Giorgio Linguaglossa
Intorno al 1919 Osip Mandel’štam scrive un saggio Sull’Interlocutore e punta la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Punto cruciale della nuova poesia acmeista era, nel pensiero del poeta russo, di ripristinare un corretto rapporto con l’«interlocutore», anzi, il presupposto filosofico sul quale si basava il suo concetto di poesia acmeista era quello di individuare un «nuovo» rapporto con il «pubblico» e con l’«interlocutore». La «nuova poesia» avrebbe dovuto identificare un nuovo pubblico e un nuovo concetto di «interlocutore». Era una posizione strategica e una posizione filosofica.
Oggi mi sembra che questo sia il problema centrale per la poesia italiana: Con chi parla la poesia di Bacchini? Con chi parla la poesia di Attilio Bertolucci? La poesia di Bertolucci, penso a La camera da letto, richiede una grande lentezza. La poesia paragiornalistica che verrà dopo Satura di Montale richiede invece una grande velocità. Come mai questo fenomeno? Che cosa è cambiato nella poesia italiana? Con chi parla la poesia post-montaliana (post Satura, del 1971)? Quale è l’«interlocutore» della «nuova poesia»?
Io penso che la poesia del presente e del futuro debba avere al centro della propria ricerca la questione della memoria e dell’oblio della memoria. E riproporrei la storica domanda di Mandel’štam: «con chi parla il poeta?». Rispondo: «con la Memoria».

La Signora Miniver sembrava un’opera d’arte.
13
Mario M. Gabriele, dalla raccolta di prossima pubblicazione Registro di bordo
La Signora Miniver sembrava un’opera d’arte.
Risalimmo le scale fino alla mansarda
per vedere La Bella Elena di Offenbach
-Portami fuori da questo luogo – disse Catherine.
Le ricordai I canti dell’esperienza e dell’infermità.
Uno chiese un calice d’oro per l’altare
senza aver mai incontrato le carmelitane.
A Vladivostock pagammo in sogno 30 kopejki
per passare il Golden Bridge.
Un avvoltoio si posò nella steppa
scegliendo il meglio della rappresaglia.
– Presto- disse Cristian,
-bisognerà rivedere i passepartout -.
E non eravamo ancora certi se ricaricare gli orologi,
dare il veleno ai topi.
Paulin si fece avanti tenendo tra le mani
un biglietto per Okinawa.
Le condizioni anomale del tempo toccarono le rose
tranne la Primavera di Botticelli.
.
Mauro Pierno
un tempo, quale tempo,
se la figurazione sfugge
se oltre la siepe un confine spinge
se nella mano
un vortice appare di consolanti nubi
che non dovrai schiarire
che non dovrai riscrivere
mai.
un cielo sereno,
profondamente sereno e sgombro di nuvole.
Un antefatto.
Inquietante.)
.
Francesca Dono
Non conosco la donna che cammina.
Neanche gli altri spinti solo da un invisibile risacca.
Sono tutti qui. Al mercato rionale dei vestiti incrociati. Una folla vagante. Fedra raccoglie quello che trova nel pantano. In un minuto qualunque.
L’autunno sale alle bocche spogliate
anche quest’anno. A dispetto dei sospiri più fitti. Sound di
onde a digiuno. Un déjà-vu palpitante. Nero crostaceo del freddo.
Appendix
(Lacera et misera bestia non orare pro nobis .Tuos utero feroce. In abbundantia disordinem ordinatus pescis )
.
Gino Rago
Versi da alcune meditazioni sul Quadridimensionalismo
Su La Quarta Dimensione
“La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.
Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?
Fanno riapparire il tempo nello spazio?
[…]
Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalla profondità delle quattro dimensioni.
Perché l’uomo è spaziotempo.
Perché al profondo, nel lungo e nel largo
soltanto l’uomo lega ciò che è stato.
Il tempo perduto. Il tempo passato.
Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.
E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra. […]”
Mario M Gabriele
Un giorno ho chiesto a uno psichiatra, amico di vecchia data, se l’uomo è in grado di vivere senza la memoria. È possibile, mi disse, solo se è una sua libera scelta o se è un paziente affetto da Alzheimer. Il ricordo può essere positivo, se gli elementi che lo determinano si correlano al piacere della vita, o negativo se i dati ad esso correlati, sono dolorosi e incancellabili e quindi di sradicamento dall’archivio della memoria.”Il cervello, scrive Sergio della Sala su “Micromega” n7 -2010 – pag. 37 ha una doppia funzione, anche secondo Umberto Veronesi, che si lascia attrarre dall’idea del cervello double face.”
Nota è la sua intuizione nell’affermare che “siamo largamente imperfetti con le nostre debolezze e le nostre difficoltà, con un cervello che ha un emisfero cognitivo, razionale, logico, matematico, e l’altro emisfero che elabora sentimenti, emozioni, fantasie”.
Su questi indirizzi operativi il cervello conserva o abbandona la memoria secondo il rapporto che essa ci propone.
Ma c’è anche un altro punto di vista: quello di Edoardo Boncinelli, che in fatto di funzionalità della mente e del suo operare con la memoria ne spiega la ragione osservando che “la mente è tutto ciò che accade nella nostra testa. C’è anche una periferia che noi chiamiamo cuore, perché molte delle nostre emozioni le sentiamo nei vasi che passano vicino al cuore”. Da qui l’accettazione o il rifiuto di ciò che domina la nostra vita con il ricordo.
Scrive Barbara Spinelli su “Il Corriere della sera” che Il Novecento è stato il secolo ammalato di amnesia: Non a caso, Claudio Magris citando il libro della Spinelli: Il sonno della memoria, rileva che” tutto il tema del volume ruota intorno al sonno della ragione e sottolinea il valore razionale, oggettivo e non elegiaco-sentimentale della memoria. Come il sonno della ragione, anche quello della memoria può generare mostri”
Giorgio Linguaglossa
Trascrivo un commento di Annalisa Arci all’ultimo libro di Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017 –
«Secondo i postmoderni il pensiero forte o metafisico non è più in grado di fornire fondamenti e principi assoluti del conoscere. Dal momento che l’uomo deve abituarsi a vivere senza certezze e solo con opinioni, la sfida che il pensiero debole vuole lanciare è sul piano della ragione o, meglio, sul piano dell’idea di ragione, per sostenere una concezione della stessa che sia in grado di farsi carico della contraddizione dell’esistente e di incontrare l’essere come ombra, traccia, ricordo, un essere consumato indebolito e proprio per questo degno di attenzione. I referenti essenziali sono Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Deridda, Ricoeur, Foucault e i decostruzionisti francesi. Il punto saliente di questo modo di fare filosofia consiste nella critica di ogni tecnica e prodotto scientifico e di ogni forma di filosofia che non attinga ad una dimensione originaria a cui la scienza non può avere accesso, di fronte alla quale le scienze naturali rivelano la loro impotenza.
