio Agamben in una recente intervista in proposito:
«Una ricerca filosofica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia. I due concetti che lei ha menzionato, avevano il loro posto e il loro senso in una ricerca archeologica sulla struttura del potere e non possono essere separati da questa. Certo, al loro apparire a metà degli anni novanta, questi due concetti suscitarono polemiche e scandalo, e faticai non poco per far capire in che senso la produzione della nuda vita definiva l’operazione fondamentale del potere e perché il campo e non la città fosse il paradigma politico della modernità. Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche, in cui lo stato d’eccezione è diventato la regola, quei concetti sono diventati quasi banali. Comunque si preferisce spesso usarli in modo generico, al di fuori del contesto in cui erano stati creati e dal quale sono inseparabili; alcuni hanno perfino semplicemente rovesciato la nuda vita e la biopolitica in categorie positive, operazione quanto meno incauta.»
Lorenzo Pompeo è nato a Roma nel 1968, città nella quale ha trascorso la maggior parte della sua vita e dalla quale da sempre prova inutilmente a fuggire. Dottore di ricerca in Slavistica, traduttore letterario e non (in qualità di traduttore e interprete ha collaborato col Tribunale di Roma), ha tradotto per diverse case editrici alcuni romanzi dal polacco e dall’ucraino, autore di due vocabolari e, ovviamente in cooperativa; ha tre figlie è inoltre organizzatore di diverse rassegne cinematografiche a Roma e a Varsavia. È autore di Auto-pseudo-bio-grafo-mania (Ibiskos Editrice Risolo, 2009), raccolta di racconti e scritti nel laquale mette in atto i principi di una scrittura dadaista, ma a partire dai dati concreti del contesto in cui da sempre vive, ovvero Roma, capitale dell’assurdo quotidiano, nella quale tutto, comprese le acque del Tevere, scorre lento, opaco e sonnolento da un passato remoto e glorioso verso un futuro che non promette niente di buono, passando attraverso secoli di lenta ma costante e coerente decadenza. A seguire, il romanzo breve In arte Johnny. Vita, morte e miracoli di Giovan Battista Cianfrusaglia (CIESSE, 2010), nel quale il protagonista, celebre personaggio romano, presumibilmente scomparso tra la fine degli anni ’90 e i primi del decennio successivo, per una fortuita coincidenza si imbatte in una oscura faccenda: il presunto ritrovamento dell’ultimo improbabile frammento dello Scudo Crociato.
Nel 2011 ha ideato e curato, in collaborazione col sito http://www.braviautori.com, il bando di concorso “non spingete quel bottone” per una antologia di racconti dedicati all’ascensore. L’antologia, che raccoglie i migliori 31 racconti pervenuti, è uscita nel 2012, con l’introduzione dell’antropologo Vincenzo Bitti e la copertina disegnata dall’illustratrice Roberta Guardascione e alcune illustrazioni di Furio Bomben, mentre il bando “biblioteca-labirinto numero 25” per racconti sul libro e sulle biblioteche, da lui ideato e curato, è ancora in corso. Ha proposto sul sito “braviautori” alcuni suoi racconti, che hanno totalizzato fino a oggi 6414 visite. Un suo racconto è stato selezionato nell’antologia 256K – 256 racconti da 1024 Karatteri e nell’antologia La paura fa 90. 90 racconti da 666 parole, entrambe curate dal sito Braviautori mentre il suo racconto La bambola è stato selezionato sul sito Storiebrevi. Nel 2017 ha ideato e realizzato il blog di poesia www.ilvascellofantasma.it
Da qualche anno coltiva e affianca all’attivita di autore e traduttore quella di fotografo, testimoniata dal sito www.lorenzopompeo.it.
