Corrado Paina è nato a Milano e vive a Toronto da trent’anni. Ha pubblicato cinque raccolte di poesie (la più recente è Cinematic Taxi, del 2014), numerose plaquettes e un romanzo, Tra Rothko e tre finestre nel 2016.
Corrado Paina
Cibo per le masse
(a Donato Santeramo che ha corso il rischio di non mangiare più quello che gli piace)
Et sepultus est in ecclesia super Minervam in pulcherrimo
sepulchro cum insigno epitaphio (Fra’ Alberto Castellani – 1516)
Curava le astinenze con il tonno di Carlofonte
prima le triglie al cartoccio
compagne insostituibili
una volta lasciato Cagliari
sfumati i salvataggi
del misterioso Fra’ Beato Gabriele
lo spacciatore più letterario
del cinema europeo
più bello di Marc Porel
più misterioso di Pierre Clementi
incontrato dopo un soggiorno al Buon Cammino
comunque per il sottoscritto
(ormai riemigrato in Canada e in via di riabilitazione
il fegato stremato da ciambelle e dalle insidie del colonnello Sanders)
i rimedi si trovavano dappertutto
16 chili fa era tutto diverso
i polli i patè i salumi
ed i grumi di luna piena
i tortelli e le cassate
da destra a sinistra
dal meridiano al parallelo
dal cinema dell’oratorio (stringhe e gazzosa –l’ultimo dei moicani)
lo cercavano
lo accarezzavano
lo chiamavano di notte
i frigoriferi americani erano le credenze del benessere
la sua credenza
(nota bene: diario di viaggio 1975 – tempesta nel golfo del Leone superata mangiando un vaso di marmellata di fichi – nave Capriolo – capitano Sbrana)
i vivi li vedeva morti
(cotti?)
i bolliti di Vicenza
i surici di Lamezia
che sollievo..
in famiglia si rubavano le fragole
si andava a letto con Tex, Lenin e Rimbaud
(che fatica far diventare comunista il poeta, ma alla fine ce l’avevano fatta!)
c’era chi non s’era classificato:
Celine
Pound
Malaparte
Carmelo Bene no!
Fo! solo Dario Fo!
Per dimenticare le notti A LETTO SENZA CENA!
si portavano 5/6 pesche ed il pollo alla gelatina
Al gran sole carico d’amore
Ci si svegliava e s’infilavano i Wrangler, si nascondevano i Rogers comprati da mamma al mercato a prezzo inferiore tanto i genitori non ne vedevano la differenza e si usciva nel pomeriggio assolato e produttivo
(mammà riusciva a tenerti in casa per qualche momento con le polpette e le promesse della crema di zabaione)
con le scarpe di Tavazzi
si cammina anche sui sazzi
e se i sazzi sono duri
con Tavazzi si è sicuri
ma lo confesso
anch’io ho peccato
non è esatto
anch’io ho commesso un errore
non ho mai usato la brillantina Linetti!
a Milano prima delle sigarette
(la prima Kent nel ritiro spirituale di Castelveccana
volete le bionde ? no
volete le brune ? no
volete le rosse ? no
ma cosa volete ?
noi vogliamo Dio che è nostro padre)
mi drogavo di cetriolini
con il Marco Sartori
ipnotizzati dal mestolo del salumiere
che li versava sulla carta oleata
dovevo trovare i soldi
x un etto al giorno
marinavamo la messa di fine pomeriggio
sgusciando tra le panchine
ed in piena astinenza
spiavamo dalla vetrina del salumiere
così crescevo
scemo di dopoguerra
mezza femmina!
volente o nolente
con vacanza estiva al mare
(bomboloni, sbrodolii di crema sui seni abbronzati
vaginette ripiene
prepuzi allo spiedo
frittura di testi
tette alla panna
ed i meini sbriciolosi sul Resto del Carlino
ti ricordi? i cappuccini deflorati da Nanni Loi)
le lunghe giornate agostane sulle Dolomiti
il primo amore per Marco diafano ebreo
la cioccolata bollente fusa sulle michette nane
la panna di Tesero
(mentre dispacci tendenziosi confermavano
che a pochi chilometri si mangiava la trippa per colazione)
Torniamo al mare
scampi
sogliole (Senigallia)
cozze
ancora il sud era lontano
come potevo vivere in oblio totale della questione meridionale
frutti di mare (ricci)
inciuci di formaggi con intestini
freselle con pomodoro
soppressate e capicolli
pasta paste
zeppole
stocco
fichi d’India
gioventù senza colore
papà in viaggio per lavoro
madre insegnante
sorelle maggiori incaricate del vitto
a volte qualche ibrido di macelleria
cresciuto a risi, spaghetti
bistecchine
focaccina e ciocorì alla mattina
da mangiarsi alle 10
insomma che cosa potevo diventare se non quello che sono diventato ?