Pensiero debole ed ermeneutica sono le due declinazioni del postmoderno più note in Italia e che hanno suscitato reazioni da parte di Pietro Rossi (Le città filosofiche. Per una geografia della cultura filosofica italiana nel Novecento, Il Mulino, 2004), Carlo Augusto Viano (Và pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, 1985) ed Enrico Berti (Le vie della ragione, Il Mulino, 1987). Reazioni convincenti, con cui concordo.
In Postverità e altri enigmi si parte proprio da qui. Da una domanda sui tratti che qualificano e definiscono l’epoca contemporanea ma anche (implicitamente) sul modo in cui nel dibattito contemporaneo si intendono la ragione, la verità e la filosofia stessa.
Nella prima dissertazione Ferraris dimostra che il postmoderno è l’antefatto della postverità, in quanto quest’ultima non è altro che la diffusione del postmoderno al di là delle mura universitarie. La postverità non è un fenomeno marginale, ma aiuta a “cogliere l’essenza della nostra epoca, proprio come il capitalismo costituì l’essenza dell’Ottocento e del primo Novecento e i media sono stati l’essenza del Novecento maturo”. Esaltare il falso, l’irragionevole e la volontà di potenza equivale a parlare alla pancia della gente, veicolando al tempo stesso una convinzione molto più pericolosa: la verità è solo un’antica metafora e ciascuno di noi ha la sua verità che diffonde e difende a colpi di mouse.
Nella seconda dissertazione troviamo il passaggio dal capitale alla documentalità, ossia il medium tecnico che rende possibile la postverità. Con un sempre maggiore senso di onnipotenza da parte delle masse, assistiamo al tramonto della stagione del capitale (le merci sono sostituite dai documenti e il lavoro salariato da una quantità spropositata di lavoro gratis sul web). All’era del sostentamento segue l’era del riconoscimento, in cui uno vale uno e di cui i selfie sono la più evidente espressione.
L’ultima dissertazione propone un rimedio alla postverità. Il rimedio poggia sul riconoscimento dell’insufficienza delle teorie della verità ermeneutiche (che Ferraris chiama ipoverità) e analitiche (che chiama iperverità). La verità non è più una relazione a due posti, tra ontologia ed epistemologia, ma a tre posti. Esiste anche la tecnologia. È attraverso la tecnologia che facciamo la verità. Ferraris conclude che ci sono fatti proprio perché ci sono interpretazioni e che per “fare la verità” bisogna ricorrere ai fatti.»
Io penso che proprio il concetto di de-materializzazione impiegato da Ferraris ci può aiutare a comprendere il valore irrefutabile della memoria per l’azione umana e per la stessa ontologia della condizione umana. La memoria è quella «cosa» per eccellenza de-materializzata che ha il suo luogo nella mente, ma non in una zona localizzata della mente ma, a quanto pare, in un luogo-senza-luogo-della-mente, in un non-luogo. La condizione umana semplicemente non potrebbe esistere senza la memoria, altrimenti saremmo ridotti a un algoritmo, l’uomo sarebbe un robot.
Ecco perché la memoria assume un ruolo così importante nella poesia di livello di questi ultimi decenni e nella «nuova ontologia estetica», o «nuova fenomenologia estetica», come piace dire a Petr Kral. Non sarebbe stato possibile la costruzione della tecnologia senza l’ausilio della memoria, se l’uomo non avesse potuto contare su questa straordinaria risorsa filogenetica.
Nei tempi attuali quando la memoria viene minacciata da torme di barbari (vedi il trionfo della Trump Truth e della Salvini-Di Maio Truth che si configura come solidarietà di una massa, di webeti, contro le macchinazioni della élite dei “poteri forti”) in arrivo, è bene che la poesia e l’arte ritornino a creare sulle fondamenta della memoria individuale e collettiva.
http://www.filosofia.rai.it/speciale/la-memoria/345/13936/default.aspx
[ “Questa conoscenza, o re, renderà gli egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza.”
Platone, Fedro
A cosa serve la memoria? A ricordare, certo, ma più profondamente, serve a pensare, a riflettere, a conoscere. Su questi temi si concentra la prima puntata di “Zettel. Filosofia in movimento”.
Maurizio Ferraris evidenzia come le nuove tecnologie ci abbiamo fornito archivi e strumenti sempre più potenti, e sempre più facili da utilizzare, tramite cui conservare la memoria. Platone, nel Fedro, criticò la scrittura proprio perché stimolava la memoria esteriore a discapito della memoria interiore. Ma già in lui si affacciò l’idea della mente come tabula scriptoria, un concetto che arrivò fino a Locke e poi a Freud.
Nella sua rubrica, Paolo Virno si interroga sulla possibilità di ricordarsi del presente e, partendo da questa osservazione apparentemente contraddittoria, affronta il tema del deja vu, inteso come un pervertimento del ricordo del presente. La memoria assume un ruolo fondamentale, riprende Ferraris, perché abbiamo l’impressione che perdendone anche un solo pezzo potremmo perdere parte della nostra identità. Mario De caro, però, non è d’accordo in proposito e porta i suoi controesempi. Seguono gli esperimenti mentali di Maurizio Ferraris, che chiariscono l’importanza che nella vita quotidiana diamo alla memoria.
Dalla Columbia University di New York Achille Varzi, compie un excursus all’interno della storia del pensiero occidentale sul tema della memoria, offrendo il controcanto della tradizione analitica. Il discorso poi passa a Mario De Caro che affronta all’interno dell’aula diversi aspetti del problema – il troppo ricordare o il falso ricordo – per poi tornare a Maurzio Ferraris e alla sua risposta alla domanda: a cosa serve la memoria? ]
Lucio Mayoor Tosi
Le parole destano l’inconscio, su questo non vi è dubbio. Danno modo alla coscienza profonda di esprimersi con altrettante parole, anziché con le immagini sfigurate dei sogni. Quando le parole chiamano, altre parole dovranno rispondere; in eco diversa perché si sta compiendo, con la poesia, uno scavo veritativo: l’inconscio è verità, la ragione cosciente no. E tuttavia le parole hanno il limite di essere scatti fotografici, o riprese di breve durata assoggettate a un solo punto di vista. Ecco perché la frammentazione, la molteplicità dei punti di osservazione che ruotano intorno all’oggetto. Il che fa supporre che l’inconscio sia vita multidimensionale, o di diversa dimensione rispetto al conscio. Il nulla che ci appare è dato da sostanze tra loro incompatibili; due dimensioni non possono comunicare con una terza, una quarta o più, se non parzialmente. Le parole vanno gettate, ok soppesate, ma poi gettate nella caverna dell’inconscio di modo che ne derivi l’eco – di un fiore che non c’entra, di una nave sul tavolo in cucina…
Le prime parole, il primo verso, sono sassi che buttiamo su ferite che sembrano rimarginate. Gioie e dolori. Se gettassimo farfalle, altre farfalle apparirebbero. La natura a specchio dell’inconscio è piena di risorse, visive e linguistiche.
