Due poesie di Mario Gabriele, da Registro di bordo (di prossima pubblicazione)
5
Un fiorire di nuvole dopo un cocktail flambè
con sette aromi di frutti di bosco.
Nel resort turisti in quarantena
attendevano il volo della Ryanair.
L’uomo su risciò preparava tragedie ed esche.
– Che muoia come gli altri -, disse il Gran Giurì.
Mosur lasciò 7 peccati capitali
in onore del Signore.
Michael Rottmayr è con Abele a Vienna
nella Osterreichische Galerie.
A Coney Island rimanemmo
a raccogliere le polveri di Ground Zero.
Un benefit donammo ai ragazzi del Bengala.
Te l’avevo detto Ray che tra gli avari del quartiere
c’era anche la famiglia Hobbs.
Padre Orwell parlò con Burton
dicendo: -fai questo in memoria di me-.
-Sorry! ma non so come uscire da questo labirinto.
Capisci, è come stare davanti a una partita a scacchi-.
Da quando daddy è andato via è rimasto solo il serenase.
Le chaussons di Bovaline sono ouverture.
Jodie vive a Norwich.
Non so come dirle ma è tutto un diverbio con la natura.
Matsuo Basho ha ristretto il mondo in 17 sillabe haikai.
Ci stiamo dentro come un soffio di mistral sulla Camargue.
6
Berenice non ha altro da fare
che mettere blazer di vecchia data.
La stagione resiste all’epitaffio.
Ci vorranno mesi per sistemare la biblioteca,
Perilli è tornato a chiedere il XVI volume
della Letteratura Italiana.
Scrivere è un viaggio come il pensiero di Heidegger.
Al vicolo 7 di Piazza Bologna nessuno ha una vita privata.
In un inverno del 93 cademmo nel crinale.
Vennero voci dal buio. Soccorsi stradali.
Il fiume era rientrato nell’alveo.
Carlo già pensava alla brossura della Gita domenicale.
Ada, la magnifica Ada dai sette lumini e corde di chitarra,
si era concentrata sugli steli di gramigna.
Una piccola colazione portò fantasmi e sentimenti abrasi.
Tengono ancora i profumi di Calvin Klein.
Lo stato delle cose è nel tempo.
La Canducci ha azzerato il debito.
Siamo in bilico. Ofelia si trastulla con l’oboe.
La notte ha rubato la luna.
Arrivo sul fronte delle dislocazioni verbali
con Dibattito su amore e Il Dente d’oro di Wels.
Brillano i fuochi d’artificio la notte di San Giuseppe.
El Paradise, ci pensi, è tutto un tremore di sogni!
Un paesino di sintassi crudele ha aperto check-in e ogni limite.
Una poesia di Anna Ventura (traduzione in francese di Edith Dzieduszycka)
La neve di ovatta
Da bambina accendevo
le candeline vere
sull’alberello vero;
ci mettevo anche la neve di ovatta,
col rischio di bruciare la casa;
la stufa di terracotta emanava
un calore buono, mentre,
fuori,
l’aria tagliava come una lama.
Oltre i vetri incrostati di ghiaccio,
c’era il cielo, carico di stelle; qualcuna,
ogni tanto, si staccava,
precipitava verso la terra buia.
Aspettavo di crescere,
aspettavo di non essere più bambina
per uscire da quella prigione di ghiaccio.
Il viaggio è stato
più lungo del previsto.
La neige de ouate
Petite fille j’allumais
les vraies bougies
sur l’arbre vrai;
j’y mettais aussi la neige de ouate,
en risquant de brûler la maison;
le poêle de terre cuite émanait
une bonne chaleur, tandis que
au dehors,
l’air tranchait comme une lame.
Derrière les vitres incrustées de glace,
il y avait le ciel, chargé d’étoiles; l’une d’elles,
parfois, se détachait,
précipitait vers la sombre terre.
J’attendais de grandir,
j’attendais de n’être plus petite fille,
pour sortir de cette prison de glace.
Le voyage a été
plus long que prévu.
.
Due poesie di Gino Rago da I platani sul Tevere diventano betulle (di prossima pubblicazione)
4
Dio chiede una recensione…
il femminile di Dio il suo lato destro
ha chiesto una recensione ai poeti della «nuova ontologia estetica».
di certo le poetesse dell’ombra lo sanno che Dio è dappertutto,
che rovista con garbo nella pattumiera
Il maschile di Dio il Suo lato sinistro
frequenta le bische clandestine, i ricoveri
aperti tutta la notte, staziona tra le vetrate,
tra i bassifondi dei porti
e gli slums delle periferie di Hopper.
