Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori
carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia
mobile d’un rigagno; vedile andarsene fuori.
Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,
che non si perda; guidala a un porticello di sassi.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)
Montale dedica Ossi di seppia a Camillo Sbarbaro. Quelle navicelle multicolori che non galleggiano in un mare azzurro, ma in una «fanghiglia mobile», è il primo esempio maturo, in Italia, di poesia del nichilismo. Alla brevità dell’epigramma corrisponde la miniatura dell’universo dell’epigramma; altrove dirà del «rivo strozzato che gorgoglia». Sintomo del «male di vivere», come è stato interpretato da critici eufuisti e miopi? No, sintomo del nichilismo incipiente che avvolgerà la storia europea.
E adesso passiamo dal 1925 ai giorni nostri, ad una poesia di Mario Gabriele tratta da L’erba di Stonehenge – la suddivisione in distici è mia – (Roma,Progetto Cultura,2016):
(22)
La speranza giaceva nel cassetto.
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera,
lo beviamo al meriggio, al mattino,
lo beviamo la notte,
ai tavolini de la belle Epoque a Parigi.
-Papà modan, papà Modan-, gridava Joelle
al primo allarme nel querceto,
quando scendeva le scale zittendo i suoi cani.
Al Bristol Hotel c’era gente
Venuta ad ascoltare Save the children.
Candy temeva i mesi più della bufera.
Ma questo è un altro dire, Margot,
un altro soffrire,
e so di fiumi che offuscano il cielo
e di gente alla riva che aspetta Godot.
Nella prima strofa c’è tutto il dicibile della nostra epoca ma riassunto in un quadretto di appena 5 versi, con quell’incipit andante allegro:
La speranza giaceva nel cassetto.
e la citazione interpolazione di due versi famosi di Celan. Nelle nuove condizioni del nichilismo anche il male di vivere è diventato una chimera; niente «rivi strozzati», niente «fanghiglia», niente «versicolori», niente di niente… c’è gente «venuta ad ascoltare Save the children» (degna di nota la sopraffina ironia derisoria) e «gente alla riva che aspetta Godot». Ma Godot è arrivato; è già qui tra di noi. Siamo noi, sembra dirci Mario Gabriele. Il nichilismo ha compiuto un ulteriore passo, e chi non se ne è accorto continua a giocare con le barchette di carta di versicolori…
L’individuo ridotto alla nuda interiorità delle moderne democrazie occidentali di massa è il luogo più adatto per la dimora stabile del nichilismo. Non c’è nulla di più ragguardevole e confortevole che questa nuda interiorità esposta in vetrina.
(Giorgio Linguaglossa)
“Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa.” *
* Osip Mandel’štam, in La parola e la cultura 1920
Ecco una poesia dalla raccolta di esordio di Osip Mandel’štam. Una «luna di rame» si solleva sinistra nel cielo della «sera», e il poeta si chiede: «perché mai un tale silenzio?». Sembra il silenzio che precede la tempesta. Mandel’štam coi i suoi sofisticatissimi strumenti psicologici e poetici avverte la bufera che sta per portarsi via l’Europa in una guerra fratricida dalla quale la sua Russia ne uscirà sconvolta. Qui c’è un segnale vivissimo, importantissimo, della nuova poesia del modernismo, quella poesia che è il segnale premonitore dei nuovi tempi che stanno per arrivare con passi da gigante:
E sopra il bosco quando fa sera
s’alza una luna di rame;
perché mai così poca musica,
perché mai un tale silenzio?
(Osip Mandel’štam, da Kamen, 1913)
Appunti sul nichilismo
Ernst Jünger in Oltre la linea (1980) sviluppa una comprensione del nichilismo come espressione di una «svalutazione dei valori» che è diventata una «condizione normale», ubiqua e onnipresente. Per Jünger ogni contatto con l’assoluto è diventato impossibile o problematico. Lo scrittore tedesco distingue un nichilismo attivo e uno passivo, forte e debole, ma resta fedele ad una concezione del nichilismo che consente un «contromovimento» salvifico; Jünger pensa che sia possibile, in qualche modo, uscire fuori del nichilismo, andare «oltre» la «linea». Insomma Junger ha una visione ancora ottimistica del nichilismo, pensa ancora in termini di «superamento» e di «contromovimento» a partire dalla diagnosi di Nietzsche e di Dostoevskij. Jünger pensa sì in conformità con Nietzsche che ciò che sta per cadere dere essere lasciato cadere, anzi, aiutato a cadere, ma vede al termine di questa caduta l’orizzonte di un «cominciamento», di un «contro movimento», vede possibile l’attraversamento del nichilismo, che, insomma, la meta ultima si avvicina. Attraversare la linea significa giungere in una dimensione dove il nichilismo diventa una condizione normale e il niente diventa un aspetto normale della realtà.
