La parola è il significante di un significato rimosso dalla coscienza del soggetto. La parola è un sintomo. Un Simbolo scritto sulla sabbia del linguaggio. La parola copre un «vuoto».
La mia scarsa versatilità a scrivere haiku, e nemmeno «pseudo haiku» alla maniera di Zanzotto, deriva dalla mia formazione culturale. Nell’haiku ho sempre la sensazione che ci sia da qualche parte, nascosto, il soggetto che ammaina le vele o le mette a dritta per la navigazione in quell’oceano di sabbia che è il linguaggio. Perché parto dalla evidenza che: dove c’è il soggetto non ci sono io. E viceversa. Ho sempre il presentimento che nell’haiku ci sia da qualche parte nascosto il soggetto che si gode la rappresentazione. Ho questo recondito sospetto che non riesco a zittire.
Però sono convinto che nel circolo iconico e simbolico dell’haiku affiori, anzi, si riveli una grande evidenza: che dobbiamo a tutti i costi far sloggiare il soggetto (l’io) dal centro dell’universo e dal centro del discorso. Questo sospetto diventa certezza quando leggo certi libri come quelli di Tiziano Scarpa e Marcello Fois i quali ci consegnano una scrittura che si è completamente arenata e arresa alla frase narrativa. Di fatto, qui entriamo nella narrativa. Bisogna dirlo per onestà verso noi stessi e verso gli sparuti lettori di poesia. Sono libri di «poesia» totalmente narrativizzata, cioè sottoposti alla egemonia della forma-narrativa.
Non so se gli autori in questione abbiano scelto consapevolmente questa soluzione: la fine della forma-poesia e la sua fluidificazione nella forma-narrativa. Se così è va bene, buon per loro e per noi che possiamo subito chiudere i libri perché pensavamo che in una collana di poesia trovassimo dei testi di poesia; se invece non è così, dovremmo cercare la ragione perché la «poesia» è scomparsa per diventare completamente «prosa». Personalmente, sarei curioso di chiederlo agli autori stessi.
Il discorso sul perché la poesia si sia «suicidata» è molto complesso e risale a tanto tempo fa, quando qualcuno ha pensato di liberalizzare, democratizzare la «forma-poesia» per adattarla alla nuova civiltà mediatica. Nei primissimi anni settanta fu Montale a porsi questo problema che risolse a suo modo con Satura (1971) aprendo la «forma-poesia» alla penetrazione della «prosa». Ma sarebbe bene ricordare che Montale ci aveva anche avvertiti che si trattava di «falsa» prosa perché c’era un contro movimento interno alla «prosa» che interrompeva e disturbava lo scorrimento frastico della «prosa», e questa era appunto la poesia, che esisteva pur sempre frammezzo alla prosa anche se in una condizione saltuaria, di instabilità e di estrema vulnerabilità. Ma tant’è, nessuno ha più fatto caso a questa avvertenza di Montale e le cose da allora sono andate per il loro verso, cioè sono precipitate sempre più in basso.
Da allora, è avvenuto che non è stato posto nessun argine a questa resa totale della poesia alla prosa, e il risultato è questo che vediamo, questo che possiamo leggere nei libri di poesia di questi ultimi decenni e di oggi. Sarebbe stato bene che qualcuno in tutti questi decenni avesse avvertito di questo rischio, ma ormai è tardi per porvi riparo, oggi non possiamo che levare un grido postumo di allarme, è troppo tardi per porvi riparo. Si dirà: ma la poesia si è democratizzata, si è adattata all’uditorio mediatico! Può darsi, ma si è trattato di un rimedio peggiore del male che voleva curare. Adesso è troppo tardi per cercare un altro rimedio. Penso che allo stato degli atti bisognerà fare una conversione ad “U”, pur infrangendo le norme del codice della strada, è un rischio che ci dobbiamo accollare.
Penso che bisognerebbe de-localizzare il soggetto per localizzare la soggettività. Quando leggo la poesia di oggi, vengo preso dall’ambascia che sia una poesia scritta dall’io per l’io degli altri, come una scrittura pubblicitaria, una scrittura mediatica. È un sospetto terribile, che basta di per sé a farmi passare la voglia di leggere oltre le prime righe, quelle righe infatuate di encomiastica fiducia nel soggetto e di falsa soggettività. Quel «pieno» che è il soggetto con l’adiacenza delle sue parole mi mette letteralmente la nausea. Quel geroglifico (l’io) che tutti danno per scontato mi fa sorridere di noia.
Però l’esercizio dell’haiku è importantissimo, penso, per quei «tagli» (kireji è “parola che taglia”). Quanto poco utilizziamo i «tagli» in una poesia! – Eppure, i «tagli» sono essenziali nell’haiku! – Ecco, questo aspetto è una caratteristica preminente della poesia che qui stiamo pensando e facendo e che abbiamo chiamato la «nuova ontologia estetica». Senza i «tagli» la nuova poesia non esisterebbe nemmeno! I «tagli» e i «cambi di marcia» e le «peritropè» (i ribaltamenti, le conversioni), sono elementi assolutamente essenziali per la nuova poesia.
Leggiamo qui la poesia messa in copertina dal libro di Tiziano Scarpa, Le nuvole e i soldi, Einaudi, 2018:
Nel cimitero della mia città
vengo a rubare i fiori.
Non li darò a una donna.
Non sono per nessuno.
Con gli occhi bassi, li offro
alla parola amore
che ho imparato dai morti.
Lasciando da parte per un momento se la poesia sia bella o brutta (esercizio che lascio volentieri ai numismatici), quello che mi suona posticcio è quell’«io» che soggiace ovunque e sottende tutta la poesia, quell’io invasivo e pervasivo che continua a guidare e governare il rapporto fraseologico. Ecco, di questo «io», di questo «io» epicentro avverto il suono fesso, incautamente imbonitorio, vi leggo un messaggio egolalico, con un qualcosa di ammonitorio e intimidatorio…

di questo «io», di questo «io» epicentro avverto il suono fesso, incautamente imbonitorio, vi leggo un messaggio egolalico, con un qualcosa di ammonitorio e intimidatorio…
Leggiamo un’altra poesia messa in copertina delle edizioni Einaudi, 2018 di Marcello Fois, L’infinito non finire:
Esiste un altro tempo
Io l’ho visto
Prima che dal suolo scaturisse sangue
Prima del magma che forzava le crepe
Disteso con la bocca a terra
Ho atteso che si compisse a stagione
Qui addirittura l’«io» è nominato al secondo rigo. Tutti gli altri righi sono superfetazioni catacretiche dell«io» egolalico, sono sue emanazioni variopinte.
Indubbiamente, «la forza delle chiese risiede nel linguaggio che esse hanno saputo conservare».1] Anche il linguaggio poetico è diventato un linguaggio chiesastico, un catechismo che passa di mano in mano, di generazione in generazione come un sussidiario nel quale i catecumeni mettono le proprie generalità. È la forza di un linguaggio chiesastico dove il sacerdote è l’«io» e la messa sono le sue omelie pronunziate in pubblico. Penso che tutta questa materia lessicale metricamente posta nelle sue forme sia il prodotto di una presupposizione, di una congettura da tutti presa per vera e sul serio, al pari dell’esistenza di un «io» che legifera nel suo universo di parole. L’«io» di cui si discute nella poesia italiana degli ultimi cinque decenni e si continua a discutere nei libri di poesie pubblicati è nient’altro che un simulacro in similpelle di una presupposizione, simil plastica inzuppata nel deodorante di una cultura da supermarket. L’«io» di cui tratta la poesia epigonica altro non è che il surrogato di un simulacro in simil plastica.