Nelle poesie di Ewa Lipska risulta evidente ciò che evidente non è, che l’esistenza degli umani in Occidente è ridotta a «nuda vita», la «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente svolgono una funzione centrale. La questità delle cose così come sono non corrisponde alla questità delle cose così come ci appaiono, e questo fenomeno risulta manifesto nella migliore poesia europea. Le cose nel mondo capitalistico ad economia globale ci appaiono immodificabili, eterne, ci appaiono stabili, ma in verità è soltanto una apparenza… le cose in realtà sono in divenire, non sono affatto stabili, in esse ci possiamo rispecchiare come in uno specchio deformante, le figure che appaiono nello specchio siamo noi…
La traduzione di «Selbstständigkeit delle cose» è: Stabilità per se stesse delle cose. Fin quando le «cose» ci appaiono ferme e stabili, la nostra esistenza ci può apparire anch’essa ferma e stabile, siamo rassicurati nel nostro esserci, siamo consolati e avviluppati in questa stabilità e nei suoi codici. L’esistenza dell’esserci non potrebbe verificarsi se non fossimo certi della Selbstständigkeit delle cose, quelle cose che possiamo toccare ogni minuto, ogni giorno e rassicurarci che esse siano lì per noi, per sempre… e tra le cose ci sono le credenze, le ideologie, gli ideologemi, le opinioni, le religioni… tutto ciò che ci appare stabile in realtà non è stabile affatto, la stabilità che noi vediamo è un atto di auto illusione, un fantasma che ci rassicura. L’esserci vuole sempre essere rassicurato e curato dalle proprie credenze, l’esserci non può sopravvivere senza credenze, ogni comunità umana non potrebbe sopravvivere se privata delle sue credenze…
Ma, all’improvviso, si apre il vuoto. Vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… e tutto sprofonda nel vacuum del vuoto. L’esserci ha terrore del vuoto, e cerca di riempirlo in tutti i modi e con tutti i mezzi: con le credenze (Trump, Orban, Putin, Salvini, papa Francesco, Cristianesimo, Islam, Lega, 5Stelle, PD, Unione europea, Cina, Russia, Mondo etc…)
Oggi, nelle società post-democratiche dell’occidente l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vita vegetativa biologica, e il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori, è la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma e a «chiacchiera». Per esempio ciò che si legge nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera della pancia», «chiacchiera» di esistenze ridotte a «nuda vita».
Dice Giorgio Agamben in una recente intervista in proposito:
«Una ricerca filosofica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia. I due concetti che lei ha menzionato, avevano il loro posto e il loro senso in una ricerca archeologica sulla struttura del potere e non possono essere separati da questa. Certo, al loro apparire a metà degli anni novanta, questi due concetti suscitarono polemiche e scandalo, e faticai non poco per far capire in che senso la produzione della nuda vita definiva l’operazione fondamentale del potere e perché il campo e non la città fosse il paradigma politico della modernità. Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche, in cui lo stato d’eccezione è diventato la regola, quei concetti sono diventati quasi banali. Comunque si preferisce spesso usarli in modo generico, al di fuori del contesto in cui erano stati creati e dal quale sono inseparabili; alcuni hanno perfino semplicemente rovesciato la nuda vita e la biopolitica in categorie positive, operazione quanto meno incauta.»
(Adesso poi leggo…)
Vabbè
ma quando ospiterà la Ewa Lipska
le poesie di Gino Rago, della Donatella Costantina Giancaspero,
della Letizia Leone, della Francesca Dono, di
Linguaglossa, Giorgio,
di Mario M.Gabriele, di Lucio Mayoor Tosi,
di Alfredo de Palchi, di
Steven Grieco-Rathgeb, di Chiara Catapano
di Alfonso Cataldi, della sig.da Anna Ventura, di Giuseppe Talia,
di Antonio Sagredo, a Carlo Livia, e chiedo scusa a chi ho dimenticato,
quando gli ospiterà a sua volta
se dell’Europa ne fanno parte
e lo spiraglio è breve?
Questa è l’ennesima lettera!
Grazie OMBRA.
Straordinaria poetessa!!!
Una vanga ha fatto due buchi sull’acqua. Con l’odore incessante dei minuti. La confusione ai piedi degli stivali.
