
è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti, di buche, un cunicolo sotterraneo che non si vede ma che c’è, nascosto dal folto della vegetazione delle merci linguistiche
Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi nel 1936. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate, a quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.
È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV. Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin, traduzione di Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Il «passaggio», per Heidegger, è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti, di buche, un cunicolo sotterraneo che non si vede ma che c’è, nascosto dal folto della vegetazione delle merci linguistiche. Nella situazione storica della poesia italiana dagli anni settanta ad oggi è avvenuto questo: che un poeta della generazione venuta dopo quella di Pasolini (nato nel 1922) come Anna Ventura (nata nel 1936), nel breve arco di anni che separa la morte di Pasolini nel 1975 dall’esordio poetico della Ventura nel 1978, si è compiuto in Italia un vero e proprio genocidio della poesia, ma non perché i poeti siano morti ammazzati quanto perché i poeti sono stati costretti a sopravvivere in una sorta di stato sonnambolico o catatonico di morte apparente e di vita apparente. Nella situazione degli anni settanta-ottanta ad un poeta che vivesse in periferia e che non fosse allineato con gli slogan delle parole d’ordine di allora di Roma e di Milano non era concesso udienza o attenzione. Questo va detto per spiegare il fatto di come la poesia della Ventura non sia stata recepita e, tranne alcune eccezioni di riguardo, resterà inesplorata. Ecco la ragione che ha costretto la Ventura ad imboccare una via laterale, un Umweg, ed a percorrere un lungo tragitto esperienziale e stilistico per giungere fino a noi con il suo «nuovo» vestito degli ultimi due decenni.
Tuttavia, percorrere un Umweg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano, allungare il percorso – l’Umweg non è un Irrweg (falsa strada) e nemmeno un Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco), un sentiero interrotto – è una strada che comprende in sé una innumerevole quantità di altre strade diverse. È questo, penso, l’accezione che vorrei dare a queste poesie inedite di Anna Ventura. La poetessa abruzzese ha dovuto percorrere, fin da Brillanti di bottiglia, l’opera d’esordio del 1978, una gran quantità di strade comunali e di stradine laterali prima di immettersi nel grande alveo della poesia europea. Il lunghissimo tragitto non è accaduto per caso, è stato necessitato dalla oggettiva situazione di inflazione linguistica di poliscritture che si è verificata in Italia a partire dagli anni settanta fino ai giorni nostri ma non soltanto perché la «dritta via» era smarrita, oscura e impenetrabile, quanto perché nel mondo mediatico di oggi quella «via», come scriveva Wittgenstein, è una via «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in Hölderlin e Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre. Gli dèi sono stati dimenticati, e anche di «dio» se ne sono perse le tracce, non se ne sa più niente, ed oggi è una questione che interessa gli speleologi e gli archeologi. Oggi non c’è più una «siepe» che delimita lo sguardo, non c’è più qualcosa di solido che ostruisce l’ingresso e il viaggio, tutte le vie sono possibili e compossibili, statisticamente tutte le vie sono interscambiabili perché tutte condurranno, alla fine dei tempi, a Roma, alla mancanza di un fondamento stabile. C’è questa chiaroveggenza nella poesia di Anna Ventura che con il passare degli anni e dei decenni diventa sempre più consapevole. La tradizione nelle nuove condizioni della società mediatica, si allontana sempre più velocemente. Ed ecco che in queste poesie inedite che presentiamo, la poetessa può affermare con candore e semplicità «Siete qui, maestri/ Ascoltati ieri… Finalmente so… La barbarie che è fuori la porta/ Non mi fa più paura./ Attraverso un tempo lunghissimo,/ oltre lo spazio stretto del reale,/ oggi siete chiarissimi/ concreti».
Nel «nuovo» mondo di oggi «i maestri» sono scomparsi irrimediabilmente e la poesia è diventata una questione «privata», una questione privatistica da regolare con il codice civile e da perorare con un linguaggio polifrastico, un linguaggio «interno» che ammicca ad un «metalinguaggio» o «superlingua» qual è diventata la poesia che va di moda oggi. La questione «tradizione» oggi non fa più questione. I linguaggi poetici sono metalinguaggi prodotto di proliferazione di altri linguaggi polifrastici. Oggi un critico di qualche serietà non avrebbe nulla da dire di questi linguaggi polifrastici o polinomici. Rispetto a tali linguaggi la poesia della Ventura spicca per la sua «nudità», è un linguaggio «nudo» in quanto indifeso, non è un metalinguaggio è un linguaggio.
In un suo saggio su Pasolini, la Ventura ricorda il parere di Moravia:
«Le idee di Pasolini sull’imborghesimento universale e sulla svolta antropologica del consumismo non derivavano da un’osservazione oggettiva della realtà sociale; ma erano l’espressione di un mito con il quale lui con gli anni aveva finito per identificarsi: il mito della età dell’oro della cultura contadina.
…Era inutile che io, per esempio, gli dicessi che i mali di Italia venivano non già dall’industrializzazione e dal consumismo… che, insomma, l’Italia lungi dall’essere distrutta dall’industria non era abbastanza industrializzata e lungi dall’essere troppo consumista, non consumava abbastanza; era inutile, cioè mettergli sotto gli occhi il Paese reale: lui vi sovrapponeva subito il suo mito e facilmente mi dimostrava che la mia diagnosi andava capovolta e che tutto il male dell’Italia veniva dal suo, ahimé, così effimero e ristretto benessere. Adesso mi si chiederà come mai questa razionalizzazione sia pure geniale di un mito letterario e poetico abbia incontrato tanto favore.
