
rinegoziazione, riabilitazione attiva della «fantasmagoria» delle merci (dizione di Adorno)
Nota esplicativa di Giorgio Linguaglossa
Per la poesia di Nazario Pardini è come se la civiltà tecnologica e lo sviluppo capitalistico non ci fossero mai stati, sono semplicemente ignorati. Si badi, non negati ma ignorati. Pardini allestisce uno scenario bucolico arcaico, che è come dire che la materia del mondo tecnologico non lo riguarda affatto e che l’evento storico destinale della comunità storica non è mutato granché dalla civiltà pretecnologica a quella tecnologica. Questa impostazione è ovviamente del tutto legittima, anche altri autori di oggi come Umberto Piersanti adottano questo punto di vista, la poesia è considerata da questi autori in modo non critico, come immediatezza del dato, come un darsi della «natura», come continuità con il mondo agricolo della civiltà pre-tecnologica. Da questa impostazione equivoca e di infingimento occorre guardarsi, da essa deriva che la memoria viene impiegata come il principiale per l’indagine di un mondo remoto e l’elegia ne sarebbe il correlativo stilistico.
Negli ultimi due post abbiamo passato in rassegna due poeti diversissimi: Franco Fortini (nato nel 1917) con Composita solvantur (1994), opera con cui si chiude il novecento, e Mario Gabriele (nato nel 1940) con Registro di bordo, opera ancora inedita che si muove nell’ambito della nuova ontologia estetica e di un esistenzialismo stilisticamente in posizione molto avanzata. Adesso, presentiamo Nazario Pardini (autore certo molto lontano dagli esiti della «nuova ontologia estetica», anche se della stessa generazione di Mario Gabriele), con queste poesie inedite che si muovono in un orizzonte di restituzione di senso destinale ad un mondo pre-tecnologico fantasticato e fantasmato con uno stile che ripropone l’asse della tradizione primo novecentesca, de L’Alcyone (1903) per intenderci, depurato del pathos enfatico e della ideologia neopagana dannunziane.
Se D’Annunzio intendeva restituire alla «natura» la verginità, la ferinità e la vitalità che il primo paleo capitalismo italiano di Giolitti è impegnato a dissolvere, Pardini, estraneo ad ogni ideologema paleo capitalistico, che opera nella Unione europea della moneta unica, si rivolge alla «natura» come a un rimedio del «male» naturale. Ha una considerazione della «natura» come farmaco, ciò che funziona come un antidoto, che può curare. In tale accezione, Pardini inserisce il lessico moderno entro un metro endecasillabico di aulica ascendenza senza concedere nulla al modernismo e alle ideologie novecentesche del «nuovo». Ma questo, mi chiedo, non rischia di porre il problema della categoria del «nuovo» nel complesso delle dinamiche di quel «sortilegio» delle merci e delle parole del nuovo capitalismo globale?

Se c’è la memoria c’è il tempo. Se c’è la memoria non si dà l’oblio della memoria
Ciò che chiamiamo poesia sono gli eventi inaugurali
«Ciò che chiamiamo poesia sono gli eventi inaugurali in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole comunità storiche».1]
La poesia di Nazario Pardini prende l’avvio dall’evento storico individuale sociale della situazione rammemorante per rintracciare il filo conduttore di una civiltà scomparsa, si comporta un po’ come un archeologo o uno speleologo che dall’esame di alcuni reperti fossili risalgono alla compagine comunitaria di una civiltà remota. Pardini racconta del «Serchio», di «una giovine ragazza [che annaffia] i vasi dei gerani», di piccioni in volo «sopra il tetto», di un «altoparlante che annuncia» che «la merenda è lesta»… brandelli della memoria che la memoria riattacca come francobolli di un’età perduta.
Pardini è un poeta della memoria e della civiltà agraria sepolta. Prendere o lasciare. Se c’è la memoria c’è il tempo. Se c’è la memoria non si dà l’oblio della memoria, e quindi non si dà frantumazione, frammento, residui, frammentazione, distassia, ma soltanto fossili d’un tempo irrimediabilmente perduto. E la memoria si esprime per eccellenza nella forma della lirica. Il suo è il canto elegiaco che si svolge in endecasillabi decantati e sillabati con un lessico moderno appena, qua e là, antichizzato. Pardini fa un canto della «natura», esprime una ideologia stilistica antica ed estranea al modernismo, vuole significare una netta estraneità alla ideologia del «nuovo», sa che questa ideologia è stata un motore potentissimo della volontà di potenza del capitalismo sviluppato e non vuole più condividerne le alterne fortune e disfortune.
Pardini ritorna così al canto di ciò che Heidegger chiama Erde, (terra), ma lo fa ancora nel quadro di una impostazione elegiaca e rammemorante. Se affermiamo che la poesia è quel linguaggio in cui insieme ad un mondo di significati dispiegati risuona anche la nostra terrestrità come mortalità, allora possiamo dire che l’endecasillabo di Pardini lascia risuonare e trasparire la mortalità e l’infrangersi della parola sulla nuda durezza dell’epoca presente, come effetto di spegnimento, lontana da ogni contaminazione con il mondo della Tecnica e del mediatico, a costo di apparire imbalsamata e infarinata nella propria purezza apollinea e adamitica. Sconta sulla propria pelle la fioritura esantematica di un male oscuro sotto stante: la volgarità della nostra epoca mediatico-tecnologica.
