Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2017 alle 8:59
Prendiamo una poesia di nuovo genere, diciamo, una poesia della «nuova ontologia estetica», una poesia di Mario Gabriele, tratta dal suo ultimo libro, In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017).
Propongo delle considerazioni che improvviso qui che non vogliono avere il carattere di una critica esaustiva ma di offrire indizi per una lettura. Analizzo i primi quattro versi.
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Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.
Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.
Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.
Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.
Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.
Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.
Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.
Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.
Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.
Gli enunciati della poesia hanno una informazione cognitiva ma sono privi di nesso referenziale, hanno però una rifrazione emotiva pur essendo del tutto privi di alone simbolico. Ci emozionano senza darci alcuna informazione completa. Ci chiediamo: come è possibile ciò? Analizziamo alcune frasi. Nel verso di apertura si dice che «il tempo mise in allarme le allodole». Qui Gabriele impiega una procedura antifrastica, le «allodole» sono in allarme non per qualche evento definito ma per un evento indefinito e impalpabile, è «Il tempo» qui l’agente principale che mette in moto il procedimento frastico, infatti il secondo verso ci informa che «Caddero èmbrici e foglie», il che è un paradosso linguistico perché non c’è alcuna connessione logica tra «embrici» e «foglie», e non c’è neanche alcuna connessione razionale, si tratta evidentemente di un enunciato meramente connotativo che ha risonanza emotiva ma non simbolica, anzi, l’enunciato ha lo scopo di evitare del tutto qualsiasi risonanza simbolica, lascia il lettore, diciamo, freddo, distaccato e sorpreso. Nella poesia di Mario Gabriele gli enunciati sono sempre posti in un modo tale da sconvolgere le aspettative di attesa del lettore. È questa la sua grande novità stilistica e procedurale. Il lettore viene sviato e sopreso ad ogni verso. Una procedura che presenta difficoltà ingentissime che farebbero scivolare qualsiasi altro poeta ma non Mario Gabriele.
Infatti, il terzo verso introduce subito una deviazione: «Più volte suonò il postino a casa di Hendrius», il che ci meraviglia per l’assenza di colluttorio con i due versi precedenti: non c’entra nulla «il postino» con la questione delle «allodole» «in allarme». Però, in verità, un nesso ci deve essere se il poeta mette quell’enunciato proprio nel terzo verso e non nel quarto o quinto o sesto. Nella poesia di Gabriele nulla è dovuto al caso, perché nulla lui deve al lettore: il suo tema è atematico, il suo è un tema libero che adotta dei frammenti e delle citazioni vuote, svuotate di contenuto, sia di significato sia di verità. Non si dà nessun contenuto di verità negli enunciati di Mario Gabriele, al contrario dei poeti che si rifanno ad una ontologia stilistica che presuppone un contenuto di verità purchessia e comunque. Nella sua ontologia estetica non si dà alcun contenuto di verità ma soltanto un contenuto ideativo. La traccia psichica che lasciano gli enunciati di una poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera una energia psichica senza confezionare alcuna energia simbolica (diciamo e ripetiamo: come nella vecchia ontologia estetica che ha dominato il secondo novecento italiano).
L’enunciato che occupa il quarto verso recita: «senza la sirena e il cane Wolf». Qui siamo, ancora una volta dinanzi ad una deviazione, ad uno shifter. Anche qui si danno due simboli de-simbolizzati: «la sirena» e il «cane Wolf», tra questi due lemmi non c’è alcun legame inferenziale ma soltanto sintattico stilistico e sono messi al posto numero 4 della composizione proprio per distrarre il lettore e distoglierlo dal vero fulcro della composizione. Ma, chiediamoci, c’è davvero un fulcro della composizione? La risposta è semplice: nella poesia di Mario Gabriele non si dà MAI alcun centro (simbolico), la poesia è SEMPRE scentrata, eccentrica, ultronea, abnormata.
Mario M. Gabriele
19 dicembre 2017 alle 11:16
Caro Giorgio,
leggo con piacere la tua esegesi su un mio testo poetico nel quale esamini con il bisturi di un anatomopatologo, la cellula endogena che dà corpo alla parola. Nessun critico si è mai avvicinato così alla mia poesia, che ebbi modo di esternare, (se ricordi bene) nella tua intervista con la quale si centralizzavano tematiche a vasto raggio sullo statuto del frammento in poesia, ma anche su alcuni temi poetici e filosofici, non sempre recepiti dai lettori. come colloquio culturale, e per questo bisognoso di più attenzione. In una delle tue domande riconosci che i personaggi delle mie poesie sono “gli equivalenti dei quasi.morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito”. Altrove, e sempre sulle pagine di questo Blog, ho sintetizzato il mio modo di fare poesia.
Ricordo un pensiero di Claudio Magris su un lavoro di Barbara Spinelli, quando disse che era arrivato il tempo per il poeta di togliere la scala sulle spalle per salire tutte le volte al cielo, affrontando invece le “cose” terrene. Indagine questa che ho nel mio lavoro accentrato sempre di più, avvicinandomi al pensiero di Eliot nella concezione della poesia come “una unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte, e cioè la voce dei vivi nell’espressione dei morti”. E qui mi sembra di non essere un caso isolato, se anche Melanie Klein, famosa psicoanalista, preleva la matrice luttuosa nella rimemorazione di persone e cose perdute per sempre.
Se ci distacchiamo da questa realtà effimera, se cerchiamo l’hobby o la movida non riusciamo più ad essere e a riconoscerci soggetti-oggetti di una realtà in continua frammentazione. Ecco quindi la giustificazione di una poesia che racchiude in se stessa le caratteristiche di tipo “scentrato” “eccentrico” “atetico” non “apofantico” “plruritonico” e “varioritmico: termini che riprendo dalla tua versione introduttiva da “In viaggio con Godot”. Spiegare al lettore il sottofondo di una poesia, credo che sia il miglior dono che gli si possa fare, senza cadere, tutte le volte che appare un tuo commento sui miei testi, come un surplus critico. La tua è la ragione stessa di essere interprete o guida estetica, cosa, che a dire il vero, si è nebulizzata da tempo da parte della vecchia guardia critica. Con un sincero ringraziamento e cordialità.