Da una parte si è formato il vuoto. Dall’unico rigagnolo la pozza dei detriti. Le pietre non si sono baciate.
In silenzio tutto è filtrato dalla crepa fuggevole. Nel bianco a specchio.
… una mia poesia, in distici, in stretta osservanza nuova ontologia estetica, nella quale compare, appunto, Ewa Lipska.
gentile Signora Jolanda W.
mi perdoni se scomodo con questa mia il postino
per dirLe di riferire alla Signora Ewa Lipska
che mi dicono esser deceduta (o sbaglio?) mentre era nella vasca da bagno
e al suo amico Gino Rago,
il poeta che abita l’altra sponda del Mediterraneo, Le dica
che non mi interessano i pensieri del wishful thinking,
delle carmelitane scalze e delle vedove allegre
delle teste d’uovo, e neanche dei colletti bianchi
e delle camicie verdi, mostriciattoli che inquinano il mondo
più della plastica, che ne ho a sufficienza di questa zizzania
dei 5 Stelle, dei renziani, dei leghisti, dei fideisti
che trovi dappertutto come una marmellata guasta…
conosco a sufficienza le peripezie dello spirito
e i pidocchi dello spirito
per nutrire ancora residue speranze…
Le dirò: lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti
e che i vivi seppelliscano i vivi
e che tutto vada in corteo al funerale al seguito del catafalco
dell’unico dio che gli uomini riconoscono:
il Signor Denaro il Dollaro e la Signora Banconota, l’Euro.
Cogito viaggia da tre notti per le stazioni della Finlandia
tenendo corsi di estetica nei corridoi del treno blindato
che lo porta a Mosca, e adesso riposa nel cimitero di
Dorotheenstädtischer Friedhof, in Chaussestraße, con tanto ci cippo
in marmo, io ormai tutto quello che ho lo tengo
nella mia valigetta 24 ore con una camicia pulita, il dentifricio
e lo spazzolino da denti…
non si sa mai…
Gino Rago
2 Whats App, da cellulare
[la cicatrice nel tempo degli specchi]
1- Caro Signor Mauro Pierno,
Se non a Lei a chi altri confidare
che la flanella dell’infanzia era morbida
quando il Tempo di Newton non ci disturbava.
Dalla Finlandia un sibilo nel mio dormiveglia:
«La Poesia è l’eco che si ascolta quando la vita è muta».
La Lipska e la Manner ogni notte sono quell’eco.
Temevo che fosse una invenzione invece esiste
la zitella di Cracovia che gioca con il Tempo.
Lorenzo Pompeo lo conferma, agli ospiti
la vecchia zitella nei bicchierini versa i suoi ricordi
2- Cara Signora Von Trotta,
Francesca Dono fa buchi nell’acqua con una vanga,
fa baciare le pietre in uno specchio.
Il mio amico di Istanbul in un verso ha scritto:
«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore»
La cicatrice del dolore,
è quella di Ewa, la stessa cicatrice che vede nel suo specchio?
«Quale specchio?» Lei giustamente chiede,
«Lo specchio dove il tempo si incrina
e Greta Garbo assomiglia a Socrate…»
Non mi dà la risposta, che importa,
importante è che io ponga domande,
Lorenzo Pompeo viaggia nel paese delle ombre?
gr
Angeli, portatemi al lavoro. Devo vincere
me stesso in una mossa.
Ditemi voi, per favore
“A cosa debbo l’onore della tua richiesta?”
Avevo già visto quel me stesso
nel busto di John Fitzgerald Kennedy.
(Posso udirti ma non so parlare)
(Sono un volatile)
Kennedy con la penna in mano, indeciso
se mettersi al lavoro.
L.M.Tosi – nov 2018
A mio parere, queste poesie di Ewa Lipska sono migliori proprio nelle parti dove ci si dimentica della Szymborska. La quale secondo me era più nella direzione in cui va la nostra Anna Ventura. Forse anche la sua amica Liana De Luca. Sono sempre storie di innamoramenti. Ewa Lipska nuota nella stessa corrente dei poeti NOE. Spero se ne renda conto.