La risposta da dare alla categoria della Verwindung
È una tipica poesia che narra un «mondo» di significati, a suo modo e con i suoi mezzi stilistici; la fine dell’epoca della metafisica sotto il vessillo categoriale della Verwindung (un termine da prendere con le molle non nel senso di una accettazione remissiva della laicizzazione di ogni forma di vita e di esistenza sotto il regno del capitalismo globale ma come un rimettersi alla rinegoziazione della produzione di un mondo, produzione di rimemorazione, di mondità e di possibilità, produzione di Faktizität). Il problema è il pensare un’arte di oggi e del prossimo futuro in termini di rimemorazione, An-denken, e quindi di rapporto con la tradizione. Che cosa significa e implica un’arte e una poesia della rinegoziazione della rimemorazione con la tradizione? C’è ragione di ritenere che il problema del rapporto con la tradizione sarà la chiave dell’arte e della poesia del prossimo venturo futuro. Allora bisogna attrezzarsi per un lungo viaggio, calzare degli scarponi adatti alla traversata del campo minato della tradizione e dei suoi significati non più stabili, anzi divenuti equivoci e ambigui, accettare il fatto che l’arte non ci pone più in contatto con un orizzonte di significati stabili, che ad ogni tappa e ad ogni sosta dobbiamo riconoscerci e ricostruire un orizzonte di significati stabili. E questa è una condizione di debolezza ontologica.
È molto probabile che l’arte del prossimo futuro si giocherà la sua partita doppia proprio su questo punto: sulla risposta da dare alla categoria della Verwindung, non più accettazione remissiva di un Gestellt ma rinegoziazione, riabilitazione attiva della «fantasmagoria» delle merci (dizione di Adorno), riabilitazione rinegoziazione del «sortilegio» delle merci (sempre Adorno), nel quale siamo da sempre immersi, rinegoziazione del post-moderno nella nuova epoca del Dopo il Moderno con al centro la problematica della dissoluzione del valore del «nuovo» e l’avvento della innovazione continua come espressione normale della soppressione del «nuovo» e del «ritorno del sempre eguale» delle merci. Problematiche tutte che pongono e porranno l’arte del presente e del prossimo futuro dinanzi a questioni scottanti, non eludibili: in particolare, come coniugare il decesso del «nuovo» con la necessità di apportare di continuo una riabilitazione e ri-strumentazione dei procedimenti che conducono alla produzione del «sempre uguale» sub specie della ideologia della soppressione del «nuovo»? Non si nasconde qui una antinomia nel cerchio magico della «totalità ermeneutica» nella quale la questione dell’esserci e dell’arte si gioca e si giocherà le sue scarne possibilità di sopravvivenza nel prossimo futuro venturo?
1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985 p. 74
(Giorgio Linguaglossa)

la fine dell’epoca della metafisica sotto il vessillo categoriale della Verwindung
Nazario Pardini
I dintorni della solitudine
Piccioni
Bianchi, bigi, rossi, sopra il tetto
si assiepano, la testa fra le piume,
a tu per tu col vento. Sono liberi.
Appena il sole sbuca da levante
scuotono il manto e volano decisi
sui campi a becchicchiare qualche seme.
Svolano sulle foglie delle viti,
sugli stecchi crocifissi delle piante,
su tutto ciò che è avanzo dell’autunno.
Hanno solo l’istinto. Il loro volo
rompe i raggi lucenti e stampa in basso
ombre vaganti; e con gli schiocchi
batte dell’ali il tempo della vita.
Se getti le granaglie sul cortile
accorrono in picchiata; e via nell’aria
o sul suolo a tubare calorosi
in cerca dell’amore. Libertà,
spazi aperti, profumo di granturco,
rapina di micragne; anche la pioggia
per loro è acquasanta; li battezza,
scivolando sul dosso come l’aria.
Sono lì, li vedi di pedina,
vivi, trepidanti, nell’attesa
di nuove corse da donare al cielo.
E poi la morte. Dove andranno a morire
quando la sorte tocca?
Non ce n’è traccia. Sarà forse il destino
a riservare loro un angolino?
(13/10/2017)
La piena del Serchio
Piove a dirotto stamani, ed il Serchio
gonfia il suo letto; è già nelle golene,
tra gli alberi che invocano l’aiuto
frusciando melanconici richiami
col loro ciuffo sopra la corrente;
niente risparmia l’acqua inferocita,
tutto porta con sé, alla deriva.
Qui dall’argine l’occhio si spaventa
a mirare la potenza che sprigiona:
le barche sradicate dai pontili
corrono in grembo al grosso defluire,
e ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie
si rincorrono in gara verso il mare.
Mi sposto, e vado svelto a miscelarmi
alla furia spaventosa della foce.
Tira tramontana, se Dio vuole,
fosse libeccio chissà che inondazione.
Qui le melme del fiume si accavallano
con l’onde spaventate
che sembrano opporsi a tanta furia.
Odori di salmastro e d’acqua smossa,
di erbe trascinate contro voglia,
mi invadono narici. E mi confondo
con tutto quel fracasso naturale:
divento un ramoscello in mezzo al mare.
20/11/2017
La solitudine del mare
Sono solo e l’inverno mi percuote
coi suoi venti freddi e burrascosi.
Innalzo le onde fino al sommo cielo
e le porto alla strada per sbirciare
gli addobbi di Natale. Ogni tanto
mi vengono a trovare dei ragazzi
innamorati: seduti sul pattino,
allungano lo sguardo, incatenati,
tra un bacio e l’altro, fino all’orizzonte.