Il linguaggio poetico non è affatto fatto per trovare l’oggetto: «io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato per ciò che sto per divenire».2]
Il linguaggio poetico non è il responsorio dove sono custodite le risposte alle istanze pulsorie e persuasorie dell’«io», ma è esattamente l’opposto, è il luogo dove risuonano le parole dell’Altro e degli Altri in un linguaggio estraneo, allotrio…
In questi ultimi giorni ho letto alcuni libri di poesia di vari autori. Che dire? Sono scritti in un buon italiano, un italiano accettabile, nulla quaestio, ci sono dei giri frastici al punto giusto, degli incisi morbidi, l’a-capo è sempre (o quasi) azzeccato, non ci sono indugi, né incertezze, ci sono delle belle strofe con le spaziature per far sembrare interessante l’acqua corrente. Tutto è a posto, sono scritture con i tacchi a spillo e la cravatta, ma non c’è il tema, non c’è quello che il titolo delle poesie indica. Si vede che non c’è un «Progetto» (scusate la parola maiuscola), si vede che gli autori non si sono mai posto alcun problema di cosa vuoi farci con il linguaggio, che cos’è la composizione poetica, se è una chiacchierata dell’io che sciorina le sue considerazioni o altro, si tratta di libere considerazioni, più o meno brillanti, ricchi di trovate e battute di spirito. Direi che c’è una ingenuità o sconoscenza di fondo sui fondamentali, su ciò che si intende debba essere una poesia… mi trovo in imbarazzo… non saprei proprio che cosa dire di questi libri, tranne che mi sembrano scritti in base ad un impulso irrefrenabile dell’io che vuole presentarsi sul palcoscenico… quando invece la poesia proviene di preferenza, anzi direi sempre, da un filtro, da una rarefazione. Moravia diceva che una poesia è un romanzo ma scorciato fino in fondo. Ecco, credo che Moravia abbia colto nel segno. Ma questi sono racconti prolissi e compositi, scritti proprio come dei racconti ma senza capo né coda. E questo proprio non è sufficiente per annoverare questi libri tra i libri di poesia.
(Giorgio Linguaglossa)
1] J. Lacan, Scritti, vol I, trad. it. a cura di Giacomo Contri, Einaudi, 1976. p. 276
2] Ibidem p. 293
[Tiziano Scarpa, da Le nuvole e i soldi, Einaudi 2018]
Mi fa venire
un corpo nudo mi fa venire
la foto di un corpo nudo mi fa venire
il video di un corpo nudo mi fa venire
un piede di donna che calpesta la marmellata mi fa venire
l’idea che ci sia chi viene per un piede di donna che calpesta la marmellata mi fa venire
una suola che spiaccica una gomma sul marciapiede mi fa venire
il marciapiede mi fa venire
un tubo di scappamento mi fa venire
un semaforo mi fa venire
una vigilessa mi fa venire
un viale alberato mi fa venire
un supermercato mi fa venire
le nuvole mi fanno venire
la luna mi fa venire
il sole mi fa venire
l’universo mi fa venire
gli angeli mi fanno venire
dio mi fa venire
il terremoto mi fa venire
le catastrofi mi fanno venire
la morte mi fa venire
i fulmini mi fanno venire
la luce mi fa venire
il mare mi fa venire
la gente nuda al mare mi fa venire
tutta la gente che viene mi fa venire
una persona particolare che so io che viene mi fa venire
fare l’amore mi fa venire
venire mi fa venire
Poesia scritta dalle parole #9
Non sei credibile
perché sei maschio.
Làsciatelo dire da noi parole
che in italiano infatti siamo femmine
la nostra desinenza è femminile.
(tra l’altro, è indicativo
che il sesso delle parole stia alla fine,
sulle estremità. Sarebbe come avere
cazzi e vagine aperte
sulle mani, sui piedi,
invece che protette fra le cosce
di due sillabe interne,
per esempio lamApad,
sofOfitt, temApest,
oppure sul cocuzzolo
Ofuoc, Aguerr, Efulmin, Odisastr)
Qualunque cosa dici
sei maschio quindi porco
puerile irresponsabile
ambizioso narciso.
E anche se soffri sarà sempre meno
della sofferenza femminile
che infatti è femminile.
Se il dolore è maschile
è perché è inferto dai maschi.
Lascia che siamo noi a rappresentarti,
a farti da avvocate.
Ogni riga è un processo
intentato da noi nei tuoi confronti
e questo ti conviene
perché mostrarti accusato
ti procura indulgenza
se non proprio una vera assoluzione.
*
Nel cimitero della mia città
1.
Nel cimitero della mia città
vengo a fare una cosa.
In tuta, con le scarpe da ginnastica
corro lungo i vialetti.
Senza farmi vedere
corro sopra le lapidi.
Le parole sono tombe. Le tombe
sono parole. Io
corro sulle parole
inventate dai morti.
2.
Io so che le parole
contengono i desideri dei morti.
So che ci piaccia o no
ci tocca realizzarli.
Lo stiamo già facendo.
Lo facciamo da sempre.
Io attraverso la frase,
la impregno di me stesso.
Io ricevo dai morti
il sapore del mondo.
3.
Nel cimitero della mia città
vengo a rubare i fiori.
Non li darò a una donna.
Non sono per nessuno.
Con gli occhi bassi, li offro
alla parola amore
che ho imparato dai morti.
Marcello Fois da L’infinito non finire (Einaudi, 2018)
Congedo
Parti da te, figlio… da quello che sei.
Bisogna morire per imparare?
Mi chiedi.
Sì, figlio, per imparare qualcosa deve morire.
Tu non lo sai e non devi saperlo,
ma il cuore, con l’età, si restringe.
Non è più tanto capiente, immenso,
come all’inizio dei giorni.
Tra non molto gli abbandoni conteranno anch’essi.
Ma ora il tuo cuore è una piazza sconfinata,
e ti fa credere che sopravviverai
senza dover rinunciare a niente,
capirai, col tempo, quanto sia difficile trattenere
ogni cosa, ogni pensiero, ogni persona…
Sei nell’euforia di tutti gli inizi.
Qualcuno dovrà morire perché tu viva.
Domani, quando chiamerai, io non ci sarò,
ma solo perché tu possa esserci,
quando chiameranno te.
Arandona Star
Lunghezza: 163 metri.
Posti in prima classe: 364.
Velocità di crociera: 60 nodi.
Tonnellaggio lordo: 12 847 tonnellate,
prima di essere riarmata fino a 15 501 tonnellate…
Arandora festeggia il primo anno,
diventando Arandora Star, nave da crociera
di gran lusso…
Come un adolescente che si svegli, d’improvviso, donna.
Avreste dovuto vedere come svettava fiera e sfacciata
Nella sua livrea brillante al porto di Southampton.
Dieci anni a viaggiare dall’Inghilterra alla Costa est
del Sudamerica:
Vittoria, rio de Janeiro, Santos, Florianopolis,
Montevideo, Mar del Plata,
fino al 1939.
Oh sì, verso il ’39 c’è poco da ridere,
l’Europa è uno zerbino scosso da una massaia energica
che pretende pulizia.
All’Arandora si toglie l’abito da sera,
dodici operai lavorano per quattro giorni
ininterrottamente
per ridipingerla di grigio.
Questi sono gli ordini.