Edda Conte
19 dicembre 2017 alle 12:08
E’ una bella risposta, questa del Poeta, alle domande che scaturiscono dalla lettura dei versi di Mario Gabriele. Alla luce di queste motivazioni anche il lettore meno impegnato riesce a respirare l’alito nuovo seppure inusuale di questo fare versi.
Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2017 alle 12:36
La «nuova ontologia estetica» ha sempre a che fare con un nuovo modo di intendere la «cosa», essendo la «cosa» abitata da una aporia originaria che noi esperiamo nell’arte come «cosa» rivissuta ma non facente parte del presente come figura del tempo. È un nuovo modo, con una nuova sensibilità, di intendere l’arte di oggi. Ecco perché per analizzare una poesia della nuova ontologia estetica bisogna fare uso di un diverso apparato categoriale rispetto a quello che usavamo, che so, per spiegare una poesia di Montale o di Caproni… di qui l’oggettiva difficoltà dei letterati abituati alla vecchia ontologia, essi, educati a quella antica ontologia non riescono a percepire che è cambiata l’atmosfera del pianeta «parola»…
In fin dei conti l’aporia della cosa ha a che fare con l’aporia della comunicazione estetica… Intendo dire che una aporia ha attecchito la poesia italiana di questi ultimi decenni: che la poesia debba essere comunicazione di un quantum di comunicabile. Concetto errato, non vi è un quantum stabilito che si può comunicare, anzi, la poesia che contingenta un quantum di comunicabilità cade tutta intera nella comunicazione, diventa un copia e incolla della comunicazione mediatica, di qui la pseudo-poesia di oggi. Occorre, quindi, rimettere la comunicazione al suo posto. Questo concetto va bene quando si scrive un articolo di giornale o quando si fa «chiacchiera» da salotto o da bar dello spot ma non può andare bene quando si scrive una poesia. Il distinguo mi sembra semplice, no?
Gino Rago
19 dicembre 2017 alle 17:32
1) “Povero colui, che solo a metà vivo / l’elemosina chiede alla sua ombra.”
- Osip Mandel’štam
2) “Sappiate che non mi portate via da nessun luogo, che sono già portata via da tutti i luoghi – e da me stessa – verso uno solo al quale non arriverò mai (…) sono nata portata (…)”
Marina Cvetaeva
3) “Il marinaio” di Pessoa. Il protagonista di questo dramma forse non abbastanza noto è un marinaio, un marinaio che all’improvviso naufraga su un’isola sperduta. Il marinaio di Pessoa sa che non ha alcuna possibilità di fare ritorno in patria. Ma egli ne ha un disperato bisogno e allora…
4) “I Deva mi danno una risposta/ (…) mi spiegano che lo spirito è sempre/ anche nella materia./ Perfino nei sassi/ e nei metalli…”
Giacinto Scelsi
Ecco le grandi 4 coordinate dei miei versi recenti, dal ciclo troiano a Lilith, passando per gli stracci, i cascami, gli scampoli, le intelaiature della Storia.
Gino Rago
19 dicembre 2017 alle 17:55
Brano tratto da Il marinaio di Fernando Pessoa:
” (…) Poiché non aveva modo di tornare in patria, e soffriva troppo ogni volta che il ricordo di essa lo assaliva, si mise a sognare una patria che non aveva mai avuto, si mise a creare un’altra patria come fosse stata sua.
(…) Ora per ora egli costruiva in sogno questa falsa patria, e non smetteva mai di sognare (…)
(…) sdraiato sulla spiaggia, senza badare alle stelle. […]

Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo
Donatella Costantina Giancaspero
19 dicembre 2017 alle 19:51
caro Gino Rago,
questa idea di una poesia fatta con gli scampoli, gli stracci, i rottami, i frantumi etc. è una idea, mi sembra, nuova per la poesia italiana, penso che bisogna lavorare su questo, impegnarsi. Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo. A mio parere, in questo tipo di poesia ci rientra benissimo la poesia di Lucio Mayoor Tosi, lui è un capofila, un capotreno.
Per tornare alla lettera “interna” che Fortini indirizza alla redazione di “Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi, a mio avviso, qui Fortini dimostra una grande lucidità intellettuale nell’individuare il “lato debole” della posizione della rivista. Leggiamolo:
«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura –
E adesso pongo una domanda ai lettori e alla redazione: qual è a vostro parere il “lato debole” (uno ce ne sarà, penso) della rivista L’Ombra delle Parole?
Mario M. Gabriele
19 dicembre 2017 alle 23:19
Cara Donatella,
sempre se ho interpretato bene, e il lato debole non si configuri in un deficit limitato della Rivista come impianto organizzativo, mi soffermerei sul “pensiero debole” di Vattimo, come proposizione alternativa alla metafisica e ai Soggetti Forti quali Dio e L’Essere.Qui vorrei soffermarmi sul pensiero debole della Rivista,che cerca e tenta di tornare a un concetto di poesia, funzionale ad una nuova ontologia estetica, rispetto al vecchio clichè poetico del Novecento, sostituendolo con un nuovo cambio di pagina, attraverso il pensiero poetante.
Uscire dalla poesia istituzionale e omologata, significa, proporsi come soggetto nuovo, proprio come si formalizza oggi la NOE, abbandonati gli schemi e le fluttuazioni estetiche del secolo scorso. Una volta depotenziata questa categoria, inattuale di fronte al mondo che cambia in biotecnologie e scienze varie, l’essere-parola o lingua, ricostruttiva e risanatrice, diventa una urgenza non prorogabile, come l’unico modo per superare il postmoderno e il postmetafisico. Qui converrà articolarsi su ciò che da tempo va affermando Giorgio Linguaglossa su l’Ombra delle parole, che solo istituendo una poesia fondante su un nuovo Essere, verbale e stilistico, depotenziando il pensiero forte, si possa istituire un nuovo valore linguistico, inattivando le succursali poetiche e linguistiche resistenti sul nostro territorio, attaccando le categorie su cui si sono consolidate le modalità più resistenti della Tradizione, al fine di progettare un nuovo percorso che sia di indebolimento dei fondamenti poetici del passato.
