Intervista immaginaria di Martis Forum a Eugenio Montale a cura di Gino Rago
17 agosto 2018 alle 19:14
(su Ossi di seppia (1925) e Le Occasioni (1936)
Domanda:
Su Ossi di seppia con poche, necessarie parole, arte nella quale hai dimostrato d’essere Maestro, non soltanto per me ma per i tutti i lettori di poesia vorrei sentirti parlare…
Risposta:
Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un’idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Ministrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata. E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica. Nel ’16, nel 1916, avevo già composto il mio primo frammento tout entier à sa proie attaché : Meriggiare pallido e assorto (che modificai più tardi nella strofa finale). La preda era, s’intende, il mio paesaggio.
Domanda:
Quale idea allora di poesia…
Risposta:
Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto… Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo… Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento di Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai.
Domanda:
Già nel tuo primo libro poetico Ossi di seppia mostravi insofferenza verso un modo italico di fare poesia.
Risposta:
Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto… All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza.
Domanda:
In Ossi di seppia si sente dappertutto il mare, un mare in contrasto con la lingua di allora…
Risposta:
Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia… Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto.
Domanda:
E su Le Occasioni…
Risposta:
Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.
Domanda:
Esprimere l’oggetto tacendo l’occasione-spinta…
Risposta:
Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi.
Domanda:
A quale frutto hai pensato per Le Occasioni…
Risposta:
Le “Occasioni” erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello… della musica profonda e della contemplazione.
Domanda:
Che ruolo attribuisci nella economia poetica generale de Le Occasioni a Finisterre…
Risposta:
Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre perché rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (chiamala come vuoi) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-42, forse le più libere che io abbia mai scritte….

Mario M. Gabriele
Giorgio Linguaglossa: Confronto tra la poesia di Eugenio Montale, Le occasioni (1926) e quella di Mario M. Gabriele, In viaggio con Godot (2017)
caro Lucio Mayoor Tosi,
è agosto e con questo caldo non sono poi tanto lucido. Sono appena reduce da una campagna requisitoria condotta da parte di alcuni «poeti ingenui» i quali hanno postato, con i corpi dei morti di Genova ancora caldi, le loro pseudo-poesie su facebook. Io mi sono permesso di rimarcare loro il gusto non prelibato di redigere e pubblicare le loro poesiole non appena caduto il ponte e la strage che ne è seguita. Loro si sono difesi dicendo che avevano preso ispirazione dai morti sotto le macerie. Si è scatenata una bagarre da parte degli pseudo-poeti, con a capo Mariagrazia Calandrone, la quale mi ha accusato di farmi «pubblicità» (pensa un po’ sarei stato io il reprobo che si voleva fare «pubblicità», non lei e gli altri suoi adepti).
Penso che forse sono io il pre-moderno, io ho ancora il senso del pudore verso i morti, non mi sarebbe mai saltato per la testa di pubblicare qualche mia poesiola dedicata ai morti il giorno stesso della caduta del ponte di Genova. O forse mi sbaglio, sono io ad essere completamente fuori della contemporaneità, della realtà… E sono loro i veri contemporanei…
Il tuo accostamento tra una poesia di Montale de Le occasioni (1936) e una poesia di Mario Gabriele di In viaggio con Godot (2017), non penso che sia campata in aria, c’è qualcosa che le accomuna, c’è un filo conduttore tra le due poesie. Complimenti per l’acutezza del tuo sguardo.
Penso che la differenza fondamentale tra l’ontologia estetica del Montale de Le occasioni e la nuova ontologia estetica di Gabriele sia da rinvenire nella questione dell’essere. Montale quando scrive Le occasioni pensa ancora alla identità di essere e fondamento, pensa che nel fondamento, cioè nell’essere si possa scorgere un barlume dell’essere. Penso che Montale al tempo della stesura delle sue poesie non avesse letto né avuto sentore di Essere e tempo (1927) di Heidegger che all’epoca non era stato ancora tradotto in italiano. E per fortuna, così Montale può ancora illudersi che tra essere e fondamento vi sia un collegamento, una isoipsa. Di qui la sua grande poesia, che è in sostanza una grande elegia, una elegia sulla dissoluzione del fondamento, ma sempre ancora percepito come fondamento. Non sfiora la mente di Montale che la questione è stata rivoluzionata dal pensiero di Heidegger, che cioè tra essere e fondamento non c’è nulla in comune, che non è più possibile identificare l’essere con il fondamento.