Dove tutto è in gioco, scrive, non si tratta di gettare ponticelli sopra l’abisso, non sono sufficienti le strategie di contenimento… Jünger raccomanda una sorta di «resistenza» che consenta, nel mezzo del nichilismo dispiegato, di trovare delle «osasi» di sopravvivenza, di libertà (la morte, l’amicizia, l’arte, l’eros) nelle quali coltivare territori di verginità della interiorità nelle quali l’individuo riesca a contenere l’avanzare del «deserto» del nichilismo. Ecco come Franco Volpi sintetizza la posizione di Junger.

Mario Gabriele, grafica di Lucio Mayoor Tosi – «Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?» (E. Jünger)
Ernst Jünger
“Come in quest’epoca la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente, parimenti nel campo dello spirito ogni sicurezza si fa problematica, si sgretolano le costruzioni sistematiche delle filosofie barocche e il pensiero va in cerca di nuovi appigli: la gnosi, i presocratici, gli eremiti della Tebaide. Il comune carattere sperimentale di pensiero e poesia corrisponde in modo essenziale alla situazione epocale del nostro tempo. In questo senso Jünger è solidale con la tesi heideggeriana della «viaticità» del pensiero, del suo essere continuamente «in cammino» per sentieri «interrotti», del suo orientarsi su semplici «segnavia»”.
Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca.
Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?
La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.
Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte.1]
(Ernst Jünger)
A Jünger risponde Heidegger correggendo il tiro e la gittata della sua riflessione sul nichilismo. Ma Heidegger pensa invece in modo più radicale il fenomeno del nichilismo che non può essere confinato in una sorta di «malattia» da cui se ne può uscire, in qualche modo, guariti dopo aver apprestato delle cure. Il filosofo tedesco pensa semplicemente che dal nichilismo non se ne esca affatto e che tutto sta nel prenderne atto, Sostare e camminare nel nichilismo, soltanto questo possiamo fare, e «soltanto un dio ci può salvare.

Martin Heidegger
Martin Heidegger:
«Il tentativo di attraversare la linea resta in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Ed è per questo che esso si esprime ancora con i concetti fondamentali della metafisica (forma, valore, trascendenza).
In che linguaggio parla lo schema fondamentale del pensiero che prefigura un attraversamento della linea? Il linguaggio della metafisica della volontà di potenza, della forma e del valore deve essere salvato al di là della linea critica? E in che modo, se proprio il linguaggio della metafisica e la metafisica stessa, sia essa del Dio vivente o del Dio morto, hanno costituito in quanto metafisica il limite che impedisce il passaggio oltre la linea, cioè l’oltrepassamento del nichilismo? Se le cose stessero così, l’attraversamento della linea non dovrebbe necessariamente implicare una trasformazione del dire, e richiedere un mutato rapporto con l’essenza del linguaggio? E ancora, il suo riferimento al linguaggio non è tale da richiedere anche da parte sua un’altra caratterizzazione del linguaggio concettuale delle scienze? Se spesso ci si rappresenta questo linguaggio come nominalismo, è perché ancora si rimane irretiti nella concezione logico-grammaticale dell’essenza del linguaggio.
Scrivo tutto questo in forma di domande, perché non vedo che cosa oggi un pensiero potrebbe fare di più se non pensare incessantemente su ciò che provoca queste domande. Forse arriverà il momento in cui, per altre vie, l’essenza del nichilismo si mostrerà più chiaramente e in una luce più viva. Per ora mi accontento di presumere che il solo modo in cui potremmo meditare sull’essenza del nichilismo sia quello di imboccare innanzitutto la via che conduce a una localizzazione dell’essenza dell’essere. Solo per questa via è possibile localizzare la questione del niente. Senonché, la questione dell’essenza dell’essere si estingue se essa non abbandona il linguaggio della metafisica, perché il rappresentare metafisico impedisce di pensare la questione dell’essenza dell’essere.