c’era stato il boom
e con il boom si doveva cancellare
distruggere
divorare
dimenticare
cervello e cervella
cuore e polmoni
lingua salmistrata e unità nazionale
fame e autorità
colonie estive
il piano Marshall!e le melanzane con le zucchine e le patate
la caponata ha unito la nazione
più della televisione
settimino in una famiglia piccolo borghese
oratorio
movimento studentesco
droga
viaggi
matrimonio
un altro matrimonio
figlio
figlia
famiglia
lavoro e carriera in un’altra nazione
si riducano a
salivazioni ed espansioni culinarie ?
mangio per morire
sogno cibo alimenti
rubavo salame confezionato e dischi di Jimi Hendrix
in pausa di riabilitazione
Paff bum!
appesi i manganelli carnevaleschi
mi suicido con chiacchere e tortelli
pesto e pasta di Portovenere
Sciacchetràvincerà
a Cicengo ci s’infanga nelle terme di salsa
barberacci da riunioni rosse
trionfo orale punitivo
come le fellazio di bocche inesperte
piatto d’eterna giovinezza
d’eterni fumetti
in certi sughi al Sud c’è la battaglia del Trasimeno
si va in manifestazione a Torino
Pertini, Nenni, Berlinguer, Almirante,
sono piatti importanti
Karl Korsh ci prepara all’autogestione culinaria
cibo paramilitare ed escursioni nel vegetariano etnico terzomondista
cuscus fanoniani
scuola quadri: polpette di Randazzo
vinacci di Lambrate
seconda mano in Corso Garibaldi
Porta Ticinese: CHE FARE?
Il SUD
La condizione meridionale/fichi/pane/pecorino/olive/agnello
il sottosviluppo di Gunder Frank
il sesso (Wilhelm Reich) esteso fino alle coste della Sicilia
il falansterio dove si scopa e si mangia
epifania adolescenziale: ecco la bisessualità e l’alta cucina
caviale/champagne/ostriche
gli alberghi i camerieri
le frasi celebri che fanno una vita
le città sconosciute si cominciano a visitare dalla periferia
e a Parigi si visita Stalingrad e s’ingoia tutto
il granchio latino
il vietnamita vittorioso, il Beaubourg, il riz cantonais, il Bordeaux, il Pastis , il Calvados
Roth, i panini africani
si guardano i barboni mangiando baguette impeciate di patè
si sogna Jim Morrison che muore di ? …
e si fa colazione sull’erba
qualcuno di noi conosceva anche i poeti francesi
ce n’era abbastanza da abiurare il comunismo
noi l’avremmo fatto con Elvis e Brian Wilson
Grazie Sicilia
grazie Trapani per le sarde, le melanzane
grazie Palermo per il pescespada e le droghe tagliate
con la farina di pesce
grazie Catania per l’eroina e la cocaina
potessi almeno ricordare il nome dello spacciatore
gentile
ma è come ricordare il nome di un architetto di una
chiesa gotica
morivo aspettando di vivere
e vivevo aspettando di morire
Ho visto anche gli zingari felici
la Grecia da conquistare
il cibo greco fa schifo (ed il vino pure)
io faccio schifo
in Grecia mangio da fare schifo
immergo denti e naso in meloni dolci
come canzoni californiane degli anni ‘60
nuoto in un fiume di pesci grigliati
nel corteo funebre per i compagni uccisi
qualche grido
i pugni chiusi e le bocche collodiane del pescecane capitalista
che ci risucchieranno
ipotesi bucolica, via dalla pazza folla
i salami freschi e giovini della Bassa degli zii morti tutti d’infarto se non suicidi
il ritorno alle origini
la fame deideologizzata
Il colesterolo reprime le masse
Non che non sono stato io
ad uccidere poesia
tu vuoi dire che nessuno è innocente
nascondo la testa sotto un’ala
come se mi rinchiudessi in un’(i)stanza a (i)scrivere poesie
noi poeti possiamo essere coraggiosi
generalmente siamo come bambini meschini
violentati
ma ci rianimiamo a guardare il mare
mangiando arancini sul ferribbotto
da Reggio a Messina
Abbiamo sprecato molto
anche se a dire la verità
io le aragoste di Alghero
non le dimentico
rimpiango un palato più fino
in fondo sono ancora da bocciofila
ha ragione Fabio che viene da Gorla
che sono il Bukowski della Brianza
ma è possibile essere Bukowski in Brianza ?
