Archivi del giorno: 23 ottobre 2018

Edmond Jabès (1912-1991) POESIE SCELTE – a cura  di Donatella Bisutti – traduzioni di Donatella Bisutti e Giorgio Linguaglossa – Anche la scrittura è Memoria

Edmond Jabès

Edmond Jabès

Edmond Jabès (Il Cairo, 16 aprile 1912 – Parigi, 2 gennaio 1991) è stato un poeta francese. Figlio di ebrei italiani fu cresciuto in Egitto, dove ricevette un’educazione francese di stampo coloniale. Cominciò ad essere pubblicato già in giovane età, peraltro fu fatto cavaliere della Legion d’onore nel 1952 per i suoi meriti letterari. Quando l’Egitto decise di espellere dai suoi territori la popolazione di origine ebraica in seguito alla Crisi di Suez, Jabès fuggì a Parigi, che aveva già visitato per la prima volta negli anni trenta. Qui strinse amicizia con la cerchia dei surrealisti, senza tuttavia entrarne mai a far parte formalmente. Egli ottenne la cittadinanza francese nel 1967, lo stesso anno in cui ebbe l’onore di essere uno dei quattro scrittori francesi (insieme a Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Claude Lévi-Strauss) a presentare le proprie opere all’Esposizione universale di Montreal. Seguirono ulteriori riconoscimenti – Il Premio della Critica nel 1972 e una commissione come ufficiale nella Legion d’Onore nel 1986. Nel 1987 ha ricevuto il Grand Prix national de la poésie. La cerimonia di cremazione di Jabès è avvenuta alcuni giorni dopo la sua morte – all’età di 78 anni – nel cimitero di Père Lachaise.

 Presentazione di Donatella Bisutti

 La memoria e la mano (1987) abbandona strutturalmente la misura del «poema ininterrotto» cui Edmond Jabès ci aveva abituato ne Le Livre del Questions, Il libro delle interrogazioni (1963-1972) e anche in volumi successivi ad esso idealmente connessi, per ritornare, si direbbe, ai modi lirici della sua prima raccolta, Je bâtis ma demeure (poèmes 1943-57): casa in costruzione sotto cui un terremoto dall’epicentro molto profondo aveva aperto continue, successive crepe. Ritorno tuttavia apparente: la «circolarità del cammino», tema ricorrente nell’opera di Jabès, ancora una volta si rivela piuttosto spirale, cioè simbolo/struttura in cui movimento centripeto e centrifugo coincidono. La memoria e la mano testimonia infatti come, partito da un’incessante interrogazione sulla parola e sulla scrittura, luogo di un’impossibile rivelazione e di un suo finale coincidere con il Nulla, Jabès abbia in certo modo capovolto la prospettiva riportando la sua meditazione al di qua della scrittura. Ma solo per rendere più evidente quel rapporto con l’esistere di cui la Poesia, unica tra le sue varie forme di linguaggio, può mettere allo scoperto le radici e che, sembra dirci Jabès, può, pur nella sua connaturata contraddittorietà con l’essere, esprimere l’essere.

Ne Le Livre des Questions Jabès aveva infatti messo a confronto la millenaria dimensione del religioso e il nichilismo del pensiero contemporaneo come due serie di segni corrispondenti e reversibili, attraverso una riflessione sulla parola in quanto incapace di coincidere con l’originaria Parola divina – il Logos. Incapace tuttavia anche di coincidere con il flusso dell’esistente in quanto l’istante, appena colto dalla scrittura, cessa di essere tale e si ripropone continuamente solo per fissarsi in un’immobilità che equivale alla morte. Ma ciò che in Derrida, e nello stesso Blanchot, è riflessione sul senso della letteratura, in Jabès diviene sostanza di una poesia che, come la mitica Fenice, continuamente rinasce dalle sue ceneri. E anche recupero metaforico di quella venuta messianica continuamente profetizzata e continuamente rinviata di cui si nutre il pessimismo ebraico, della sua nozione di un Dio che si sottrae nel momento stesso in cui si manifesta. Nella Parola, nel Verbo Jabès ha individuato il punto di intersezione fra la più antica tradizione del pensiero occidentale – l’ebraismo – in cui tutto è segno, ma segno che rinvia allo Spirito, e lo sbocco ultimo e forse esausto di questo stesso pensiero che, avendo rinunciato allo Spirito, conserva come sua unica zattera il segno, ma un segno che non rinvia ad altro che a sé e, non significando nulla, è pura funzione.