Donatella Costantina Giancaspero
20 dicembre 2017 alle 13:53
Copio dal Gruppo La scialuppa di Pegaso la risposta di Gabriele Pepe alla mia domanda:
Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole?
Risposta:
La rivista soffre degli stessi problemi di cui soffrono tutte (quelle serie) riviste, blog et simili sulla rete. La velocità. Tutto scorre velocemente, troppo velocemente. Ogni cosa alla finne annega nel mare infinito del web. Mi permetto dei piccoli consigli:
1) Lasciare i post il tempo necessario per poter essere “compresi” e dibattuti in modo esauriente, o quasi. Quindi postare meno, postare più a lungo.
2) Lasciare traccia visibile di tutti gli autori ospitati, dibattuti, approfonditi, magari con un database in ordine alfabetico. Stessa cosa per argomenti, critiche, storia ecc. Mettere un motore di ricerca interno.
Aggiungo che, a volte, ma è assolutamente normale e ampiamente comprensibile, pecca un po’ di troppa autoreferenzialità, soprattutto quando vorrebbe far intendere che oggi l’unico modo di scrivere poesie deve essere alla NOE, tutto il resto è fuori dal contemporaneo. Ovviamente, per quel che conta, non sono d’accordo, anzi… Cmq, non per fare il cerchiobottista, non finirò mai di ringraziare tutta la “cricca” dell’Ombra per l’enorme lavoro, il coraggio di certe proposte, l’incredibile varietà di autori ed argomenti trattati sempre di livello superiore.
Vi ringrazio infinitamente. Seguendo, per quel che posso, la rivista, credo di aver accresciuto i miei orizzonti non solo poetici. Grazie!
[il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione»]
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Giorgio Linguaglossa
20 dicembre 2017 alle 9:32
Il lato debole della nuova ontologia estetica?
Credo che la domanda di Donatella Costantina Giancaspero sia una domanda centrale alla quale bisognerà rispondere. Cercherò di essere semplice e diretto e di mettere il dito nella piaga.
Vado subito al punto centrale.
A mio avviso, il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione». Tutta la poesia che è venuta dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Caproni è fondata sull’appiattimento della forma-poesia sul livello della «comunicazione»; si è pensato e scritto una poesia della comunicazione dell’immediato, si è pensato ingenuamente che la poesia fosse un immediato, e quindi avesse un quantum di comunicabile in sé, che la poesia fosse «l’impronta digitale» (dizione rivelatrice di Magrelli) di chi la scrive. Il risultato è che i poeti venuti dopo quella generazione d’argento, la generazione di bronzo: i Dario Bellezza, i Cucchi, Le Lamarque, i Giuseppe Conte… fino agli ultimissimi esponenti della poesia «corporale»: Livia Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri e ai minimalisti romani: Zeichen e Magrelli (ed epigoni), tutta questa «poesia» è fondata sulla presupposizione della comunicabilità e comprensibilità della poesia al più grande numero di persone del «quantum» di comunicabile.
È chiaro che la posizione dell’Ombra delle Parole si muove in una direzione diametralmente opposta a quella seguita dalla poesia italiana del tardo novecento e di quella del nuovo secolo. Da questo punto di vista non ci possono essere vie di mezzo, o si sta dalla parte di una poesia della «comunicazione» o si sta dalla parte di una «nuova ontologia estetica» che contempla al primo punto il concetto di una poesia che non ha niente a che vedere con la «comunicazione».
È questo, sicuramente, un elemento oggettivo di debolezza della nuova ontologia estetica perché abbiamo di fronte un Leviathano di circa cinquanta anni di stallo, per cinquanta anni si è scritta una poesia della comunicazione, forse nella convinzione di recuperare in questo modo la perdita dei lettori che in questi decenni ha colpito la poesia italiana. Il risultato è stato invece il progressivo impoverimento della poesia italiana. Credo che su questo non ci possano essere dubbi.
Penso che al di là di singole teorizzazioni e di singoli brillanti risultati poetici raggiunti dagli autori che si riconoscono nella nuova ontologia estetica, questo sia il vero «lato debole» della nostra «piattaforma», un’oggettiva debolezza che scaturisce dai rapporti di forze in campo: da una parte la stragrande maggioranza della poesia istituzionale (che detiene le sedi delle maggiori case editrici, i quotidiani, le emittenti televisive, i premi letterari etc.), dall’altra la nostra proposta (che non può fare riferimento a grandi case editrici e all’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa). Anche perché il successo delle proposte di poetica nuove passa sempre per la sconfitta della poesia tradizionale, la storia letteraria la determinano i rapporti di forza, non certo le capacità letterarie dei singoli.