Penso che il successo della presa di posizione di Pasolini sia dovuto al momento storico in cui si è fatto avanti come polemista.
Egli ha interpretato la nostalgia di tanti italiani per una età dell’oro situata in un passato imprecisabile ma sicuramente agrario, nostalgia peraltro fatta soprattutto di sgomento di fronte al colossale fallimento storico di questo Paese come Paese moderno».1
È emblematica questa attenzione della Ventura per un poeta da lei tanto dissimile. Solo quattordici anni separano le date di nascita di Pasolini da quella della Ventura, ed è in questi anni che si consuma il divario tra la vecchia Italia contadina e la nuova che sta vivendo la sua industrializzazione a tappe forzate.
In un certo senso è qui il segreto della cifra stilistica della poesia venturiana: la poetessa abruzzese ha vissuto nella nuova Italia della industrializzazione compiuta e del post-sperimentalismo, nel momento in cui il post-moderno era già in via di esaurimento e stava venendo alla luce una società che voleva a tutti i costi chiudere la parentesi della modernizzazione accelerata. Il suo stile segna una sorta di ritorno alla semplicità del pensiero poetante dopo la ubriacatura del post-sperimentalismo e le vezzosità della poesia agrituristica e delle adiacenze dell’io che prenderà piede in Italia già durante gli anni ottanta e che continua fino ad oggi.

Redazione della rivista Officina, Pasolini e Fortini, due scomodi compagni di strada
La Ventura ritorna ad una poesia fatta di «cose», di «res».
Scrive Remo Bodei:
«Qualcosa… avviene nel nostro rapporto con le cose, specie nel campo dell’arte. Sul suo esempio, la filosofia è stata chiamata a comprendere la trasformazione degli oggetti in cose, a restituire loro l’eccedenza di senso sottratta dall’usura dell’abitudine e dallo sguardo oggettivante. Entrambe, arte e filosofia, combattono quindi la desemantizzazione cui il nostro mondo quotidiano, ridotto a “deserto del reale”, è stato sottoposto e invitano, nello stesso tempo, a rinvenire nelle cose quell’aura che ce le avvicina, pur mantenendone la distanza [cfr. Benjamin 1966, 23-24].
È ora possibile intendere il territorio della fantasia artistica come atopia, luogo inclassificabile, irriducibile allo spazio della res extensa, che non appartiene né al dominio della realtà assoluta, e a quello – che ne è l’opposto speculare – dell’utopia, del non-esistente per definizione. È una zona insituabile in cui il desiderio, cognitivo e affettivo insieme, trova il suo più intenso appagamento (almeno per quel tempo limitato della “domenica della vita” in cui Hegel aveva racchiuso la fruizione dell’arte, sottraendola ai giorni feriali del lavoro e delle preoccupazioni dell’esistenza). Si manifesta in essa la paradossale lontananza prossima rappresentata dalla “patria sconosciuta”, di cui parlano Plotino e Novalis, o quell’arrière-pays intravisto da Yves Bonnefoy, spazio simbolico in cui non siamo mai stati, ma che ci sembra di conoscere da sempre…»2]
È lecito affermare che la migliore poesia contemporanea si occupa di «cose» e non di «oggetti»? È lecito dire, più in particolare, che il luogo della poesia sia in quel limen che divide gli «oggetti» dalle «cose» e che ci racconta il misterioso tragitto che trasforma gli «oggetti» in «cose»? Anna Ventura in una sua poesia scrive che dobbiamo mantenere «la distanza dalle cose», ed è vero, dobbiamo difenderci da un infoltimento di «cose» ma dobbiamo al contempo anche sollecitare in qualche modo questo «ritorno delle cose», perché soltanto esse ci possono parlare, anche se in una lingua che non comprendiamo; le «cose» possono dirci qualcosa di significativo che la merceologia dei discorsi comuni tende ad oscurare. In qualche modo, tutta la poesia della nuova ontologia estetica si trova lungo questa linea di consonanza con il linguaggio delle «cose». Le «cose» stanno lì a guardarci dal loro luogo atopico, ci parlano e ci parlano, ci fanno intravvedere una eccedenza di senso, ci familiarizzano con un ordine simbolico che conferisce significato alla nostra esistenza. In questa direzione, la lettura della poesia di Anna Ventura ci sorprende per l’acutezza con cui ha saputo indagare in tutta la sua opera il luogo delle «cose» e la loro lingua misteriosa.
1] A. Ventura La multiforme unità di Pasolini, Quaderni di Rivista Abbruzzese, 8, Lanciano, 1977, p. 15
2] Remo Bodei, La vita delle cose, Laterza, 2009, pp. 86-87

Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio/ di luce della lampada
Poesie inedite di Anna Ventura
I MAESTRI
Siete qui, maestri
Ascoltati ieri
col timore rapace
dell’ultimo dei discepoli.
Finalmente so
che cosa mi avete insegnato.
Siete nella tazza di caffè
vuota sul tavolo,
nelle carte sparse, nel cerchio
di luce della lampada.
La barbarie che è fuori la porta
Non mi fa più paura.
Attraverso un tempo lunghissimo,
oltre lo spazio stretto del reale,
oggi siete chiarissimi,
concreti. Continua a leggere