Ci ha provato anche con Lucio Mayoor Tosi, Grieco-Rathgeb e Talia
ma non gli hanno dato retta, andavano di fretta,
per una recensione sulla sua creazione
perché i tre lasciano di sé frammenti dappertutto
e cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.
Dio si è rivolto ai cacciatori di immagini
perché i tre in poesia rapinano banche,
la poesia è una rapina in banca: si entra, si spiana la rivoltella,
si cattura l’ attenzione, si prendono i soldi e si scappa,
si scompare, per poi ricomparire in altre banche
ebbene, questi versi annoiano Dio, l’Onnipotente
non sopporta questi ladruncoli che giocano a fare
scaccomatto.
Cicche e carte stracce sui marciapiedi,
dalla tavola calda aperta tutta la notte odore di cipolle,
un fiore nel vaso parla con lo specchio:
«è perfettamente inutile che Lei caro signore si ecciti,
faccia quello che sa fare. Faccia lo specchio»
15
Risponde il filosofo Erésia
Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,
risponde il filosofo Erésia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,
il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua:
non mi aspetto l’eternità e so che nessun verso oltrepasserà la morte.
I poeti lo sanno da sempre: le poesie sono mortali».
Una poesia inedita di Paola Renzetti
Le margherite
Tra rive d’erba
giacciono figli rifiutati
una sedia e una dispensa
dalla bocca aperta.
Si passa oltre e non è pianto.
Non offende il cibo ingoiato
non c’è più nulla
nella mano che getta, niente
nei cassetti spalancati.
Per l’accumulo, finti castori
demiurghi maldestri, siamo
già tutti assolti
reintegrati per nuove imprese
con denti affilati, lassù sugli spalti.
A Gennaio si parte:
nel posto riparato del prato
in solitaria ascesa riverberano
delle piccole e strane margherite.
.
Una poesia inedita di Giuseppe Gallo
La spesa
I dollari al collo
Le sterline pendule alle orecchie
Gli euro di carta sugli occhiali.
Gioiosamente vibra
il capo che va e viene
lungo la scala mobile e il vuoto.
Saetta la mano d’unghie rosse
tra i flutti amaranto e viola delle extentions.
Gioiosamente esamina e ricorda.
Inquieti sentieri
anelli d’argento.
Quartieri malfidi
scarpette d’alluminio.
Marine deserte
cappelli di fibra di cocco.
Altri robot, naturali e innaturali,
inghiottono salive e rimorsi e brividi malfermi
sulle rotaie che incavano muri di buio.
Soppesa la borsa, la plastica rigonfia fa da specchio.
Di sé rimira
la candida fuliggine sul volto
il fervido stridore della gonna
la nuova curva dei seni.
Soppesa il momento, ma il tempo straripa.
Bisogna riandare, avanti e indietro, gioiosamente.
Gioiosamente.
Refusi di noi stessi.
Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa
«Penso dove non sono, dunque sono dove non penso»1]
«L’io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’insegna del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo».2]
Umberto Galimberti scrive che:
«la poesia, di cui si alimenta il mito, è una produzione di significati, che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose ma ciò che l’uomo impone alle cose, la violenza poetica sul contenuto quale si dà».3]
La scrittura poetica è «una produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose, quando invece la posizione del poetico dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio, sostare un passo indietro, un attimo prima che la parola ci raggiunga, dall’esterno, con la sua dote di «imposizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger; se invece andiamo oltre, se procediamo verso il linguaggio, con attese, con im-posizioni, con Gestell, ecco che quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, il nostro linguaggio verrà intaccato dalla «imposizione» dei linguaggi che provengono dall’esterno, dal mondo dell’utilitarietà, dal mondo delle condotte, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria im-posizione.
Il problema è molto complesso e non è riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema dell’io che impera nel mondo tecnologizzato delle società mass-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere buona poesia, l’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione; l’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria sopravvivenza, lavora per i progetti di auto organizzazione dell’io, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nella comunità linguistica e mediatica, non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.
La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più accreditati, altro non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici, scrittura utilitaria, impositiva, progettante, narrativizzante, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria, che è l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, che va con un linguaggio imperativo, giustificato e giustificatorio.