Per tornare alla questione poesia, penso che questo articolo sul rapporto Montale Fortini sia di estremo interesse perché mostra la grandissima acutezza del Montale nel mettere a fuoco il problema che affliggeva la poesia di Fortini. Montale mette il dito nella piaga, e Fortini lo riconosce. Siamo nel 1951, già allora la poesia italiana era immobilizzata da tendenze «religiose» (un eufemismo di Montale per non dire “ideologiche”) che avrebbero frenato l’evoluzione poetica della poesia di Fortini… quelle tendenze che in seguito, negli anni ottanta, sarebbero diventate a-ideologiche, ovvero si sarebbero invertite di segno, per poi assumere, durante gli anni novanta e negli anni dieci del nuovo secolo, forme di disarmo intellettuale e di disillusione, forme istrioniche…
In quella lettera di Montale si può leggere, in filigrana e in miniatura, l’ulteriore cammino che farà nei decenni successivi la claudicante poesia italiana del tardo novecento, con la sua incapacità di rinnovarsi su un piano «alto». Insomma, diciamolo netto e crudo, nessun poeta italiano interverrà più, dalla metà degli anni settanta ad oggi, a mettere il dito nella piaga purulenta… ci si accontenterà di salvare il salvabile, di pronunciare campagne di acquisizione sul libero mercato di frange di epigoni, campagne auto pubblicitarie, si lanceranno petizioni di poetica e di anti-poetica a scopi pubblicitari e auto commemorativi… E arriviamo ai giorni nostri…
Anna Ventura
20 dicembre 2017 alle 10:39
Caro Giorgio,
già mi inorgoglivo nel sentirmi nel ruolo di “commilitone” (parola ganzissima,che non potrò dimenticare),quando il tuo pessimismo che afferma”la storia letteraria la determinano i rapporti di forza,non certo le capacità letterarie dei singoli”mi riporta alla realtà più cruda,che mi rifiuto di accettare. Credo che siano le capacità letterarie dei singoli, se bene organizzate in un gruppo serio, a dare il colpo d’ala ad ogni stagnazione. Saluti dalle truppe cammellate, pronte a uscire dalle oasi più remote,a difesa delle patrie lettere.
Giorgio Linguaglossa
20 dicembre 2017 alle 10:49
Estrapolo un pensiero di Steven Grieco Rathgeb da un suo saggio che posterò nei prossimi giorni:
(Sia detto di passaggio che dopo il grande crollo della poesia e della letteratura avvenuto nel secondo Novecento, l’unica analisi di un testo ’letterario’ che oggi riesce pienamente a soddisfare il lettore è quella di un nuovo, inesplorato metodo critico-creativo: quello che non fa una parafrasi del testo, né l’analizza con gli strumenti critici del passato ormai inservibili, ma invece si serve del testo (e anche rende servizio al testo!) per aprire nuove prospettive, nuove ardite immaginazioni, quasi fosse un testo creativo già di per sé. Un metodo spesso adottato da Giorgio Linguaglossa, ad es.)
Giorgio Linguaglossa
20 dicembre 2017 alle 11:41
Estrapolo un pensiero di Paolo Valesio da un suo saggio apparso in questa rivista sulla poesia di Emilio Villa:
Parrebbe un’ovvietà, che ogni convegno o libro collettivo o simili (si tratti di critici letterari o di, per esempio, uomini politici) sia fondato sull’idea di un confronto critico fra valutazioni e posizioni diverse. E invece questa ovvietà – come tante altre – è tutt’altro che ovvia. In effetti, la difficoltà di trovare un‘autentica divergenza di posizioni tra i critici letterari che si occupano di un dato autore – la difficoltà di trovare dentro il coro almeno un critico o una critica a cui quell’autore “non piace” (uso quest’espressione semplicistica come abbreviazione approssimativa) – è solo uno dei tanti indizi (ma non è il minore) dello statuto ancora precario del costume democratico in Italia, al di là dei superficiali effetti di democrazia (penso all’ effet de réel di cui parlava Barthes) creati dall’ideologia, che comunque in Italia è generalmente a senso unico.
Giorgio Linguaglossa
20 dicembre 2017 alle 15:57
Crisi della poesia italiana post-montaliana. Il «Grande Progetto»
Tracciando sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola dopo Satura (1971).
Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).
Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltàdi Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.
Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]
Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…
Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.
Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».
A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».
Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.
Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.
Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.
Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.
Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde(1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni
Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.
Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.
Non bisogna dimenticare la riproposizione di un discorso lirico aggiornato da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein:i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.
Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo ma pur sempre entro la linea del modernismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna.
È doveroso segnalare che in questi ultimi anni ci sono state altre figure importanti che ruotano intorno alla «nuova ontologia estetica»: Mario M. Gabriele con Ritratto di Signora (2015), L’erba di Stonehenge (2016) In viaggio con Godot (2017), Antonio Sagredo con Capricci (2016), e poi Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Donatella Costantina Giancaspero, Francesca Dono, Giuseppe Talia, Edith Dzieduszycka.
È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici della «cronaca mediatica». La composizione adotta la veste di commento. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «di visione del mondo»; il risultato è che la micrologia convive e collima con il solipsismo asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.
Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.
Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».
1] T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1970, p. 37.
Lucio Mayoor Tosi
20 dicembre 2017 alle 23:38
Di Maio
«Solo i versi di un poeta possono cancellare la memoria
in meno di un istante».
Glielo disse ruotando attorno al vassoio
nel mezzo di una stanza.
«Per ritrovare la memoria bisogna scendere di un gradino.
Poi l’altro, poi l’altro».
«Al massimo tre, da che il vuoto si è avvicinato».
Luigi Di Maio s’aggiusta la cravatta.
Entra nell’ascensore.
Posto qui una poesia inedita di
Laura Canciani.
a a.s.
Questa volta saliamo sul ring.
Tu, con le tue vesti lunghe rosse fruscianti
– eresiarca di un fuoco baro –
io, con vestaglietta da cucina
e un occhio già ferito
da lama spinta:
potrei indossarle tutte le scarpette rosse
che girano vive tra luci e pareti
disattente.
Round primo:
quale arbitrocritico non esulta per il colpo
“Orfeo e Euridice”?
Round secondo:
creami adesso, qui, il più piccolo
fiore rosso…
Un colpo basso, a testa bassa, feroce
contro le regole
non viene perdonato.
La folla, a tentoni, monta le corde impoetiche
in un ridere di onda d’urto
che disfa persino l’invisibilità.
Provo dolore consapevole nel prodigio
del silenzio
ma sono viva e da viva mi giunge una voce
strana, anglosassone, elegante, come crudele.
«Liberati»
«Liberarmi, da che cosa?»
«Tu lo sai»
«Sì, liberarmi da tutta la zavorra
che impedisce la santità».