Poeti NOE.
C’è tanto amore in quella donna,
come posso perderla?
Non è mia madre. Non è mia madre.
Ma a volte non basta, e ormai è tardi.
La parte mancante tra un pensiero e l’altro
è dovuta a essenza; parola di pietra preziosa
con tante sfaccettature, in esse comprese
le drammatiche alluvioni di questo ultimo periodo.
Lo sguardo in terra è tipico nelle persone anziane.
Ma così fanno anche gli angeli.
La parte mancante tra un pensiero e l’altro.
Dove la lingua manca e si lega.
I platani sul Tevere diventano betulle di Gino Rago
caro Lucio,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/10/ewa-lipska-cinque-poesie-inedite-da-pamiec-operacyjna-memoria-operativa-wydawnictwo-literackie-cracovia-2017-traduzione-presentazione-e-fotografie-di-lorenzo-pompeo-nota-biobibliografica-di-pa/comment-page-1/#comment-39535
Ewa Lipska
La storia
Fermo. Non scappare davanti a lei.
Non la provocare.
Non fare
movimenti bruschi.
Non voltarti dall’altra parte di colpo.
Lei non ti farà del male
fino a che
non le toglierai
la scodella con il suo cibo.
i testi postati qui sopra dagli amici e questo di Ewa Lipska provano una volta di più che stiamo sulla buona strada… penso che ormai non ci siano più dubbi: la poesia che si fa in Europa, e non da oggi, è quella nella quale è impegnata anche la nuova ontologia estetica o, come piace dire a Petr Kral, la nuova fenomenologia estetica.
Il segreto di questo nuova procedura poetica, ad esempio, nella poesia di Gino Rago, sta in un mix di parlato e colloquialità nello stile di una missiva indirizzata ad un interlocutore reale o non-reale mixato con dei linguaggi da bugiardino, da didascalie cliniche, o da didascalie di prodotti commerciali, quasi dei referti medici in stile gnomico, viene utilizzato un linguaggio giornalistico leggero che confligge con lo stile gnomico e aforistico… il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi… il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un ‘altra, di un luogo in un altro. Nel titolo del libro di Gino Rago di prossima pubblicazione, I platani sul Tevere diventano betulle, c’è già in epigrafe un esempio tipico di questa procedura (i platani diventano betulle), A=B, B=A; le cose si scambiano di posto e identità; le persone, gli oggetti, le situazioni sono tutte interscambiabili, tutto diventa tutto, non c’è nulla che tenga, nulla resta fermo, il principio di individuazione diventa il principio di diversificazione e di moltiplicazione, il discorso poetico punta alla molteplicità e alla diversificazione, gli elementi del mondo globale tendono a polimorfosarsi, la morfologia delle cose diventa mutagena. Il libro è diviso in cinque sezioni, ciascuna di esse è composto con un movimento e una tonalità diverse dalle altre, ogni sezione è composta da una lessicalità individuale, e tutte insieme rimandano alla parentela relazionale del principio della concordia discordante, della oppositività di tutto con tutto.
Nulla a che vedere con gli antiquati principi della ontologia novecentesca che puntava le sue fiches sulla ambiguità dei linguaggi o sul pluristilismo, qui non c’è convergenza di stili ma semmai c’è «divergenza» e «difformità» tra varie morfologie di linguaggi disparati… qui siamo in un nuovo demanio concettuale del fare poesia.