Oscuramente:
Antonio Riccardi agisce con più poesie-ricordi sullo stesso tema, da punti di vista che offrono pensieri e ricordi diversi. Nella Nuova ontologia estetica si tenta invece l’emersione in un diverso spazio temporale, appunto multidimensionale, dove tutto coesiste. Donatella Costantina Giancaspero, ad esempio, nelle poesie che ho letto chiarisce nell’adesso i suoi ricordi; ne emerge il non detto, ma nelle vicende anche anche il rumore dei passi; dettagli trascurabili, che non sarebbero propri dei ricordi che (ci)raccontiamo. Ma dice bene Giorgio Linguaglossa, queste sono proprietà esclusive della letteratura.
Io, tra una cosa moderna e l’altra, dipingo ritratti; dico sempre che col ritratto ci puoi parlare per sempre, finché vivi. Con la fotografia, no; perché lì eravate in montagna, lì era il bisnonno a cavallo… la fotografia conserva i ricordi, il ritratto rende possibile il dialogo ininterrotto. Abita l’assenza, la rende costantemente viva. Ma le poesie riescono a fermare le zone d’ombra, momenti del tempo interiore.
Gino Rago
Antonio Riccardi fra tempo e spazio premoderni e quadridimensionalismo poetico.
Da Il profitto domestico del 1996 a Gli impianti del dovere e della guerra del 2004 fino a questi Tormenti della cattività del 2018 cui Giorgio Linguaglossa indirizza efficacemente la sua ermeneutica mi pare che a ben guardare Antonio Riccardi, con una sua coesione interiore e una fedeltà tematico-stilistica di rara sobrietà linguistica , si cimenti ancora nelle sue meditazioni liriche intorno a un mondo circoscritto che nella sua mitologia personale il poeta avverte come totale, attraversando la memoria.
Ma la memoria non ha senso compiuto se non interpella l’idea di tempo, la percezione dello spazio e il come il poeta si colloca nel tempo e nello spazio.
Il tempo e lo spazio con i quali si misura questa recente poesia di Antonio Riccardi sono tempo e spazio premoderni. Ma in che senso premoderni? Detto in estrema sintesi Antonio Riccardi adotta il tempo ancora scandito dai ritmi delle stagioni e della vita, con tutti i riti a tali ritmi collegati, e adotta lo spazio come luogo antropologico di identità forte e di comunità coesa.
In questo tempo e in questo spazio-luogo antropologico giocano un ruolo decisivo ancora la mano e la memoria. Perché ho detto ancora la mano e la memoria? Perché, ciascuno con il proprio linguaggio poetico e con il proprio vissuto, anche nella esperienza poetica di Edmond Jabès, com’è oggi in Antonio Riccardi, furono individuati sia da Donatella Bisutti, sia da Giorgio Linguaglossa la mano e la memoria come nuclei poetici centrali del loro fare poesia. Quindi la memoria è scrittura, possiamo dire anche nel caso di Antonio Riccardi che tornando a Cattabiano, nel 1930, in un tempo e in un luogo precisi, il cimitero, alla lunghezza, all’altezza, alla profondità, Riccardi aggiunge la memoria. Dunque, approda alla poesia quadridimensionale, quella cui si riferisce in punto preciso sull’io poetante la nota critica di Giorgio Linguaglossa (“[…] un «io» analogale che è in grado di osservare se stesso e lo spazio e il tempo, analogamente a quanto accade all’io che si muove nelle quattro dimensioni, ciò che consente all’io «speculare» di prendere le misure dell’io reale e di muoversi in contiguità ad esso[…]”
Esemplari sono questi 6 versi di Antonio Riccardi
1930
Alla prima foliazione del podere
dopo la morte invernale di Antonio
Riccardi, solo la siepe di bosso
alla fine del giardino, confine
sul dirupo tra casa e coltivo,
era rimasta forte e splendente.
Giorgio Linguaglossa
La memoria, il tempo, lo spazio e l’oblio della memoria
Caro Gino Rago,
tu sollevi qui una questione gigantesca: il ruolo e la funzione che il tempo e lo spazio hanno nella fondazione della «memoria», e come questa memoria fitta di tempo e di spazio entri nella forma-poesia. Hai toccato un punto cruciale della nuova poesia, chiamiamola «nuova fenomenologia estetica» come dice Petr Kral o «nuova ontologia estetica», come diciamo noi, la cosa non cambia granché.
E qui entriamo in una materia incandescente: la «cattività della memoria» ed i suoi «tormenti». Io, ad esempio, mi sento libero da qualsiasi «tormento» della «memoria». Negli ultimi due giorni sono stato tormentato dalla mancanza di un ricordo, non ricordavo il nome di un mio carissimo amico morto di cancro 20 anni fa; ieri ho telefonato ad un amico comune che me lo ha detto. Incredibile, qualcuno aveva cancellato dalla mia memoria quel nome, proprio il nome di un carissimo amico. Perché? Perché proprio lui e non altri? In realtà in questi ultimi anni sono stato letteralmente soverchiato dalla dimenticanza della memoria, tendo a non ricordare nulla, o meglio, c’è qualcuno nella mia mente che mi sottrae furtivamente i ricordi dalla memoria, e così sono costantemente impegnato a ricostruire con la volontà quel po’ di memoria che mi resta… no, no, tranquilli non è l’Alzheimer, è l’oblio della memoria che mi ossessiona, ho questa malattia, penso che vivo in un tempo che fabbrica su scala industriale questa malattia. E il bello è che gli altri uomini non se ne accorgono, o fingono di non accorgersene. La mia poesia di questi ultimi dieci anni è governata da questa categoria, o malattia, dall’oblio della memoria, non posso farci niente per arrestare questo sisma 9 della scala Mercalli.
Come tu ben dici: «Dimmi che uso fai del tempo e dello spazio e ti dirò che poesia scrivi». È profondamente vera questa massima. La Musa è figlia di Mnemosine, questo i greci ce l’hanno insegnato… senza memoria si scrive sull’acqua, quelle che si scrivono oggi sono poesie scritte sull’acqua, non basta mettere in fila delle parole per fare poesia; se la poesia non contiene la memoria, è aria fritta, parole in libertà.
Nella poesia di Riccardi la memoria c’è ma come un fondale sul quale si stagliano gli eventi della memoria. Ma la memoria è ancora integra! Almeno, io la percepisco come integra, ancora non colpita dalla febbre dell’oblio della memoria. Ho citato non a caso la poesia di Brodskij Lettera a Telemaco del 1972, perché lì c’è l’albeggiare di questa terribile sindrome che ha invaso silenziosamente il mondo moderno e gli uomini del nostro tempo. Sono passati davvero molti anni e la malattia si è aggravata. Così, io ogni giorno sono costretto a recuperare i miei ricordi, a passarli in rassegna, uno ad uno, per non perderli. La mia poesia non è altro che la registrazione in parole sulla carta di questa costante perdita di tracce. Anche il primo libro Uccelli (1992), a rileggerlo oggi, reca vistose tracce di questo esantema della memoria che si disfa lentamente, poi sempre più velocemente…
Dicevo che la poesia di Riccardi ha questa caratteristica, che lui in mente ha, chiara e potente, la visione ricordo del podere di famiglia di Cattabiano. Da questa chiarezza memoriale ne deriva che la sua poesia posata è su uno zoccolo unidirezionale, ancora governata, anche se in penombra, dall’io legiferante… io purtroppo ho perduto per sempre la chiarezza denotativa dell’io legiferante, e quindi la mia poesia recherà le tracce di questa perdita. Ad esempio, nella nuova ontologia estetica (o nuova fenomenologia estetica) il tempo e lo spazio, questi Fattori T ed S entrano vigorosamente nella forma-poesia distruggendone la «forma», la struttura lineare che governa il tempo e lo spazio; ecco la ragione dei «frammenti» che invadono la nostra poesia (nostra dei poeti della nuova ontologia o fenomenologia estetica).