Commento estemporaneo di Giorgio Linguaglossa
Come si può notare, qui siamo in presenza di un tipo di discorso poetico che adotta il verso «spezzato»; ripeto: «spezzato». Questo è appunto il procedimento in uso nella poesia più aggiornata che si fa oggi dove il verso cosiddetto libero è stato sostituito con il verso «spezzato», singhiozzato…
E questo è il modus più proprio del poeta moderno erede della tradizione di un Franco Fortini, lui sì ancora addossato alla linea umanistica del novecento… ma Laura Canciani è una poetessa che non può più scrivere «a ridosso del novecento», semmai, oserei dire che può sopravvivere «nonostante» il novecento…
Oggi al poeta di rango può essere concessa solo una chance: il verso e il metro «spezzato»… che è come dire di una creatura alla quale abbiano spezzata la colonna vertebrale…
Gino Rago
18 dicembre alle 18.30
Dopo Lilith
(Dio presenta Eva ad Adamo)
“(…) Ti sento solo. Ecco l’altra compagna.
Ingoia l’acqua delle tue ghiandole
ma non superare la soglia.
Stai molto attento a non far piangere questa donna.
Io conto una ad una le sue lacrime.
Questa donna esce
dalla costola dell’uomo non dai tuoi piedi
per essere pestata
(né dalla tua testa
per sentirsi superiore).
Questa volta la donna esce dal tuo fianco per essere uguale.
Un po’ più in basso del braccio per essere difesa.
Ma dal lato del tuo cuore.
Per essere amata. Questo ti comando.(…)”
Adamo le sfiora le spalle. La distanza nel buio si assottiglia.
Un sibilo invade il giardino di gigli.
Dall’e-book del Liceo ‘V. Alfieri’ di Asti su aspetti decisivi della poesia italiana contemporanea estraggo dall’ultimo capitolo ‘Alla tredicesima ora’ di Mario Gabriele, commentata dalle valorose alunne liceali Irene Gado e Martina Gianotti, coordinate, guidate, illuminate da Rossana Levati.
Nota.
Come in precedenza ho già fatto con la poesia di Giorgio Linguaglossa, anche nel caso di ‘Alla tredicesima ora’ di Mario Gabriele mi prendo la libertà di ri-proporre il componimento inedito estratto dall’e-book in forma di distici.
Si ché il rendimento semantico-estetico e anche emotivo dei versi fa entrare con tutta la sua potenza cinetico-metaforica questa poesia al centro del Grande Progetto della NOE.
(gino rago)
LA PAROLA DELLA POESIA: UN VIAGGIO NEL NON-SENSO DELL’OGGI.
MARIO M. GABRIELE, “ALLA TREDICESIMA ORA”
Mario M. Gabriele
Alla tredicesima ora (inedito)
Alla tredicesima ora non successe nulla,
né il Big Ben, né il suono della sirena.
L’orologio ripartiva dopo mezzanotte.
Il soggetto si era liquefatto.
Non bastavano i fantasmi, le acrimonie,
a scadenzare l’Essere nel Tempo,
il punto fermo da cui ricominciare.
la TAC era già un avviso di partenza.
Il cane Mingus chiedeva aiuto
prima di passare nell’altro giardinetto.
Il senso non ha vincoli,
si espande e annulla il finito e l’infinito,
i frammenti in rovina:
dissolvimento dei Fondamenti:
Tempo interno e Tempo esterno, il sensorio,
la crisi della Grande Idea e dell’Universo.
Tachicardia per il sangue che non arriva.
L’unica porta per non uscire
è il limbo prima del Fiat Lux.
Celeste, suorina nel monastero delle Trentatre
dove a sera accendi i candelabri
per la mensa dell’Abate,
fuori dalla clausura c’è la vera vita.
Amo il tuo foulard.
-Stai bene oggi? Eppure esisti
in ogni Benedicamus Domino
et Deo gratias!. Un bel pasticcio
-to be or not to be-.
Ieri, sono stato nel giardino dove cresce la cicuta.
Ora molte cose diventano chiare.
Non so cosa facessi nel cimitero.
Ma ci stavo per nonna Eliodora, e mammy,
e Virginia Wolf e tutte le filastrocche di Spoon River.
Commento di Irene Gado e Martina Gianotti, Liceo Classico V.Alfieri-Asti
Ne “Alla tredicesima ora” Mario M. Gabriele presenta attraverso una semplice banalità di sintagmi staccati e frammenti delocalizzati il senso profondo della poesia stessa: l’alienazione dell’uomo che per la prima volta si trova davanti al vero significato della vita e all’immensità dell’Universo. Il testo sembra tuttavia piuttosto complesso e non di immediato accesso, probabilmente si rivolge a un lettore dalla solida formazione letteraria.
All’inizio della lirica vi è un riferimento alla luna blu, quella, appunto, della tredicesima ora, simbolo della fine di un ciclo che potrebbe portare ad una nuova palingenesi, ma che tarda ad avvenire , anzi sembra persino che finita l’ora tutto ricominci come sempre . Nonostante il riprendere del ciclo, l’essere umano sembra perdere i suoi connotati spazio temporali caratteristici del suo essere nell’Universo: risulta quasi essere inconsistente e non più capace di vivere in quella realtà che una volta era la sua quotidianità.
La poesia nei suoi snodi presenta pezzi fortemente sconnessi tra loro, come se la mente del poeta, cercando di afferrare e comprendere il tutto dell’Universo e quindi anche la condizione umana, non riuscisse ad incanalare in un’unica direzione il suo flusso di pensieri.
queste strofe evidenziano bene ciò che il poeta sta cercando di cogliere e di comprendere, ma tale tentativo fa scontrare tra di loro il finito, ossia l’uomo, e l’infinito, a cui corrisponde l’Universo, e allo stesso tempo li espande eliminando i loro limiti: questo porta al frantumarsi di tutti quei precetti e quelle nozioni che l’individuo credeva solidi fondamenti della vita: lo stesso tempo, nella dualità riscontrata da Bergson tra tempo della matematica-fisica (il ) e la durata (il ), viene dissolto.