Le ceneri di Gramsci
vengo a trovare Pasolini
e prima Gramsci e dopo Corso
tu mi chiedi com’era il 68
quale ?
quello uscito dai confessionali
dove ci nascondevamo tutti ?
lei non sapeva quindi che l’immigrato
nel canto si adagiava quasi piangendo
avvolto in un miraggio di qualcosa che
forse non era mai stato
il passato
quello vero
cancellato dalla quotidianità
rimane qualcosa
a dir la verità
e nel canto il vecchio immigrato
storicamente e non anagraficamente
abbraccia un’ombra
come discesa agli inferi
pare proprio
che entrambi non
troveranno la via alla libertà
prigionieri per sempre
del passato
allora cito
polipetti bolliti e poi arrostiti
a Matera
agnolotti con ripieno di fagiano
di Corno Giovine
fondamenta di salame fresco della bassa
impasti di padano
castrato e sugo di papera di Petritoli
e dal pubblico si passò al privato
viaggi a Londra ad usare il metadone gratis
e fish and chips
ma la scoperta fu un diner portoricano nuiorchese
pollo fagioli uova pane tostato e milk shake
aspettavo che tirasse su la saracinesca alle 5:30
per soffocare la post astinenza
fu nel periodo del privato
che m’innamorai anche del prosciutto crudo
prima avevo avuto una lunga cotta
per il cotto
cominciavo ad accettare le mie origini non operaie
a ricordare le mie radici contadine, come tutti gli italiani
prosciutto crudo, coca cola, eroina, patatine, cocaina
speed meat ball
mi rinchiudevo
in alberghi così sotto borghesi
uscivo solo per i rifornimenti
poi come Rossini non uscii più
HOW THE WEST WAS WON
ci fu l’America
metonimia del maiale visto come salame
dove mi specializzai nella mia smeridionalizzazione
costruendo i contrafforti della bioingegneria
Kentucky fried chicken
Doughnuts
Hamburgers
French fries
Presto diventai americano
grasso e pieno di debiti
pronto per il grande sogno
diventare ricco e magro
Sulla rena cubana
mi sentii come al Sud
bambini garruli con il moccio al naso
anche qui le fondamenta del tempio
colonia e potere
la pelle
la bellezza
il corpo
però la rivoluzione l’aveva rovinata lo zucchero
troppo zucchero a Cuba
a furia di prendere zucchero
si perde la vista
ci si abitua a dormire più spesso
a perdere l’uso degli arti
così muore lentamente la rivoluzione
coperta dallo zucchero
Prima c’era il cibo o il bisogno di cibo
Perciò questa poesia è anche dedicata a Gioacchino Rossini ed a Marco Ferreri
che sapevano che l’unico conforto nell’assedio
era il cibo
controllavano convulsamente dagli spalti l’arrivo dei rinforzi
(capitano le vettovaglie sono in orario!)
e il piccione che doveva portare un messaggio al mondo
non arriverà mai
è stato cucinato al mattone
La bella gioventù
Lo scandalo è la coscienza di avere già mangiato anche per gli anni
che ti rimangono
se morissi oggi avrei mangiato molto di più di quanto avrei dovuto (1/3 forse metà in più)
se morissi tra qualche anno avrei già mangiato per soddisfare il normale bisogno di un essere umano
della mia corporatura
certamente ho fumato per due persone
ho mangiato molti più cetriolini di quanti assegnati ad un cristiano
e le droghe ? mi sono fatto anche le dosi di coloro che non le hanno mai prese
per una media equilibrata
il sesso poteva essere di più ma il pensiero e la masturbazione mi hanno portato a livelli di eccellenza
non sono diventato cieco
ma sono diventato grasso
per finire vorrei chiedere la misericordia di essere cremato e le mie ceneri
buttate ai pesci nel mare di Porto Venere e sul molo vorrei che
fosse posta una targa
con il mio epitaffio che più o meno dovrebbe essere cosi
“era destino che si mangiasse anche quello”
*
[…..Sento momentaneamente il bisogno di un periodo di vita calma, nella frescura verde, nei prati che sorridono alla Primavera, tra i papaveri che guardano il sole d’oro sfolgorante e poi cadono sotto la felce ridendo lieti d’aver vissuto una giornata!E voi margheritine tremule, sperdute fra le alte erbe, tra i trifoglio e l’erba medica, sul ciglio dei fossi, quasi a lambire ed accarezzare l’acqua che scroscia, voi margheritine scherzanti ridate la gioia di vivere!
Fiori,tanti fiori, aromi vaganti, profumi dei campi, voi siete il mio desiderio insoddisfatto, la mia brama di vita.