Mario Gabriele pensa a fare una poesia modernista, ma lo pensa dopo ottanta anni dalla poesia di Montale, Gabriele sa che ogni rapporto di fondazione si dà sempre all’interno di singole epoche dell’essere, e che le epoche dell’essere sono «aperte» in quanto non fondate dall’essere. E l’«apertura» per Gabriele significa che le epoche dell’essere non sono più leggibili con la grammatica e la sintassi della antica e nobile elegia della tradizione europea, con l’elegia di Montale, ma con una sorta di, direi, nuova elegia fondata su una nuova ontologia estetica. A dirlo, così in due parole, sembra facile, un concetto di facile accesso, ma la distanza tra la due posizioni (quella di Montale e quella di Gabriele) era enorme, bisognava tirare le somme e le sottrazioni di ottanta anni di stagnazione stilistica e di pensiero poetico italiani. Mario Gabriele ha compiuto questo passo decisivo. Ma ci sono voluti ottanta anni, non c’erano disponibili scorciatoie. Le vie dello spirito non conoscono le scorciatoie.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura/ e il suono del tuo riso non è più lieto
Commento di Lucio Mayoor Tosi
Ho l’impressione – di questa solo si tratta, purtroppo per me, in quanto sono solito creare e penso poco – che le cose di Magrelli siano di comunicazione istituzionale; cose dello Stato che ufficializza se stesso. Il poco divertente minimo comune denominatore che, stando a quanto leggo in questo articolo, potrebbe rappresentare la fine della “poesia della comunicazione”; la quale avrebbe inizio da una presa d’atto, scelta o constatazione, operata dal genio Montale, a iniziare dal libro Satura.
Rileggendo la poesia 43 di Mario M. Gabriele (un giorno si scoprirà cosa si nasconde dietro quella sua M. nel nome?), ho avvertito una qualche vicinanza col Montale de “La casa dei doganieri”. Capisco da me l’assurdità, eppure in questa luce ho ho provato a confrontare: laddove Giorgio parla di “un contenuto di verità purchessia” ancora presente nella vecchia ontologia estetica, sta il punto e la grande differenza. Ma già poesia, in quel Montale – come d’altra parte anche in “Genova”, postata ieri, di Dino Campana, seppure sia tanto diversa – sembrava volgere al disgelo, tanto da far pensare a un oltre orizzonte, che a quel tempo era però inimmaginabile.
Mario M. Gabriele, quel salto oltre lo fa ( di un salto si tratta, non c’è altra via); ma sembra a me che poesia 43 come per mitosi da quel Montale sia pervenuta:
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Mi piace anche osservare che la prospettiva retroattiva che si apre, dal momento in cui si comincia a intendere la poesia coi criteri della nuova ontologia, rivela aspetti che la critica, pur che li abbia già ampiamente valutati, ha però mancato di separare… un po’ come si fa per mondare la frutta, o il riso, per renderli meglio commestibili. D’altronde forse non rientra nelle sue competenze.
Riletta oggi, La casa dei doganieri smette di sembrarmi tanto lontana.
Anche se l’In viaggio con Godot resta ormai definitivo, irrinunciabile.

Il tempo mise in allarme le allodole./ Caddero èmbrici e foglie
Una poesia di Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017)
43
Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.
Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.
Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.
Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.
Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.
Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.
Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.
Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.
Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.
L’accostamento non mi dispiace. Sì, porto sulle ali poetiche il tragitto di un viaggio esistenziale, che ha in Meriggiare pallido e assorto e tutte le migliori poesie di Ossi di seppia, e delle Occasioni, la traccia ontologica di un segreto viadotto per esternare l’Essere nel Tempo. Ciò che Lucio ha notato, con grande profondità estetica, insieme a Giorgio, è la sotterranea rifrazione di un sentimento poetico che finisce con l’avere centrato la misura dei nostri passi su un terreno accidioso. Montale in un modo, io in un altro, ma entrambi con linguaggio diverso, ci siamo lasciati andare su una zattera senza remi “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia-. Grazie a voi di queste utilissime interpretazioni che aprono ad una nuova visione la lettura dei testi poetici come non si era mai fatto prima.
Dall’e-book del Liceo ‘V. Alfieri’ di Asti su aspetti decisivi della poesia italiana contemporanea estraggo dal I° Capitolo incentrato su Il poeta e l’ispirazione 2 poesie di Montale incluse in Diario del ’71 e del ’72, con un commento acuto e incisivo di Eleonora Anselmo, coordinata, guidata, illuminata da Rossana Levati.