La signora elegantissima è diventata un’anziana dimessa
Che stenta a mantenere i segni dell’antica eleganza
Negli intarsi di legni africani, nelle modanature decò,
nei tappeti persiani, nelle travature di ghisa…
Di quella e delle altre navi tuttavia
non si ricorderanno gli arrivi,
ma solo le partenze, che le partenze valgono
solo per chi resta…
Stefano Colonna, il figlio di Mariella Colonna che ci ha accompagnato nel tragitto esperienziale della nostra rivista, ci informa che la madre è venuta meno.
Ci uniamo alla famiglia con il nostro sommesso cordoglio. Se ne è andata una persona profondamente buona e una brava poetessa:
«Devo dare il triste annuncio che questa mattina è venuta a mancare mia madre Mariella Colonna Filippone. I funerali si terranno nella chiesa di Santa Chiara a Piazza Giuochi Delfici a Roma alle ore 12:00 del 10 ottobre 2018»
Mi addolora profondamente la perdita di Mariella, limpida intelligenza e cuore profondo.
Mi hanno legato a lei scambi autentici di poesia e amicizia vera.
Mi stringo in un abbraccio ai familiari, a cui porgo le mie più sentite condoglianze.
Non la sentivo per telefono da qualche mese per non disturbarla. E’ una triste giornata! Porterò nel cuore i suoi commenti alle mie poesie.
E’ sempre un dolore apprendere che una persona amica, degna di affetto e di stima, non è più tra noi.;chi resta deve impegnarsi a continuarne l’opere intrapresa e mai finita, questo grande arazzo che costruiamo insieme, punto dopo punto, cercando il filo rosso che ci lega e ci accomuna.
Mi unisco al cordoglio. Condoglianze alla famiglia
Adesso con chi mi arrabbierò, Mariella… ho il tuo libro “Il fantasma di Lacan” con la cover che abbiamo fatto insieme. Un lavoraccio ma ne è valsa la pena: un incontro d’arte ben riuscito. E infine amici. Vieni a trovarmi…
Faccio le mie condoglianze alla famiglia.
Mariella Colonna, finissima interprete di poesia contemporanea e poeta di preziose intelaiature di immagini, la vorrei ricordare così, sui due registri
e linguaggi nei quali seppe essere delicata Maestra. Oggi forse un pò muoio anch’io.
1- Mariella Colonna
GINO RAGO: IL CICLO DI TROIA
l’EPICA DEL DOLORE e DELL’AMORE
commento di Mariella Colonna
Nell’evocare le vicende di Troia la poesia di Gino Rago è un prodigioso e vertiginoso scorrere di parole – ombra in cui l’assenza dell’evento ormai divorato dal tempo si materializza immediatamente nella presenza “ontologica” dentro il corpo la mente l’anima del lettore, qui adesso: chi riesce a leggerla senza lasciarsi “incantare” dal primo livello di significato delle parole che generano la propria ombra, cioè il mistero che racchiudono, entra nel mondo richiamato in vita dal poeta: chi legge il Ciclo di Troia a cuore aperto è già dentro la città in fiamme, sente l’odore acre del fumo, dei corpi bruciati, brancola nel buio alla ricerca dei sopravvissuti, inciampa nei massi e nelle pietre che si staccano dalle mura e dai palazzi assaliti dalla furia del nemico…poi incontra Ecuba piegata che batte la terra con le mani mentre evoca la forza dei defunti e si ferma a contemplare l’icona statuaria di questa Madre che non teme la morte (come un’altra Madre certamente più cara ma non più drammaticamente “vera” di Ecuba) anzi invoca e quasi richiama indietro i morti con la forza dell’amore che è più forte della morte, sempre sul piano dell’essere dominante nell’epica di Gino Rago, al di là dell’evento storico.
Qui, adesso, non ieri o l’altro giorno, ho incontrato Ecuba per la prima volta nella mia vita culturale e reale, avrei voluto consolarla, avvolgerla nell’abbraccio dell’amore oltre il tempo ma avrei abbracciato me stessa…ho atteso l’Aurora, la bella dea della luce che esalta la devastazione delle rovine Troia, ma ne fa risaltare la drammatica realtà più forte del tempo e dell’oblio che tutto cancellano: Troia diventa così l’emblema di una civiltà violentata dalla civiltà successiva, da piangere e rimpiangere per la grandezza dei suoi personaggi ed eroi. Ettore, il più grande guerriero troiano, trova la morte per mano di Achille, dopo aver varcato le fontane di fuoco e di ghiaccio presso la torre di Priamo e il suo cadavere viene gettato in pasto agli uccelli. Priamo morto…Astianatte scagliato con furia per le mura d’Ilio / per dare fine alla stirpe troiana…Incendiate le Mura,distrutti i sacri Lari/ perduti affetti e beni… “Noi siamo qui per Ecuba”è l’affermazione del poeta, che incide con parole solenni la presenza collettiva (noi) di quelli che provano il suo stesso dolore e la sua meraviglia di fronte al coraggio di una vecchia Regina che ora, nella notte dei secoli, è diventata soltanto se stessa sul piano dell’essere ed è vittima dei più astuti, non dei più forti: una moglie e una Madre in cui si raccolgono coralmente le Madri che sanno amare oltre se stesse e gli affetti terreni, diventando simbolo di tutta la comunità e della terra dove hanno vissuto, messo radici, fatto nascere e pianto generazioni di uomini e di eroi. Questa notte dei tempi che Gino Rago ci fa rivivere nella sua piena e complessa drammaticità ha la potenza di un vulcano che arriva fino a noi in continua eruzione di fuoco lava pietre incandescenti, ci fa sentire nel corpo e nell’anima fino a che punto sia aberrante e assurda la morte in guerra che rende disumani vincitori e vinti: infatti uno dei miti vuole che la stessa Ecuba, che a Troia ci si presenta come una statua di fronte all’eterno, fatta schiava da Ulisse, raggiunto il Chersoneso Tracico, abbia vendicato la morte dell’ultimo figlio Palinuro accecando il traditore Polimestore e facendone uccidere i figli. Questi sono i frutti della violenza folle che spesso rende folli i persecutori e le vittime.
Giorgio Linguaglossa su L’Ombra delle parole un anno fa definiva Gino Rago poeta del Mediterraneo: essendo la sua civiltà ideale tramontata per sempre… di qui… nel poeta prende vita la ricerca di una patria ideale da far rivivere con l’ausilio della poesia. E la sua patria Rago la ritrova nel passato mitico della guerra di Troia e nelle sventure delle donne di quella città.
Ma, leggendo altre poesie di Rago ci accorgiamo che, al dramma della civiltà omerica rappresentato nell’Iliade, il poeta associa la consapevolezza di quanto sia generosa oggi la natura della sua terra e di quelli che la abitano…in Fatelo sapere alla Regina: …Siamo ricchi di noi/ dei profumi del sole nelle primavere…Olio e ferite, vino e fatica,/ festa e camicia pulita,/vento fanciullo a danzare/ nell’erba, amore nelle mani/ quando cercano/ altre mani, oblio d’anemoni/ sui nervi delle pietre…
Ecco il contrasto, inciso a colpi di scalpello tra l’ombra profonda del passato con l’epica del dolore che annienta e dell’amore coraggioso che riscatta e la gioia incandescente di sentirsi figlio di una terra dove il sole ha fatto crescere le spighe mosse dal vento, dove si lavora con fatica ma si riprende forza con un bicchiere di vino, dove si è ricchi di se stessi per i canti del cuore/ la saggezza del pane, la quieta/ sapienza del sale:/ per le sciabole/ rosse dei papaveri nel grano. In questa dialettica scultorea tra ombra e luce, tra parole – ombra per evocare e far rivivere il passato e parole – sole e natura Gino Rago offre in dono al lettore la gioia di esserci, oggi – e senza nostalgie o falsi miti che allontanino dalla meraviglia e dal mistero di esistere.