Sole che illumini le alte cime e le acque del golfo, dammi la luce, la luce che viene da Dio, che ci aiuta nella sventura e ci premia nella sua Infinita bontà]
(Carlo Paina)
[Corrado Paina Executive Director Italian Chamber of Commerce of Ontario
Tel: 416-789-7169 ext. 250 paina@italchambers.ca

G. Linguaglossa e Alejandra Alfaro Alfieri, Roma, ott. 2018
Giorgio Linguaglossa
31 ottobre 2018 alle 14,22
caro Corrado,
sicuramente questo poemetto, contenuto nel libro Largo Italia pubblicato nel 2018 con SEF (che poi sono due poesie) è un lavoro di grande forza termodinamica e di assoluto rispetto, avuto riguardo alla poesia italiana di oggidì che sopravvive, tra un languore e l’altro, grazie a continue infusioni di Linfopil, e di sonniferi vari tanto è malridotta ed esangue da essere ormai invisibile… Ecco, direi che questo tuo poemetto ha tutte le carte in regola per essere ascritto alla nuova fenomenologia estetica, si tratta di una pioggia fitta di lessemi e di monemi che trascinano il lettore in una vera e propria apoplessia, al corto circuito tra occhio che legge e orecchio che ascolta… raramente mi accade di leggere un poemetto di tanta e tale forza percussiva e drammatica, di disperata vitalità, di malcelato orgoglio, di disperato cordoglio in cui convergono stilemi e lessemi della più disparata provenienza culturale, dalla beat generation ai sacchi di Burri ai tagli di Fontana…
Direi che la tua «nuova fenomenologia estetica» sia una realtà da affiancare alla «nuova ontologia estetica», due modalità stilistiche che possono, anzi, debbono andare assieme, le due ricerche non si escludono affatto, possono andare benissimamente insieme, d’amore e d’accordo, mi sembra che la tua sia una poesia che può rivitalizzare il corpo opaco della poesia italiana di oggidì che sopravvive anche grazie a una buona dose di cloroformio e di calcestruzzo dimidiato come quello del ponte di Genova venuto giù come burro… la poesia italiana ha bisogno di fortissime iniezioni di vitalità, c’è bisogno di un vigoroso massaggio cardiaco. Il tuo poemetto è anche, in un certo senso, un lungo e dolente epitaffio per la memoria andata dispersa del popolo italico (oggi va di moda qui in Italia richiamarsi al “popolo”) in crisi di fastiscizzazione strisciante e altalenante.
Un paese in gravissima crisi, caro Corrado, che non pensa più al suo futuro, al futuro dei propri figli e che non vive più di passato, una gravissima crisi che il tuo poemetto mette in bella mostra, e mi meraviglia che sia stato un poeta italiano che da trent’anni vive e lavora in Canada, a Toronto, ad aver scritto questo epitaffio per la memoria degli italiani e dell’italia. Un epitaffio violento, appassionato, viscerale, un atto d’amore e di odio che forse soltanto un poeta italiano esiliato all’estero poteva scrivere. Con le tue parole:
la caponata ha unito la nazione
più della televisione
Forse il mondo ha cessato di essere significativo, e forse al poeta di oggi non è concesso l’accesso alle esperienze significative, ma è emblematico che alla poesia di oggi tocchi in sorte di dover stendere in versi l’epicedio esistenziale forse più lucido e disincantato della poesia di matrice novecentesca, quando si parla dell’indebolimento della soggettività con la tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante.
Il fatto è che non si può uscire dal sortilegio, o dall’immaginario direbbe Lacan, non possiamo sortire né entrare in un luogo sconosciuto se non mediante un trucco, un dispositivo, un cavallo di Troia, perché la città del senso la puoi prendere soltanto con un trucco, con un sortilegio, un atto di raggiro, di illusione, perché il poeta è ragguagliabile ad un illusionista che illude con le parole ed elude con le parole. «Il fatto è che non si può davvero uscire dal trucco, o dall’immaginario, come direbbe nel suo linguaggio Lacan».1
E forse in questo bivio soltanto può abitare il senso, ci vuole dire Paina, il senso residuo dopo la combustione, se davvero v’è un senso nella parola poetica, costretta a sopravvivere in questo «indebolimento della soggettività»2 che dura ormai da tanto tempo che ne abbiamo perfino dimenticato la scaturigine.
(Giorgio Linguaglossa)
1 Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007 p. 87
2 Ibidem
Ecco un poeta italiano, uno dei tanti stabiliti in America, come Giose Rimanelli, che credo non debba essere sconosciuto a Corrado Paina la cui poesia mi riporta a Ginsberg, folta, piena di eventi, di tracce della nostra storia.
Coinvolge fino all’esasperazione ironica
il poemetto del ragazzo Corrado,
che convince come un signorino Richmond.
Sta bbene!
Nell’ironia gastronomica riavvicina il distacco depalchiano per
l’irrisolta dimenticanza del dolore
che è mestolo di commozione.
La memoria apparecchiata.
Grazie Ombra.
Campione dei pesi massimi sfida i 140 caratteri dei tweet, o di ogni altra categoria di lunghezza ragionevole – ove si intenda per ragionevole il limite odierno della media attenzione – del resto abbiamo messo via la memoria nel computer, gran comodità, e abbiamo più tempo per dedicarci all’esperienza di vivere.