Dovrebbe risultare evidente che la trasformazione del dire che pensa all’essenza dell’essere è sottoposta ad altre esigenze che non al cambio di una vecchia terminologia con una nuova.
(Martin Heidegger)
Una lettera postuma all’amico poeta Ubaldo de Robertis, dopo la sua dipartita:
Ecco, caro Ubaldo,
il senso di quanto ti volevo dire…
io penso che dobbiamo giungere al punto che dobbiamo cessare di ragionare in poesia come se fossimo nel mezzo di un discorso politico che si fa nell’agorà, dobbiamo pensare più in grande e in altezza al discorso poetico come quel luogo nel quale cessiamo di ragionare con le categorie della metafisica. Soltanto così possiamo sperare di giungere al punto più alto di quella metafisica, quel punto, in cima ad una collina, dal quale lo sguardo può dilagare e osservare con distacco quanta strada abbiamo percorso, senza la presunzione di essere giunti al traguardo ma accettando quel limite che è interno al nostro guardare come al punto più alto cui possiamo tendere.
«Il più inquietante fra tutti gli ospiti», il nichilismo, è qui.
(Giorgio Linguaglossa)
Cari amici,
io penso che dobbiamo accettare tutta la responsabilità del «niente» che ci sovrasta, dobbiamo stare tutti quanti nella stessa barca in mezzo alle onde del mare, prendere atto di questa situazione senza pensare di uscirne con dei giochi o dei mottetti di spirito come fanno i poeti deboli, i quali giocano con le parole come bambini pensando che il gioco li metta al riparo dai pericoli di essere sommersi dal mare. Questi sono semplicemente dei bambini che suonano le trombette e i tamburi mentre scrivono al pc le loro piccole poesie dello svago. No, io penso che compito del poeta sia lo stare «in cammino» senza illudersi di giungere ad una pur qualsivoglia oasi dove si possa sostare per riposarsi dal viaggio, no, questa è una mera illusione da spiriti deboli, noi non possiamo che continuare il nostro cammino, non ci è data altra scelta…
1 E. Jünger M. Heidegger, op. cit.
(Giorgio Linguaglossa)
Lettera ad Adeodato Piazza Nicolai
caro Adeodato Piazza Nicolai,
noi camminiamo… in su, in giù, di lato, a dx, a sx, ma non andiamo in nessun luogo, non riusciamo neanche più a cadere che ci rialziamo… (con buona pace di Rozewicz), anche il viaggio è diventato una approssimazione turistica all’essere, l’erranza è stata addomesticata, che noia tutta quella folla di turisti che si mette in marcia per ore ai caselli autostradali di luglio e agosto… le poesie bene educate pubblicate nelle rivistine letterarie… è questo il nostro santo quotidiano nichilismo… le ruberie quotidiane, Il folle dittatore della Corea del Nord che lancia missili nell’oceano, il figlio che grida al padre: “devi dire la verità!”, gli sciacalli, di C.L., gli appalti truccati, il papa che parla come un ex comunista… beh, se questo non è nichilismo che cos’è? E allora, leggiamoci una poesia di Mario Gabriele.
(Giorgio Linguaglossa)
Mario Gabriele
da Ritratto di signora (2014)
1
Cara Juliet,
qui dove l’inverno dura più della barba di Santa Claus,
ci siamo arresi al freddo di dicembre
come quei piccoli clochard ai bordi delle vie,
senza bandiere e né futuro;
mi viene da pensare alle notti di Stoccolma,
alle renne venute a cercare gli avanzi di Natale;
tutti abbiamo festeggiato l’anno che passava;
il tempo come uno sparviero
sui pinnacoli di un’America battuta,
l’urlo di Munch
era un passepartout per un inferno alle porte:
le lunghe ore a parlare del punto morto del mondo,
l’anello che non tiene,
sempre in fede obliqua
mi venne uno strano freddo allora,
come una ipotermia
sotto la cupola avvolta dalla neve,
per poi rinascere nei giardini di marzo,
perché i più bei fiori dell’anno
sono i non-ti-scordar-di-me.