Mariella Colonna
Roma, gennaio 2017
2- Mariella Colonna
Quella mano tesa
verso di me che non la posso stringere
quello sguardo intenso che ti scruta dentro,
come un’ala senza cielo,
in attesa dell’assenso.
E tutto l’azzurro del mare, l’essenza dell’azzurro
in se stesso riflesso. Ti veste il mare, Stella mattutina
allegoria delle costellazioni, che incarni
il cuore dell’umanità. Tu in forma perfetta
di giovinezza regale, nella tua mano l’ala del destino
nei tuoi occhi tutta l’ombra, lo splendore
della parola non detta ancora, la mistica rosa
nell’incarnato pallore
che ti fa più bella.
Forse una mattina Antonello
guardò il mare ti vide sul fiore dell’onda
e dal mare sei nata, misteriosa icona
di bellezza, mattutina Stella, il mare ancora trema
per la tua carezza. Tu, Arca dell’Alleanza
fiorita in un giardino che noi,
sulla terra, chiamiamo
Paradiso. Sei la tenerezza, il sorriso
del mondo offerti anche a chi non crede
Annunziata di Antonello
nata a Messina.
—————————————————————————–
Oggi con te muoio un pò anch’io, Mariella. Non ti ho mai conosciuta di persona, ma la tua voce sulle onde hertziane e la tua finissima scrittura sono, restano vive in me. Sei onda perpetua nel tempo, del tempo, con il tempo, tempo di poeti senza tempo.
Sono profondamente addolorato, pur non avendo avuto occasione di incontrarla di persona, dalla scomparsa di Mariella Colonna, di cui ho potuto apprezzare le qualità culturali e creative, leggendo i suoi testi. In un mondo di schiavi del consumo senza valore, la perdita di una mente così libera e raffinata, ci lascia tutti più poveri.
Tiziano Scarpa e Marcello Fois sono prodotti commerciali, destinati a target diversi. L’industria dell’io in versione pop esiste da almeno trent’anni. E’ quella che va di più. Warhol, poveretto, non c’entra, aveva un’altra testa. E in letteratura Montale aveva fatto il suo tempo.
Negli ultimi tempi Mariella Colonna scriveva poesia felliniana. La sua scomparsa ci impoverisce.
È morto un altro poeta, una persona per bene la cui unica colpa era quella di esser nato e vissuto in Calabria, terra dimenticata da dio e dagli uomini, il poeta calabrese Carlo Cipparrone, fondatore e direttore della rivista “Capoverso”.
9 ott. 2018 di Ottavio Rossani
«Carlo Cipparrone Questa mattina a Cosenza si è svolto il funerale di Carlo Cipparrone, poeta calabrese di notevole valore, critico impegnato su giornali e riviste, fondatore e direttore della rivista “Capoverso” (pubblicata a Cosenza da Orizzonti Meridionali Edizioni, di Franco Alimena). È morto domenica scorsa. Aveva 84 anni. Negli ultimi tempi è stato malato, ha lottato contro un tumore, ma dopo lunga resistenza è crollato. Su questa estrema esperienza, ne sono accorata testimonianza tre sue poesie pubblicate sul numero 34 della sua rivista “Capoverso”. Ecco alcuni passaggi»:
Pronto soccorso
Lo chiamano “pronto soccorso”,
ma in realtà è un… soccorso lento
quello offerto ai poveri cristi
che ne affollano la sala d’attesa,
dove approda un’umanità sofferente
e ognuno vive in sé il proprio dramma.
Soltanto ieri sera ho appreso della scomparsa della nostra amica e compagna di poesia Mariella Colonna. Da tempo avevo intuito la gravità del suo male. Eppure, quando ho letto l’annuncio dato dal figlio Stefano (a lui e a sua sorella Serena vanno le mie condoglianze più sentite), non volevo crederci. Non potevo convincermi che Mariella ci avesse lasciati… “londadeltempo”, così si firmava sulla nostra rivista, in tanti suoi significativi interventi, contributi critici e poetici, che restano qui per sempre, tra queste pagine, a impreziosirne il contenuto.
Per Mariella noi avremmo voluto “cambiare il corso del tempo./ Sostituire agli attimi/ le farfalle dei pensieri/ e riempire lo spazio con il canto degli uccelli/ per raggiungere la dimensione del volo”. Oggi Mariella l’ha raggiunta quella dimensione:
“quando all’improvviso fiorisce/ una rosa perfetta”.
*
Il tempo della rosa
“Non vorrai scherzare col fuoco?” mi hai detto.
I quattro angoli della stanza
si unirono a quattro stelle
dell’Orsa Maggiore. Intorno tutto
prese una nuova posizione. I piatti
a tavola giravano velocissimi su se stessi
pronti a raggiungere la nostra base spaziale.
Il mio e il tuo “io”
disposti sugli assi cartesiani
della nuova dimensione nata
dai nostri pensieri in croce,
proprio nel punto zero.
Follia creativa
della luce”!
Volevamo cambiare il corso del tempo.
Sostituire agli attimi
le farfalle dei pensieri
e riempire lo spazio con il canto degli uccelli
per raggiungere la dimensione del volo
quando all’improvviso fiorisce
una rosa perfetta.
Si mette tra noi e lo spazio
tra noi e il tempo
tra te e me.
Quel fiore splendido, prepotente
aggressivo, quella regina di Bellezza
prende possesso della tua mente.
A me resta soltanto
la silenziosa carezza
del nulla,
ma dal nulla fiorisce l’universo.
Il nulla
è una rosa.
(Mariella Colonna)
(((“Ma infatti”, mi viene da dire leggendo le sue osservazioni sul linguaggio, gentile Giorgio Linguaglossa.
L’ha letto il libro o ha soltanto raccolto qualche citazione in rete?
Per esempio, qui sotto può trovare il primo testo della serie “Poesie scritte dalle parole”.
Ma anche l’ “io” della poesia mia cimiteriale che cita (che figura in copertina del libro, sì, ma è la numero 3. di una sequenza che dice in maniera molto chiara che tutte le parole le hanno inventate i morti, non sono uno specchio del nostro io), dicevo, quell’io si aggira nelle parole “inventate dai morti”: parole estranee, parole che non sono nostra espressione ma che abbiamo soltanto ricevuto in eredità, e che non sono un’eco di una nostra supposta interiorità; ebbene, fra queste parole è compresa ANCHE LA PAROLA “IO”. Questo a me pare che le sfugga. E’ curioso che lei teorizzi questo bando dell’io senza, forse, essere consapevole che perfino (e forse soprattutto) la parola “io” è un’invenzione altrui, è anch’esso un termine in cui si esprime l’Altro.
E questo è ancora più inquietante e interessante per la nostra situazione di parlanti, perché è un’incrinatura che si installa proprio su quel punto che apparentemente dovrebbe suonare così intimo e certo e personale e saldo. “Io” non è che una parola inventata dai morti che ci hanno preceduti, con la quale siamo abituati e quasi “costretti” a dirci. Tutto il mio libro è percorso da questa consapevolezza. Curioso che lei non se ne sia accorto. E’ scritto a chiare lettere in più punti.
Con rispetto e amicizia.
T. S.)))
Poesia scritta dalle parole #1
Tiziano Scarpa
Siamo le parole.