Di per sé la memoria non è comprensione, perfino la persona più stupida può avere buona memoria. Il più delle volte, le persone intelligenti non hanno affatto una buona memoria. Questo diceva il mio Maestro, e io sono d’accordo. Poi possiamo volgere il discorso sulla polis, ma è parlare d’altro.
“Hai mai visto persone che sanno molto, ma agiscono in modo stupido? Capita quasi sempre così: un uomo che sa troppo diventa sempre meno consapevole. Egli agisce in base a quello che sa, non in base alla situazione reale. Diventa sciocco, si comporta in un modo stupido, perché per comportarsi in modo saggio occorre rispondere al momento, mentre lui agisce sempre traendo spunto da un passato morto. (…) Una persona intelligente non opera a partire dalla sua esperienza passata, opera nel presente. Non reagisce, risponde; per questo è sempre imprevedibile, non si può mai essere certi di cosa farà”. (Osho)
“La memoria apparecchiata” afferma Piperno del poemetto di Corrado Paina. Una definizione azzeccata? Azzeccatissima? Riduttiva? Non saprei. Ho letto i versi di Paina nella prima ermeneutica di Linguaglossa e adesso li rileggo in questa seconda. In alcuni tratti sono stato schiacciato dall’accumulo sequenziale delle parole:
Torniamo al mare
scampi
sogliole (Senigallia)
cozze
ancora il sud era lontano
come potevo vivere in oblio totale della questione meridionale
frutti di mare (ricci)
inciuci di formaggi con intestini
freselle con pomodoro
soppressate e capicolli
pasta paste
zeppole
stocco
fichi d’India
… e così via… passando dal Nord al Sud, dentro fuori, in mezzo, il ’68 come sfondo. Linguaglossa ha chiamato tutto questo “Nuova fenomenologia estetica” da affiancare alla “Nuova ontologia estetica”. Alle prossime indagini la risposta esaustiva. Non è che si tratti forse, o piuttosto, della riemersione di quell’esigenza mai sopita di far chiarezza “storiografica” sui decenni scorsi, con un latente richiamo al Pasolini degli anni ’50 o ’60?
….
c’era stato il boom
e con il boom si doveva cancellare
distruggere
divorare
dimenticare
cervello e cervella
cuore e polmoni
lingua salmistrata e unità nazionale
fame e autorità
colonie estive
il piano Marshall!e le melanzane con le zucchine e le patate
la caponata ha unito la nazione
più della televisione…
C’è l’eco in questi versi di un’esigenza morale e la scia di un ritorno al senso civico e all’impegno civile pasoliniano o un tentativo d’analisi del rapporto tra “cibo” e “cultura” sotto l’aspetto antropologico?
………………….
Grazie Sicilia
grazie Trapani per le sarde, le melanzane
grazie Palermo per il pescespada e le droghe tagliate
con la farina di pesce
grazie Catania per l’eroina e la cocaina
potessi almeno ricordare il nome dello spacciatore
gentile
ma è come ricordare il nome di un architetto di una
chiesa gotica…
Forse nessuna delle ipotesi precedenti… accostare il nome dello spacciatore gentile al nome di un architetto di una chiesa gotica provoca i brividi, mette addosso il gelo: a questo siamo giunti!
È in questa “memoria” che non ricorda la morte di poesia…
Non che non sono stato io
ad uccidere poesia…
Domanda e risposta quanto meno ambigue! E allora?
Scusatemi la digressione. Scrive Campana: “Una volta in Sardegna entrai in una casa con fuori una vecchia lanterna di ferro che illuminava la parete di granito. Fuori la via metteva sulla costa pietrosa che scendeva dall’altopiano al mare. Questo ricordo che non ricorda nulla è così forte in me!” (Campana, Opere e contributi, Vallecchi, pg. 436)
Se si ritorna indietro per non ricordare o per rimanere nella palus putredinis ha ragione Campana a esclamare: “Ah miseria di questi ritorni!” e ha ragione
Lucio Tosi a ricordarci che “Di per sé la memoria non è comprensione,…”
È questo il senso della “memoria apparecchiata” di Piperno? Il Pasolini degli anni ’60 aveva ancora il pudore di confessare: ” A questo mi sono ridotto: quando/ scrivo poesia è per difendermi e lottare, / compromettendomi, rinunciando / a ogni antica mia dignità: appare / così, indifeso quel mio cuore elegiaco / di cui ho vergogna…” , Paina, invece, può affermare tranquillamente, al giorno d’oggi che “… noi poeti ci rianimiamo a guardare il mare / mangiando arancini sul ferribbotto da Reggio a Messina.” Mi sovviene, a proposito, che Platone era solito dichiarare che la poesia è un’attività post-prandiale. Ma erano altri tempi. Gli dei allora scendevano in terra e facevano compagnia ai commensali mescolando vino annacquato e purissima ambrosia. Oggi gli dei rimangono espatriati nei loro interspazi siderali e, al limite, inviano qualche ologramma alieno a turbarci ulteriormente.