Foto fuga nel corridoio

Nozioni apparentemente identiche, in realtà capovolte – il segno, la scrittura – sono dunque assunte da Jabès come l’alfa e l’omega del cammino intellettuale dell’Occidente e gli consentono di porre la Poesia nella Storia, che diventa storia di questo capovolgimento, e insieme di assegnare alla Poesia il compito di dare conto della Storia, cioè di questo stesso capovolgimento. Egli legge dunque tale cammino come uno svuotamento della parola, o meglio uno scollamento fra la parola come espressione verbale e il suo referente, fra quello che i linguisti chiamano il significante e il significato. Sul piano dell’Essere, il capovolgimento coincide con la rivendicazione che il pensiero fa della sua autonomia non accettando più alcun referente al di fuori di sé, una sua qualsiasi «dipendenza» dal divino. È questo il processo per cui l’uomo diventa, come dice Jabès, «immortale per la morte».

Moltiplicando senza fine la contraddittorietà implicita nella scrittura, impedendo la fissazione del senso con lo spostarne incessantemente i limiti più in là e con l’operare una continua rottura sul vocabolo, sulla frase, nei sei libri Des questions e nei successivi Jabès è andato così nella direzione di uno smantellamento del testo che arriva a farlo esplodere dall’interno, tendendolo fino alle estreme possibilità del linguaggio. Ma, all’opposto, ha anche concepito la sua opera come un’immensa costruzione – di cui metafora potrebbe essere una vuota cattedrale – fatta per durare (per entrare nella durata), riprendendo così, non  a caso, il senso del titolo di quella sua prima raccolta, Je bâtis ma demeure.

Muovendo dallo scacco mallarmeano della parola nei confronti dell’assoluto, egli riafferma il compito grandioso della poesia, se pur letto in una filigrana del negativo: quello di consentirci di fare in qualche modo esperienza di un segno che altrimenti sarebbe pura astrazione.

Ne La memoria e la mano, che è uno dei suoi ultimi testi, è come se in qualche modo Jabès compisse un percorso inverso, risalendo il millenario cammino dell’uomo verso il suo punto di partenza originario. Qui la sua meditazione sulla scrittura – se consideriamo la traccia sulla carta come un sottile crinale – si sposta dal versante di ciò che è scritto (la Parola, il Libro) a quello di ciò che scrive (la Memoria, appunto, la Mano). Passando, dunque, dalla scrittura come «oggetto» alla scrittura come «soggetto», da una scrittura «agìta» a una scrittura «agente».

E se nel primo caso egli ha cercato di cogliere nel percorso della penna sul foglio, nel formarsi della lettera sulla carta, l’attimo inafferrabile del passaggio dall’astrazione e dall’immaterialità del pensiero al suo limite di fallimento e di morte, in questo libro si sofferma piuttosto sulla scrittura come potenzialità ancora racchiusa nella materia – quindi come carnalità, esistenza – e si interroga sull’attimo del passaggio in cui questa carnalità è sul punto di cessare di essere tale, in cui, prima di perdere la sua concretezza, la parola è ancora parola incarnata. e sul mistero di tale incarnazione.

In tale mistero è il senso della mano: mano di carne che, posandosi sul foglio, dà origine alla scrittura. Prolungamento del filamento dell’inchiostro, o nei fitti segni tipografici, del percorso del sangue nel corpo, nelle dita. La mano è dunque il luogo dove l’energia dell’universo cambia di segno: il luogo dove il corpo si trasforma.

Ne Le livre des Questions Jabès aveva meditato a lungo su un altro «luogo» del corpo: la bocca – dove la parola prende forma – in quanto sede di una possibile intersezione fra il Corpo e lo Spirito, momento di una possibile coincidenza. Ma la bocca è anche sede della phonè, cioè di quel grido originario, simbolo della rottura fra la Parola di Dio e la nostra parola, che indica lo spezzarsi dell’armonia dell’uomo con l’universo. Grido che segna la nascita del linguaggio, inutilmente teso a recuperare quella parola perduta, e al tempo stesso fa per sempre dell’uomo un «separato». Grido che accompagna l’infrangersi delle Tavole. Così, non solo l’origine della parola, ma anche l’origine della scrittura veniva indicata simbolicamente da Jabès in una lacerazione drammatica, in una prima ferita esistenziale di cui solo un suono inarticolato contiene l’esperienza. Senso e perdita di senso coincidono per lo spazio di un attimo, prima di separarsi definitivamente, in una voce che è espressione immediata della carne e della sua sofferenza.  Da quel momento non solo la parola non conterrà più la Parola, ma non potrà neppure contenere più nella sua interezza il grido. Il passaggio dalla Parola alla parola avviene necessariamente attraverso il grido e resta necessariamente univoco. Da questo grido ha inizio la Storia e al tempo stesso esso tutta la racchiude nella suprema sintesi di un istante.