Conteniamo i desideri dei morti,
le esperienze di chi non è ancora nato.
(contenere, v. tr.
1. tenere dentro di sé; 2. trattenere)
In questo istante siamo attraversate
da una mente, la tua.
Siamo un’intimità esteriore,
siamo escluse dentro di te.
Vorremmo poter spiare
che cosa ti stiamo facendo immaginare.
(ti stiamo facendo immaginare
noi che ti spiamo dall’interno)
Nessuno al mondo ti guarda così.
Boh, quando ho commissionato la lapide di mio padre al marmista le parole le decisi io, e sono ancora vivo.
Però ci sta il metologismo “corro sulle parole inventate dai morti”.
Gentile Giuseppe Talia,
forse non ha capito, o meglio non mi sono spiegato io.
Le parole da mettere sulla tomba di suo padre le ha sicuramente decise lei, ma non sono parole inventate da lei. Sono parole della lingua italiana, inventate dalle generazioni che sono vissute prima di noi, e che io, sinteticamente e poeticamente, chiamo con una parola sola “i morti”.
Noi parliamo con le parole inventate dai morti, che dentro le parole ci hanno messo le loro aspettative e i loro desideri, la loro vita vissuta e la loro vita mancata. La parola “amore” non l’abbiamo inventata noi, ci è stata consegnata in eredità. Lo stesso vale per tutte le altre parole, compresa la parola “io”, la parola “caffettiera”, la parola “parola”, la parola “la”… Per esprimerci, per vivere, noi dobbiamo farlo dentro un sistema di significati, suoni e simboli che è già stato fissato, che non possiamo oltrepassare, non possiamo trascendere, pena l’insignificanza, l’autismo, l’isolamento comunicativo. Lei stesso, per esprimere la sua perplessità, e mostrare che si trattava di un moto genuino del suo animo, ha usato l’onomatopea “Boh”, attestata negli autorevoli dizionari della lingua italiana (e usata dal defunto Alberto Moravia come titolo di uno dei suoi libri). Tutto qui.
Con rispetto e amicizia
Tiziano Scarpa
Gentile Tiziano Scarpa,
grazie, innanzitutto, per la sua gentile risposta e per il rispetto e l’amicizia con cui chiude la sua risposta, ricambio con stima.
Ammetto di non avere letto il suo libro di poesie Le Nuvole e i Soldi, edito da Einaudi, mancanza la mia che facilmente potrò colmare.
Ne potrò parlare in seguito e meglio (anzi, facciamo un patto (?), lei leggerà qualcosa di mio, trova facilmente alcuni titoli, e io leggerò con attenzione la sua produzione).
Ad ogni modo, il mio commento di cui sopra in realtà riconosceva il metalogismo corrispondente alle parole inventa dai morti. Lei ha perfettamente ragione, da filologo principiante e autodidatta, tranne qualche esame universitario di filologia germanica, con particolare il Beowulf, parlando il dialetto calabrese del basso Jonio, l’italiano e altre lingue, non benissimo, capisco cosa intende quando parla di un sistema di significati, di un alfabeto dei morti.
Nulla da eccepire: il sistema di segni che sto usando in questo momento, nell’evoluzione della glottologia, dell’antropologia, della linguistica, della scrittura vera e propria, è stato inventato dai morti.
E in particolare nell’economia dei morti di John Berger ho trovato una lettura aderente.
Cordialmente
Giuseppe Talia
gentile Tiziano Scarpa,
di solito i libri li leggo, e il suo l’ho letto. Penso che il suo libro sia uno dei migliori pubblicati dalla bianca Einaudi in questi ultimi anni, lo dico con sincerità, e anche con stima, è scritto con uno stile evoluto, senza sbavature. È vero, lo riconosco, quello che lei dice lo sottoscrivo. Lei scrive:
«Io” non è che una parola inventata dai morti che ci hanno preceduti, con la quale siamo abituati e quasi “costretti” a dirci. Tutto il mio libro è percorso da questa consapevolezza. Curioso che lei non se ne sia accorto.»
Ecco le poesie a pagg. 41 e 42:
Nel cimitero della mia città
1.
Nel cimitero della mia città
vengo a fare una cosa.
In tuta, con le scarpe da ginnastica
corro lungo i vialetti.
Senza farmi vedere
corro sopra le lapidi.
Le parole sono tombe. Le tombe
sono parole. Io
corro sulle parole
inventate dai morti.
2.
Io so che le parole
contengono i desideri dei morti.
So che ci piaccia o no
ci tocca realizzarli.
Lo stiamo già facendo.
Lo facciamo da sempre.
Io attraverso la frase,
la impregno di me stesso.
Io ricevo dai morti
il sapore del mondo.
3.
Nel cimitero della mia città
vengo a rubare i fiori.
Non li darò a una donna.
Non sono per nessuno.
Con gli occhi bassi, li offro
alla parola amore
che ho imparato dai morti.
Al contrario degli autori italiani che scrivono poesia i quali parlano ingenuamente a nome dell’io, lei parla dell’io in termini critici, come parola dei «morti», come parola «luttuosa». In un certo senso, il suo libro è attraversato dal «lutto» della «parola» e dal «lutto» dell’«io», lo riconosco, e questo va a suo onore e merito. Eppure, nel libro non può fare a meno di ritornare a parlare dell’«io» e delle sue parole e delle sue adiacenze. In sostanza, siamo ancora all’interno delle poetiche contemporanee che ci narrano la morte dell’io e la deiscienza delle parole dell’io. Non a caso ho scritto che non intendevo addentrarmi nelle problematiche se le poesie fossero belle o brutte, materia appunto di «numismatici», quello che io intendo sollevare è il problema della poesia italiana ancora ancorata nella problematica della morte dell’io che però non può fare a meno di continuare a interrogarsi e a perorare intorno a questo decesso.
La poesia italiana – questo mi sta a cuore da molti anni – non riesce ad uscire dal ghetto della problematica della morte dell’io, e infatti ricade sempre nella voragine apertasi a seguito di questo decesso. Il suo è un libro significativo, tra i migliori tra quelli pubblicati dalla bianca Einaudi, che infatti reca le tracce vistose di questa problematica. Non posso che augurarle, per i suoi prossimi lavori, di riuscire a sortire fuori da questo campo recintato che narra la deiscienza dell’io, di fare un passo in avanti, verso una ontologia estetica che ponga nel cassetto delle questioni antiche la problematica dell’io e delle sue parole morte. Ma questo è un problema (e un limite più generale) che investe la poesia italiana di oggi nel suo complesso, certo, bisognerà che qualcuno prima o poi si prenda la briga di affrontarlo questo problema, e magari di risolverlo.
Io penso che prima o poi la migliore poesia italiana debba passare il Rubicone dell’io e delle sue tematiche attempate, debba fare un passo deciso per andare al di là.