Mi fanno compagnia. La solitudine
mi fa pensare al mondo, al mio vagare,
mi fa pensare ai giorni dell’estate,
ai tanti corpi immersi dentro me,
alle grazie di giovani fanciulle
che mi lisciavano il corpo. Ora ricordo;
vivo nel rievocare quei momenti,
mi sento triste se mi torna in mente
il pianto di una madre e il suo inveire
contro la risacca, e la corrente,
che portarono via un figlio in fiore,
sperso nei miei fondali. Ma a pensarci
sono tanti i mortali sprofondati
nelle mie cavità. Ora son solo;
alzo le braccia al cielo e mi imburrasco
per la forza di un vento che d’inverno
mi assale con frustate. Se m’incontri
di questi tempi ombrosi e nuvolosi,
quando il respiro mio si fa più denso,
mi vedi in piena angoscia. Tiro fuori
tronchi, detriti, ciocchi e tavoloni,
spurgo ogni cosa che mi porta il fiume,
e riempio la spiaggia di vestigia;
si fanno le mie acque intorbidite;
trovo la pace solo se la luna
frantuma le sue chiome in tante scaglie.
Allora mi riposo. Puoi vedermi
quando arancio le guance e tingo il cielo
degli amplessi fecondi che dal dentro
fuoriescono per visualizzare
l’inquieto stare chiuso dagli scogli
senza poter sfuggire oltre le sponde.
Senza poter capire, e mi tormento,
quello che fuori esiste; e che mi è ignoto.
(12/12/2017)
Lo stradone
Ora è solo. Davanti al cimitero.
Ci crescono gramigna ed abbandono.
Guarda oltre la strada principale
con gli occhi di un morente. È lo stradone.
Ci passavano carri ed asinelli,
con ceste di raccolti;
era un viavai. Riflette su se stesso,
sulla sua solitudine.
Si sente abbandonato. Guarda i campi
senz’anima vivente. Aspetta solo
che qualcuno lo ricordi, ripercorra,
magari anche a piedi, il suo tragitto:
“Mi aspetto che ritorni sopra i solchi
delle ruote dei carri
il vecchio paesano, la sua gente,
con la falce a tracolla ed il corbello
appeso alle spalle. Quando il sole
pittura i miei capelli, la tristezza
mi assale e mi fa suo. Vorrei solo
la compagnia di un tempo, e che qualcuno
ricordasse quei giorni in cui le bestie
lasciavano le impronte sul mio manto”.
Lo stradone è laggiù che solitario
guarda persone correre di fretta
sulla strada maestra. E non capisce
perché con tanta briga, se una volta
restavano a gioire del tramonto
e tornavano al canto di civetta.
(31/12/2017)
.
Scoprimmo
Scoprimmo il cielo, il mare ed il sorriso.
Dicemmo al vento: “Corri a perdifiato,
non ti arrestare, corri a spettinare
le chiome delle giovani fanciulle
che giocano col tempo. Portati addosso
messaggi di speranza per coloro
che vivono la notte; che non hanno
l’estate della vita. Corri, corri,
vento selvaggio, corri a perdifiato
fino a incontrare il volto di colei
che chiese al tempo di volgersi in camelia.
Sii leggero, portale il colore
del sangue dei papaveri confuso
fra l’oro delle spighe; le impronte
dei suoi candidi piedi
sul guado dei rubini.
Portale il tatto di una stanca mano,
portale il fiore che hai strappato al ciglio
in quella primavera. Vorrei tanto
essere a te daccanto per sfiorarle
le gote col respiro; vorrei tanto
sulla tua groppa correre lontano,
alla fine del mondo e stringere la mano
a quello che mi è ignoto;
a colei che diffuse
banchi di solitudine
su questo stretto piano.
(10/02/2018)
.
Fra quelle mio fratello
In alto i fiori dell’acacia,
fra l’erba un gatto in agguato,
Giuliana e sua sorella nel cortile,
e i passeri a rincorrersi per strada.
I cigli si rivestono di fiori,
il grano un manto verde
al cielo che si mischia fra le case.
Transitano da là persone morte,
con volti evanescenti,
fra quelle mio fratello
che mi chiede se oggi è primavera.
“Sì, è proprio primavera oggi,
se passi dal viottolo daccanto
lo vedi dal giallo delle rape,
dalle viole che sbucano pazienti,
dal dente del tarassaco,
dall’inquieto vagare degli uccelli.
Ma perché mi torni sempre accanto?
perché mi passi sempre da vicino
su questa stradetta di campagna?
Lo sai che soffro, lo sai che io sto male,
nel rivederti lì, senza poterti amare,
caro fratello mio”.
Sul tetto le colombe, le tortore che tubano,
all’orizzonte un fumo
non so se nebbia o fuoco di fascine.
Palmiro pota i tralci,
una donna stende i panni,
e dormono i papaveri nel seme.
Sopra il vettino
riposa un merlo canterino.
(27/03/2018)
.
Voci di campane
Gli equiseti, il vilucchio e la gramigna
affollano la piana.
Sono in rigoglio anche perché stamani
ha fatto un acquazzone. Quel bimbetto,
a piedi nudi sopra il verde prato,
bagna la sua innocenza con le gocce
aggrappate alle foglie. Non ascolta
il grido della madre e allunga gli occhi
a un gatto nero appostato nell’erba
a dar la caccia a un passero che ghiotto
becchicchia un frutto spappolato a terra.
Al guizzo del felino l’uccellino
apre le ali e si concede al cielo.
Vicino una massaia stende al vento
i panni della sera. Un arrotino
con il carretto logoro dagli anni
poggia alla ruota lame da affilare,
mentre che l’aria densa
porta con sé le voci di campane
che chiamano i credenti alla preghiera
per qualcuno che è andato oltre la terra.
(22/05/2018)
.
Il manifesto funebre
Ho visto stamattina un manifesto
funebre, che, logorato dal cielo,
non mi faceva leggere il finale.
Il tempo non si accontenta solamente
di annullarti, sperdendoti per terra,
ma intende anche distruggere ogni resto
della venuta tua; della breve vicenda
che ti è toccata in sorte per la morte.
(29/05/2018)
.