Qualcuno mi chiederà: «che cosa intendi per linguaggio giustificatorio»? Risponderei così: con linguaggio giustificatorio intendo la posizione del «poeta» che si pone in un angolino del «creato» e di lì si interroga e interroga il «creato» alla ricerca di un «senso» che giustifichi la propria esistenza. Ebbene, questa è una finzione e un falso, è una posizione imbonitoria, assolutoria, in quanto si assume un Gestell, un podio, e ci si mette in posa, in alto sullo zoccolo, proprio come una statua, e di lì si sciorinano pensieri meditabondi, efflorescenze di narcisismi. La poesia che si fa oggi è ricchissima di cotali «poeti» che oggi sono di moda e vengono celebrati. Un nome per tutti: Franco Arminio, incomparabile nell’adamismo della sua positura assolutoria dalla quale sciorina incensamenti alla pacificazione, buonismi e banalismi in grande quantità.
Quando si sale su un podio, qualsiasi podio, la Musa fugge a gambe levate.
Qualche giorno fa un poeta mi ha scritto che non «condivide affatto il [mio] giudizio apocalittico» sulla morte della poesia italiana, che invece godrebbe, a suo parere, di ottima salute. Al di là dei convincimenti personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, penso, e ho tentato di argomentare questo mio pensiero in varie mie pubblicazioni, che la poesia di questi ultimi decenni sia stata fatta per esigenze privatistiche, psicologiche, per ragioni di status symbol, per personalismi, per narcisismo, senza alcun progetto culturale e consapevolezza storico culturale della poesia del novecento. La mia impressione, spero di sbagliarmi, è che la poesia italiana che è stata scritta in questi ultimi decadi e che si continua a fare oggi è una forma di scrittura privata priva di valore culturale, un genere di scrittura che non contiene alcuna regola, alcuna episteme direbbe un filosofo. Una scrittura imbonitoria.
Il punto di vista di Umberto Galimberti
«Sta forse giungendo a compimento il senso espresso da più di duemila anni della nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora, con Nietzsche, e poi con Heidegger e Jaspers, comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa davvero finisce proprio oggi quando sembra che tutto il mondo insegua senza esitazione la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’Occidente e soprattutto la sua distanza dall’Oriente? Finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica.»*
* U. Galimberti Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, 1990 p.93
«Per staccarsi dal pensiero rappresentativo occorre, a parere di Heidegger, un salto. Saltando ci lasciamo cadere. Dove? Là dove già siamo: nell’appartenenza all’essere. Dal salto nasce “già” in cui si era. Il rilassamento (Gelassenheit) che sorge dal “ritrovarsi” nel “già” in cui si era. Il rilassamento vive la serenità (Gelassenheit) del “ritorno” nel luogo in cui “da sempre” si era, e col ritorno il piacere del ricordo e del recupero.
[…]
Se salvezza, come dice Heidegger, è “ricondurre qualcosa alla sua essenza”, in modo che il qualcosa non vada perduto, la tecnica potrà salvare se, invece di appropriarsi dell’ente, si dispone all’essere che, nel suo appropriarsi originario (Er-eignis), ospita l’accadimento di ogni ente.
Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo si rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen) e “apertura al mistero (die Offenheit fur das Geheimnis)”.
Il mistero è l’incalcolabilità dell’essere, di ciò che ci fa pensare, del “proprio pensiero”, in cui si custodisce il destino (Geschick) che fa dell’uomo un pensante, un appropriato (zugeeignet) all’essere. Rispetto a questo mistero, la Gelassenheit, come pensiero meditante in cerca del senso (besinnliche Denken), pur superando il pensiero calcolante delle rappresentazioni tecniche (das rechnende Denken) non approda a una trasparenza assoluta.
Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso. L’alternativa richiama l’ambiguità della provocazione e lascia le possibilità dell’epoca nella sospensione del “salto (Sprung)”, nell’attesa che aspetta il dischiudersi dell’ambito di ciò che ci viene incontro (das Gegnen). In questo senso, scrive Heidegger:
“Il fatto fondamentale della Gelassenheit è restare in attesa (Warten). Restare in attesa vuol dire lasciarsi ricondurre all’Aperto di ciò che ci viene incontro. […] L’uomo infatti è affidato (gelassen) a ciò che viene incontro in quanto gli appartiene originariamente. E gli appartiene perché, fin dall’inizio, è ad-propriato (ge-eignet) a ciò che viene incontro. Per questo l’attesa si fonda sulla nostra appartenenza a ciò di cui siamo in attesa.”