Con queste 2 poesie Eleonora Anselmo e Rossana Levati quasi prendendoci per mano ci traghettano, a integrazione della Intervista di Martis Forum intorno esclusivamente alle prime due raccolte montaliane, Ossi di seppia (1925) e Le Occasioni (1936), verso l’ultima stagione poetica del Montale del dopo Satura.
Questo di Rossana Levati e di Eleonora Anselmo è un contributo poetico-ermeneutico prezioso non soltanto sul poeta ligure ma attraverso il suo itinerario poetico, dal 1925 al 1981, su tutta la poesia italiana, soprattutto del secondo Novecento.
Grazie ad Eleonora Anselmo, grazie a Rossana Levati a nome mio e della Redazione de L’Ombra delle Parole.
(Gino Rago)
L’ISPIRAZIONE DEL POETA: LA MUSA SPAVENTACCHIO DI E. MONTALE
Eugenio Montale
La mia Musa (da “Diario del ’71 e del’72”)
La mia Musa è lontana: si direbbe
( è il pensiero dei più ) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio
di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo
chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita
di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto
di cannucce. È la sola musica che sopporto.
Eugenio Montale
La lingua di Dio (da “Diario del ’71 e del ’72”)
Se dio è il linguaggio, l’Uno che ne creò tanti altri per poi confonderli
come faremo a interpellarlo e come
credere che ha parlato e parlerà
per sempre indecifrabile e questo è
meglio che nulla.Certo
meglio che nulla siamo
noi fermi alla balbuzie. E guai se un giorno
le voci si sciogliessero. Il linguaggio,
sia il nulla o non lo sia,
ha le sue astuzie.
Il linguaggio di Montale
commento di Eleonora Anselmo, classe V B
Il poeta del Novecento spesso si interroga su quali parole usare ed ecco Montale orientarsi, da “Satura” in poi, verso un linguaggio sempre più prosastico, che ben si distanzia tuttavia dal “pauperismo evangelico” rinfacciato a Pasolini nella “Lettera a Malvolio”, orientandosi verso tecnicismi e immagini di storia.
A partire dagli anni Settanta sempre più spesso Montale allude a una “balbuzie” che segna il linguaggio umano in generale, e anche quello poetico. Una balbuzie che porta il linguaggio umano, ormai lontano dal linguaggio di Dio, l’unico assoluto, alla imperfezione, a un “mezzo parlare” che lo allontana dalle certezze e dalla verità: al poeta resta la dimensione dello scetticismo, della distanza ironica dal lettore e interlocutore, della interruzione o deformazione di ogni comunicazione, a cui spesso allude per esempio nelle poesie in cui descrive le telefonate “distorte” o errate ricevute da persone conosciute o sconosciute, che magari parlano “un’altra lingua” (come Celia la filippina in “Xenia” o le voci inattese di “A tarda notte”). E’ quindi, la sua, una posizione di ripiegamento e di sfiducia nel valore della parola poetica, quasi sopraffatta dalle troppe parole dell’oggi.
Strettamente connesso al tema delle parole è quello dell’ispirazione: la Musa, per Montale, non si trova sul Parnaso, come in ogni autore della classicità, bensì è lontana, si direbbe che mai sia esistita. E’ collocata in un ripostiglio teatrale, indossa i panni dello spaventacchio, ma il poeta la invita a resistere in un mondo che vorrebbe cacciarla via. Si può notare che il termine “cannucce” contrapposto alle canne dell’organo auliche caratterizza la materia di Montale che parte dal basso, dal piccolo e da ciò ne consegue il linguaggio.
Il discorso di Montale è sempre un discorso di tono e timbro familiare, potremmo dire borghese. Sono scene individualizzate, episodi, parentesi: ogni cosa è valida solo se si ferma in un ritmo come un “umore” che si modula e trasforma. Trasmette l’esperienza di un uomo che sente intimamente il dramma dell’inconciliabilità tra la vita e la parola, tra una sensibilità capace di cogliere gli aspetti più nascosti dell’esistenza e l’impossibilità di tradurre le sensazioni in parole, il ‘muro’ che impedisce di attingere alla vita.
Dice infatti Montale in “Domande senza risposta”: “se il nome fosse una conseguenza delle cose, di queste non potrei dirne una sola”, ma è evidente, da come viene posta questa ipotesi, che tra nomi e cose rimane una separazione che rende le cose impenetrabili, intangibili dalle parole.