Il giudizio universale
Sul davanzale
una giovine ragazza ad annaffiare
i vasi dei gerani. Nella strada
un gruppo di paesani nell’attesa
che arrivi la corriera. Ed è già sera
in questo povero paese rammendato:
una donna con in testa le premure
(ha i capelli ben mossi e pettinati,
non vuole compromettere la piega)
preda il bucato all’umido del buio,
lo pone nella cesta e rientra in casa.
Si accendono i lampioni. Dei ragazzi
tornano dalle loro scorribande.
Un uomo solitario inconsciamente
fa ombra nella strada. Poi più niente
su queste vie lasciate all’abbandono.
Tutti rinchiusi in mezzo a quattro mura
ad ascoltare il telegiornale
con la speranza che non vada male.
E magari, che cambi un poco in meglio.
Il matto del paese
continua a urlare. “Presto lo vedrete!
C’è alla porta il giudizio universale.
Vedrete chi è il matto del paese”.
(17/06/2018)
.
Sulla spiaggia
La sabbia scotta i piedi e di gran lena
ci infiliamo nell’onda. Il mare è fresco,
invitante, fluente; le belle forme
ci sguazzano festose offrendo agli occhi
movimenti invitanti e curve bronzee
di glutei cotti al sole. Un motoscafo
taglia veloce i flutti ed i pattìni
fanno colore e abbondano di guizzi
che appaiono e dispaiono fra scaglie
che giocano col cielo. Un aquilone
dona a una bimba un filo per l’azzurro,
una fuga nel cielo e dei ragazzi
raccolgono i colori delle arselle
che la battigia
porta lenta alla spiaggia. Un vu cumprà
propone cianfrusaglie ai villeggianti
che guardano distratti l’orizzonte.
Di fronte a me una giovane fanciulla
si toglie la sottana per mostrare
un costume vivace ed il bagnino
fischia ai bagnanti
che allungano le braccia oltre le boe.
L’altoparlante annuncia a viva voce
che la merenda è lesta: “I bombolini…”
(24/06/2018)

Nazario Pardini
Nazario Pardini è nato ad Arena Metato di Pisa. Dopo la maturità ha conseguito la laurea in Letterature Comparate alla facoltà di Lettere di Pisa e successivamente quella in Storia e Filosofia allo stesso Ateneo. E’ inserito in antologie scolastiche e in storie della letteratura… Hanno scritto di lui fra i numerosi critici: Sirio Guerrieri, Giorgio Linguaglossa, Ninnj Di Stefano Busà, Filippo Accrocca, Floriano Romboli, Enzo Wiler, Antonio Piromalli, Elio Andriuoli, Carlo Giuseppe Lapusata, Carmelo Consoli, Dino Carlesi, Vittorio Vettori, Aristide La Rocca, Giuseppe Giacalone, Giorgio Luti, Mario Luzi, Luigi Blasucci, Pasquale Martiniello, Sandro Angelucci, Pasquale Balestriere, Carla Baroni, Giorgio Barbèri Squarotti, Umberto Vicaretti, Italo Bonassi, Neuro Bonifazi, Lucia Bruno, M. L. Daniele Toffanin, Carlo Duma, Pierangiolo Fabrini, Rita Gambini, Renato Pancini, Silvio Ramat, Paolo Ruffilli, Stefano Sodi, Lucia Tagle, Bonifacio Vincenzi, Guido Zavanone… E’ apparso su molti giornali e numerose riviste specialistiche. Ha pubblicato trentadue libri fra poesia, saggistica, e narrativa, fra cui Lettura di testi di autori contemporanei, Milano, 2014, pp. 776, utilizzato in ambito universitario. È fondatore, curatore, e animatore di “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com), importante blog culturale, punto d’incontro della comunità letteraria nazionale e non solo. Innumerevoli i riconoscimenti alla carriera. Dal giornale dell’Università Pontificia Salesiana Link: http://www.unisal.it/index.php/notizie/vita-allups/814-la-fsc-ospita-l-edizione-2013-della-laurea-apollinaris-poetica: “Il 9 maggio 2013 presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università pontificia salesiana è stata assegnata la Laurea Apollinari Poetica 2013 a Nazario Pardini dal Rettore Magnifico dell’UPS, Carlo Nanni. Oggi detta Laurea rappresenta il massimo livello conferito a Poeti italiani di alto merito. Pertanto si propone per un auspicabile Premio Nobel per la Letteratura.”
Posto qui una mia poesia inedita dal libro di prossima pubblicazione in stile NOE
Gino Rago
Lo scintillio del bronzo appena fuso
“Lo scintillio del bronzo appena fuso o le sue patine-fuochi d’artificio.
Non più.
Né la levigatezza del marmo senza vene.
La materia grezza. La pietra.
La colata di cera rappresa.
La ruggine sul ferro.
I rottami, gli avanzi, i detriti.
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
[Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
in filiformi tralicci di gabbie].
Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
Nessuno cerca il suono che manca,
a meno che il suono non significhi niente:
ni-ente, non-ente.
Tutti vogliono un nome,
perché ogni nome è una benedizione,
ma che cos’è un nome?
Un occhio che brilla tra passato e futuro.
E invece è una maledizione,
la nostra maledizione.
Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
La «nuova» parola? gli stracci.
[Tu apri la porta senza bussare:
un mucchio di cenci in un sacco di iuta].”
Analizzo questi pochi versi di una delle liriche di Nazario Pardini oggi proposte dal nostro Giorgio Linguaglossa e noto che in meno di 6 versi questo poeta impiega ben 8 (diconsi otto) aggettivi qualificativi – fresco, invitante, fluente, belle, festose, invitanti (insiste…anche se al plurale), bronzee, cotti…- Turbato chiedo a me medesimo:
“Quali esigenze di stile, di senso, di estetica, e altro, spingono questo poeta [ancora sequestrato dall’io novecentesco dei piccoli stati d’animo e delle piccole psicopatologie della vita quotidiana] a tale ipertrofica aggettivazione?”