La mano invece non è luogo della coincidenza, reale o virtuale, fra Corpo e Spirito, ma luogo della metamorfosi. Lo Spirito viene prima, è all’origine: ed è attraverso la mano che cerca, successivamente, di ritrasformarsi in Spirito, in Logos. L’esistenza (quindi la materia, la carne, il corpo) non è dunque estranea allo Spirito, ma contiene lo Spirito: «lo Spirito sta rannicchiato nella mano». Questa è la Provocazione, e la Rivelazione. e una volta che si tenga conto di questa Rivelazione, tutta la lettura di La memoria e la mano ne appare esemplificazione e conferma.

Certo rimane l’impossibilità del Logos: cioè del Senso. Ma questo limite Jabès lo sposta al di qua: sul fronte del Divenire, e non tanto, o almeno non più in prima istanza, su quello dell’essere. In che modo dunque la materia può rapportarsi allo Spirito? Che cos’è la mano?

Se, quando il Talmud fu messo finalmente per iscritto, ci fu chi disse che se ne distruggeva così la qualità vivente, che cos’è questa qualità vivente? se la dimensione dello Spirito è il fallimento dell’aspirazione dell’uomo, che non può risalire oltre il momento in cui l’Eternità spezza nel tempo, qual è la dimensione della carne? Se l’infinito è un continuo punto di fuga, che cos’è allora il finito? qual è la dimensione della Storia? Qual è il rapporto fra la Mano e la Storia, fra il vivente e la Memoria?

La mano, a differenza della bocca, o dell’occhio, è emblematica di tutto l’uomo. La mano è scambio: essa cura la ferita, consola come un «tiepido spessore» d’ombra. È comunicazione: la mano si «spalanca» al mondo. È realizzazione di sé: senza mani «si muore».

foto donna con ombrello

È simbolo cosmico: il giorno e la notte sono i suoi «due poli». Le due mani a coppa contengono il mattino, e l’ombra. Così come segna il Tempo, essa segna lo Spazio: è «orizzonte», «frontiera». È appartenenza: a sé, agli altri, alla propria stirpe, al mondo. Tutta l’esistenza umana è dunque, in realtà e in simbolo, nella mano: amore pietà sofferenza tenerezza solidarietà dolore morte. E questo coincidere in essa della realtà e del simbolo la differenza dalla scrittura, che è solo simbolo.

Ma, soprattutto, la mano è al tempo stesso passato e avvenire: stele che sovrasta le tombe e, aperta a metà, traccia i caratteri della testimonianza collegando così la morte – il passato – alla vita futura. È dunque Memoria, Storia che scrive se stessa.

Anche la scrittura è Memoria.

Ma prima ancora di essere traccia di parola, la Memoria, attraverso la mano, si rivela come ciò che si è incarnato: non memoria della Mente, ma memoria del Corpo. essa è prima di tutto immagine, cioè realtà introiettata, assimilata, trasformata in carne, sangue, ossa: residuo sì, ma residuo concreto, che si aggiunge alla creazione del mondo, lo sostanzia a sua volta. Non rappresenta più quindi, come la scrittura, il momento della perdita di un senso che si sottrae all’interrogazione, ma, al contrario, il momento della continuazione attraverso il vivente, l’esistente.

Questo è, concretamente, la materia, e la mano che incarna la Memoria: veicolo. L’esistente, che essa insieme rappresenta e simboleggia, non è più allora solo limite, opacità, adombramento del senso, ma anche veicolo del senso. In essa trascorre, sia pure inafferrabile, il senso, nel suo andare dal Logos originario a quel tentativo umano del Logos/scrittura che deve obbligatoriamente fallire. Se incarnazione del Logos non può dunque essere la Parola, può forse, nell’estrema meditazione di Jabès, esserlo in qualche modo la Mano, in cui simbolo e materia si toccano, ed è la materia a divenire segno.

La Poesia non è più allora, come prima, storia di un capovolgimento del senso nel non-senso, ma testimonianza e intuizione del profondo radicarsi dell’essere nel Divenire. Attraverso la mano, cioè attraverso la pienezza dell’esistente, l’essere si manifesta infatti come Divenire fino alla sua apparente consumazione. Destino questo non solo umano, ma cosmico. Infatti: «il cielo è poco sopra la terra» e anche la «luce di polvere» è destinata a divenire «polvere di luce». e non sembra sufficiente riscatto che in questo andare dalla polvere alla polvere permanga la nozione di luce. È vero che nel cielo cosmico la notte, ch’è simbolo della morte, non è solo termine ma anche intervallo – «preludio» – e presuppone una ripresa della vita: ma la direzione della vita – della mano – resta, inevitabilmente, quella che va «dall’alba al crepuscolo». La ripetizione è ripetizione ogni volta rinnovata di un cammino verso la fine: un aumento progressivo di inerzia ci spinge verso la morte. Non c’è, almeno nei termini della nostra esperienza, riscatto definitivo nella luce.