Nell’attesa, l’unico atteggiamento da assumere, proporzionato all’ambiguità della provocazione e consono alla carenza del tempo in quanto tempo d’attesa, è quello, scrive Heidegger, di:
“Dire contemporaneamente di sì e di no al mondo della tecnica. Ma in tal modo la nostra relazione a tale mondo non si spacca in due e non diventa incerta? Al contrario, la nostra relazione al mondo della tecnica diventerà invece semplice e serena. Lasceremo entrare i prodotti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasceremo fuori, li abbandoneremo a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa di più alto. Tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: abbandono di fronte alle cose, abbandono delle cose alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen)”
L’abbandono e il rilassamento che ne consegue sono atteggiamenti che nascono quando il pensare tecnico non si costituisce come unico pensare, ma si lascia comprendere in quel più ampio orizzonte dischiuso dal pensare meditante (besinnliche Denken) che non ha nulla di tecnico, perché la sua attenzione non è rivolta all’impiego delle cose, ma alla ricerca del loro senso, ivi compreso il senso sotteso allo stesso impiego tecnico delle cose. L’estinguersi del pensiero meditante “ci sottrae il terreno su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica” e allora, scrive Heidegger:
“La rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ed essere effettivamente esercitato”.
In questa eventualità, secondo Heidegger, si nasconde per l’umanità il pericolo “più grande di una terza guerra mondiale”, perché in gioco è l’essenza dell’uomo, la sua possibilità di essere apertura e dischiusura al mistero dell’essere».4]
«Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo si rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (Die Galassenheit zu den Dingen)” e “apertura al mistero delle cose (die Offenheit fur das Geheimnis)”.
[…]
Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso…
Scrive Heidegger:
Il tratto fondamentale della Gelassenheit è restare in attesa (Warten). Restare in attesa vuol dire lasciarsi ricondurre all’Aperto di ciò che ci viene incontro. […] L’uomo infatti è affidato (gelassen) a ciò che viene incontro in quanto gli appartiene originariamente. E gli appartiene perché, fin dall’inizio, è ad-propriato (ge-eignet) a ciò che viene incontro. Per questo l’attesa si fonda sulla nostra appartenenza a ciò di cui siamo in attesa (…)
Dire contemporaneamente di sì e di no al mondo della tecnica. Ma in tal modo la nostra relazione a tale mondo non si spacca in due e non diventerà incerta? Al contrario, la nostra relazione al mondo della tecnica diventerà invece semplice e serena. Lasceremo entrare i prodotti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasceremo fuori, li abbandoneremo a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa di più alto. Tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: abbandono di fronte alle cose, abbandono delle cose alle cose (Die Gelassenheit zu den Dingen)» ».5
1] J. Lacan tr. it. L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974 vol. I p.512
2] Id., Il seminario, vol. I Gli scritti tecnici di Freud, Torino, 1978, p. 20
3] U. Galimberti Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, 2005, pp. 407 e segg.
4] Ibidem p. 408
5] Ibidem p. 409
Ringrazio vivamente Giorgio per aver proposto un mia poesia a me cara perchè evocatrice di una reltà vissuta dolorosamente da tutta la mia generazione, schiacciate tra due guerre, eppure così capace di risorgere.
Ecco una poesia dell’ultimo Pasolini, forse se fosse sopravvissuto ai suoi assassini la poesia italiana sarebbe cambiata…
Pier Paolo Pasolini
Comunicazione schizoide all’Anac
È ora di finirla.
Questa vostra tacita tema di tradimento da parte di chi non è come voi
mi fa comportare forzatamente sempre come se fossi sull’orlo del tradimento
Fatto questo preambolo
Più che di schizofrenia è il caso di parlare
del linguaggio fatico
Le clausole conative son tutte nelle forme interne
Restano appunto i perché e i percome, bel tempo,
«Poesie pratiche» sarà il titolo della mia prossima raccolta di versi,
in concorrenza a «Poesie comuniste» o «I primi sei canti del Purgatorio»
Il titolo più plausibile sarebbe, certo, «Da pubblicare dopo la mia morte»
ma come potrei resistere alla tentazione di pubblicarlo prima?
Questa lettera segue una rapida decisione subito declinata
forse stupidamente. L’avevo presa in un sogno mattutino:
«Mi dimetto dall’ANAC e mi iscrivo al Pci»
Dovete sapere
Da parte del soggetto che vive le cose, e non le rivive,
attraverso le informazioni, la realtà ha sempre un aspetto infernale.
Fu nell’Inferno che una corte mi condannò
per aver diviso due litiganti (adesso ogni volta che vedo
gente che litiga, taglio la corda. Grazie, Patria,
per avermi insegnato a tagliare la corda e commettere
almeno in caso di rissa – reato d’omissione, che nessuno m’imputerà.