Tutte queste percezioni potrebbero portare alla morte dell’uomo , in quanto la paura del dissolvimento lo blocca e gli toglie ogni possibilità di sopravvivenza; :in questo verso il poeta con la parola potrebbe intendere sia l’essere fuori dalla vita, e quindi la morte, sia “l’uscire fuori di testa” , la pazzia a cui tali avvenimenti possono condurre, ma c’è una via di salvezza: per sopravvivere al nulla, che è allo stesso tempo tutto, l’uomo può rinchiudersi volontariamente in quel limbo in cui l’Universo stesso si trovava prima della creazione divina, una realtà a parte, come una sorta di mondo parallelo in cui l’individuo può rifugiarsi e nascondersi. Ma subito dopo, attraverso l’ammonimento che il poeta rivolge alla “suorina” Celeste, la persona viene distolta da questo possibile nascondiglio del limbo in quanto .
Nella parte finale della lirica il linguaggio e la sintassi usata dal poeta diventa ancora più astruso e complicato, in un continuo intrecciarsi di pensieri diversi, tecnica che ricorda quasi il flusso di coscienza usato da James Joyce e la stessa Virginia Woolf, citata anche all’interno del testo. Il percorso di queste ultime strofe, che sembrano riprodurre in una sorta di microcosmo le tematiche già trattate precedentemente, passa attraverso la confusione dell’uomo di fronte alla propria esistenza , per giungere alla fine determinata dalla morte: si mescolano più linguaggi in un intreccio fortemente ironico, dove il poeta strizza l’occhio alla Genesi (“Fiat lux”), al dubbio amletico (“to be or not to be”) che diventa il nostro dubbio collettivo, alle formule sacre della liturgia cattolica, falsa consolazione (“Deo gratias”). Ma, quasi inaspettatamente, è proprio con il cessare della vita che il poeta, che sta per l’uomo stesso, riesce finalmente a comprendere il senso della vita e dell’Universo, che prima apparivano oscuri ; e infine, come dei propri cari e di tutte le persone che già hanno affrontato questo percorso (elemento che si evince dal riferimento a Spoon River) rimane solo la memoria che si recupera nei cimiteri, così del poeta non è rimasto che il ricordo.
Dal Capitolo dell’e-book, realizzato con le sue Allieve da Rossana Levati al Liceo Classico ‘V.Alfieri’ di Asti, proposto come I LUOGHI DELLA POESIA CONTEMPORANEA, estraggo e condivido “Utopia” di Anna Ventura, con il commento di Margherita Marchiando, classe VB del Liceo Cl. Alfieri di Asti
“Quando l’orrore scemò si spensero i riflettori
scoprimmo di essere su un immondezzaio”
(Z. Herbert, “Risveglio”)
UN ALTRO LUOGO, NESSUN LUOGO
Anna Ventura, Utopia
“si giunge a un punto
dove si schiudono i confini
anzi
dove tutto diviene confine”
(T. Tranströmer, “Mari baltici”)
Anna Ventura
Utopia (inedito)
Utopia è il luogo
in cui vorremmo essere nati,
ma siamo nati altrove.
Utopia è il luogo
in cui avremmo voluto crescere,
e scoprire il mondo,
ma siamo vissuti altrove,
e il mondo ci si è rivelato da solo,
spietato e inevitabile,
pericoloso.
Utopia è il luogo in cui, forse,
non ci sarà nemmeno concesso di morire:
perché anche questo sarebbe un privilegio.
Lungo il percorso
tanto ci siamo compromessi,
con la durezza del mondo reale,
da perdere le ali necessarie
a volare tanto in alto.
Ma abbiamo imparato a camminare.
Commento di Margherita Marchiando, classe V B
Il termine utopia che dà il nome a questa poesia può essere inteso in due diversi modi: come derivante dal greco eutopeia composto da eu (buono) e topos (luogo) oppure da outopeia composto da ou (non) ed topos (luogo), per questo può essere inteso come buon luogo oppure non luogo, cioè luogo inesistente.
Questo è uno dei motivi su cui si gioca la poesia, in cui si narra infatti di un posto ideale (l’ottimo luogo), pur mettendo in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
L’ utopia per Anna Ventura è il luogo dove vorremmo essere nati ma dove purtroppo non siamo nati, dove avremmo voluto vivere ma non abbiamo potuto farlo. Noi abbiamo dovuto invece vivere in questo mondo spietato che non abbiamo potuto scegliere ma ci è stato imposto e dal quale secondo lei non è possibile scappare. Nell’utopia secondo l’autrice non potremmo neanche morire perchè anche questo sarebbe un privilegio troppo grande: ormai infatti ci siamo compromessi vivendo in questo mondo pericoloso, con la durezza di questo mondo abbiamo perso ormai le ali e non siamo in grado di volare tanto in alto, anche se abbiamo però imparato a vivere su questa terra. Il motivo grazie al quale abbiamo imparato a vivere è l’umiltà che ci ha permesso di comprendere la nostra condizione e da un lato ci ha fatto rassegnare, dall’altro ci ha costretti a non sperare in una realtà migliore ma a vivere questa realtà come fosse l’unica possibile.
Da questa poesia si evince molto bene cosa pensa la poetessa della vita e la sua visione pessimistica: per lei infatti siamo condannati a vivere in questo mondo da cui è impossibile evadere. Siamo ormai diventati servi di questa quotidianità ma al tempo stesso possiamo, con un briciolo di speranza, conservare nel cuore l’immagine di un posto migliore che almeno nella nostra mente nessuno ci potrà togliere.
Il pessimismo può anche diventare motivo di ottimismo, come il “ma” del verso finale ci fa capire. L’autrice infatti riesce sempre a indicarci un lato positivo nelle cose: se non possiamo più volare verso mete irraggiungibili o troppo lontane, possiamo però camminare, con i piedi per terra: non avremo più illusioni ma sapremo cosa aspettarci e come affrontare il mondo che ci circonda, senza rinunciare però a una speranza segreta da tenere tutta per noi.