La ringrazio della risposta, che chiarisce molto bene il suo punto di vista (la sua poetica). Grazie anche dell’apprezzamento. Il suo discorso è sensato, e nel Novecento è stato fatto di tutto per trovare una soluzione alle sue preoccupazioni. Che comprendo pienamente. Sta di fatto che noi (non so se aggiungere: purtroppo) viviamo tuttora immersi in qualcosa che continuiamo a chiamare “io”, con il quale le parole ci incitano ininterrottamente a fare i conti. Lo dico senza nessuna polemica. Ma comprendo bene che la poesia, e in generale la letteratura, potrebbe indicare delle vie d’uscita (io temo che nei prossimi decenni lo farà l’intelligenza artificiale, se l’umanità non si autoestingue prima; ma questo è un altro discorso). Però, ripeto, mi sembra un progetto che è stato tentato in mille modi da decine di poeti e poetesse e scrittori e scrittrici del Novecento, e nonostante ciò siamo ancora qui a dirci “tu” e “lei” e a pensarci come “io” e a difendere le nostre posizioni individuali facendo perno su questo piccolo pronome personale. Non dimentichiamo che noi siamo anche la conseguenza di una civiltà che postulava la sopravvivenza nell’aldilà delle singole anime individuali, tanto per fare un esempio di quanto sia radicata l’eredità dell’io che abbiamo ricevuto. Nel mio libro ci sono anche molti testi “impersonali”, ma non voglio affatto riaprire il discorso. Piuttosto, se le interessa le indico il libro di poesie di Andrea Bajani, “Promemoria”, che usa quasi soltanto gli infiniti dei verbi, senza soggetto. Nel mio piccolo, ho cercato di parlarne qui (mi perdoni se mi permetto di incollare un link):
http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article3881
Tutto questo mio commento qui nel suo blog deve immaginarlo pronunciato con totale amichevolezza e affabilità. Grazie dell’ospitalità e della bella discussione.
E comunque, se mi concede una postilla, lei riduce il lutto e la morte alla parola “io”, mentre in molte poesie del mio libro (comprese le tre cimiteriali che lei ha trascritto generosamente qui nel suo commento) il discorso si estende a TUTTE le parole. Non solo la parola “io”, ma TUTTE le parole che parliamo non le abbiamo inventate noi ma le abbiamo ricevute in eredità. In questo senso io credo che noi “parliamo i desideri dei morti”, parliamo le LORO aspettative, quello che hanno capito loro della vita, quello che si aspettavano ma non hanno vissuto, gli slanci, le frustrazioni, gli ideali, le utopie che hanno racchiuso nelle singole parole, nel lessico ma anche nel modo sintattico di disporle in sequenze, in frasi.
Faccio un esempio molto elementare (mi perdoni: è veramente basico): in italiano noi diciamo “luna”, al femminile, e “sole”, al maschile: il che significa che le generazioni che ci hanno preceduti hanno fatto qualcosa di veramente grave e greve per noi da gestire, anche se non ci si fa mai caso: hanno ravvisato (in primo luogo) in alcuni oggetti celesti un carattere sessuato, che hanno interpretato (in secondo luogo) come maschile nel sole, e come femminile nella luna. Per i tedeschi, come tutti sanno, il sole è femminile, la luna maschile (e così anche per gli arabi). Per gli inglesi il sole e la luna non hanno sesso. Insomma, noi ci ritroviamo a parlare in una lingua che vede maschi e femmine dappertutto, perfino negli oggetti, nel tavolo, nella sedia, in una vite, su un foglio, su uno schermo, in un’aiuola, in un soffitto, in un cielo, in una stella, nello spazio, nel tempo, nella luce: tutta roba che con la sessualità, per le nostre acquisizioni scientifiche, non ha nulla a che fare: ma ormai le chiamiamo così, perché così ha deciso chi ha vissuto prima di noi. Voglio dire che le generazioni che ci hanno preceduti (che io poeticamente chiamo “i morti”) hanno ipotecato TUTTE le parole (non solo la parola “io”). Noi parliamo con le LORO parole, scriviamo poesie (belle o brutte che siano), con le loro parole.
Grazie ancora, e mi scusi per questa coda
Restare immobili e rappresentarsi mannequinn
nelle sembianze di un filosofo
pure zen, nell’assurdo ascolto
di soli fiati commerciali. Appena
adombrarsi. Carezzare lieve
la guacia di una ragazza Carla ed impedirle
di evadere per esporre la mercanzia, lisciarla.
Restare a guardare imperterriti la vetrina.
I seni gonfi non più dei piedi.
Annuire e sorridere per convenienza.
Soltanto un passo indietro
al titolare per svanire senza tacco dodici
in un endecasillabo parziale.
GRAZIE OMBRA.
Caro Tiziano Scarpa,
nessun poeta italiano degli ultimi 5 lustri è riuscito a passare dall’univocità alla polivocità della parola poetica, né ha compreso che la forza della poesia non è nella singola parola ma nei nessi che il poeta riesce a stabilire fra le parole, a partire da una immagine. Anche per questo le 17 poesie di Transtromer sconvolsero un intero mondo…
Gino Rago
La sella vuota
“Cari poeti delle parole morte,
il vostro viaggio è finito.
La corsa senza freni sui prati
è terminata.
A che vi serve il cavallo?
Restituite al mondo la sella ormai vuota.
Non vi serve più l’aria.
Restituite l’ossigeno a chi saprà ingoiarlo.
Scrivere per sé stessi
carezzando l’io, il mio, il soltanto io
spinge le parole in un abisso di ghiaccio.
[…]
Regalate il cavallo. Restituite l’aria.
Lasciate la sella vuota a chi saprà usarla.
Cari poeti delle foglie appassite,
se dite ‘futuro’ il presente vi divora.
Se dite ‘vita’ la morte vi frantuma.
Giorgio Linguaglossa ha ragione, non c’è destino
per le parole morte.
Trascinate versi,
amori, parenti, amici nella valigia,
congedatevi dal mondo senza cerimonie.
Siete già nel gelo universale, senza rimpianti
restituite l’aria che respirate,
il cavallo e la sella vuota.”
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GR
Ciao Mariella ci mancherai molto.
In memoria di Mariella Colonna
Un petalo si è staccato dalla corolla. Al suono alto delle campane. Ora punto luce per lo spazio aperto. Per le strisce gialle delle galassie. Questo è il destino _spirito leggero.
Un viaggio interminabile. Sconfinato al grande mistero. Qualcuno ti metterà la veste del pallore. Poi i piccoli grani al rigore dei capelli. Con le mani posate alle scarpe e al ventre.
Ma non c’è fretta. Avrai in tasca il tempo stesso . Un fiume di minuti e di anguille luminose. La quiete Un altro angelo rotante. La somma del pensiero . Il primo flusso al motore infinito.
«Una vera poesia si è vista passare
a Stoccolma, nel lontano 2011».
Le gambe delle ragazze prendono
in giro gli insegnanti.
Si potrebbe dire che è presto. Come
sur la Croisette, quando ancora
non passa gente. Sul mare un vascello
pieno di stoccafissi.
May – ott 2018
Propongo a Tiziano Scarpa la lettura
di
Tomas Tranströmer
Sera-mattina
L’albero della luna è marcito e si sgualcisce la vela.
Il gabbiano volteggia ebbro lontano sulle acque.
È carbonizzato il greve quadrato del ponte.
La sterpaglia
soccombe all’oscurità.
Fuori sulla scala. L’alba batte e ribatte
sui cancelli granitici del mare e il sole crepita
vicino al mondo. Semiasfissiate divinità estive
brancolano nei vapori marini.
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Un rigo nero
sosta nella pagina
qui nell’ombra.
(Grazie OMBRA)
Caratteristica della pop(art) era l’andare per temi: le parole, la morte, il sesso, i soldi… icone del nostro tempo; e per ciascun tema interrogare l’arte; ma soprattutto saper comunicare. Così faceva con le sue immagini Andy Wahrol.
Mi sembra che Tiziano Scarpa riesca bene in questo, onestamente e senza forzature. Ottime le intuizioni, come questa delle parole che ci sono state date; dai morti non so, è una metafora.