Già mi sono dilungato troppo. Concludo. Per me va bene la memoria. Per me va bene il passato, le esperienze. Tutto ciò che ci passa e ci trapassa, dall’inconscio e dal conscio, ma le parole sono parole di morte se non illuminano la strada che stiamo percorrendo, ora e adesso. E dato che siamo in clima di santi e di morti prendo a prestito l’epitaffio conclusivo di Paina con una piccolissima variazione: “era destino che si mangiasse anche … quella”, la poesia dico, e non certamente lui, quanto la generazione del ’68, quella di Ferreri della “Grande abbuffata” di Tognazzi, Michel Piccoli e Mastroianni.
E’ il poemetto più divertente e intelligente che io abbia letto in questi ultimi tempi. Cibo, sesso, droga e tanto rock ‘n roll.
Effettivamente c’è chi ha mangiato a dismisura. Forse troppo, tutti, con diverse gradazioni però. Il cibo si rivela una bella cartina al tornasole per la nostra epoca (a chi troppo e a chi troppo poco). Bene, mi è piaciuto il poemetto di Corrado Paina, molto americano (ma come sono vere certe immagini – gli arancini sul traghetto ad es.) Stona, secondo me l’ultima parte ironica sulle margherite, da un tipo come lui.
«Penso dove non sono, dunque sono dove non penso»1]
«L’io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’insegna del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo».2]
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/01/corrado-paina-due-poesie-da-largo-italia-sef-2018-cibo-per-le-masse-la-bella-gioventu-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-39299
Umberto Galimberti scrive che:
«la poesia, di cui si alimenta il mito, è una produzione di significati, che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo Questa imposizione non è l’imporsi delle cose ma ciò che l’uomo impone alle cose, la violenza poetica sul contenuto quale si dà».3]
Detto in altri termini, la scrittura poetica è «una produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose, quando invece la posizione del poetico dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio, sostare un passo indietro, un attimo prima che la parola ci raggiunga, dall’esterno, con la sua dote di «imposizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger; se invece andiamo oltre, se procediamo verso il linguaggio, con attese, con im-posizione, con Gestell, ecco che quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, il nostro linguaggio verrà intaccato dalla «imposizione» dei linguaggi che provengono dall’esterno, dal mondo dell’utilitarietà, dal mondo delle condotte, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria im-posizione.
Il problema è molto complesso e non è riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologia dell’io che impera nel mondo tecnologizzato delle società mass-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere buona poesia, l’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione; l’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria sopravvivenza, lavora per i progetti di auto organizzazione dell’io, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nella comunità linguistica, non può sfuggire alla sua ontologia della im-posizione.
La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più accreditati, altro non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici, scrittura utilitaria, impositiva, progettante, narrativizzante, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria…
Qualche giorno fa un poeta mi ha scritto che non condivide affatto il mio «giudizio apocalittico» sulla morte della poesia italiana, che invece godrebbe, a suo parere, di ottima salute. Al di là dei pensieri personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, sono convinto, e ho tentato di argomentare questa mio giudizio nelle mie pubblicazioni, che la poesia degli ultimi decenni è stata fatta per esigenze personali, istintive, per personalismi, per narcisismo, senza alcun progetto culturale. Di fatto, spero di sbagliarmi, la poesia italiana che è stata scritta in questi ultimi decadi e che si fa oggi è una forma di scrittura priva di valore culturale, una forma di scrittura che non contiene alcuna regola, alcuna episteme direbbe un filosofo. Una scrittura imbonitoria.
U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, 1990
«Sta forse giungendo a compimento il senso espresso da più di duemila anni della nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora, con Nietzsche, e poi con Heidegger e Jaspers, comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa davvero finisce proprio oggi quando sembra che tutto il mondo insegua senza esitazione la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’Occidente e soprattutto la sua distanza dall’Oriente? Finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica.»
«Per staccarsi dal pensiero rappresentativo occorre, a parere di Heidegger, un salto. Saltando ci lasciamo cadere. Dove? Là dove già siamo: nell’appartenenza all’essere. Dal salto nasce “già” in cui si era. Il rilassamento (Gelassenheit) che sorge dal “ritrovarsi” nel “già” in cui si era. Il rilassamento vive la serenità (Gelassenheit) del “ritorno” nel luogo in cui “da sempre” si era, e col ritorno il piacere del ricordo e del recupero.
[…]
Se salvezza, come dice Heidegger, è “ricondurre qualcosa alla sua essenza”, in modo che il qualcosa non vada perduto, la tecnica potrà salvare se, invece di appropriarsi dell’ente, si dispone all’essere che, nel suo appropriarsi originario (Er-eignis), ospita l’accadimento di ogni ente.
Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo di rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen) e “apertura al mistero (die Offenheit fur das Geheimnis)”.
Il mistero è l’incalcolabilità dell’essere, di ciò che ci fa pensare, del “proprio pensiero”, in cui si custodisce il destino (Geschick) che fa dell’uomo un pensante, un appropriato (zugeeignet) all’essere. Rispetto a questo mistero, la Gelassenheit, come pensiero meditante in cerca del senso (besinnliche Denken), pur superando il pensiero calcolante delle rappresentazioni tecniche (das rechnende Denken) non approda a una trasparenza assoluta.
Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso. L’alternativa richiama l’ambiguità della provocazione e lascia le possibilità dell’epoca nella sospensione del “salto (Sprung)”, nell’attesa che aspetta il dischiudersi dell’ambito di ciò che ci viene incontro (das Gegnen). In questo senso, scrive Heidegger:
“Il fatto fondamentale della Gelassenheit è restare in attesa (Warten). Restare in attesa vuol dire lasciarsi ricondurre all’Aperto di ciò che ci viene incontro. […] L’uomo infatti è affidato (gelassen) a ciò che viene incontro in quanto gli appartiene originariamente. E gli appartiene perché, fin dall’inizio, è ad-propriato (ge-eignet) a ciò che viene incontro. Per questo l’attesa si fonda sulla nostra appartenenza a ciò di cui siamo in attesa.”
Nell’attesa, l’unico atteggiamento da assumere, proporzionato all’ambiguità della provocazione e consono alla carenza del tempo in quanto tempo d’attesa, è quello, scrive Heidegger, di:
“Dire contemporaneamente di sì e di no al mondo della tecnica. Ma in tal modo la nostra relazione a tale mondo non si spacca in due e non diventa incerta? Al contrario, la nostra relazione al mondo della tecnica diventerà invece semplice e serena. Lasceremo entrare i prodotti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasceremo fuori, li abbandoneremo a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa di più alto. Tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: abbandono di fronte alle cose, abbandono delle cose alle cose (die Gellassenheit zu den Dingen)”
L’abbandono e il rilassamento che ne consegue sono atteggiamenti che nascono quando il pensare tecnico non si costituisce come unico pensare, ma si lascia comprendere in quel più ampio orizzonte dischiuso dal pensare meditante (besinnliche Denken) che non ha nulla di tecnico, perché la sua attenzione non è rivolta all’impiego delle cose, ma alla ricerca del loro senso, ivi compreso il senso sotteso allo stesso impiego tecnico delle cose. L’estinguersi del pensiero meditante “ci sottrae il terreno su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica” e allora, scrive Heidegger:
“La rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ed essere effettivamente esercitato”.
In questa eventualità, secondo Heidegger, si nasconde per l’umanità il pericolo “più grande di una terza guerra mondiale”, perché in gioco è l’essenza dell’uomo, la sua possibilità di essere apertura e dischiusura al mistero dell’essere».4]
1] J. Lacan tr. it. L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974 vol. I p.512
2] Id., Il seminario, vol. I Gli scritti tecnici di Freud, Torino, 1978, p. 20
3] U. Galimberti Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, 2005, pp. 407 e segg.
4] Id.
Il tinove(questa contessa) fa questi scherzi, caro Giuseppe Gallo.
Pierno non Piperno.Un abbraccio…
Così molto diverso dal poemetto Cibo per le masse tanto da chiedersi, che cosa esporta dal Canada il Canada in Italia?
L’atrofia della memoria
genera comparse, attori. Personaggi di presepi
altri. L’accelerazione dell’assililazione
del presente genera paradossalmente
il vuoto della stessa e attiva solo comparse.
Allerta la teatralità, l’economia spumeggia!
La sopravvivenza del commercio minuto nei piccoli centri urbani è caratterizzato da impostazioni teatrali;
la vendita subordinata a strascichi di memoria.
Le orecchiette con le cime di repe.
La perdita favorisce la slow culture!
Grazie, Grande OMBRA.
Ti chiedo scusa, carissimo Mauro Pierno, ma anche la memoria ormai ingarbuglia se stessa!
Le margherite
Tra rive d’erba
giacciono figli rifiutati
una sedia e una dispensa
dalla bocca aperta.
Si passa oltre e non è pianto.
Non offende il cibo ingoiato
non c’è più nulla
nella mano che getta, niente
nei cassetti spalancati.
Per l’accumulo, finti castori
demiurghi maldestri, siamo
già tutti assolti
reintegrati per nuove imprese
con denti affilati, lassù sugli spalti.
A Gennaio si parte:
nel posto riparato del prato
in solitaria ascesa riverberano
delle piccole e strane margherite.