È stato nel mio Inferno,
non ancora in quello della Repressione,
che un Pubblico Ministero (commedia dell’arte)
mi accusò di voler fondare una nuova religione
sostenendo che:
Stracci ejaculava fuori campo.
Inoltre fui condannato per essermi messo un cappello nero
in testa, essermi infilato dei guanti neri
nelle mani, aver caricato con una pallottola d’oro
una pistola, e così aver rapinato un cristiano di duemila lire.
In altre parole sono stato condannato per un’azione
accaduta nel sogno di un altro.
Accennerò solo di sfuggita
a un’altra condanna subita
per aver consegnato una sceneggiatura
che essendo apparsa brutta e scandalosa
Il produttore disse di non aver potuto fare il suo film
perché la mia sceneggiatura era brutta e scandalosa,
e pretendeva quindi i danni. Il tribunale gli diede ragione!!
Cari, colleghi, questo è un precedente: e siamo nel ’62 o ’63.
Il Libro Bianco delle Sentenze
stilato contro di me dalla Magistratura Italiana
sarà il libro più comico
Per me è stata una tragedia:
ma non temete. Fingo che le mie spalle siano fragili:
in realtà sono più forti di quelle di Simone.
Ma fatemi fare il bravo cittadino per qualche mese
se no, non potrò fare più il cattivo cittadino per tutta la vita.
Credo che non siamo ancora al punto, di avere una relazione serena con la tecnica. Sarà mai possibile? La sentiamo dominante…eppure c’è già qualcuno che la vive come quel che è: una propaggine dell’umano. Forse è già parte della natura stessa, se pensiamo alle mutazioni climatiche e non solo (da qui il disorientamento). Non credo sarà mai privo di senso (o di sensi) mettersi di fronte al mondo “naturale” al cospetto del numinoso, del sacro che la natura stessa ispira, da che mondo è mondo. E’ continuità con l’Essere, con l’umano della memoria, del mito. Grazie Giorgio per lo spazio e per le riflessioni che ci offri. Il salto nelle cose che ci fa essere là dove noi già siamo: nelle cose, aperti al mistero delle cose.
( due AMMUTINAMENTI, che pubblico qui!)
12°
Approvvigionate sopravvivenze perdurano nelle stanze dell’incontinenza
sporgono fari nei deserti delle azioni,
sospese finestre ermetiche di divulgazione soffocata.
Nelle stazioni i treni immobili sfrecciano rumore incontrollato. ; :
dai finestrini riflessi i soli volti immaginati.
3°
Appese parole a contrapporre cime cardini e legami
issati lungo la spirale stessa dell’onnipresente.
Ombre in sovrapposizione col plantare di uno zoccolo
che sbatte inconcludente, stratificato perfettamente inquadrato,
simile alla solitudine del buio, strato ultimo atto,
che aspetta l’arto greve dell’esaltazione facile.
_
(Solo per stare in ottima compagnia, e disimparare ad essere poeta. Grazie OMBRA)
(Difatti esistono le poesie non i poeti.)
_
In altre parole sono stato condannato per un’azione
accaduta nel sogno di un altro.
Soppesa il momento, ma il tempo straripa.
Bisogna riandare, avanti e indietro, gioiosamente.
Non offende il cibo ingoiato non c’è più nulla
nella mano che getta, niente nei cassetti spalancati.
la poesia è una rapina in banca: si entra, si spiana la rivoltella,
si cattura l’ attenzione, si prendono i soldi e si scappa,
Le voyage a été plus long que prévu.
Il viaggio è stato più lungo del previsto.
Matsuo Basho ha ristretto il mondo in 17 sillabe haikai.
Ci stiamo dentro come un soffio di mistral sulla Camargue.
L’ intercambiabilità non fa errore.
Grazie GRANDE OMBRA.