La poesia “La mia Musa” appartiene al Diario del ’71 e del ’72, raccolta priva di un baricentro tematico, ma avente struttura ideologica centrifuga, frammentata, diversificata, venendo trattata in modo esplicito, ragionativo, discorsivo e colloquiale la materia che prima era presentata sotto il velo allegorico e simbolico.
La Musa ora è trasfigurata, ma non viene ipostatizzata, al contrario è abbassata, parte dal suolo e non dal cielo. Questo spiega il nesso che Sanguineti intende: dall’ideologia segue il linguaggio. Ad un ‘abbassamento’ della Musa che scende dal Parnaso non può non seguire anche una diminuzione del livello del linguaggio. La poesia appartiene alla raccolta Diario del ’71 e del ’72, la quinta nella sua produzione: la parola stessa <>, vuota e neutra, vuole probabilmente indicare, oltre che la registrazione dei fatti quotidiani, anche la maggior vicinanza alla prosa e la natura quasi di “appunti” delle poesie proposte. La matrice prosaica risale già a Satura: un ‘pasticcio’ che intride la poesia con la prosa.
Nella sua dichiarazione di poetica, Sulla poesia, Montale analizza “lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere”, in cui la poesia non può sopravvivere, inghiottita dall’universo delle comunicazioni di massa: evoca quasi, nella terza strofa, la selva oscura dantesca, nel “quasi a dirmi cammina non temere, finché potrò vederti ti darò vita” e Montale è il Virgilio che vuole portare in salvo Dante, la poesia.
E’ una musa che si rifà a Blake e Baudelaire: testo non invocativo, ma narrativo e di constatazione che cela dietro lo “spaventacchio” una figura mista, di coincidentia oppositorum: anche sul piano del significante si intrecciano due dorsali timbriche, la vita (esistita-vita-resistito-ritta-riempita) e lo spaventacchio che riporta alla morte oscura.
Ma è importante sottolineare infine che essa non conduce all’impossibilità di fare poesia: la Musa si è solo ingobbita, ma “solo un po’” e anche se scarnificata, ridotta a “cannucce” rispetto all’alta Musa della classicità, è
“la sola musica” che l’autore sopporta, cui non può, per questa ragione, rinunciare.
Eleonora Anselmo, Asti, Liceo Classico ‘V. Alfieri’, 2018
Rossana Levati, ideatrice, coordinatrice, realizzatrice del Progetto
Cosa si è verificato nella poesia montaliana da questi versi di Il ritorno da Le Occasioni ai versi delle 2 poesie precedenti ( magnificamente commentati da Eleonora Anselmo ) tratti dal Diario del ’71 e del ’72?
Si può fare storia della poesia soltanto in modo: adottando l’analisi comparativa dei versi di una poesia, analisi comparativa verso per verso e non facendoci impapocchiare dalle più o meno roboanti dichiarazioni di poetiche: la qualità di un poeta dipende solamente dai versi che scrive e che lascia a testimonianza della sua presenza nell’universo poetico con il quale quel poeta intreccia la sua biografia (altro che millantare inesistenti e false candidature al Nobel…, vuoi di questo, vuoi di quello, e anche di quell’altro…)
gr
Eugenio Montale
Il ritorno
Ecco bruma e libeccio sulle dune
sabbiose che lingueggiano
e là celato dall’incerto lembo
o alzato dal va-e-vieni delle spume
il barcaiolo Duilio che traversa
in lotta sui suoi remi; ecco il pimento
dei pini che più terso
si dilata tra pioppi e saliceti,
e pompe a vento battere le pale
e il viottolo che segue l’onde dentro
la fiumana terrosa
funghire velenoso d’ovuli; ecco
ancora quelle scale
a chiocciola, slabbrate, che s’avvitano
fin oltre la veranda
in un gelo policromo d’ogive,
eccole che t’ascoltano, le nostre vecchie scale,
e vibrano al ronzio
allora che dal cofano tu ridésti leggera
voce di sarabanda
o quando Erinni fredde ventano angui
d’inferno e sulle rive una bufera
di strida s’allontana; ed ecco il sole
che chiude la sua corsa, che s’offusca
ai margini del canto – ecco il tuo morso
oscuro di tarantola: son pronto.