“La sabbia scotta i piedi e di gran lena
ci infiliamo nell’onda. Il mare è fresco,
invitante, fluente; le belle forme
ci sguazzano festose offrendo agli occhi
movimenti invitanti e curve bronzee
di glutei cotti al sole[…]”
GR
Gino Rago
Mini antologia
Poeti e Poesie della NOE
(Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Edith Dzieduszycka, Costantina Donatella Giancaspero, Lucio Mayoor Tosi, Rita Dove, Gino Rago, Francesca Dono, Mauro Pierno, Francesco Lorusso, Alfonso Cataldi)
Meditazioni di Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
intorno a
La nuova ontologia estetica della poesia italiana
La nuova poesia italiana getta alle ortiche la moda dei discorsi che parlano con banalità dell’«io», delle sue adiacenze e del «tu». La poesia ricomincia daccapo.
Possiamo parlare di «nuova ontologia estetica», una volta che la strada della vecchia ontologia si è compiuta, una volta estrodotto il soggetto linguistico, che ha il segno puntiforme di un «Ego» nel quale convergono, cartesianamente, Essere e Pensiero, quello che appunto Descartes introduce e chiama «Cogito». Solo quando le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, solo allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni, perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica. Ma ora la strada della vecchia ontologia può dirsi compiuta.
La nuova impostazione «ontologica» in poesia implica l’utilizzo di vari Fattori che vanno a comporre il nuovo pentagramma: il «tempo interno» delle parole, le «linee interne» delle parole (non la semantica esterna), il «fattore spazio», l’impiego intensivo della punteggiatura, l’adozione del «frammento»; il discorso poetico abbandona la fedeltà al valore fono-tonale e fono-simbolico, come invece avveniva nella poesia del nostro Novecento, accentuando il concetto che inquadra la parola nello «spazio interno» e dentro il «tempo interno». E non solo la «parola» ma anche il «metro» ubbidisce ai Fattori dianzi citati; il metro non è più considerato per i suoi valori «elastici» fono e tono simbolici e semantici, ma per i suoi Valori-Fattori che introducono il Tempo e lo Spazio nella costruzione poetica.
Dobbiamo «entrare» in una «nuova patria metafisica» dove ci sono le «parole nuove». Questo non è un pensiero facile, è un pensiero complesso. Innanzitutto, come si fa ad «entrare» in una «nuova patria delle parole»? Come dobbiamo predisporci? Come vestirci? E, prima, bisogna pentirsi di qualcosa, cospargersi il capo di cenere? Ma poi, dove mai sarà questa «nuova patria»? Dove si trova? E… dobbiamo aspettare in sala d’attesa?, fare anticamera? (Diceva Adorno: «la poesia che non fa anticamera non è vera poesia»). Oppure, possiamo entrare così, di fretta, magari mentre mangiamo un sandwich, come siamo abituati a fare nel disbrigo del quotidiano?…
Io penso che dobbiamo entrare in una nuova modalità di pensiero, un pensiero di attesa e di lentezza, quella che il filosofo italiano Pier Aldo Rovatti chiama «Abitare la distanza».
C’è un «evento», accaduto lì, che ha ripercussione su di me che sto qui. Ecco, poniamo che questo «evento» ci guardi: capovolgiamo per un attimo il vecchio modo di pensare (che va dall’io al tu, dall’io all’evento), e procediamo al contrario, dall’evento all’io. L’«evento» che accade nel mentre che accade.
Sono le cose collegate in un insieme che fanno sì che siano esse a parlare. Il poeta deve soltanto porsi in posizione intertemporale, fuori dal tempo e, insieme, dentro un altro tempo: l’ascolto recepisce questa posizione. L’ascolto, ovvero il recipiente dell’attesa, che predispone il linguaggio a formarsi. E il formarsi del linguaggio significa favorire la ricezione del «silenzio» all’interno del linguaggio stesso. Le parole, dunque, non sono altro che una forma di organizzazione del «silenzio», il quale è, esso stesso, un modo del linguaggio; in alcune particolarissime situazioni il linguaggio diventa silenzioso. Per l’appunto, quella è la condizione della poesia. In questo caso si può parlare propriamente del silenzio quale custodia segreta del linguaggio. La poesia abita questa custodia segreta. Ma anche tutti gli uomini la abitano. Non è una prerogativa esclusiva del poeta quella di abitare il «silenzio delle parole»; difatti, chiunque può attingere il «silenzio delle parole» attraverso la lettura di una poesia. Il silenzio abita il linguaggio; l’uomo abita il linguaggio, ovvero, il silenzio delle cose, la loro lingua segreta. Un poeta deve far parlare il «silenzio» e far parlare le «cose». Tutto il resto è assolutamente secondario. Il «dire» in poesia è questo «dire» che sta dentro il «silenzio» e dentro le «cose», non tutto ciò che sta fuori.