Seguiamo per un attimo questa prospettiva linguistica, fuori da ogni arretramento conservativo, e soffermiamoci sulla variabilità della materia poetica, che sembra essere la più attendibile in fatto di documentazione estetica.Si nota subito che la parola è entrata in una nuova ontologia espressiva, vista come un nuovo Essere all’interno di una modernità linguistica che diventa Progetto Culturale Emancipativo. per il quale è necessario approfondire e razionalizzarsi su ciò che la modernità richiede.Occorre accertarsi che il segno della libertà linguistica sia sempre il risultato capitalistico proveniente da una start-up della forma rispetto al commercio obsoleto che ancora oggi si usa nel commercio della parola.Si tratta, come diceva Habermas di attualizzare un programma di intenti comuni, relativi ad una modernità culturale nella speranza che essa disegni la strada per una visione più allargata e profonda della realtà,che oggi è universalmente tecnica e scientifica, dove il Soggetto Metafisico è depotenziato dalla sua funzione estetica.Sembrerà quello che scrivo un radicalismo estetico contro ciò che ha santificato la Tradizione, ma non lo è se consideriamo la voce della poesia nei secoli come il lievito che ha fatto maturare e crescere la parola con le forme e i passaggi di staffetta linguistica da una corsa all’altra, da una corrente letteraria ad un’altra perchè questo è il vero senso di fare poesia purché ci sia veramente l’accoglienza del lettore.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/03/due-poesie-di-mario-gabriele-da-registro-di-bordo-gino-rago-da-i-platani-sul-tevere-diventano-betulle-di-prossima-pubblicazione-e-una-poesia-di-anna-ventura-paola-renzetti-giuseppe-gallo-con-il-p/comment-page-1/#comment-39361
Il distico impiegato da Mario Gabriele riposa sul parallelismus membrorum, ovvero su due proposizioni «baciate» che esauriscono la loro funzione nel punto che contrassegna la fine di ogni distico. È all’interno del distico che si sprigionano le forze telluriche delle singole proposizioni le quali, prese ciascuna per sé, non significano assolutamente nulla, tuttavia sembrano avere «senso». Ma noi sappiamo che il «senso» è una categoria di matrice religiosa, e un poeta esperto e smagato come Gabriele non cadrebbe mai nella trappola di fare una poesia del «senso», Gabriele apre il distico dall’interno come una scatoletta di tonno sott’olio, mostrandone la vacuità dell’interno fitto di rotelline semantiche che girano a vuoto.
Il poeta di Campobasso mette una volta per tutte la parola fine alla poesia del «senso» e alla poesia del «non-senso», alla poesia della tradizione e della anti-tradizione, la sua operazione culturale è chiarissima, lampante, non può esserci il minimo dubbio su questo aspetto. Giustamente un lettore ha scritto che dimenticava i versi di Gabriele subito dopo averli letti, senza rendersi conto che proprio questo è l’intendimento del poeta di Campobasso, posizionare il suo discorso poetico al piano zero della significazione e del «senso», ma questa operazione Gabriele la fa senza ricorrere ad artifici tecnici o metrici, o a sperimentalismi ma semplicemente mettendo in distici regolari le forze versali che confliggono con quella gabbia metrica e formale e che confliggono e friggono anche all’interno di ogni singolo verso. Repetita juvant.
Gabriele ad ogni distico accende la miccia, provoca di continuo, ad ogni accoppiamento versale, un anatocismo semantico, lavora per agglutinazione e aggiudicazione di strati di un linguaggio ridotto allo zero del «senso» e del significato, obbligando il lettore a dimenticare subito dopo averli letti i suoi versicoli così sfacciatamente ordinati da sembrare edulcorati e perbenisti. Paradosso nel paradosso! Forse, non c’è poeta in Italia che al pari di Mario Gabriele si è impegnato nei suoi ultimi cinque libri ad un lavoro di così meticolosa e drastica distruzione di tutto ciò che meritava di essere distrutto e affondato.
Certo, dopo questa operazione, si dovrà pur ricominciare da qualche parte, si dovrà pur riprendere qualche lembo della matassa e ricominciare a tirare il filo, ma è che in questi ultimi anni sono venute a cadere tutte le categorie ermeneutiche che presiedevano il facere della poesia italiana, che si può racchiudere in una formula semplice semplice: la poesia italiana in tutti questi ultimi decenni è rimasta prigioniera di una concezione che intendeva il discorso poetico come discorso ordinato, rappresentativo, ragionevole, sensorio e sensato. Ebbene, Gabriele ha mostrato una volta per tutte, se ce ne era bisogno, che tutta la antiquata impalcatura retorica e ermeneutica era aria fritta, si era liquefatta, che quelle categorie erano diventate liquide e si erano sciolte al sole d’agosto dell’epoca della stagnazione e della grande recessione. Alla recessione stilistica Gabriele ha risposto riposizionando in alto l’asticella della forma-poesia, talmente in alto che la sua poesia sembra pervenuta direttamente da Marte o da qualche esopianeta, tanto è lontana dalle fonderie della poesia italiana di oggidì.