(da LE OCCASIONI)
———————————
gr
Gino Rago sceglie
6 Poeti a confronto (Marek Baterovic, Mario Gabriele, Donatella Costantina Giancaspero, Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura)
per invitare Ennio Abate, autore di commenti di recente proposti su L’Ombra delle Parole, a esercitare la sua analisi comparata sui 6 testi poetici scelti con le dovute, inevitabili conclusioni.
Conclusioni, va da sé, sostenute, soltanto sostenute dalla lettura analitica dei versi di ciascun poeta, premessa ineludibile per l’analisi comparata dei versi interpretati. Codesto, non altri, è il modo di accostarsi all’altrui poesia
senza pregiudizi stroncatori, senza inclinazioni esaltative, stroncature ed esaltazioni inattendibili se non sostenute da solide basi che potremmo dire
di critica letteraria. Tutto il resto, caro Ennio Abate, rischia di apparire e di essere percepita come lana caprina, ovvero polemica per il gusto di avversare, prendendo sé medesimi come riferimento, in una visione abatecentrica…
(Gino Rago)
1- Marek Baterovicz,
La voce di un uccello che chiama la primavera,
solitario contrappunto alla melodia del Tevere
– dell’acqua che infrange contro il fondo sassoso
giare di canti – interroga il futuro.
Dal passato, che anch’esso detta le sue leggi,
giunge il ritmico grido delle legioni
che marciano sui ponti Cestio e Fabricio.
Il mio passo tenta di unirsi al loro
– mi precedono sempre di un lampo di spada.
Anche l’acqua è più rapida correndo immutabile verso il mare,
dove Nettuno possiede da secoli
la corona abbandonata dei cesari.
L’Isola Tiberina salpa allora verso la sorgente del fiume
come nave che mi porta fino alla prima goccia
del sangue di Remo.
(Roma, 1973)
2- Mario Gabriele
Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.
Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.
Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.
Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.
Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.
Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.
Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.
Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.
Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.
3- Donatella Costantina Giancaspero
(dal libro di prossima pubblicazione, Al quadro manca una ragione)
Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli occhi rievocativi
e agli specchi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».
Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…
Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
4- Antonio Sagredo
Dalla X LEGIONE:
—
Iene non nate, Orfeo muore!
E mi congedo dai dettagli e dagli elogi,
dalle sinistre bontà, come un negarsi
ai tragitti e ai banchetti. Sono consunto
dagli arcani. In ceppi, ginestre e palpebre
sotto tumuli di riti.
Consacro la gioia! Celebro la grazia!
Altari di stupori! Scabrosi miti, leggende!
Vigilia, epifanie, attutite le cadute!
Narciso, affossa gli specchi e scanna
l’angelo!
Respiro, io sono figlio della mia Parola!
Come poco c’importa dove mai siamo, e come.
Non più essere e avere, non più canto,
sognare non più… noi vivi, siamo fatti di scongiuri
e di presagi. Sulla soglia la Nemesi…
il sangue ritorna a scudisciate.
Ignaro, trangugi spirali, da secoli, flagelli!
Come (ti) sperona la vita: il gril-let-to sentilo!
Senti come rumina il tamburo e il becchino!
Padre, l’anello dal dito adunco t’ho sfilato, semivivo!
Come la morte è chiusa al canto e al pane raffermo,
e risacche di nerastre risa s’avvolgono, non in bende
ma in nodi e cera, sputo di nero sperma, morbido
sudore di denti. Come smania la bara che ho ingannato!
Come il seme è mùtilo di spirali, di balsami!
In gramaglie, nel pozzo, fuori!
La mia risposta è: riti, riti! Mi ha sorpreso il Caso!
Come sparviero la croce mi artiglia e una giostra
di suoni mi governa. Ascolto gemiti e massacri,
evangeli e cantici interdetti, surrogati di spine,
e oltre gli argini, le misure e i limiti
ti berrò a visioni, a fuochi, a ori,
e nella tua mano sarò il volo,
io, nella tua maschera… ròsa!
Roma, i trentuno giorni di ottobre 1989
—————————
5- Lucio Mayoor Tosi
«Di chi sei figlia, e di chi sei madre?»
Del vento in arrivo all’aeroporto. Non ho valige. Ho attraversato
velocemente il piazzale dei taxi. Un gatto.
Gli occhiali da sole nel taschino del blazer. Passato, futuro
e nel mezzo una croce.
Ti vedo malmesso. Hai piombato d’oscurità il tuo destino.
Non farlo con me.
Per me respira. Io sceglierò parole profumo di fiori del cimitero.