In fin dei conti, un poeta è un prodotto di potentissime forze storiche, anche le forme sono il prodotto di potenti forze estetiche; non c’è niente da fare contro questa soverchiante forza nientificante che ha prodotto la crivellazione della forma-poesia. Chi leggesse la poesia di Mario Gabriele, la tua o quella di Donatella Costantina Giancaspero, di Steven Grieco Rathgeb, di Alfonso Cataldi e di altri non potrebbe non rendersene conto. È un fenomeno ineluttabile che sarebbe da insani tentare di rigettare, anzi, proprio accogliendo e rielaborando queste forze telluriche la poesia si può rinnovare dall’interno, dalle sue profonde ragioni ontologiche e fenomenologiche…
Corrado Paina
Cibo per le masse
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/10/31/27-28-ottobre-2018-dialoghi-e-commenti-su-la-memoria-il-tempo-lo-spazio-loblio-della-memoria-la-postverita-ipoverita-iperverita-de-materializzazione-la-poesia-linconscio-poesie-d/comment-page-1/#comment-39265
( a Donato Santeramo che ha corso il rischio di non mangiare piu’ quello che gli piace)
Et sepultus est in ecclesia super Minervam in pulcherrimo
sepulchro cum insigno epitaphio (Fra’ Alberto Castellani – 1516)
Curava le astinenze con il tonno di Carlofonte
prima le triglie al cartoccio
compagne insostituibili
una volta lasciato Cagliari
sfumati i salvataggi
del misterioso Fra’ Beato Gabriele
lo spacciatore piu’ letterario
del cinema europeo
piu’ bello di Marc Porel
piu’ misterioso di Pierre Clementi
incontrato dopo un soggiorno al Buon Cammino
comunque per il sottoscritto
(ormai riemigrato in Canada e in via di riabilitazione
il fegato stremato da ciambelle e dalle insidie del colonnello Sanders)
i rimedi si trovavano dappertutto
16 chili fa era tutto diverso
i polli i pate’i salumi
ed i grumi di luna piena
i tortelli e le cassate
da destra a sinistra
dal meridiano al parallelo
dal cinema dell’oratorio (stringhe e gazzosa –l’ultimo dei moicani)
lo cercavano
lo accarezzavano
lo chiamavano di notte
i frigoriferi americani erano le credenze del benessere
la sua credenza
(nota bene: diario di viaggio 1975 – tempesta nel golfo del Leone superata mangiando un vaso di marmellata di fichi – nave Capriolo – capitano Sbrana)
i vivi li vedeva morti
(cotti?)
i bolliti di Vicenza
i surici di Lamezia
che sollievo..
in famiglia si rubavano le fragole
si andava a letto con Tex, Lenin e Rimbaud
(che fatica far diventare comunista il poeta, ma alla fine ce l’avevano fatta!)
c’era chi non s’era classificato:
Celine
Pound
Malaparte
Carmelo Bene no!
Fo! solo Dario Fo!
Per dimenticare le notti A LETTO SENZA CENA!
si portavano 5/6 pesche ed il pollo alla gelatina
Al gran sole carico d’amore
Ci si svegliava e s’infilavano i Wrangler, si nascondevano i Rogers comprati da mamma al mercato a prezzo inferiore tanto i genitori non ne vedevano la differenza e si usciva nel pomeriggio assolato e produttivo
(mamma’ riusciva a tenerti in casa per qualche momento con le polpette e le promesse della crema di zabaione)
con le scarpe di Tavazzi
si cammina anche sui sazzi
e se i sazzi sono duri
con Tavazzi si e’ sicuri
ma lo confesso
anch’io ho peccato
non e’ esatto
anch’io ho commesso un errore
non ho mai usato la brillantina Linetti!
a Milano prima delle sigarette
(la prima Kent nel ritiro spirituale di Castelveccana
volete le bionde ? no
volete le brune ? no
volete le rosse ? no
ma cosa volete ?
noi vogliamo Dio che e’ nostro padre)
mi drogavo di cetriolini
con il Marco Sartori
ipnotizzati dal mestolo del salumiere
che li versava sulla carta oleata
dovevo trovare i soldi
x un etto al giorno
marinavamo la messa di fine pomeriggio
sgusciando tra le panchine
ed in piena astinenza
spiavamo dalla vetrina del salumiere
cosi’ crescevo
scemo di dopoguerra
mezza femmina!
volente o nolente
con vacanza estiva al mare
(bomboloni, sbrodolii di crema sui seni abbronzati
vaginette ripiene
prepuzi allo spiedo
frittura di testi
tette alla panna
ed i meini sbriciolosi sul Resto del Carlino
ti ricordi? i cappuccini deflorati da Nanni Loi)
le lunghe giornate agostane sulle Dolomiti
il primo amore per Marco diafano ebreo
la cioccolata bollente fusa sulle michette nane
la panna di Tesero
(mentre dispacci tendenziosi confermavano
che a pochi chilometri si mangiava la trippa per colazione)
Torniamo al mare
scampi
sogliole (Senigallia)
cozze
ancora il sud era lontano
come potevo vivere in oblio totale della questione meridionale
frutti di mare (ricci)
inciuci di formaggi con intestini
freselle con pomodoro
soppressate e capicolli
pasta paste
zeppole
stocco
fichi d’India
gioventu’ senza colore
papa’ in viaggio per lavoro
madre insegnante
sorelle maggiori incaricate del vitto
a volte qualche ibrido di macelleria
cresciuto a risi, spaghetti
bistecchine
focaccina e ciocori’ alla mattina
da mangiarsi alle 10
insomma che cosa potevo diventare se non quello che sono diventato ?
c’era stato il boom
e con il boom si doveva cancellare
distruggere
divorare
dimenticare
cervello e cervella
cuore e polmoni
lingua salmistrata e unita’ nazionale
fame e autorita’
colonie estive
il piano Marshall!e le melanzane con le zucchine e le patate
la caponata ha unito la nazione
piu’ della televisione
settimino in una famiglia piccolo borghese
oratorio
movimento studentesco
droga
viaggi
matrimonio
un altro matrimonio
figlio
figlia
famiglia
lavoro e carriera in un’altra nazione
si riducano a
salivazioni ed espansioni culinarie ?
mangio per morire
sogno cibo alimenti
rubavo salame confezionato e dischi di Jimi Hendrix
in pausa di riabilitazione
Paff bum!
appesi i manganelli carnevaleschi
mi suicido con chiacchere e tortelli
pesto e pasta di Portovenere
Sciacchetra’ vincera’
a Cicengo ci s’infanga nelle terme di salsa
barberacci da riunioni rosse
trionfo orale punitivo
come le fellazio di bocche inesperte
piatto d’eterna giovinezza
d’eterni fumetti
in certi sughi al Sud c’e’ la battaglia del Trasimeno
si va in manifestazione a Torino
Pertini, Nenni, Berlinguer, Almirante,
sono piatti importanti
Karl Korsh ci prepara all’autogestione culinaria
cibo paramilitare ed escursioni nel vegetarianoetnico terzomondista
cuscus fanoniani
scuola quadri: polpette di Randazzo
vinacci di Lambrate
seconda mano in Corso Garibaldi
Porta Ticinese: CHE FARE?