Gabriele porta alle estreme conseguenze la de-materializzazione del linguaggio relazionale, fenomeno che ha avuto luogo in questi ultimi decenni nel nostro paese fino al punto di non ritorno, svuota il di-dentro delle parole e delle singole fraseologie accostandole per contiguità e per metonimia, mostrandone l’intima in-significazione, mostrando che ciò che appare è il linguaggio de-materializzato, ma che anche questo apparire è in-significante, cioè non ha alcuna relazione viva e vitale con le persone vive, in carne ed ossa che abitano il mondo.
Gabriele mostra che se da una parte il linguaggio non esiste come ente distinguibile, o meglio separabile da ciò che esso significa, mostra anche che non esiste nemmeno come ente distinguibile dalla coscienza che lo pronunzia. Cioè il linguaggio, e il linguaggio poetico per eccellenza, si trova tra due «in-significanze», tra due nullificazioni della significazione, mostra il vuoto della significazione. Il fatto che il lettore dimentichi subito dopo averla letta una poesia di Mario Gabriele, dal mio punto di vista è il più grande riconoscimento di valore che si possa attribuire a quella poesia, si tratta di una poesia che porta alla massima evidenza il processo (storico, sociale) di de-materializzazione dei linguaggi nel nostro mondo storico, empirico… la intrinseca insignificanza di tutti i linguaggi storici dell’agorà mediatica.
Questa lettura mi giunge come una sorpresa e riguarda la centralità formale del distico, così magnificamente interpretato da Giorgio Linguaglossa. Non esistono altre ragioni di decriptazione. La percezione che Giorgio ha avuto è esattamente quella che era nel mio intento e ne sono veramente lieto.
Il distico è in realtà difficile a realizzare su due proposizioni di contenuto variabile. Esso si integra con l’uso del frammento che è un altro mezzo, tecnico-materico della scrittura poetica.
Quanto poi alla nullificazione del senso sono del parere che quest’ultimo abbia una giustificazione nell’impatto tragico col reale.E’ questa la mia sensibilità biologica, sempre più attenta alle trasformazioni all’interno della società e del nostro esistere. Grazie Giorgio.
Gentili lettori devo comunicarVi che digitando :
“Umberto Galinberti accusato di plagio” scoprirete quale genere di intellettuale è costui.
Il mio parere è che non bisognava citarlo nel post.
Mi duole davvero comunicarvelo, ma è una questione di onestà, appunto, intellettuale.
Mi scuso
Giovanni Ragno
La ringrazio gentile Giovanni Ragno,
l’accusa di plagio concernente alcune pagine che Galimberti avrebbe ripreso con lievi modifiche da un precedente libro della storica Giulia Sissa concerneva l’uso delle droghe.
Qui la materia del contendere è altra, squisitamente filosofica.
e allora mi scuso. G. R.
E’ venuta a mancare, a Torino, Liana De Luca, donna di grande valore umano e culturale.Per qualche anno è venuta al mare qui, a Montesilvano, e siamo stare insieme sotto l’ombrellone; lei nuotava benissimo, io stavo sempre incastrata dentro alla sdraio; compravamo tutte le cianfrusaglie che si offrono per le spiagge, per cui eravamo sempre sotto assedio.Lei era sempre elegantissima,e io cercavo di essere un po’ all’altezza, ma non ci riuscivo.Ci invitavano sempre a cena, ma io non ne volevo sapere. Ricevevamo sempre visite di poeti e aspiranti tali,con i quali io ero immancabilmente frigida ,e forse odiata
Cara Anna,
con la tua autoironia riesci all’istante a fare amare te e l’amica poeta Liliana De Luca, alla quale mando un pensiero commosso.
Ritaglio questi versi che ho trovato in internet, perché belli e mi hanno fatto sorridere:
(…)
sale l’onda
scende il mare
sale il mare
scende l’onda
in un marino
balletto d’amore
scende sale
l’onda
il mare
Caro Lucio, la tua squisita intelligenza ha colto pienamente il senso del rapporto amicale tra me e Liana De Luca,accomunate dal culto per la libertà, ma anche così profondamente bisognose di comunicare.La sua presenza a Montesilvano ha allietato le mie estati rese affannose dalla costante sorveglianza dei miei due figli, allora ancora piccoli e sempre esposti a tutti i pericoli del mare.Liana tuttavia era così amabile e tollerante che gli ostacoli diventavano superabili.Nei momenti più accesi io le davo le chiavi dell’appartamento, in modo che potesse scrivere a macchina tranquillamente,I due avevano, certe volte, la sfaccIataggine di seguirla.