Finte banconote ti lascerò sul comodino
affinché ti possa disperare in libertà. E tu gli ultimi papaveri
di primavera. Ma che siano veri.
Da “L’intervista”. Poema in via di composizione.
6 – Anna Ventura
Utopia è il luogo
in cui vorremmo essere nati,
ma siamo nati altrove.
Utopia è il luogo
in cui avremmo voluto crescere,
e scoprire il mondo,
ma siamo vissuti altrove,
e il mondo ci si è rivelato da solo,
spietato e inevitabile,
pericoloso.
Utopia è il luogo in cui, forse,
non ci sarà nemmeno concesso di morire:
perché anche questo sarebbe un privilegio.
Lungo il percorso
tanto ci siamo compromessi,
con la durezza del mondo reale,
da perdere le ali necessari
a volare tanto in alto.
Ma abbiamo imparato a camminare.
——————————————–
GR
Grazie, Gino.
Per quel che riguarda la mia poesia non sono certo che la versione in distici qui proposta corrisponda al mio modo di intenderli. Io mi ritrovo nel verso-pensiero che si chiude; altrimenti la separazione in distici mi giunge un po’ meccanica, il che non mi piace. O non fa per me, adesso.
Non escludo la possibilità di un ulteriore avanzamento estetico; per ora, siccome non arrivo al distico in seconda istanza ma all’atto della scrittura – nel distico concepisco la poesia, non dopo. E lo dissi, tempo fa, guardate che l’adozione sistematica del distico condizionerà anche il modo di concepire poesia… Per me è avvenuto. E quando ne leggo di altri, ho spesso l’impressione che si tratti di una giustapposizione meccanica; per altro effettuata su testi di indubbio valore, questo ça va sans dire.
Gentile Greco,
se vuole dialogare con me, mi scriva (anche in privato) ed entri nel merito delle questioni che ho sollevato. Non mi invii messaggi criptici ( come quello che ha lasciato stamattina su Poliscritture:http://www.poliscritture.it/2018/08/20/franco-fortini-imbarcato-sullarca-della-noe/#comment-84555). Non mi imponga (o suggerisca, ma dato il contesto, è più probabile la prima cosa) quali esercizi dovrei eseguire per essere ammesso al suo cenacolo (“per invitare Ennio Abate, autore di commenti di recente proposti su L’Ombra delle Parole, a esercitare la sua analisi comparata sui 6 testi poetici scelti con le dovute, inevitabili conclusioni”.). E soprattutto eviti, parlando di sé, di usare la terza persona come Cesare (“Gino Rago sceglie…).
Gentile Rago….ovviamente.
Gentile Abate,
mi sono limitato a invitarLa semplicemente a un esercizio di ermeneutica sui 6 testi poetici compresi nella miniantologia che ho proposto: conosco assai bene l’ermeneutica linguaglossiana, mentre della Sua, mi creda, non so nulla, né conosco il Suo fare poetico.
Per le due domande che Le ho rivolto:
1- Chi erediterà questo mondo?
2- Dove passerai l’eternità?
è appena il caso di ricordarLe che la prima è una delle colonne portanti della ricerca poetica di Ewa Lipska, mentre la seconda sostiene grande parte della esperienza poetica di Z. Herbert.
gr
Gentile Rago,
non mi sono riaffacciato su L’Ombra per confrontare le mie conoscenze ermeneutiche con le sue o con quelle di Linguaglossa o per vedere chi ce l’ha più lunghe e sofisticate. Né per essere sottoposto a indovinelli sui versi di poeti stimabili. Sono qui per un tema che a me sta a cuore: la figura e l’opera di Fortini. Ho detto la mia, contraddetto quella di Linguaglossa. E aspetto ancora eventuali repliche da lui o da altri solerti commentatori de L’Ombra.
Lei, invece, mena il can per l’aia e parla d’altro.