Nella NOE, lo dico con parole mie, si esce un po’ dal senso e dai significati, si fa arte con materiale di recupero, di qui o di laggiù; stracci, rimanenze del passato che mettiamo in ordine con nuovo, si pensa, equilibrio estetico. Maschi o femmine fa lo stesso. Quanto alla comunicazione, ce ne serviamo. Più che altro facciamo in modo che nel lettore si svegli un po’ la capacità visiva, perché nel passare da un’immagine all’altra non lo teniamo per mano.
Ho trovato utile questo confronto con Tiziano Scarpa, che ringrazio.
gentile Tiziano Scarpa,
è interessante la proposta di Andrea Bajani di scrivere poesie con i verbi all’infinito iussivo, del resto, come lei ha ricordato, anche Montale ha scritto quella memorabile poesia: “meriggiare pallido e assorto…”, anche la poesia postata poco sopra da Mauro Pierno, improvvisata in diretta, è scritta con i verbi all’infinito. Anche questo è un modo per aggirare e mettere fuori gioco l’«io» di cui abbonda in modo noioso la poesia italiana del novecento. L’esperimento nelle poesie riportate è riuscito (mi procurerò il libro di Bajani e lo leggerò). Sicuramente, in questi anni ultimi si avverte pressante il bisogno di tentare nuove strade per la poesia, e questo è un fattore positivo, il pensiero sulla poesia si è rimesso in moto e la nostra rivista, fatta interamente in diretta, senza preavvisi temporali e senza rete di protezione, è un modo per sondare nuove vie, nuovi sviluppi, testandoli in diretta, con tutti i limiti e i pericoli del caso…
L’infinito è la forma verbale che tradisce il fatto che ogni verbo nasce da una azione transivinduale, che va al di là delle modalità con cui i verbi si danno nelle forme personalizzate nei pronomi personali… usare l’infinito equivale, da un certo punto di vista, a sopprimerlo, ad eluderlo. Se viene abolito il verbo restano i nomi, le cose, parlano direttamente le cose, gli oggetti, gli altri… La nostra (della rivista) personale ricerca non è quella di impiegare tutti i verbi all’infinito (che può essere una sperimentazione legittima!), ma di sopprimere i verbi o eluderli, aggirare la trappola dei verbi in modo che le «cose» risaltino di per sé senza il bisogno delle proiezioni dell’«io» che interviene a guidare e a regolare tutte le funzioni linguistiche… devo dire che abbiamo trovato enormi resistenze da parte della comunità degli scriventi poesia ai quali sembra impossibile e fuorviante realizzare un progetto del genere, scrivere poesie dalle quali l’«io» venga messo fuori gioco (in termini calcistici).
In effetti, come lei dice, «tutte le parole sono morte». Condivido pienamente l’assunto, infatti, sono oggetti morti anche gli «stracci», i lapsus dell’inconscio, gli «scarti», i «rottami», i «frammenti», i «residui» del linguaggio e dei linguaggi in cui ci troviamo immersi in ogni momento della nostra esistenza, sono questi «stracci morti», sono loro che ci devono guidare e questa consapevolezza deve condurre un poeta del nostro tempo: essere coscienti di dover commerciare in ogni istante della nostra esistenza con degli «stracci» verbali… La nostra poesia non può che essere fatta in questo modo e in piena consapevolezza… tutto ciò che abbiamo tra le mani, sono convenzioni, tutte le parole sono convenzioni, anche l’«io» è una semplice convenzione, è una parola morta che noi utilizziamo per comunicare e anche per scrivere poesia. Questa acuta e dolorosa consapevolezza penso che guidi la poesia italiana più matura oggi.
La ringrazio quindi per queste sue precisazioni e per l’opportunità che ci ha dato di approfondire queste problematiche.
Grazie a lei e a voi tutti e tutte.
Una sola precisazione: il nome e cognome corretto dell’autore di “Promemoria” è Andrea Bajani (non Tajani).
Ai poeti de L’Ombra delle Parole, a Tiziano Scarpa, ai lettori/alle lettrici esigenti e competenti de L’Ombra
Gino Rago
Dichiarazione di intenti
per una Nuova Estetica
“Duchamp giocava meravigliosamente a scacchi.
Un giorno di incanti bussò
Senza preavvisi alla sua fervida mente.
In quel giorno speciale compì il gesto decisivo per l’estetica e la filosofia:
a New York espose uno scolabottiglie.
Al mondo disse: « L’arte non è l’oggetto reale
ma è l’oggetto immaginario che tu cogli
quando ne hai distrutto le sue relazioni oggettive, reali.
Perché soltanto distruggendo le condizioni oggettive reali
balzerà fuori l’oggetto immaginario,
l’oggetto della sensibilità,
l’oggetto emotivo pronto a farsi “Cosa”».
[…]
Malevitch comprende questo gesto.
Più tardi espone un quadrato nero in campo tutto bianco.
Poi fa di più.
Mostra un quadrato bianco in campo tutto bianco,
l’arte tocca il suo annientamento e siamo tutti ridotti al silenzio.
Di morte in morte, di negazione in negazione
l ‘arte-araba-fenice risorge dal suo stesso fuoco e si rinnova.
Sulle ceneri di parole date alle fiamme
si levano parole nuove, ecco «la morte dell’arte» di Hegel
che Benedetto Croce non comprese.
Non è il demone a scegliere il poeta ma il poeta a scegliere il suo demone,
l’unica libertà concessa è la distruzione dell’IO, come la distanza è l’anima del bello.”
Concordo con le osservazioni di Carlo Livia,
gli ultimi commenti relativi alle poesie di Robin Valtiala e Tiziano Scarpa hanno messo in luce i percorsi sotterranei della poesia italiana ed europea. In particolare, la teorizzazione e la pratica delle «parole morte» da parte di Scarpa è uno dei tanti indizi che ci portano verso la fuoriuscita da un certo modo di intendere il piccolo canone della poesia italiana che faceva leva sulla identificazione dell’io con il linguaggio. Ricordo a memoria una affermazione di Lacan: «Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto». Ecco, il problema per la poesia sta in quell’«io». Sembra un nonnulla ma non lo è. Mi domando: può davvero un poeta in possesso di un pensiero critico e auto critico adottare, senza previa critica e auto critica, l’assunto di un «io» che si identifica con il linguaggio, qualsiasi linguaggio?
Ecco, il problema è a monte, se «io» mi identifico con un linguaggio, ecco che mi trovo già fuori strada; non soltanto l’«io» non si deve perdere in nessun linguaggio ma, addirittura, deve vivere la propria estraneazione all’interno di ogni linguaggio, deve poter sentire tutta l’insufficienza del linguaggio ereditato (Tiziano Scarpa direbbe delle «parole morte») ad ospitarmi. In conseguenza di questa consapevolezza se ne deduce che «io» non posso abitare poeticamente nessun linguaggio già dato e preformato o ereditato. L’«io» di cui qui è questione è abitato da una sensazione di estraneazione e di straniamento, anzi, l’«io» è veramente «io» solo in quanto e nella misura in cui è abitato dalla estraneazione dei linguaggi, di tutti i linguaggi.