Una poesia inedita di Mario Gabriele da Registro di bordo, in corso di stampa, seguita da commenti
Il cartello apriva il concerto su Cajkovskij.
Tre signore in prima fila leggevano il carnet
della Sinfonieorchester Wuppertal.
Sul divano, a un passo dalla tortura a pendolo,
un croupier estraeva a sorte il condannato a morte.
Una discussione fra le quinte non portò a nessuna pace.
Ognuno parlava secondo la propria immagine.
All’uscita dal Forum riconoscemmo
il vecchio Jèròme a corto di orizzonti.
Oh Jèrome, Piqueras è di un passo
davanti a te nel giardino dei fiori!
Salimmo sulla vetta più alta
a fermare il braccio di Adamo.
Ci si avvia al giorno delle mutazioni.
Il tulipano sa come accogliere la quiete di maggio.
– E’ veramente bello stare qui-
disse la donna venuta da Damasco
Dieci germogli e un frutto di bosco
stavano al centro della tavola.
Milly bussò alla porta.
-Nonno Burges sta male-,disse.
Ogni anno Hendrius va a recuperare
le scarpine dei morti lungo la Senna.
Vestimmo Nonno Burges con abito grigio
e camicia Clay, lasciandogli tra le mani il Vangelo.
Siamo proprio in ritardo.
Nessuno capirà la nostra assenza.
Credi proprio alla via del ritorno?
E che viaggio è ? Chi l’ha detto, Padre Ray?
-Creiamo una start-up di sola cannabis-,
disse Marceline dimenticando il paese di ciechi e storpi-.
Fra pochi mesi sarà Natale.
Caro Jenin vieni a trovarci.
Oggi le nostre anime sono così leggere
da sembrare condors nel cielo di dicembre.
C’è nella poesia di Mario Gabriele un algoritmo che trasforma il linguaggio in metalinguaggio, ogni frase in fraseologie, didascalie, PostScript. C’è in questa sorta di metalinguaggio metallico una nostalgia come a monte che funziona da motore immobile della fantasmagoria delle espressioni linguistiche dei personaggi, delle phonè e dei lampi. Ogni cosa finisce con il punto e ricomincia subito dopo, tramite la severità del distico e agisce come una specie di azzeramento del linguaggio che fa della ripetizione e della peritropè le categorie fondamentali della processione linguistica; sarebbe inutile, penso, oltre che sussiegoso cercare in queste poesie un senso, il senso è diventato un’algebra che il lettore deve inseguire per poi lasciarla cadere nel dimenticatoio, queste poesie non sono fatte per la memoria ma per essere dimenticate, non sono adatte alla comunicazione di contenuti veritativi o di aloni spirituali, in quanto sono modalità linguistiche che esauriscono il loro compito appena trasformate in phonè, non è quasi più una voce che parla ma un alitare, uno stormire di fronde significanti, una sorta di linguaggio dei boschi, uno stormire di foglie che assecondano il vento della non-significazione. In questo linguaggio c’è il vuoto e il nulla, ci puoi camminare in lungo e in largo con il metaldetector che lo senti fischiare. Verrebbe da porsi la domanda di Lacan: «Di quale bottiglia questo è il cavatappi? Di quale risposta è il significante, chiave universale?»1] – Verrebbe di rispondere a Lacan che qui non c’è nessuna «chiave universale», nient’altro che un algoritmo che regola i processi della phoné, un epicentro dal quale si dirama un terremoto di sillabe e fonemi sganciati dalla madre terra della significazione, fonemi e monemi liberati e alienati…
1] J. Lacan, Scritti vol. II a cura di Giacomo Contri, Einaudi, 1974, p. 818
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Grazie, Giorgio di questa chiave di lettura dei miei versi nel rapporto algoritmo e metalinguaggio.Ogni cosa, tu dici, finisce con il punto e ricomincia subito dopo tramite la severità del distico. E’ qui che opero con molta fantasia e realtà, immaginazione e fiction, con lampi di storia privata e universale. che riguardano tutti noi nel momento della nostra dispersione.
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All’inizio una lunga metafora, la percezione fuggitiva di eventi, come a teatro la vita messa in scena. Poi siamo fuori dalla rappresentazione. Imbrunisce. Anche la conversazione, che potrebbe sfumare. Ma resta il tempo per un avvertimento.