Mi sembra che l’intervista metta in chiaro molti, non certamente tutti, i presupposti che sorreggono il poemetto in questione. In rapporto alla memoria sono andato rileggermi la cosiddetta “Contraddizione del barone di Munchhausen” in cui il barone si tira fuori da una palude tirandosi per i capelli… è la condizione, forse perenne, della poesia: capire il mondo risalendo alle radici del linguaggio umano, alle sue strutture originarie e inconsce. Ma per abbozzare questo tentativo il poeta deve muoversi a ritroso, rimestando sempre il linguaggio nel quale è caduto! Si può raggiugere poesia attraverso lo strumento che l’ostacola? E lo stesso discorso vale per il resto, o meglio, il “mondo” anche perché questo non cade e non può cadere sotto la categoria della totalità. Noi imponiamo alle cose, dice bene Galimberti, qualcosa di noi stessi… sarebbe interessante avere a che fare con una realtà senza cose e assolutamente vuota… contro chi e su chi si imporrebbe la violenza poetica degli uomini?
Una poesia inedita di Edith Dzieduszycka
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/11/01/corrado-paina-due-poesie-da-largo-italia-sef-2018-cibo-per-le-masse-la-bella-gioventu-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-39332
Il vento vorticava nelle pantofole del Grande Vecchio
-Grande lo disse lui chi ci cascava? la rana
forse –
in un’ultima notte
di baldoria in cui perse
la bussola tra tuoni e lampi voleva
assolutamente
viaggiare ancora e trastullarsi visitando
il Palazzo d’Inverno un po’ prima che fosse
sommerso si scioglieva
il bitume globale ormai era l’evento accreditato
in una discarica
vicino a Oslo fu ritrovato
zuppo l’orso polare
correva gente al Centro Commerciale
per comprare
quelle cose indispensabili vodka preservati
sigarette
c’era anche chi si scordava
gli occhiali neri picchiava il sole forte
nelle coulisse del Potere
ma lì
nessuno ci faceva caso
un cinese che passava di là per obiettare
sui dazi eccessivi, si ritrovò ahimè, senza mandorle
pianse si disperò niente ormai ci fu da fare cercò
la moglie era sparita
disgustata forse rapita nell’insieme
furono giorni assai piccanti
traduzione in francese di Edith Dzieduszycka
Le vent tourbillonnait dans les pantoufles du Grand Vieux
– Grand selon lui qui tombait dans le panneau? la grenouille
peut-être –
lors d’une ultime nuit
de bringue durant la quelle il perdit
la boussole entre éclairs et tonnerre il voulait
absolument
voyager encore et s’amuser en visitant
le Palais d’Hiver un peu avant qu’il ne fut
submergé le bitume global fondait
c’était désormais un fait digne de foi
dans une décharge
près d’Oslo fut retrouvé
trempé l’ours polaire
les gens couraient vers le Centre Commercial
pour acheter
ces choses indispensables vodka préservatifs
cigarettes
parmi eux certains oubliaient
les lunettes noires le soleil frappait dur
dans les coulisses du Pouvoir
mais là
personne n’y prêtait attention
un chinois qui passait par là pour protester
contre les droits de douane exagérés se retrouva hélas, sans amandes
il pleura désespéré mais désormais plus rien à faire il chercha
sa femme elle avait disparu
dégoutée peut-être kidnappée dans l’ensemble
ce furent des jours plutôt croustillants
La spesa
I dollari al collo
Le sterline pendule alle orecchie
Gli euro di carta sugli occhiali.
Gioiosamente vibra
il capo che va e viene
lungo la scala mobile e il vuoto.
Saetta la mano d’unghie rosse
tra i flutti amaranto e viola delle extentions.
Gioiosamente esamina e ricorda.
Inquieti sentieri
anelli d’argento.
Quartieri malfidi
scarpette d’alluminio.
Marine deserte
cappelli di fibra di cocco.
Altri robot, naturali e innaturali,
inghiottono salive e rimorsi e brividi malfermi
sulle rotaie che incavano muri di buio.
Soppesa la borsa, la plastica rigonfia fa da specchio.
Di sé rimira
la candida fuliggine sul volto
il fervido stridore della gonna
la nuova curva dei seni.
Soppesa il momento, ma il tempo straripa.
Bisogna riandare, avanti e indietro, gioiosamente.
Gioiosamente.
Refusi di noi stessi.
Divertente e ironico Corrado Paina, che mi fa pensare ai miei versi dell’inizio anni settanta; versi dei nove “Poemi (di un) idiota”.
Ovviamente l’influsso americano della poesia americana è evidente, e non guasta affatto poiché il ritmo è pulsante come certi ritmi del jazz, che è sempre un piacere ascoltare anche in poesia, come questa.
Questo genere di poesia rende lo spirito più leggero e ci allontana davvero dai versi di alcuni poeti “grevi e pesanti”, p.e. come quelli del sottoscritto; quindi una poesia tònica che fa bene alla salute.
a.s.