Il SUD
La condizione meridionale/fichi/pane/pecorino/olive/agnello
il sottosviluppo di Gunder Frank
il sesso (Wilhelm Reich) esteso fino alle coste della Sicilia
il falansterio dove si scopa e si mangia
epifania adolescenziale: ecco la bisessualita’ e l’alta cucina
caviale/champagne/ostriche
gli alberghi i camerieri
le frasi celebri che fanno una vita
le citta’ sconosciute si cominciano a visitare dalla periferia
e a Parigi si visita Stalingrad e s’ingoia tutto
il granchio latino
il vietnamita vittorioso, il Beaubourg, il riz cantonais, il Bordeaux, il Pastis , il Calvados
Roth, i panini africani
si guardano i barboni mangiando baguette impeciate di pate’
si sogna Jim Morrison che muore di ? …
e si fa colazione sull’erba
qualcuno di noi conosceva anche i poeti francesi
ce n’era abbastanza da abiurare il comunismo
noi l’avremmo fatto con Elvis e Brian Wilson
Grazie Sicilia
grazie Trapani per le sarde, le melanzane
grazie Palermo per il pescespada e le droghe tagliate
con la farina di pesce
grazie Catania per l’eroina e la cocaina
potessi almeno ricordare il nome dello spacciatore
gentile
ma e’ come ricordare il nome di un’architetto di una
chiesa gotica
morivo aspettando di vivere
e vivevo aspettando di morire
Ho visto anche gli zingari felici
la Grecia da conquistare
il cibo greco fa schifo (ed il vino pure)
io faccio schifo
in Grecia mangio da fare schifo
immergo denti e naso in meloni dolci
come canzoni californiane degli anni ‘60
nuoto in un fiume di pesci grigliati
nel corteo funebre per i compagni uccisi
qualche grido
i pugni chiusi e le bocche collodiane del pescecane capitalista
che ci risucchieranno
ipotesi bucolica, via dalla pazza folla
i salami freschi e giovini della Bassa degli zii morti tutti d’infarto se non suicidi
il ritorno alle origini
la fame deideologizzata
Il colesterolo reprime le masse
Non che non sono stato io
ad uccidere poesia
tu vuoi dire che nessuno e’ innocente
nascondo la testa sotto un’ala
come se mi rinchiudessi in un’(i)stanza a (i)scrivere poesie
noi poeti possiamo essere coraggiosi
generalmente siamo come bambini meschini
violentati
ma ci rianimiamo a guardare il mare
mangiando arancini sul ferribbotto
da Reggio a Messina
Abbiamo sprecato molto
anche se a dire la verita’
io le aragoste di Alghero
non le dimentico
rimpiango un palato piu’ fino
in fondo sono ancora da bocciofila
ha ragione Fabio che viene da Gorla
che sono il Bukowski della Brianza
ma e’ possibile essere Bukowski in Brianza ?
Le ceneri di Gramsci
vengo a trovare Pasolini
e prima Gramsci e dopo Corso
tu mi chiedi com’era il 68
quale ?
quello uscito dai confessionali
dove ci nascondevamo tutti ?
lei non sapeva quindi che l’immigrato
nel canto si adagiava quasi piangendo
avvolto in un miraggio di qualcosa che
forse non era mai stato
il passato
quello vero
cancellato dalla quotidianita’
rimane qualcosa
a dir la verita’
e nel canto il vecchio immigrato
storicamente e non anagraficamente
abbraccia un’ombra
come discesa agli inferi
pare proprio
che entrambi non
troveranno la via alla liberta’
prigionieri per sempre
del passato
allora cito
polipetti bolliti e poi arrostiti
a Matera
agnolotti con ripieno di fagiano
di Corno Giovine
fondamenta di salame fresco della bassa
impasti di padano
castrato e sugo di papera di Petritoli
e dal pubblico si passo’ al privato
viaggi a Londra ad usare il metadone gratis
e fish and chips
ma la scoperta fu un diner portoricano nuiorchese
pollo fagioli uova pane tostato e milk shake
aspettavo che tirasse su la saracinesca alle 5:30
per soffocare la post astinenza
fu nel periodo del privato
che m’innamorai anche del prosciutto crudo
prima avevo avuto una lunga cotta
per il cotto
cominciavo ad accettare le mie origini non operaie
a ricordare le mie radici contadine, come tutti gli italiani
prosciutto crudo, coca cola, eroina, patatine, cocaina
speed meat ball
mi rinchiudevo
in alberghi cosi’ sotto borghesi
uscivo solo per i rifornimenti
poi come Rossini non uscii piu’
HOW THE WEST WAS WON
ci fu l’America
metonimia del maiale visto come salame
dove mi specializzai nella mia smeridionalizzazione
costruendo i contrafforti della bioingegneria
Kentucky fried chicken
Doughnuts
Hamburgers
French fries
Presto diventai americano
grasso e pieno di debiti
pronto per il grande sogno
diventare ricco e magro
Sulla rena cubana
mi sentii come al Sud
bambini garruli con il moccio al naso
anche qui le fondamenta del tempio
colonia e potere
la pelle
la bellezza
il corpo
pero’ la rivoluzione l’aveva rovinata lo zucchero
troppo zucchero a Cuba
a furia di prendere zucchero
si perde la vista
ci si abitua a dormire piu’ spesso
a perdere l’uso degli arti
cosi’ muore lentamente la rivoluzione
coperta dallo zucchero
Prima c’era il cibo o il bisogno di cibo
Percio’ questa poesia e’ anche dedicata a Gioacchino Rossini ed a Marco Ferreri
che sapevano che l’unico conforto nell’assedio
era il cibo
controllavano convulsamente dagli spalti l’arrivo dei rinforzi
(capitano le vettovaglie sono in orario!)