Se poi la sua sull’argomento l’avesse già detta, visto che si riduce a ritenere che io sia mosso da ” pregiudizi stroncatori,[…] inclinazioni esaltative” , che le mie critiche non siano ” sostenute da solide basi che potremmo dire di critica letteraria” o che abbia “il gusto di avversare, prendendo sé medesimi come riferimento, in una visione abatecentrica”, per me non ci sono le condizioni per nessun dialogo. Stia bene.
caro Gino,
la scelta dei testi è stata molto equilibrata.Sottoporli al giudizio del lettore, più che provocazione o esibizione di scrittura polivalente o affiliata alla NOE, è documento di democrazia poetica nei vari aspetti estetici.Si può essere d’accordo o contrari a quanto esposto, anche ricorrendo alla verificazione e alla falsificazione, ma negare il grande conflitto dei segni e dei significati,che ancora oggi sussiste tra Tradizione e Rinnovamento, insomma, determinare un unico criterio di monopolio linguistico e non considerare che esiste anche un pensiero liberale al di fuori di ogni dittatura monolinguistica, è istituzionalizzare una democratura poetica fuori da ogni dialettica.Il sovranismo linguistico del Novecento è stato un progetto strategico delle grandi Case Editrici. Oggi si avverte la necessità di operare diversamente con il linguaggio poetico. “I poeti”, ha scritto Freud,” sono alleati preziosi e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione”.
Si chiede al lettore di sostenere lo sforzo a lasciarsi disorientare. Non lo si vorrebbe tenere per mano.
Ancora nessuna comunicazione si è stabilita
tra noi e i tre veicoli extraterrestri che stazionano
fermi sul porto di Rapallo.
may- ago2918
“ Basta dire araucarie, pirofori, eucalipti, tamarischi, agavi, carrubi, sambuchi, e subito ci si sente dentro la poesia di Montale. Il riscontro della memoria è ormai irresistibile. E si ripete, puntualissimo, quando dalla flora si passa alla fauna: ai galletti di marzo, alle ghiandaie, alle upupe, ai balestrucci, al picchio verde, alle folaghe, ai merli acquaioli”. (Giulio Nascimbeni: Montale biografia)
In un primo momento ho pensato potesse bastare l’elencazione, diversa certo in Gabriele ma forse non in quantità e varietà degli elementi. Il metodo sarebbe quello avveniristico di Umberto Eco semiologo, quando disse del catalogo: si toglie tutto e si gode del retro-poesia.
Cosa ho scritto di Gabriele:
èmbrici e foglie, il postino a casa di Hendrius, il cane Wolf. Perfino il monte Annapurna. Vivaldi e i girasoli, serpi e balestrucci, Virginia e i cani impauriti.
Vero è che non è serio porre a confronto l’intera opera di un poeta con una sola poesia di un altro poeta. Giorgio però ha fatto notare di come embrici e foglie non possano stare ragionevolmente insieme, se non per creare un’immagine… Quindi sembra tutta un’altra faccenda.
Per trovare qualche corrispondenza, intanto bisogna pensare al fatto che anche Montale scrive al presente. Poi che anche Montale è molto visivo (Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera!)… Ne “La casa dei doganieri” tutto accade mentre accade. Ma scordiamoci il neorealismo. Diciamo che nei quattro versi che seguono, in Montale si sente l’influenza del surrealismo:
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
… o la metafisica di De Chirico. Più pertinente. Così mi viene in mente che anche Tomas Tranströmer. Ma questo porterebbe fuori strada.
…
Ecco un pensiero “da sigaretta” (in terrazza) in Mario Gabriele. Anche Montale fumava:
(…)
Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.
Ma qui a me sembra Montale:
Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi, il canto dei balestrucci.
E qui dopo-Satura:
Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.
E’ a questo punto che mi rendo conto del fatto che Gabriele è di una spanna superiore a Montale; non per il cambio repentino di immagine – che questo, Montale, per i suoi tempi non l’avrebbe potuto immaginare – ma la semplice descrizione. La sintesi, che non è più ermetica. Ma è semplicemente un mirabile esempio di quando gli aggettivi possono valere, e fare molto.
Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
L’immagine è filmica, di una cinematografia moderna, nord europea.
Mentre:
la frusta che schiocca e s’attorciglia.
è una metafora che a me fa venire da ridere. Sebbene contenga qualcosa di virile.
…
Rossana Levati mi perdoni.
caro Lucio,
in questo reparto di anatomopatologia poetica, dove introduci il bisturi della vivisezione comparativa e disgiuntiva con i versi di Montale nei quali mi riconosco, pur con le dovute eccezioni, a partire da Ossi di seppia, fino alle Occasioni, come ho potuto sintetizzare in un mio precedente commento. hai posto in essere uno studio nel campo della verificazione valida fino a quando non subentri un concetto che ne contraddica i principi di paragone. Giorgio già ha fatto una dispensa critica di ampia apertura sulla mia poesia come teorizzatore di un nuovo indirizzo estetico. Fonetica, struttura,linguistica, figure grammaticali,ecc. sono gli equivalenti che concorrono a descrivere il mondo nel quale ci troviamo a vivere.Ma non mi esimo in questo breve commento a immettere anche un tratto di rapporti psicologici con una fitta sequenza di lessemi come, hai ben citato tu elencando: embrici, foglie, girasoli, serpi e balestrucci.I riferimenti comparativi dei brevi testi esaminati hanno valore di estrema sintesi da cui si formalizzano i processi psicologici e semiologici. Ti ringrazio per questa tua dissertazione che mi trova senz’altro d’accordo, anche perché entra nel vivo del post introdotto da Linguaglossa.