Scrivere poesia nel nostro Tempo, nella età della contingenza e dell’incertezza, significa scrivere con uno stile dell’incertezza e della contingenza, sospesi tra la pesantezza della «cosa» e la leggerezza della «parola»: è questa una condizione esistenziale situata tra il quotidiano inodore e incolore e il non-luogo, anch’esso incolore e inodore. L’abitacolo dell’Io coincide con il luogo del Non-io, una condizione dei nostri giorni affatto drammatica, con quel qualcosa che sta all’esterno e all’interno dell’Io: la «Cosa» (Das Ding), che sta dentro e fuori, contemporaneamente, e che consiste nella sua estimità, nel suo essere, per Lacan «Entfremdet – alienato – di estraneo a me pur stando al centro di me»; qualcosa tra il familiare e l’estraneo, in bilico tra il dicibile e il non dicibile, tra il dentro e il fuori. Allora, la scrittura diventa interrogazione, si fa dizione curvilinea del linguaggio poetico e del testo narrativo. Perché le «cose», a ben guardare, sono curve; il mondo è curvo, l’intero universo è curvo, e forse anche il super universo, dentro il quale noi ci troviamo, è anch’esso curvo.
Quando nella nuova impostazione «ontologica» noi parliamo di «spazio espressivo integrale», intendiamo un qualcosa che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendiamo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954), una forma non più lineare-melodica, ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto in cui le immagini, sganciate da qualsiasi «esperienza» vissuta, sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra.
La «nuova ontologia estetica» abita il paradosso quale luogo della peritropè (il capovolgimento): ciò che è bianco è anche nero, ciò che è nero è anche bianco. Il linguaggio paradossale per eccellenza è il linguaggio mitico; nel mito, infatti, le categorie del pensiero non-contraddittorio e del principio di non-contraddizione vengono meno, sono inutilizzabili. L’esperienza e l’esistenza sono per eccellenza il terreno del contraddittorio. Anche la forma-poesia, dunque, deve farsi carico del contraddittorio e del paradosso quali proprietà di ciò che è e di ciò che non è. Di qui la necessità di costruirsi una procedura altamente conflittuale e contraddittoria che congiunga ciò che è contraddittorio come elemento ineliminabile della contraddittorietà incontraddittoria.
Così, scopriamo che la poesia ha a che fare con l’illusione e l’abbaglio, piuttosto che con la certezza e la verità, categorie che già filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare, poiché avrebbero messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo del nomos e del logos, parole altisonanti ma false all’orecchio della Musa. L’illusione è lo specchio della verità: anzi, è la verità che si guarda allo specchio.
L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio, il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio, il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose, che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso, che dialoga con se stesso…
La petizione panlinguistica propria delle poetiche del Novecento scivola invariabilmente nell’ombelico autoreferenziale. Il linguaggio poetico è diventato un linguaggio che si ciba di linguaggio, una dimensione auto-fagocitatoria. Che lo si voglia o no, la poesia del Novecento e del Post-Novecento è stata colpita a morte dal virus del panlogismo.
C’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile, che resiste alla irreggimentazione nel discorso poetico. Ecco, è quello che resta fuori l’essenziale: quel qualcosa, la «Cosa», di cui nulla sappiamo se non che c’è, che esiste. E, con essa, esiste il «Vuoto», che incombe sulla «Cosa», risucchiandola nel non essere dell’essere. Forse è proprio questa la ragione fondamentale che ci impedisce di poetare alla maniera del Passato e ci spinge verso una Nuova Ontologia. Il «Vuoto», che incombe sinistro su noi tutti e tutto divora.
Giorgio Linguaglossa-Gino Rago
1- Rita Dove
Geometria
Dimostro un teorema e la casa si espande:
le finestre in un balzo si librano sino al soffitto,
il soffitto con un sospiro va alla deriva.
Appena le pareti si sono spogliate di tutto
ma non della trasparenza, l’odore dei garofani
se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto,
e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle,
dove si congiungono un raggio di sole riluce.
La loro meta è un punto vero e indimostrato.
2- Giorgio Linguaglossa
Sms da M.ma Hanska
“cari poeti delle ombre,
M.ma Hanska mi ha inviato un sms dall’aldilà.
mi scrive: «arrivederci Signor Linguaglossa, Herr Cogito
si trova già qua; la aspettiamo, c’è una bella stanza ammobiliata
che dà sul giardino, una veranda (ci sono ancora il geranio e il lillà)
con una copia della Gioconda sulla parete del soggiorno»;
davvero gentile M.me Hanska, ma io me ne sto di qua,
nel retrobottega dell’essere, al sicuro per fortuna, dalle intemperie
del destino (si dice così?).
c’è dunque tempo per le improvvisate di quel figuro del Signor K.”
3 – Gino Rago
Agenzia di viaggi
Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre,
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,
la copia della Gioconda, il lillà
e la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,
abbiamo altro da fare, per esempio
ascoltare il canto degli uccelli
o il ronzio della Storia
nei bassifondi
ma anche loro, la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
e quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo,
smettessero per un pò di fare baccano,
coprono il canto delle allodole di tutto l’Occidente
gli dèi poi imparassero a tenere il becco chiuso,
se sono sull’Olimpo è grazie alla poesia.
[…]
Lo specchio alla donna che si ammira:
« Sul soprabito manca ancora il bottone,
le bombe non cadono più su Belgrado,
chiusa per sempre l’agenzia di viaggi di Hitler e Stalin,
troppi biglietti di sola andata,
rarissimi quelli di andata e ritorno».
Cara M.me Hanska, dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria
il poeta vede ciò che il filosofo pensa.
4- Gino Rago
Lettera mai spedita a E. L.
[una suora, il calendario, il Vuoto]
Cara M.me Haska,
Lo sa, la nostra comune amica di Vienna spesso mi parla di Ewa.
Mi dice che non sta affatto bene.
Mi perdoni se La affatico ma ho bisogno di scrivere,
come pochi Lei conosce il fluire del tempo che distrugge
i moti dell’animo umano.
Con Lei posso parlare delle ostilità dell’esistenza,
degli enigmi della vita, dei suoi labirinti,
per esempio, alla fiera degli stracci un rabbino parla di Lilith
e tanti intorno fanno finta di credergli.