Mario Gabriele ha definitivamente abbandonato la poesia lirica, che pare essere il vero scoglio insormontabile della tradizione italiana; se ne coglie l’eco, ma, diciamo così, Gabriele la ribalta come un guanto.
Si coglie anche la Sua vena malinconica; questo lo dico perché il “ragazzo” ama burlarsi di tutto e potrebbe trarre in inganno… Il tono, poi, è confidenziale: ci mette sempre una parola buona. Senza elegia, senza sentimentalismo, e senza “io”. Eppure è poesia che si fa amare. Non così fredda come qualcuno potrebbe pensare, della nuova ontologia estetica. Qui tutto è nuovo ma, allo stesso tempo, si avverte che qualcosa di antico si sta muovendo. Il viaggio si era solo interrotto; per qualche guasto, suppongo, nella critica o negli autori. Ad ogni modo, complimenti vivissimi, caro Mario: sei per me un indispensabile punto di riferimento. (sopporta ti prego la responsabilità)
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Giorgio Linguaglossa coglie in un aggettivo una particolarità del distico, quella che mi è consona, quando scrive della “severità del distico”. Perfetto, così inteso il distico E’ severo. Poche le indulgenze, forse quelle dovute a necessità stilistica.
Lo stile: non è tutto ma, anche in poesia non se ne può fare a meno. Penso che lo si possa acquisire ma è anche segno, per me, che c’è talento. Oh be’, si parla in generale, Gabriele è poeta di lungo corso…
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caro Lucio, devo confessarti che da tempo cercavo un allineamento con la mia poesia, da parte di un sound come quello di Leonardo Cohen con Dance me to the End of love, che interpreta molto bene i tratti dell nostra vita con le immagini che si susseguono nel video. Forse sono riuscite meglio queste ultime in quanto vanno al centro del cuore, mentre la mia poesia se ne allontana, ma non per questo si autoesclude dalla infiltrazione temporale dei dati esistenziali, ognuno con propri codici dichiarativi. Riconosco che faccio poesia un po’ estranea dal comune commercio, ma se questo rientra nel mio DNA e della NOE non posso che uniformarmi a questo momento espressivo. Grazie a te e di tutto quello che fai e illustri con la mente e i colori.
Ho scritto a Carlo Calenda pochi istanti fa questo twit:
«Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?» (cit. E. Jünger)
Se qualcuno del PD avesse letto le poesie della più grande poetessa del 900: M.R. Madonna, avrebbe capito qualcosa… di ciò che stava accadendo al Paese, perché la poesia, quella di alto livello, è la migliore radiografia di un Paese e dei suoi abitanti in un dato momento storico… Se qualcuno leggesse con attenzione qualche poesia di Mario Gabriele, penso che capirebbe qualcosa di più del momento storico che stiamo vivendo…
caro Giorgio,
seguo con attenzione il tuo impegno di fronte alla politica con pensieri, eventi, tratti fotografici ironici,sui maggiori rappresentanti della Lega, dei 5S, e del PD,ma non ho fatto mai seguire un mio commento,forse perché deluso dalla politica, a partire dagli anni Settanta fino ad oggi. La separazione dei due poteri,alla maniera di Montesquieu, si è deteriorata fino al punto che lo stesso Esprit des lois si è venuto a intaccare.Per Montesquieu la Legge non è comandamento, ma un rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose. Anche le forme di governo vanno giudicate alla luce del carattere che esse esprimono. la monarchia incarna la passione dell’onore, il dispotismo ha come movente il timore, il governo repubblicano la virtù. La libertà si ottiene con il rispetto della legge, ma è garantita dalla divisione dei tre poteri principali: quello legislativo, esecutivo e giudiziario. Montesquieu aveva concentrato tutte le sue forze intellettuali ad una sistemazione organica di un modus-vivendi che non rendesse l’uomo infelice e schiavo. Ma anche lui era un aborigeno nel senso che delegittimava il voto trasferendolo solo ai poteri forti.