e il piccione che doveva portare un messaggio al mondo
non arriverà mai
e’ stato cucinato al mattone
La bella gioventù
Lo scandalo è la coscienza di avere già mangiato anche per gli anni
che ti rimangono
se morissi oggi avrei mangiato molto di piu’ di quanto avrei dovuto (1/3 forse meta’ in piu’ )
se morissi tra qualche anno avrei gia’ mangiato per soddisfare il normale bisogno di un essere umano
della mia corporatura
certamente ho fumato per due persone
ho mangiato molti piu’ cetriolini di quanti assegnati ad un cristiano
e le droghe ? mi sono fatto anche le dosi di coloro che non le hanno mai prese
per una media equilibrata
il sesso poteva essere di piu’ ma il pensiero e la masturbazione mi hanno portato a livelli di eccellenza
non sono diventato cieco
ma sono diventato grasso
per finire vorrei chiedere la misericordia di essere cremato e le mie ceneri
buttate ai pesci nel mare di Porto Venere e sul molo vorrei che
fosse posta una targa
con il mio epitaffio che più o meno dovrebbe essere cosi
“era destino che si mangiasse anche quello”
*
…..Sento momentaneamente il bisogno di un periodo di vita calma, nella frescura verde, nei prati che sorridono alla Primavera, tra i papaveri che guardano il sole d’oro sfolgorante e poi cadono sotto la felce ridendo lieti d’aver vissuto una giornata!E voi margheritine tremule, sperdute fra le alte erbe, tra i trifoglio e l’erba medica, sul cigliodei fossi, quasi a lambire ed accarezzare l’acqua che scroscia, voi margheritine scherzanti ridate la gioia di vivere!
Fiori,tanti fiori, aromi vaganti, profumi dei campi, voi siete il mio desiderio insoddisfatto, la mia brama di vita.
Sole che illumini le alte cime e le acque del golfo, dammi la luce, la luce che viene da Dio, che ci aiuta nella sventura e ci premia nella sua Infinita bonta’.
(Carlo Paina)
Corrado Paina
Executive Director
Italian Chamber of Commerce of Ontario
Tel: 416-789-7169 ext. 250
paina@italchambers.ca
caro Corrado,
sicuramente questo poemetto, contenuto nel libro Largo Italia pubblicato nel 2018 con SEF (che poi sono due poesie) è un lavoro di grande forza termodinamica e di assoluto rispetto, avuto riguardo alla poesia italiana di oggidì che sopravvive, tra un languore e l’altro, grazie a continue infusioni di Linfopil, e di sonniferi vari tanto è malridotta ed esangue da essere ormai invisibile… Ecco, direi che questo tuo poemetto ha tutte le carte in regola per essere ascritto alla nuova fenomenologia estetica, si tratta di una pioggia fitta di lessemi e di monemi che trascinano il lettore in una vera e propria apoplessia, al corto circuito tra occhio che legge e orecchio che ascolta… raramente mi accade di leggere un poemetto di tanta e tale forza percussiva e drammatica, di disperata vitalità, di malcelato orgoglio, di disperato cordoglio in cui convergono stilemi e lessemi della più disparata provenienza culturale, dalla beat generation ai sacchi di Burri ai tagli di Fontana…
Direi che la tua «nuova fenomenologia estetica» sia una realtà da affiancare alla «nuova ontologia estetica», due modalità stilistiche che possono, anzi, debbono andare assieme, le due ricerche non si escludono affatto, possono andare benissimamente insieme, d’amore e d’accordo, mi sembra che la tua sia una poesia che può rivitalizzare il corpo opaco della poesia italiana di oggidì che sopravvive anche grazie a una buona dose di cloroformio e di calcestruzzo dimidiato come quello del ponte di Genova venuto giù come burro… la poesia italiana ha bisogno di fortissime iniezioni di vitalità, c’è bisogno di un vigoroso massaggio cardiaco. Il tuo poemetto è anche, in un certo senso, un lungo e dolente epitaffio per la memoria andata dispersa del popolo italico (oggi va di moda qui in Italia richiamarsi al “popolo”) in crisi di fastiscizzazione strisciante e altalenante.
Un paese in gravissima crisi, caro Corrado, che non pensa più al suo futuro, al futuro dei propri figli e che non vive più di passato, una gravissima crisi che il tuo poemetto mette in bella mostra, e mi meraviglia che sia stato un poeta italiano che da trent’anni vive e lavora in Canada, a Toronto, ad aver scritto questo epitaffio per la memoria degli italiani e dell’italia. Un epitaffio violento, appassionato, viscerale, un atto d’amore e di odio che forse soltanto un poeta italiano esiliato all’estero poteva scrivere. Con le tue parole:
la caponata ha unito la nazione
più della televisione
Forse il mondo ha cessato di essere significativo, e forse al poeta di oggi non è concesso l’accesso alle esperienze significative, ma è emblematico che alla poesia di oggi tocchi in sorte di dover stendere in versi l’epicedio esistenziale forse più lucido e disincantato della poesia di matrice novecentesca, quando si parla dell’indebolimento della soggettività con la tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante.
Il fatto è che non si può uscire dal sortilegio, o dall’immaginario direbbe Lacan, non possiamo sortire né entrare in un luogo sconosciuto se non mediante un trucco, un dispositivo, un cavallo di Troia, perché la città del senso la puoi prendere soltanto con un trucco, con un sortilegio, un atto di raggiro, di illusione, perché il poeta è ragguagliabile ad un illusionista che illude con le parole ed elude con le parole. «Il fatto è che non si può davvero uscire dal trucco, o dall’immaginario, come direbbe nel suo linguaggio Lacan».1
E forse in questo bivio soltanto può abitare il senso, ci vuole dire Paina, il senso residuo dopo la combustione, se davvero v’è un senso nella parola poetica, costretta a sopravvivere in questo «indebolimento della soggettività»2 che dura ormai da tanto tempo che ne abbiamo perfino dimenticato la scaturigine.
1 Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007 p. 87
2 Ibidem
Caro Paina,
perché Carmelo Bene – no! ” ?
Con chi parla Mandel’stam?
Con il Tutto e con tutti; comincia con la parola, poi con la quotidianità; poi forzato a parlare con la scopolamina,; poi Stali, e infine al telefono, ecc.ecc.
—-
da: Mezzanotte a Mosca
È tempo che sappiate, anch’io sono contemporaneo,
io sono un uomo dell’epoca del Moskovšvéj,
guardate, come è stropicciata la mia giacca,
come so parlare e camminare bene!
Provatevi a strapparmi dal secolo! –
vi avverto, vi romperete il collo!
Io parlo con l’epoca, ma forse
la sua anima è la canapa, e forse
essa si è acclimatata da noi in maniera ignobile,
come una bestiolina grinzosa in un tempio tibetano, –
si gratta anche in una vasca di zinco –
descrivicela, Maria Ivanna!
(maggio – 4 giugno 1932 )
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E che voglia ho io di scatenarmi,
di mettermi a parlare, di pronunciare la verità,
mandare la malinconia alla nebbia, al diavolo, alla forca,
prendere qualcuno per mano: – Sii gentile… –
digli, – noi andiamo per la stessa strada con te…
luglio-settembre 1931. Mosca.