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Ascoltiamo le parole di un maestro della musica contemporanea, Salvatore Sciarrino, sulla «composizione»:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/17/analisi-dei-primi-quattro-versi-di-una-poesia-di-mario-gabriele-quesito-di-donatella-costantina-giancaspero-qual-e-a-vostro-avviso-il-lato-debole-della-rivista-l/comment-page-1/#comment-37224
«…è come se io partissi a rovescio, immaginassi il punto di arrivo e poi studiassi come arrivarci, e questo secondo me rovescia un po’ il modo di procedere della composizione così come la conosco io attraverso la scuola… per me l’immaginazione sonora è la prima cosa, il che non vuol dire soltanto immaginare un suono ma immaginare il modo verso il quale tu vai e dentro il quale tu vuoi visitare e che contiene delle cose che ti attirano e ti danno la voglia di prenderle con te e mostrarle agli altri… se non avviene dentro di noi uno sforzo molto forte di superare, non gli ostacoli, ma proprio di bucare i muri… aprire porte dove non ci sono porte, noi non otteniamo nessun risultato. Un pezzo di musica in più o in meno non ci serve, noi abbiamo bisogno di cose che ci sorprendono, che ci rapiscano e ci trasformino. Quindi, la prima fase ideativa, è decidere in quale parte dell’universo noi ci stiamo recando… dentro quale parte ci vogliamo avventurare, questa è la prima cosa, il resto è già scontato, perché se c’è la immaginazione di una nuova opera, il resto riguarda più i dettagli o come realizzarla»
Giorgio Linguaglossa, attraverso Salvatore Sciarrino, ci propone questa meditazione universale, valida per tutte le Arti e soprattutto per il fare poesia:
“[…] Un pezzo di musica in più o in meno non ci serve, noi abbiamo bisogno di cose che ci sorprendono, che ci rapiscano e ci trasformino. Quindi, la prima fase ideativa, è decidere in quale parte dell’universo noi ci stiamo recando[…]”
Gino Rago
La sella vuota
“Cari poeti delle parole morte,
il vostro viaggio è finito.
La corsa senza freni sui prati
è terminata.
A che vi serve il cavallo?
Restituite al mondo la sella ormai vuota.
Non vi serve più l’aria.
Restituite l’ossigeno a chi saprà ingoiarlo.
Scrivere per sé stessi
carezzando l’io, il mio, il soltanto io
spinge le parole nell’abisso di ghiaccio.
Regalate il cavallo. Restituite l’aria.
Lasciate la sella vuota a chi saprà usarla.
Cari poeti delle foglie appassite,
se dite ‘futuro’ il presente vi divora.
Se dite ‘vita’ la morte vi frantuma.
Giorgio ha ragione, non c’è destino
per le parole morte. Trascinate versi,
amori, parenti, amici nella valigia,
congedatevi dal mondo senza cerimonie.
Siete già nel gelo universale, senza rimpianti
restituite l’aria che respirate,
il cavallo e la sella vuota.”
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Ho l’impressione – di questa solo si tratta, purtroppo per me, in quanto sono solito creare e penso poco – che le cose di Magrelli siano di comunicazione istituzionale; cose dello Stato che ufficializza se stesso. Il poco divertente minimo comune denominatore che, stando a quanto leggo in questo articolo, potrebbe rappresentare la fine della “poesia della comunicazione”; la quale avrebbe inizio da una presa d’atto, scelta o constatazione, operata dal genio Montale, a iniziare dal libro Satura.
Rileggendo la poesia 43 di Mario M. Gabriele (un giorno si scoprirà cosa si nasconde dietro quella sua M. nel nome?), ho avvertito una qualche vicinanza col Montale de “La casa dei doganieri”. Capisco da me l’assurdità, eppure in questa luce ho ho provato a confrontare: laddove Giorgio parla di “un contenuto di verità purchessia” ancora presente nella vecchia ontologia estetica, sta il punto e la grande differenza. Ma già poesia, in quel Montale – come d’altra parte anche in “Genova”, postata ieri, di Dino Campana, seppure sia tanto diversa – sembrava volgere al disgelo, tanto da far pensare a un oltre orizzonte, che a quel tempo era però inimmaginabile.
Mario M. Gabriele, quel salto oltre lo fa ( di un salto si tratta, non c’è altra via); ma sembra a me che poesia 43 come per mitosi da quel Montale sia pervenuta:
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Mi piace anche osservare che la prospettiva retroattiva che si apre, dal momento in cui si comincia a intendere la poesia coi criteri della nuova ontologia, rivela aspetti che la critica, pur che li abbia già ampiamente valutati, ha però mancato di separare… un po’ come si fa per mondare la frutta, o il riso, per renderli meglio commestibili. D’altronde forse non rientra nelle sue competenze.
Riletta oggi, La casa dei doganieri smette di sembrarmi tanto lontana.
Anche se l’In Viaggio con Godot resta ormai definitivo, irrinunciabile.
E’ ancora agosto.
Il Confronto tra la poesia di Eugenio Montale, Le occasioni,(1926) e quella di Mario Gabriele, In viaggio con Godot (2017) E una Intervista inedita a Montale
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/17/analisi-dei-primi-quattro-versi-di-una-poesia-di-mario-gabriele-quesito-di-donatella-costantina-giancaspero-qual-e-a-vostro-avviso-il-lato-debole-della-rivista-l/comment-page-1/#comment-37229
caro Lucio,
è agosto e con questo caldo non sono poi tanto lucido. Sono appena reduce da una campagna requisitoria condotta da parte di alcuni «poeti ingenui» i quali hanno postato, con i corpi dei morti di Genova ancora caldi, le loro pseudo-poesie su facebook. Io mi sono permesso di rimarcare loro il gusto non prelibato di redigere e pubblicare le loro poesiole non appena caduto il ponte e la strage che ne è seguita. Loro si sono difesi dicendo che avevano preso ispirazione dai morti sotto le macerie. Si è scatenata una bagarre da parte degli pseudo-poeti, con a capo Mariagrazia Calandrone, la quale mi ha accusato di farmi «pubblicità» (pensa un po’ sarei stato io il reprobo che si voleva fare «pubblicità», non lei e gli altri suoi adepti).