Una suora più in là vende i calendari di frate Indovino.
[…]
Dalla Svezia o forse dall’Islanda qualcuno ha scritto:
«il Vuoto gira il suo volto su di noi e sussurra:
non sono Vuoto, sono aperto…»
Non gli ho creduto, ma per tutta la notte ho vegliato.
Ombre alla porta, caprioli nella stanza,
i Mari Baltici sui letti.
5- Giorgio Linguaglossa
In nomine lucis
Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti.
Di giorno grandi specchi ustori semoventi montati su camion
danno la caccia agli uomini che hanno ingoiato la luce.
Fuggono la luce, si giustificano, si sbracciano.
Dicono di aver bevuto luce a sazietà.
Si riparano sotto le tegole,
sotto le mensole, nelle bettole del dormiveglia,
si infilano sotto le saracinesche abbassate,
si nascondono tra le masserizie
e i rifiuti, lungo gli argini del fiume del dolore,
sotto gli alberi spogli.
[…]
Scavano fosse nella terra e ci mettono la testa.
Dicono di aver bevuto a sazietà.
Gridano: «Eloì, Eloì lema sabactani!».
E bestemmiano. Bestemmiano il nome di Dio…
– Tigri fosforescenti con passo elegante
ci ringhiano contro, divaricando orribilmente le fauci…
– Dicono di aver bevuto tanta luce.
[…]
La notte, durante il coprifuoco, gendarmi
con berretti a visiera di feltro verde
in tuta bianca portano a spasso frotte di lupi al guinzaglio.
Rifiutano la luce.
[…]
La notte, gemella dell’oscurità, partorisce il buio.
Il buio partorisce un uovo
dal quale escono i pipistrelli ciechi
che sbattono contro i fili dell’alta tensione
e copulano con gli angeli gobbi
caduti dal cielo azzurro…
6- Mario Gabriele
[da In viaggio con Godot]
Annunci
Scendiamo nella valle tu ed io
a cercare il lume di Diogene.
-Bernabei- gridai, mentre saliva le scale,
a chiudere porte e finestre:
-il cielo si spacca!-.
Arianna, che di futuro se ne intende,
consultò tavole e papiri,
le centurie di Nostradamus.
-Bisogna stare alla larga dai mesi autunnali-.
Un giorno- disse, – perderemo la casa,
la Moviola d’inverno,
e i Capricci di Paganini.
L’inverno è alle porte.
Costruiranno un pied –à- terre
e rifaranno da capo la dimora.
-Vuoi che venga qualcuno a trovarti stasera?
E chi? Nancy? O il pruno e la rosa? – disse Coralba-.
Scriverò una lettera a Lilian dopo il fumo di Londra.
Nella villa vanno e vengono le odalische di Marrakech.
Fra poco non sarà più la nostra casa.
Tempo che va e tempo che viene.
Quattro mura e una porta blindata
come un museo irreale con anni allo sbando,
mentre discutiamo sulle piccole cose
ora che i fiori sono ingialliti
e non crescono più i semi d’albaspina.
Denise non ha più scritto da Natale.
E’ tardi per un incontro.
C’è un mercato domani.
Qualcuno avrà un anno in meno.
Ci costerà un bouquet
l’insostenibile leggerezza dell’essere.
7- Mario M. Gabriele
[da Registro di bordo]
Si stava sotto i segni dell’autunno.
Perdersi era l’unica certezza
di chi aveva poca fede nel domani.
Bruciavano radici e sciami di pensieri.
Di un lume si parlò all’ombra del paravento.
Maxuell ha una baita con attico e telescopio.
Cerca altri mondi, la strada per Compostela.
Ho ancora il Libro di Rose del 48,
curato da Giovanni Ferretti.
Nel mese delle rimembranze
pregammo per la madre di Arnold.
C’è un poemetto che mi attende la sera.
Quando Lowell morì in taxi
aveva dedicato tutto a To Mother.
Una notte Daddy mi venne in sogno
con annunci paranormali: la fine di Anthony.
Oh Billie, l’hai cantata bene la canzone
del giorno dopo con The very thought of you!
-Togliete le serrature dalle porte.
Togliete anche le porte dai cardini-.
Non andrò in Africa. Salutatemi Mandela.
A novembre tornano i solisti della UBS Verbier
per un resoconto su Beethoven.
Fotomontaggi e selfie non bastano a ricaricare il giorno.
Clark ha un problema con l’anima.
Non c’è giorno che non perda piume strada facendo.
8- Lucio Mayoor Tosi
Alloro al vincitore!
«Potresti essere tu, in uno dei tuoi travestimenti».
Dalla parte degli aguzzini per diritto di nascita. O per prostituzione.
La schiena di una vecchia seduta a bordo letto. Si sta cospargendo
di crema le spalle. L’Imperatore osserva le sue rovine.
Poi torna al romanzo. Se fare una telefonata. E’ ancora presto.
– Non un albergo in città. Ma come fanno a vivere?
Sarà lui, l’Imperatore, ad alzarsi per primo dal letto. Lei, tu,
ti volterai guardando di sfuggita. La testa del maiale ancora lì.
Prima di colazione. Il film.
«Brava. Permettimi di darti la mano». Il merito è tuo.
«Ho fatto come ho potuto».
Ora aiutami a scavare una buca. Voglio riprovare. Quando manca l’aria.
Poi su Venezia, Roma, Berlino… Non si avrebbe da dire.
Sospiro, palla, battesimo. I convenuti morti prendano posto!
«Nessuna paura, la casa è in affitto».
9- Lucio Mayoor Tosi
Lo svolgersi della partita.
– Siamo appena all’8 del mese. Tra poco sarò ko.
Mi faranno i funerali.