La ripetizione, se intesa come uno sfuggire al limite rappresentato dalla morte, è solo illusione: e da questa illusione nasce la scrittura. Perciò la mano «illusa» si abbatte sulla pagina sgualcita.

Così la mano, alla fine, si trasforma in un punto: questo punto è il trou, quel buco vertiginoso della morte che tutto inghiotte.

Ma il vuoto resta «al di qua». Il punto, cioè l’abisso della fine, della morte, è infatti, nonostante le sue connotazioni negative, un «ingresso visibile».

Allusione ad una inattingibile trascendenza? Non credo.

Ci sarà una mano, si chiede Jabès, per accompagnarci alla morte? Più precisamente: per accompagnarci all’orlo di quel punto/buco? Dove la nozione di punto come «ingresso visibile» è più importante di quello della morte. e quindi la leggerei così: la mano, cioè il nostro divenire, la nostra esistenza potranno capovolgersi in rivelazione? Avremo cioè la rivelazione inoppugnabile, la consapevole e finalmente appagante certezza che questo divenire, questo esistente, questa materia e carne e sangue sono essi stessi manifestazione dell’essere? La contraddizione si risolverà finalmente accettando fino ad annullarla ogni opposizione e raggiungendo la coincidenza perfetta? la nozione di eternità ci apparirà allora come contenuta intera nel Divenire? La rivelazione non può essere infatti quella di una, per Jabès impossibile, trascendenza, ma solo quella dello Spirito che «sta rannicchiato nella mano», del suo poter essere contenuto nell’imperfezione del finito. Rivelazione che non potrà mai avvenire attraverso la scrittura, ma solo a patto di passare attraverso l’esperienza (cioè la Memoria, la Mano). L’esperienza ultima, assoluta che coincide con la spoliazione di sé: la caduta simboleggiata e insieme rappresentata appunto dalla morte. Anche solo – o soprattutto – dalla consapevolezza della morte. È allora che il limite può iscriversi nell’«illimitato della fine».

Questo mi appare il traguardo estremo – che pure nel suo continuo movimento a spirale egli avrebbe certo continuato a spostare – della ricerca profondamente religiosa di Jabès (nell’energia che è simboleggiata dall’oceano, dalle sue onde «in delirio». L’Il tende junmghianamente a divenire «un’isola al di sopra dell’isola», cioè a raggiungere l’unità del Sé che assomma Il e Ile: allora finalmente potrà essere «liberato».

Solo la separazione permette lo sbocciare della coscienza: la consapevolezza è la sua condanna e il suo retaggio, mentre «la vela ignora la sua rivale» e «il sole è al riparo dai suoi raggi».

In questo testo – sia pure aperto, che proustianamente vuole rivelare il lettore a se stesso – Jabès ha esplorato forse più esplicitamente del solito il rapporto fra l’Io e il Tutto e fra le diverse e opposte parti dell’io. Se pure sottolineare una maggiore esplicitazione tematica non deve impoverire Racconto di quella continua «sottrazione in avanti» che caratterizza l’opera di Jabès. Ancora una volta filosofia e poesia si fondono senza scorie proprio perché, come ogni possibile risposta è ritrasformata in domanda, così ogni metafora diventa punto di partenza per una metafora ulteriore, creando quell’irripetibile effetto di miraggio di cui l’immaginario di Jabès è debitore forse proprio alla contemplazione del deserto – lui che finché visse in Egitto nel deserto usò spesso trascorrere le notti in solitudine.

Nell’ambito di un fluire sempre asistematico e di uno sviluppo del testo per propagazioni successive così tipico del suo Autore, Racconto può dunque essere letto come premessa a quel cammino verso un convergere di essere e coscienza, di cui La memoria e la mano rappresenterà il più compiuto tentativo.

Nella Lettera a M.C. che segue Racconto come una postilla e stilisticamente ritorna invece a collegarsi, nel suo andamento di prosa poetica, a Le Livre des Questions e ai cicli successivi, il topos del «punto», culmine scintillante («tete de clou»), pare anticipare il tema in qualche modo salvifico che ne La memoria e la mano diverrà centrale.

foto a distanza

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