Cara Anna Ventura, ho interagito a lungo con Liana De Luca anche se per via epistolare e ne ho sempre apprezzato le qualità umane e di scrittura poetica, e non soltanto poetica poiché Liana ha lasciato testimonianze di valore anche nella saggistica letteraria. Hai fatto bene a darci la notizia della sua scomparsa.
Gino Rago
L’ironia è un gioco, perciò è necessaria.
Scelgo da un poeta, guarda caso Tomas Tranströmer, questi due versi:
Come una sonda sul fondo mi trascino.
Mi si attacca tutto ciò che non serve.
Ecco la poesia intera:
Come una sonda sul fondo mi trascino.
Mi si attacca tutto ciò che non serve.
Indignazione stanca, ardente rassegnazione.
I boia vanno a prendere pietre. Dio scrive sulla sabbia.
Stanze silenziose.
I mobili stanno pronti a spiccare il volo al chiaro di luna.
Entro in me stesso lentamente
per un bosco di vuote armature.
Postludio. T.Tranströmer . Poesia del silenzio, Crocetti ed
cara Anna,
sono sinceramente addolorato per la scomparsa di Liana De Luca, che non conoscevo personalmente ma che sapevo persona defilata e per bene… ogni scomparsa ci lascia più deboli e più soli…
Ho trovato questo brano di Umberto Galimberti che sembra scritto proprio per la nuova ontologia estetica. Ecco il brano:
«… anche la struttura sintattica del discorso ermeneutico deve cambiare profondamente. Non si tratta più di comporre frasi con soggetto e predicato, che presumono l’accettazione dello schema metafisico sostanza-accidente, perché simili frasi, grammaticalmente strutturate in modo “metafisico”, nel loro carattere definito, concludono ragionamenti, enunciano soluzioni, ma non restano fedeli al carattere eventuale dell’essere, e quindi alla forma non-conclusiva dell’interpretazione. Lo stesso uso della copula, che istituisce il nesso tra soggetto e predicato, istituisce anche il nesso fra la struttura della proposizione e quella della realtà, per cui la logica classica fa risiedere la verità nel giudizio e non nella parola isolata.
Assunto come copula, l’essere è ridotto a essere dell’ente, e il linguaggio a segno dell’ente. In questa accezione, il linguaggio non dice più niente, non parla, perché non mostra (zeigen), ma semplicemente indica (zeichen) e rinvia alla cosa che si suppone significante per sé, indipendente dalla parola che lo nomina e, nominandola, le dà l’essere, la evoca dal nascondimento.
Con ciò Heidegger non pensa di dover riformare il linguaggio. Per gli usi della vita quotidiana o per quelli della ricerca scientifica il linguaggio ontico o metafisico va benissimo, ma non altrettanto si può dire per il pensiero che voglia riconoscersi e rimanere pensiero dell’essere, dell’essere nella differenza. Per questo pensiero, andare alla ricerca dell’essenza del linguaggio, equivale ad ascoltare il linguaggio dell’essenza, dell’essere…».1
1 U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2005 p. 642
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
altre parole sono stato condannato per un’azione
accaduta nel sogno di un altro.
Soppesa il momento, ma il tempo straripa.
Bisogna riandare, avanti e indietro, gioiosamente.
Non offende il cibo ingoiato non c’è più nulla
nella mano che getta, niente nei cassetti spalancati.
la poesia è una rapina in banca: si entra, si spiana la rivoltella,
si cattura l’ attenzione, si prendono i soldi e si scappa,
Le voyage a été plus long que prévu.
Il viaggio è stato più lungo del previsto.
Matsuo Basho ha ristretto il mondo in 17 sillabe haikai.
Ci stiamo dentro come un soffio di mistral sulla Camargue.
La psidichelia ha un silenzio sbarrato
il quadrato costruito sull’ipotenusa
una forma ampliata della quantificazione
dei pani e dei pesci. I sulfaminici delle torbiere.
Nei gravi convessi sbraitano esistenze pie.
A nuoto le rive si allontanano.Nessuno è più
figlio di nessuno. Le sottilette si ammassano
negli inferni precipitati. Dalla forma più casuale
la rivoluzione tascabile. Un prontuario per ipnosi pubblica. Questa tua apparizione
a centrocampo rimette tutto in gioco.
Lo sai che le farfalle son alte, alte, alte.
(Così mi piaceva ricordare Hans Jean Arp. )
Grazie OMBRA.
La psi di che lia…
😊
La tecnica è il luogo di incontro tra la arte e la scienza. Credo.
Grazie mille, come sempre, per gli stimoli e le nuove conoscenze.