Penso che forse sono io il pre-moderno, io ho ancora il senso del pudore verso i morti, non mi sarebbe mai saltato per la testa di pubblicare qualche mia poesiola dedicata ai morti il giorno stesso della caduta del ponte di Genova. O forse mi sbaglio, sono io ad essere completamente fuori della contemporaneità, della realtà… e sono loro i veri contemporanei…
Il tuo accostamento tra una poesia di Montale de Le occasioni (1936) e una poesia di Mario Gabriele di In viaggio con Godot (2017), non penso che sia campata in aria, c’è qualcosa che le accomuna, c’è un filo conduttore tra le due poesie. Complimenti per l’acutezza del tuo sguardo.
Penso che la differenza fondamentale tra l’ontologia estetica del Montale de Le occasioni e la nuova ontologia estetica di Gabriele sia da rinvenire nella questione dell’essere. Montale quando scrive Le occasioni pensa ancora alla identità di essere e fondamento, pensa che nel fondamento, cioè nell’essere si possa scorgere un barlume dell’essere. Penso che Montale al tempo della stesura delle sue poesie non avesse letto né avuto sentore di Essere e tempo (1927) di Heidegger che all’epoca non era stato ancora tradotto in italiano. E per fortuna, così Montale può ancora illudersi che tra essere e fondamento vi sia un collegamento, una isoipsa. Di qui la sua grande poesia, che è in sostanza una grande elegia, una elegia sulla dissoluzione del fondamento, ma sempre ancora percepito come fondamento. Non sfiora la mente di Montale che la questione è stata rivoluzionata dal pensiero di Heidegger, che cioè tra essere e fondamento non c’è nulla in comune, che non è più possibile identificare l’essere con il fondamento.
Mario Gabriele pensa a fare una poesia modernista, ma lo pensa dopo ottanta anni dalla poesia di Montale, Gabriele sa che ogni rapporto di fondazione si dà sempre all’interno di singole epoche dell’essere, e che le epoche dell’essere sono «aperte» in quanto non fondate dall’essere. E l’«apertura» per Gabriele significa che le epoche dell’essere non sono più leggibili con la grammatica e la sintassi della antica e nobile elegia della tradizione europea, con l’elegia di Montale, ma con una sorta di, direi, nuova elegia fondata su una nuova ontologia estetica. A dirlo, così in due parole, sembra facile, un concetto di facile accesso, ma la distanza tra la due posizioni (quella di Montale e quella di Gabriele) era enorme, bisognava tirare le somme e le sottrazioni di ottanta anni di stagnazione stilistica e di pensiero poetico italiani. Mario Gabriele ha compiuto questo passo decisivo. Ma ci sono voluti ottanta anni, non c’erano disponibili scorciatoie. Le vie dello spirito non conoscono le scorciatoie.
Gino Rago
Intervista immaginaria di Martis Forum a Eugenio Montale
(su “Ossi di seppia” e “Le Occasioni”)
Domanda:
Su Ossi di seppia con poche, necessarie parole, arte nella quale hai dimostrato d’essere Maestro, non soltanto per me ma per i tutti i lettori di poesia vorrei sentirti parlare …
Risposta:
Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un’idea della musica nuova e della nuova pittura.
Avevo sentito i Ministrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata.
E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica.
Nel ’16, nel 1916, avevo già composto il mio primo frammento tout entier à sa proie attaché : Meriggiare pallido e assorto (che modificai più tardi nella strofa finale). La preda era, s’intende, il mio paesaggio.
Domanda:
Quale idea allora di poesia…
Risposta:
Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto… Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo… Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento di Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai.
Domanda:
Già nel tuo primo libro poetico Ossi di seppia mostravi insofferenza verso un modo italico di fare poesia:
Risposta:
Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto… All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza.
Domanda:
In Ossi di seppia si sente dappertutto il mare, un mare in contrasto con la lingua di allora…
Risposta:
Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga.
E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia…
Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto.
Domanda:
E su Le Occasioni…
Risposta:
Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli.
Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.
Domanda:
Esprimere l’oggetto tacendo l’occasione-spinta…
Risposta:
Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi.
Domanda:
A quale frutto hai pensato per Le Occasioni…
Risposta:
Le “Occasioni”erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello… della musica profonda e della contemplazione.
Domanda:
Che ruolo attribuisci nella economia poetica generale de Le Occasioni a Finisterre…
Risposta:
Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre perché rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca.
Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia ( chiamala come vuoi) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria.
Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-42, forse le più libere che io abbia mai scritte….
GR
Grazie, è un piacere leggervi.
L’accostamento non mi dispiace.Sì, porto sulle ali poetiche il tragitto di un viaggio esistenziale, che ha in Meriggiare pallido e assorto e tutte le migliori poesie di Ossi di seppia, e delle Occasioni, la traccia ontologica di un segreto viadotto per esternare l’Essere nel Tempo. Ciò che Lucio ha notato, con grande profondità estetica, insieme a Giorgio, è la sotterranea rifrazione di un sentimento poetico che finisce con l’avere centrato la misura dei nostri passi su un terreno accidioso. Montale in un modo, io in un altro, ma entrambi con linguaggio diverso, ci siamo lasciati andare su una zattera senza remi “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia-. Grazie a voi di queste utilissime interpretazioni che aprono ad una nuova visione la lettura dei testi poetici come non si era mai fatto prima.
Il pensatore dice l’essere. Il poeta nomina il sacro (Heidegger)
e adesso una poesia di Georg Trakl
Crepuscolo spirituale
Silenziosa appare sull’orlo del bosco
Una oscura fiera;
Sul colle muore lieve il vento della sera.
Cessa il lamento del merlo
Ed i flauti soavi d’autunno
Tacciono nel canneto.
Sopra una nube nera
Solchi tu, ebbro d’oppio,
Il lago notturno,
Il cielo stellato.
Sempre risuona la voce lunare della sorella
Attraverso la notte spirituale.
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