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parla con la quotidianità, p.e. :
—
(mia nota 179 dal Corso su Mandel’stam 1974-75 di AMR)
Osip Mandel’štam, Lettera da Voronež. E a proposito di spedire prodotti e alimenti. All’epoca del Secondo quaderno di Voronež (6 dicembre 1936-fine febbraio 1937), quando Nadežda era insieme ad Osip, sappiamo che “il fratello di Nadežda Jakovlevna spediva loro ogni mese i duecento rubli che V. Višnevskij e V. Šklovskij gli consegnavano”. Cambia drasticamente lo stato del poeta, in peggio, all’epoca del Terzo quaderno di Voronež (marzo-maggio 1937). Il poeta scriverà a Kornej Čukovskij agli inizi del ’37 “Mio fratello Evgenyj Emilevič non mi dà un centesimo!” e in una lettera precedente allo stesso: “Sono malato. Non posso restare solo neanche per un momento. Adesso si prende cura di me la madre di mia moglie, una vecchietta. Se restassi solo mi sbatterebbero in un manicomio”(vedi Nadežda Mandel’štam, Le mie memorie, op.cit. 396; e cap. Lettere di Mandel’štam, pgg.389-400). Di certo Nadežda è sostituita da sua madre, poi che è partita per Mosca, dove cercherà aiuto non solo materiale, p.e. dai poeti Pasternàk e Achmatova; cerca anche un lavoro per non chiedere soldi agli amici; tenterà poi di parlare con qualche autorità per rendere più vivibili le condizioni del poeta. In questo stato terribile il poeta non si perde d’animo: ha fede nella sua poesia tanto che a Jurij Tynjanov [il celeberrimo critico formalista] scrive: “È atroce. È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, sputo sulla poesia russa; ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo”.(lettera da Voronež del 21 gennaio 1937). A questa fede si alterna il momento della disperazione: ”Ormai non posso fare niente altro che chiedere aiuto a chi non vuole che io soccomba fisicamente”.(dalla lettera K. Čukovskij dell’inizio 1937); da Nadežda Mandel’štam, Le mie memorie, op.cit. pgg.396-397.
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dal Corso su Mandel’stam 1974-75 di AMR – pag. 50)
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“Secondo il racconto di Nadežda Mandel’štam, il poeta fu chiuso alla Lubjanka, dove gli fecero le cose abituali in quel tempo, cioè interrogazioni notturne, iniezioni di scopolamina (per confondere la sua memoria), lampada accecante negli occhi, liquido abrasivo negli occhi quando guardava nello spioncino, cibi salati, mancanza di acqua da bere, ecc.
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(pagg. 65-66)
Parecchie testimonianze parlano della sua pazzia accentuatasi a Vladivostok. Continuamente riceveva minacce e percosse perché rubava le razioni altrui, che era convinto non fossero avvelenate. Lo buttarono più volte fuori della baracca, viveva accanto alle fosse dei rifiuti, sudicio, barbuto, con lunghi capelli, in cenci; uno dei testimoni dice:”…si era mutato in uno spauracchio da campo di concentramento”.
Aveva anche paura di misteriose iniezioni che privano della volontà (e questa gli era rimasta dal periodo del primo arresto quando gli iniettavano la scopolamina per farlo parlare).
Ora, nei campi di transito non era necessario lavorare, come nei campi dove si era assegnati definitivamente, ma pur di sfuggire all’ebetudine dell’inerzia, tutti cercavano di far qualcosa, e Mandel’štam portava pietre su una carriola. I medici gli avevano dato un giaccone di pelliccia che egli aveva ceduto per un po’ di zucchero, ma lo zucchero gli era stato rubato. Qualcuno dice che Mandel’štam recitava versi agli internati e segnatamente sonetti di Petrarca, davanti a un falò.
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Ma il poeta Il poeta Antonio Sagredo dedica:
—–
”Recitavi da tetrarca a Vladivostok…/davanti ai falò Laura danzava sul secolo XX°/ti offriva veleno per farla finita col verso classico/ti donava una carriola di zucchero e cavoli./Indossava per fame i rifiuti di una pelliccia piumata,/ma restava il principe dei Barboni questo usignolo – non lupo!/La scopolamina, al poeta, per farlo cantare!/Petrarca, il suo duca, gli offriva un passaggio svitato. /A nord-est, gridava, c’è un esotico sogno – a fumetti!/Ma il barbuto spauracchio recitava sonetti./Fu gettato svestito senza la corteccia d’un cencio, /festeggiò il Natale con Mozart in una fossa comune./Ma Laura s’invaghì dei suoi capelli nostalgici/che ricordavano una gravida Tauride veneziana,/come se il suo collo, per uno spostamento degli occhi, /la sua testa di cammello piegasse anche il tiranno. /Sul fondo d’una fossa luminosa c’era scritto:/Contrada Mandel’štam!” (4 gennaio 2005) –
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Poi sono altri (qui Erenburg) a parlare di Mandel’stam:
(pag. 26 – dal Corso su Mandel’stam 1974-75 di AMR)
—
” A Kiev Mandel’štam prese parte alla vita letteraria del luogo e fece amicizia con Il’jà Erenburg, che è stato il primo a parlare di lui nelle sue memorie Uomini, anni, vita . Ma da Kiev si muove, nell’agosto del 1919, e attraverso Charkov va in Crimea, e qui viene arrestato due volte dai bianchi. Erenburg racconta di Mandel’štam che in cella, fingendosi pazzo aveva gridato al guardiano:
Dovete farmi uscire, io non sono fatto per il carcere!
Dalla Crimea va al Caucaso, a Batum, e poi torna con Erenburg a Mosca, poi a Pietroburgo, dove passa alcuni mesi: è questo un periodo importantissimo per la sua attività. Vive in quel periodo nella Casa delle Arti.”
———————
(pag 51 –
“In Mandel’štam il motivo del telefono è un motivo costante. Egli odiava il telefono; c’è una poesia in cui dice: ”Taci, scatola maledetta”, che curiosamente corrisponde a quello che Paul Klee, famoso pittore svizzero-tedesco, diceva che aveva paura di questa scatola maledetta e l’aveva fatta mettere in cantina addirittura. Dice in una poesia:
Il telefono si è rappigliato,
si è intirizzito come una ranocchia.
Il telefono è lo strumento del suicida. Nella prosa Il francobollo egiziano si parla dei telefoni delle farmacie:
I telefoni delle farmacie si fanno col migliore legno di scarlattina. I telefoni delle farmacie sono squamosi, rossi come la scarlattina, sono vampireschi, febbrili, il legno di scarlattina cresce in un boschetto di clisteri e odora di inchiostro. Non parlate per telefono dalle farmacie di Pietroburgo, perché la cornetta si squama e si scolora. Ricordatevi che non è stata ancora istituita una linea di telefono che porti a Proserpina e a Persefone.