Anche nella Lipska in questo tipo di poesia è rinvenibile una magistrale sicurezza di andamento processuale, non è affatto un caso che una poetessa di tal valore sia stata per tanti decenni sottovalutata in Italia, il suo stile gnomico-colloquiale non poteva attecchire su una quercia robusta ma attempata come la poesia italiana ancora attestata su concetti di poetica francamente obsoleti, se non addirittura senescenti. Abbiamo dovuto aspettare che un editore di periferia come Armando pubblicasse il primo libro di traduzioni delle poesie della Lipska, fortunatamente seguito da un editore meno marginale, anzi di rilievo come Donzelli, ma, nella terra di Dante, noto ancora molta insipienza e molta incompetenza nell’apprezzare compiutamente la forza e la novità di questa poetessa…
da una Intervista a Giorgio Agamben stralcio un paio di punti significativi.
http://www.repubblica.it/cultura/2017/08/27/news/giorgio_agamben_il_vero_karma_dell_occidente_-173991710/
Domanda: Marina Cvetaeva osservava “Non posso” è il superamento di tutti i miei “non voglio”, il correttivo di tutti i miei voleri. Che rapporto dovrebbe esserci tra volontà e potenza, oggi?
Risposta: “Le rispondo con le parole di un’altra grande poetessa russa. Anna Achmatova racconta che mentre negli anni delle persecuzioni faceva da mesi la fila davanti alla prigione di Leningrado dove era recluso suo figlio, una donna un giorno la riconobbe e le chiese: “può dire questo”? La poetessa tacque per un istante e poi, senza sapere come e perché, sentì affiorarle alle labbra la risposta: “sì, io posso”. Che cosa intendeva dire? Non certo che aveva un così grande talento o una così grande padronanza della lingua da poter dire tutto ciò che voleva dire. Quell'”io posso” non si riferiva ad alcuna certezza o abilità e tuttavia la impegnava e metteva integralmente in gioco. È qualcosa del genere che aveva in mente Spinoza quando definisce la letizia più grande accessibile a un uomo come la contemplazione di ciò che egli può fare. Per questo la trasformazione cristiana e moderna della potenza in volontà mi sembra deleteria”.
Domanda. La filosofia s’interessa prima di tutto dell’essere, ma l’essere appare subito con le sue “qualità”: possibilità, contingenza e necessità. Lei osserva che è necessario riflettere sull’utilizzo che la filosofia fa dei verbi modali: ” posso”, ” voglio”, ” devo”. Mi segua in un passaggio di certo azzardato. La lingua della politica, aderendo (talvolta pure nei corpi) a quella televisiva, ha progressivamente abolito le subordinate, le ” qualità” della frase: modali, temporali, causali. Senza queste “qualità” siamo costretti a un parlare ( e a un agire) privi di conseguenze. C’è modo di mantenere la complessità del linguaggio e non rimanere chiusi nel presente indicativo (e televisivo) dello stare al mondo?
Risposta: “Se la sua domanda è di ordine poetico-letterario, allora le rispondo con le tarde poesie di Hölderlin, in cui i nessi sintattici sono aboliti e sospesi e nel verso sembrano sopravvivere solo i nomi nel loro isolamento (a volte, anche solo una particella: aber, che significa “ma”). Vi è nella poesia una tradizione, da Arnaut Daniel a Mallarmé, che tende ostinatamente non alla frase, ma al nome – anzi, forse in ultima analisi ogni poesia non è che una tensione verso il nome, che per definizione è sottratto a ogni articolazione modale. Se la sua domanda è di ordine etico-politico, le risponderei allora che si tratta di disfare il nesso perverso tra i tre verbi modali che Kant ha messo a fondamento della sua etica: “si deve poter volere”. Questa frase mostruosa è il condensato parodico dei dispositivi che il mio libro cerca di disattivare”.
Domanda: Sulla quarta di copertina si legge “Giorgio Agamben ha insegnato Filosofia teoretica… è stato visiting professor…”. Se le chiedessi cenni biografici al tempo presente?
Risposta”Le risponderei spinozianamente:
“contempla ciò che può e ciò che non può fare”. Ho sempre amato il motto meraviglioso di van Eyck: “Als ich kann”, “come posso”. Conoscere i propri limiti significa conoscere la misura della propria potenza e della propria impotenza”.
In italiano esiste anche la mia raccolta: Ewa Lipska 22 poesie con testo polacco a fronte, Ed. CFR 2014. Finita o quasi la moda della Szymborska è iniziata quella della Lipska. Quando inizierete a parlare di Urszula Kozioł?