E questo mi sembra sia evidentissimo nelle poesie di Robin Valtiala! Nella poesia del poeta finlandese c’è un «disturbo» di fondo, un «rumore» di fondo che attraversa il suo linguaggio; un clinamen che devia i significati convenzionali che ogni linguaggio porta automaticamente con sé; l’operazione di Valtiala sta nello «sviamento» del linguaggio dal linguaggio, del linguaggio da se stesso, nella costante non-coincidenza delle parole con il linguaggio. È sicuramente sensazionale sapere che un poeta finlandese affronti le medesime aporie del linguaggio in cui la nuova ontologia estetica è impegnata. Si tratta di un comune denominatore che sta alla base dell’attività poetica di poeti diversissimi per lingua e per tradizioni poetiche, ciò mi conforta, mi aiuta a credere che non siamo i soli ad avvertire questa problematica squisitamente moderna, una problematica per la quale occorre munirsi di una particolarissima sensibilità, di particolarissime antenne in grado di captare ciò che si muove nell’alta stratosfera…
«Si vede l’antinomia immanente alle relazioni fra la parola e il linguaggio. Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio […]più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze».1]
J. Lacan, Scritti, vol I a cura di Giacomo Contri,Einaudi, 1974, p. 293
Nei nostri cassetti si accumulano carte, biglietti del bus, biglietti dell’aereo, lettere di ex fidanzate, oggetti desueti, camicie sporche, ninnoli démodé etc. Un giorno, per sbaglio, apriamo quel cassetto e restiamo atterriti. Il passato si ripresenta come spettro, feticcio, datità, non senso, abnormità. Ci accorgiamo che l’oblio della memoria è in moto. L’archiviazione, la accumulazione, la massificazione degli oggetti sono la malattia del nostro tempo: ammassiamo le cose e le dimentichiamo; non c’è riscatto per quegli oggetti, stanno lì come cose morte, privi di trascendenza, cosificati, feticci. E la poesia? La poesia che vive di lentissima accumulazione e sedimentazione di «cose», qual è il posto della poesia? Che fare di quegli oggetti che nuotano tra oblio e oscurità? Dove metterli? Finiranno in qualche poesia? O li dirotteremo in qualche discarica?
In questi ultimi due, tre decenni il dominio della nuova normografia globale ha raggiunto vertici altissimi. Ci troviamo nel momento di massimo dispiegamento della fabbrica della visibilità, della vetrina, delle parole ready-made, delle parole della comunicazione. Forza non equivale a sinonimo di energia. Forza significa qualcosa di cieco, ottuso, che spinge e tutto travolge nel proprio cammino, qualcosa non dotata di energia ma di inerzia. Forse, la forza delle «cose» diventate feticci cosificati risiede nel loro vuoto di energia. Viviamo tutti in una vetrina globale, nel sortilegio della falsa coscienza e del feticcio. Vetrina globale e falsa coscienza sono parenti stretti.
Che cosa dovrebbe scrivere un giovane che è costretto a muoversi in questo fabbrica della normografia? Si deve creare da sé un proprio linguaggio? O deve crearsi una riconoscibilità linguistica? Deve rivisitare la tradizione recente, anzi recentissima così da acquisire una visibilità immediata tra i padri più prossimi e redditizi? O deve entrare in conflitto con i padri? – Ma crearsi questa genealogia non è affatto facile, bisogna fare i conti con la questione politica dell’eredità mancata e trafugata… e con i padri ingombranti… E allora non resta che l’epigonismo, la maniera, evitare il rischio stilistico, affidarsi ai gesti letterari o pseudo tali. Oggi non c’è più il rischio dell’inattualità, siamo tutti attuali nel mimetismo e nell’epigonismo, siamo tutti epigonici di un vacuum che sta appena dietro le nostre spalle. La tradizione e l’antitradizione sono diventate sterili, asettiche, sono un vacuum, un flatus vocis, non ci parlano più. Non vi sono che soluzioni individuali. Ed è altrettanto evidente che per conseguire queste soluzioni, occorre astenersi, non combattere alcuna battaglia, anzi, evitare accuratamente qualsiasi battaglia.
La poesia come scrittura «privata»? La mediatizzazione dello stile? La mediatizzazione del non-stile? – I giovani sanno che non è questione né dell’uno né dell’altro. Sanno che la questione dello stile è diventata un non-problema. Non occorrono progetti, sono sufficienti le scommesse; si scommette su tutto, anche la letteratura è diventata una scommessa, e la poesia una scommessa tra le altre. Si tratta propriamente di ambizioni indotte dalla normografia dominante, non c’è nulla da combattere né da non combattere. Ciascuno desidera il riconoscimento e il consenso, se non di tutti almeno di una parte, possibilmente di quelli che contano. Non è il problema la qualità di ciò che si scrive ma le alleanze e la normologia. È una sorta di fabbrica globale della vetrina per conquistarsi una vetrina culturale e un deodorante. È, insomma, un problema di pubblicità per se stessi. Pubblicare, pubblicare. Pubblicità per se stessi. Il poeta è il pubblico della poesia. E la scrittura diventa un circolo vizioso.
Probabilmente è vero che un io ingombrante, preclude la poesia. Ma può esistere una qualsiasi creazione artistica, senza che l’io in qualche modo ne sia interessato? Io non credo. Mi convince molto la critica verso la poesia che rimane ingabbiata nelle convenzioni di ogni tipo (passate e presenti) ma non mi convince del tutto una visione che punta all’esclusione o marginalizzazione dell’io (cosa possibile senza alienazione?) e che porti all’uso di strutture linguistiche completamente arbitrarie o peggio irrigidite in una nuova convenzione. Come interagire senza alcun patto implicito, anche minimo con il lettore?
cara Paola Renzetti,
certo che è possibile de-localizzare l’io, è possibile e raccomandabile perché l’io è un ingombro, un ostacolo, è quel pronome personale che ordisce le sue trame a tradimento di cui tu parli in una tua poesia:
Paola Renzetti, da Verrà la notte (2018)
Ordisco la mia trama
l’una dopo l’altra
di parole.
Ecco l’ennesima trafittura…
Una minuscola goccia
va a lordare il foglio bianco
e il ricamo è da disfare.
Come vedi, l’hai scritto tu: «il ricamo è da disfare», il ricamo tessuto dalle parole dell’io è «da disfare».
È un esercizio lungo, faticoso, dagli esiti incerti, ma se vuoi scrivere poesia di un qualche spessore non posso che augurarti di mettere all’angolo quella prima persona singolare che agisce a tua insaputa dicendo le parole convenzionali…
Grazie Giorgio… di questo sono convinta anch’io, dell’esercizio faticoso dagli esiti incerti, anche se “quella persona” è pur l’unica che abbiamo. Però credo di aver capito cosa intendi.
Caro Tiziano Scarpa, uso un frammento del Suo commento di 11 ottobre, ore 9.08, quello in cui sostiene- giustamente- che
“[…]in italiano noi diciamo “luna”, al femminile, e “sole”, al maschile: il che significa[…]
e ne estraggo una composizione che Le propongo. Ne deriva, secondo il mio gusto estetico, una delle più belle poesie degli ultimi tempi. La propongo in forma di distici:
Tiziano Scarpa
Noi ci ritroviamo a parlare in una lingua…
“Noi ci ritroviamo a parlare in una lingua
che vede maschi e femmine dappertutto,
perfino negli oggetti, nel tavolo,
nella sedia, in una vite,
su un foglio, su uno schermo,
in un’aiuola, in un soffitto,
in un cielo, in una stella,
nello spazio, nel tempo.
E nella luce…”
Gentile Tiziano, cosa pensa di questa mia operazione? Non sembra una severa e nitida dichiarazione di intenti, una sincera dichiarazione di intenzione d’arte?
gino rago
Salve, Mi aggiungo alle condoglianze per la scomparsa di Mariella Colonna e di Carlo Cipparrone.