Dagli anni Settanta fino ad oggi, tutto si è mosso in relazione ai conflitti di interesse e di casta ad opera dei fantocci della politica, manovratori di interessi personali, una volta giunti al governo. Chi ci risarcisce di tutti i danni subiti? Thomas Hobbes, teorico dell’Assolutismo con il suo Leviathan, riconosceva che l’affidamento del potere ad una sola persona o partito, comporta dei rischi enormi, ma intanto lo esaltava contro la distruzione dello Stato.Il tatticismo politico attuato da Hobbes va indubbiamente collegato alle sue simpatie monarchiche che gli permisero di svincolarsi dal potere ecclesiastico per mezzo del -Patto Sociale-.Ma quanti patti si sono realizzati da allora ad oggi in Italia? Possibile che la Politica sia l’equivalente della corruzione e del potere, che non sono mai stati eventi a sé, ma che tuttavia, ne hanno suggellato la forma, come elemento coabitativo all’interno di ogni partito, di destra, di sinistra, del centro e del baricentro? Questioni queste che hanno interessato Economisti, Filosofi, Teologi, Antropologi, Pedagogisti, Psicologi e Sociologi. Non esiste, allo stato attuale, una Politica eticamente onesta, da garantire il Diritto nella Società. A conclusione di questo mio appunto, non posso che elogiare la tua pagina di oggi su L’Ombra, che ancora una volta esamina con la dovuta attenzione e riferimento testuale la mia poesia,che per me è l’unica spiaggia dove approdare dopo il tradimento politico. Un abbraccio.
La distinzione tra essere ed ente è per Heidegger il concetto che per primo sorge all’orizzonte del pensiero, e quindi connota l’essenza dell’uomo, non appena comincia ad utilizzare le sue facoltà logico-linguistiche; ma, allo stesso tempo, la “differenza ontologica” denuncia l’incapacità strutturale del linguaggio di esperire ed esprimere l’essenza dell’essere, come sorgente, o del nulla, senza entificarlo, come in tutte le metafisiche, che tradiscono la sua natura di “ereignis” (evento), dinamica, caotica, metamorfica in eidos (Platone), cioè un’astrazione fissa, immutabile, una fotografia che è del tutto eteronoma rispetto all’incessante fluire dell’essere.
D’altra parte il pensiero non può sottrarsi, (uberwinden) superare le immagini della metafisica, perchè il linguaggio ne è stato ineluttabilmente strutturato, può al massimo aggirarle, che Heidegger esprime con il verbo verwinden, che esprime anche il guarire da una ferita, da un dolore.
Ecco che allora la metafisica si trasforma in ideologia, visione del mondo, volontà di potenza: ” Mediante questo connubio dell’idea con il valore è contemporaneamente scomparso dall’essenza dell’idea il carattere dell’essere e della sua distinzione dall’ente. Il fatto che qui e là , in circoli colti e in base ad una tradizione erudita, si parli di essere, di ontologia e di metafisica è ormai solo un’eco a cui non inerisce più nessuna forza creatrice di storia. La potenza della visione del mondo, dell’ideologia, si è impossessata dell’essenza della metafisica……In ciò sta la ragione del fatto che solo con il compimento della metafisica può dispiegarsi, completo, incondizionato, non più disturbato e confuso da nulla, il dominio sull’ente.”
( dal ” Nietzsche ” di Heidegger )
Queste analisi di Heidegger, del 1940, risultano sinistramente profetiche, ora che tutte le ideologie sono state dissolte dall’unica imperante, invincibile, irriformabile e inemendabile, capace di neutralizzare qualunque istanza di opposizione: il capitalismo globalizzato, governato dall’informatica.
La poesia di Gabriele mi sembra un’implicita denuncia, ma insieme resa e assimilazione a questo universo post-umano, in cui la speranza di verità resta nel cassetto, e la lingua, decomposta e frantumata, risuona come un fruscio di foglie. Vi trovo una perfetta somiglianza a quella di Eliot, ma con una funzione mutata: mentre nel poeta inglese questa degradazione della lirica in frammenti prosaici è utilizzato per connettere due momenti di acme emozionale, di sublime stilistico, come nel “Mercoledì delle ceneri”, in Gabriele sembra la descrizione di un oblio, di un esilio, di una mutazione antropologia definitiva, in cui non si scorge più via di salvezza.
Vorrei capire meglio il punto di vista che considera la poesia lirica (o con toni emotivi suscitati dall’umano rapporto con la natura) un ostacolo alla presa di consapevolezza del nulla che stiamo attraversando nella nostra epoca, inteso come declino di una civiltà e dei suoi valori.