(il mondo sotterraneo, il mondo dell’Averno è il miraggio spettrale di Pietroburgo). ”
————————————————-
>>>>>Stalin si interessa di Mandel’stam e telefona a Pasternak per avere informazioni > :
” Stalin, com’era sua abitudine, telefonò a Pasternàk (Stalin chiamava, infatti, al telefono gli scrittori e anche gli artisti). Ora su questo fatto ci sono tutte le versioni possibili; naturalmente alcune ne prospettava lo stesso Pasternàk, poi tutta la ciarleria di Mosca. Tutti alimentavano altre varianti di questa storia. Dunque Stalin chiamò al telefono Pasternàk; e il poeta, come soleva, cominciò a lamentarsi perché non sentiva bene (egli abitava in una casa comunale, ossia in una casa dove c’era un telefono per piano, e i bambini giocavano e facevano rumore), dicendo:
>>>>> Così non si può più vivere, non si sente nemmeno il telefono,…
…e Stalin tagliò bruscamente questo discorso, dicendo che il caso Mandel’štam per cui egli si preoccupava era in corso di revisione e tutto sarebbe andato per il meglio, e gli chiedeva:
>>>>> Ma perché non vi siete rivolto direttamente alle organizzazioni degli scrittori, oppure a me personalmente, invece di andare da Bucharin? Se io fossi un poeta e a un mio amico gli fosse capitata una disgrazia mi arrampicherei sui muri per dargli una mano.
(Questa è una versione che cerca di collazionare, di contaminare le diverse versioni).
E Pasternàk rispose:
>>>>> Le organizzazioni degli scrittori non si occupano più di queste cose fin dal 1927, e se io mi fossi dato da fare, probabilmente non sapreste nulla della faccenda.
Quindi Pasternàk precisò qualcosa sul fatto che con Mandel’štam non aveva una vera amicizia, e su questa affermazione è stato speculato molto; è stato detto che Pasternàk, preso dalla paura, avesse detto:
>>>>> Ma che, mio amico? Ma nemmeno per sogno! Vi sbagliate!, ecc..
Invece sembra che cose stiano proprio così, cioè Pasternàk precisò che non era un suo grande amico, era uno scrittore come lui,…
…e Stalin gli chiese:
>>>>> Ma è un vero artista, proprio un vero artista?.
e Pasternàk rispose:
>>>>> Questo non ha importanza.
e Stalin:
>>>>> E che cosa ha importanza?
e Pasternàk:
>>>>> Vorrei incontrarmi con voi e parlare con voi.
e Stalin:
>>>>> Di che cosa?.
e Pasternàk:
>>>>> Della vita e della morte.
–
Stalin appese il ricevitore. Pasternàk cercò di ristabilire il contatto col Cremlino e ci riuscì… venne al telefono il segretario di Stalin, e Pasternàk gli chiese se poteva parlare di questo colloquio… il segretario rispose che non solo si poteva parlare, ma che doveva parlarne e dargli larga diffusione, a mostrare la beneficenza del tiranno. ”
——————————————————————————————–
pag. 24 – dal dal Corso su Mandel’stam 1974-75 di AMR)
” In Mandel’štam il motivo del telefono è un motivo costante. Egli odiava il telefono; c’è una poesia in cui dice: ”Taci, scatola maledetta”, che curiosamente corrisponde a quello che Paul Klee, famoso pittore svizzero-tedesco, diceva che aveva paura di questa scatola maledetta e l’aveva fatta mettere in cantina addirittura. Dice in una poesia:
Il telefono si è rappigliato,
si è intirizzito come una ranocchia.
Il telefono è lo strumento del suicida. Nella prosa Il francobollo egiziano si parla dei telefoni delle farmacie:
I telefoni delle farmacie si fanno col migliore legno di scarlattina. I telefoni delle farmacie sono squamosi, rossi come la scarlattina, sono vampireschi, febbrili, il legno di scarlattina cresce in un boschetto di clisteri e odora di inchiostro. Non parlate per telefono dalle farmacie di Pietroburgo, perché la cornetta si squama e si scolora. Ricordatevi che non è stata ancora istituita una linea di telefono che porti a Proserpina e a Persefone.
(il mondo sotterraneo, il mondo dell’Averno è il miraggio spettrale di Pietroburgo).”
———————————————————————————————–
ecc. ecc. ecc.
A. S.
Penso che occorra rileggere secondo lo spirito del nostro tempo
“L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin
per aver saputo cogliere con immediatezza l’influenza della tecnologia sull’arte e per avere saputo riflettere con originale lucidità su questo tema cruciale per la nostra epoca.
Un’influenza, la riproducibilità, che si è mostrata in grado di modificare:
– la fruizione da parte del pubblico;
– la potenziale strumentalizzazione da parte del potere politico;
– lo status stesso dell’opera d’arte, attraverso soprattutto lo smarrimento della “aura” vale a dire del valore sacrale dell’opera d’arte rimosso definitivamente e completamente nell’era della cultura di massa.
Com’è a tutti noto, Walter Benjamin tratteggia nitidamente il passaggio dal valore religioso al valore politico dell’opera d’arte.
Ma la relazione arte/ politica, secondo la lucida analisi di Benjamin, è di segno opposto nei totalitarismi, fascismo e comunismo, coevi alla stesura del saggio:
In sintesi, il fascismo estetizza la politica, il comunismo politicizza l’arte.
Da qui forse partire anche per qualche punto o paletto certi anche per la poesia come forma d’arte.
GR
con chi parla il poeta?
con i sordi che lo stanno ad ascoltare
con chi parla il poeta?
con i muti che gli rispondono con attenzione
con chi tace il poeta?
con tutti noi che accoltelliamo il suo silenzio
A Letizia Leone
In morte di sua madre [alla maniera di G. Benn]
Porti già tua madre sulla fronte,
una ferita che mai si chiuderà
anche se non sempre dà dolore,
anche se il tuo cuore
non se ne dissanguerà.
Ma non meravigliarti
se d’un tratto
quando meno te l’aspetti
ti sentirai cieca
se d’improvviso avvertirai
del sangue in bocca.
gino rago
Sì, l’insieme chiamato uno.
Uno è la goccia di luna licantropa che si nasconde
nel perfetto buio della notte di Halloween.
La notte che ti guarda dai vetri, é sempre Uno.
Lì sta piangendo forte.
Va capito. Aspettiamo che finisca; anche se, in quanto
vivi in una bolla gelatinosa d’aria, abbiamo poteri limitati.
Uscire da noi stessi per correre in soccorso, ad esempio.
Ma Uno si lascia toccare le spalle dagli esseri onnipresenti
che abitano tutte le dimensioni dell’universo;
esseri che farebbero di tutto pur di darsi nelle forme
desiderate da chiunque. Due mani di vento, ad esempio;
Il soffio di lunghe carezze; quelli che tornano a cercarti
travestiti da ricordi. Segno che ti sono ormai vicini.
Tu sei fatto di ricordi. Non sei umano, sei una scultura.
Per questo dicevo prima di un palazzo. E ci sono al mondo
palazzi vuoti, disabitati. Alcuni vere e proprie galere.
E non hanno porte. Ma tanti altri sono abitati.
Dalle mie parti sono tutti folletti. E ora
che ci siamo divertiti. E ora che ci siamo divertiti.
May. ott 2018
Buon Halloween a tutti