Avrei voluto andare più a fondo ma non è questo il mio mestiere. L’indagine sui lessemi meriterebbe un trattato che io mai e poi mai, senza il quale non potrei andare a conclusione. Per me un utile e intenso esercizio. Poi l’intuizione arriva quando meno te l’aspetti. Grazie.
Gino Rago
Meditazioni sulla critica letteraria contemporanea
Dialogo immaginario tra Avenarius e Pistorius
Avenarius e il Signor Pistorius non dialogano da tantissimo tempo.
Poi, rompendo gli indugi, decidono di incontrarsi in uno dei tantissimi venerdì della città , di quelli nei quali l’amico parla dell’ultimo libro dell’amica/o e l’amica del più recente libro dell’amico/a.
Alla fine di uno di questi incontri, defilandosi elegantemente, Avenarius
chiede al Signor Pistorius: “Ma è questa udita stasera quella che si dice
esegesi della poesia contemporanea? Quella che più diffusamente viene
detta critica letteraria?”
Il Signor Pistorius, dopo un lieve sbandamento, risponde: “Devi
saperlo, in nome della nostra solida amicizia devi saperlo: non sono
guarito da quel male, da quella patologia che da sempre mi perseguita…”
“Quale, per la precisione, a quale patologia ti riferisci ?” chiede
allarmato e quasi in apnea Avenarius.
“L’etimomania. E’ terribile, credimi”, soggiunge il Signor Pistorius.
Avenarius prima tace e poi lo incalza: “A che proposito confessi questo
male?” E il Signor Pistorius laconico risponde: ” A proposito di ciò che si dice “critica letteraria… Vedi, tutto nasce dall’orzo o dal grano o dal riso.
Dai cereali che vanno chicco a chicco. Bisogna, dopo il raccolto, “ripulirli”
come dice sempre un mio amico poeta di Campobasso, “dalla pula”.
Bisogna selezionarli, sceglierli, vagliarli, per separare i chicchi buoni
da quelli marci. E, soprattutto, per separare quelli ottimi da destinare
alla semina da quelli buoni destinati a farsi cibo quotidiano.
E’ il primo “vaglio critico”, con un vaglio appunto o un setaccio o un crivello. E’ il primo gesto di separazione e di giudizio.
Sbagliare questo primo gesto può mettere in pericolo la sopravvivenza
di una famiglia o di un intero villaggio…E i contadini furono i primi
accorti critici…” Avenarius ascolta, intuisce, ma non è ancora sicuro.
Poi chiede al Signor Pistorius: “E’ bello e saggio ciò che dici. Ma parlavamo prima di critica letteraria…”
E il Signor Pistorius con un filo di voce, come un fiato sottile
suggerisce: “La critica è proprio questo. E’ proprio quest’arte di
scegliere, di dare giudizi, di giudicare. E vale, credimi, con i chicchi di
grano come anche in altri casi e in altri campi, come quelli politici,
quelli giudiziari, quelli pratici. Ma soprattutto vale in campo estetico…”
“Ma allora…” cerca di ribattere Avenarius.
“Perdonami, il viaggio mi ha stancato. Se hai voglia di ascoltarmi e non ti annoio possiamo continuare un’altra volta…”
gr
La poesia 43 è ammantata di un alone struggente, retto con sobrietà dall’artista; che però indulge nella sera a proseguire l’incanto, e scrive una cosa che si sta scrivendo. L’incanto inizia da “Appassì il campo germinato” e segue fino alla fine. Di una dolcezza straordinaria. Nuova ma in questo non differente dalla poesia di Montale che ho citato. Anche in Montale c’è dell’ironia.
…
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Si noti come la maggior parte dei distici, qui messi in evidenza, sono tutti chiusi. E come sopporta bene il distico, questa famosa poesia di Montale!