Io non so se si possa stabilire con certezza, che cosa intendesse espressamente Montale con il suo verso “il rivo strozzato che gorgoglia”, ma certamente ha comunicato e condiviso un dolore esistenziale, che molti poeti e artisti hanno espresso e che è dato anche dall’esperienza quotidiana di una realtà sociale e culturale, di cui si vedono i limiti e che certo la poesia può esprimere di più, con o senza lirismo. Il lirismo nasce da una tensione interiore che non può fuorviare, se trova forme contemporanee ed espressive adeguate, perchè rimanda a qualcosa di intimo e vitale dell’essere umano stesso.
cara Paola Renzetti,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/24/lulteriore-passo-in-avanti-del-nichilismo-da-osip-mandelstam-eugenio-montale-a-mario-gabriele-appunti-sul-nichilismo-dialogo-tra-ernst-junger-e-martin-heidegger-lettera-p/comment-page-1/#comment-38063
tu mi chiedi che cosa penso (pensiamo) della «poesia lirica». È molto semplice, la «poesia lirica» nel senso di «linea elegiaca» di continiana memoria, non esiste più da tempo, e precisamente dalla apparizione del primo libro di Montale, Ossi di seppia (1925). Se leggiamo con attenzione la poesia di Montale riportata nel post, ci rendiamo conto che quel tipo di fono simbolismo ha senso se letto e interpretato all’interno del fono simbolismo della poesia europea che scaturisce dalla dissoluzione del simbolismo. Già allora, già nel 1925, scrivere poesia lirica alla maniera del montale degli Ossi era diventata una via impraticabile. Chi non lo capì continuò a scrivere poesia fono simbolica di tipo lirico ancora per decenni; in tal senso, la poesia di Cardarelli e della “Ronda” risponde a un concetto di poesia attardato al simbolismo quando il simbolismo era scomparso dall’orizzonte europeo. Lavorare stanca (1936) di Pavese è un tentativo di aprire alla poesia italiana una nuova via: la poesia narrativa. Ma lo stesso Pavese con Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951) farà un passo indietro facendo una poesia lirica ancora attardata e arretrata rispetto alla sua raccolta d’esordio.
La «nuova ontologia estetica» che abbiamo messo in campo in questi ultimi anni prende avvio dalla consapevolezza di alcuni poeti italiani presenti in questa rivista che la poesia che si faceva e si fa in Italia dagli anni settanta ai giorni nostri, non ha ancora preso consapevolezza che quella poesia incentrata sull’io poetico era, molto semplicemente, una non-poesia, una poesia inconsapevole che si faceva e si fa di riflesso, per rispondere ad un bisogno fisiologico e niente di più, una poesia ancora ingenuamente incentrata sulla centralità dell’io lirico.
Credo di non sbagliare se propongo un breve estratto della poesia “Carillon” di Tomas Tranströmer, non incentrata sull’io poetico e priva di fono simbolismo, come esempio alto di poesia narrativa:
Sono sdraiato sul letto, le braccia spalancate.
Sono un’ancora che si è sepolta a dovere e mantiene
là sopra l’enorme ombra galleggiante,
il grande sconosciuto di cui sono una parte e che è
certo più importante di me.
questo ‘Grande sconosciuto’ mi fa pensare al Brahman induista, che l’io riconosce come propria ombra, ‘galleggiante’ sull’acqua come in attesa e incancellabile, quando affonda nella propria profondità fino a seppellirvisi
Grazie per gli spunti offerti e per aver citato Cesare Pavese …
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
Lettera ad Adeodato Piazza Nicolai
caro Adeodato Piazza Nicolai,
noi camminiamo… in su, in giù, di lato, a dx, a sx, ma non andiamo in nessun luogo, non riusciamo neanche più a cadere che ci rialziamo… (con buona pace di Rozewicz), anche il viaggio è diventato una approssimazione turistica all’essere, l’erranza è stata addomesticata, che noia tutta quella folla di turisti che si mette in marcia per ore ai caselli autostradali di luglio e agosto… le poesie bene educate pubblicate nelle rivistine letterarie… è questo il nostro santo quotidiano nichilismo… le ruberie quotidiane, Il folle dittatore della Corea del Nord che lancia missili nell’oceano, il figlio che grida al padre: “devi dire la verità!”, gli sciacalli, di C.L., gli appalti truccati, il papa che parla come un ex comunista… beh, se questo non è nichilismo che cos’è? E allora, leggiamoci una poesia di Mario Gabriele.
(Giorgio Linguaglossa)
Si fa viva persiana quando il
giorno si avvera, la sera, che addomestica l’aria.
Le senti untuose le verità è le
vetrine, ti specchi in albume.I gesti sovrastano
azioni, puntano iettili di spillo
parlante. Le parole all’onda suprema.
Il nuoto si avvera. Le braccia che avvertono il tempo indicano il mare. La segnaletica assente.
*
(La differenza del gesto, in questo caso poetico, ha senso nel luogo della sua apparizione, il post.
Accanto in treno tutti smanettano sugli smartphone. Compiamo tutti la stessa azione.Questa mia poesia, i nostri gesti,
simili a milioni di altri ha solo senso se appare
in uno spazio condiviso. Solo su questo spazio condiviso. La poesia è un luogo.)
GRAZIE OMBRA.
L”osservazione poetico-estetica di Carlo Livia su Eliot, in Mercoledì delle Ceneri,nel significativo rapporto tra emozione e sublime stilistico, visti come simboli di canto e di grazia, ma soprattutto di Fede, resi ancora più evidenti con i -correlativi oggettivi- e all’evidente notturno metafisico della mia poesia, sempre in zona laterale ma vicina a The Waste Land , sono una significativa decriptazione dei versi posti in esame.Di questo sono grato a Carlo Livia e ai lettori di questa Rivista.
Riflessione intorno alla «cosa» e il«nulla» nella «nuova ontologia estetica»
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/24/lulteriore-passo-in-avanti-del-nichilismo-da-osip-mandelstam-eugenio-montale-a-mario-gabriele-appunti-sul-nichilismo-dialogo-tra-ernst-junger-e-martin-heidegger-lettera-p/comment-page-1/#comment-38066
È noto il topos del vaso e del vasaio che Lacan riprende da Heidegger. Il vaso è quella cosa (Sache), quell’oggetto creato di uso quotidiano, prodotto di un fare che crea un utensile, una suppellettile, uno strumento. In esso è pienamente visibile l’idea del vuoto della Cosa (Ding). Da questa accezione derivano, per Heidegger, il romanzo la cosa, il francese la chose, e il tedesco das Ding, quell’alterità che «brilla» per la sua assenza. Esso ha la proprietà di presentificare il vuoto e il pieno, di esser pensato nel paradosso del vuoto e del pieno. Il suo essere utensile lo pone nella posizione di funzionare da significante, ma, allo stesso tempo, questo suo essere significante non significa nulla, ovvero, significa il vuoto intorno a cui esso vuoto prende forma, il vuoto che il vaso racchiude.
Per Heidegger la brocca è quella cosa che nella sua forma di recipiente assicura il contenere e l’offerta, connette mortali e divini, cielo e terra. Questo perché ciò di cui la brocca consiste non è il materiale di cui è fatta, non è nemmeno determinante la forma che il vasaio forgia, quanto il fatto che la brocca racchiuda il vuoto che essa crea.
La brocca è al contempo Sache e Ding, nel senso in cui sintetizza il rapporto tra il significante e das Ding, tra l’ordine della Vorstellung intorno a cui si articola la pulsione e il vuoto lasciato dalla Cosa a cui la stessa pulsione tende. Soffermiamoci per un momento al vaso, al suo uso come utensile e la sua funzione di significante. Ecco che il vaso è significante in quanto plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante in sé. Il significante del vaso diventa significativo tramite il vuoto che esso crea, inaugurando l’aspettativa di riempirlo. Il vuoto e il pieno vengono creati dal vaso. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel sistema articolatorio qual è la lingua. Il vaso dunque è quel significante che di per sé esprime l’ingresso nel sistema della lingua di un vuoto. È questo vuoto che si presenta come nihil, come il nulla al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.
Non si dà un significante che possa significare la Cosa, impossibilità che configura la condizione stessa della Parola, ovvero l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché non dotato di quell’assolutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il vuoto.
Cfr. veda M. Heidegger, La cosa, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1976, 1990 (2007)., pp. 109-24. 197 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 78.
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