Una zaffata di marrone, simile alla ruggine, proveniva
da Auschwitz. Giallo di terra naturale. La segatura.
il vomito del cane.
In una briciola di storia veder patire la gente intorno.
Solo, nessuno muore.
Nessuno se ne va. Il camaleonte del giorno imputridisce l’aria
da che è morto anche l’ultimo console. Una disfatta.
20 euro per l’esercizio di stile. Venticinque…
Ci compro il tabacco e gioco al Superenalotto.
Un re!
L’autentico segue e anticipa in bassorilievo
lo svolgersi della partita.
Dal palcoscenico di via Ripamonti si vede in platea
dentro la tomba dei rifiuti ogni tanto qualche luce accesa.
I ragazzi di lì saprebbero come fare una rapina.
– Il buco dell’ozono. Si fa con quello.
La campana funeraria sta suonando le 12:00. Dopodiché
la terra piatta finisce con dispiacere dentro l’immagine di sé.
Lì si ferma il tempo.
10- Donatella Costantina Giancaspero
Le strade mai percorse
Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.
Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.
Le ragioni mai sapute vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.
Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.
11- Edith Dzieduszycka
Translinguismo
A cavallo
sur deux langues
position
davvero scomoda
on penche
un po’ par ci un po’ di là
senza mai bien savoir
da quale cavolo di parte
on va cascare!
…..
12- Francesca Dono
lo spinner tenuto in mano. Alias nel filatoio del verde
Urbano. È pomeriggio. I corpi stanno uno accanto all’altro.
Senza canto né rifugio. L’ambulatorio medico tra le
Sedie vestite. Neanche i narvali luminosi hanno germogliato il pulviscolo
Profuso dall’alcool.
Tra le nostre ovariche porte.
13- Francesco Lorusso
Il panno del fiato sulla superficie
combatte i prospetti dal setto preciso,
se l’oggetto ha l’anima di un atomo
deruba tutto fra i sostantivi presenti
e l’odore acre della carne dal gene sano.
Lunghi fusti di canne fumose
è il fregio che tocca a noi patire
ora che la firma delle bandiere
scuote l’aria fiera verso il basso
senza neppure la gloria delle guerre.
14- Alfonso Cataldi
[Versi nati inizialmente grazie all’ispirazione di Gino Rago, con il quale ho provato a contaminarmi, qui cercano una propria strada]
to be continued
la suzione mani avanti
non-ti-mollo
scopre all’alba un contadino curvo
a Sambacanou
soggiogato a sentimenti inaspettati
del suo terreno ostile.
La compagnia di Piero, un’ora al giorno,
non serve più
il ricovero degli animali
-un rompicapo al seno-
è scampato a un naufragio notturno
un sogno provvidenziale ha bruciato foglie e rami secchi.
La piscina al molo shopping 8.44 ha il fondo scuro
una bambina timorosa tutta l’estate
butta via i braccioli, sorprendendo la madre
si avvicina al bordo
chiede notizie dal mondo reale.
Aboubakar sta raccontando la riconsegna
di un investimento infranto
nella regione di Kayes
lungo il tragitto mostra il ricordo
di un pallone calciato
a una latitudine che taglia le radici.
15- Mauro Pierno
E mettici i resti della sostanza, che
avanza. Nelle suppellettili e nelle credenze.
Nei cucchiaini.
Nei buchi neri, nelle topaie.
Negli avanzi sotterranei,
nelle tranvie,
nelle metropolitane.
In fondo al mare,
per questo avanzano le parole.
Negli specchi muti delle sorgenti.
E nelle luci, più minuscole,
nei corridoi di ceramica
e nelle tazze
che sfarfallano.
————————————————————–
Invito ai poeti autenticamente della NOE
Che parlino i versi e soltanto i versi realmente scritti, che parlino solamente le poesie realmente fatte, senza più dichiarazioni o, peggio, giustificazioni di poetiche verso nessuno e per nessun motivo.
A parte i più o meno goffi tentativi di denigrazione verso i poeti e la poesia della NOE, nessuno ha mai né dichiarato né giustificato il modo ‘altro’ di far poesia a noi.
E nessuno degli esponenti della NOE lo ha mai chiesto, preteso, o richiesto a nessun poeta che fa poesia diversa da quella della NOE.
GR
Caro Gino,
la premessa introduttiva a questa Mini antologia, assieme a Giorgio Linguaglossa, corrisponde ad una ulteriore appendice a ciò che da tempo si va formalizzando sulla Rivista L’Ombra delle parole, a chiusura di un Novecento poetico che è rimasto come un catafalco sulla poesia italiana di cui ancora oggi se ne conservano le tracce.Qui veramente si espongono linee di un dire linguistico inteso come superamento della lirica post-ermetica e neorealistica, con il divisorio della Neoavanguardia e dei poeti Pulp o Cannibal. Le basi correttive e inclusive sui cui si estrinseca la NOE si attualizzano, come forma di poesia civile, non nel senso che le è proprio, ma di ammodernamento del linguaggio fuori da ogni superba omologazione della Tradizione. Trattasi di un vero -sussidio didattico offerto a vecchie e nuove generazioni bisognose di corsi di aggiornamento poetico.La nostra poesia, in rapporto con le grandi Case Editrici, è fuori da ogni legge di mercato, è una specie di prodotto analitico della forma scrittura vista da ogni angolazione tridimensionale e quadridimensionale,tra segmenti morfologici, urti, lacerazioni, strappi sussultori, come si trattassero di ripetute onde sismiche sul terreno secolare delle stabilizzazioni idrogeologiche.C’è dunque una esperienza nuova, soprattutto di area ausiliare rispetto alla vecchia piattaforma linguistica in un quadro di sostanziale modernità del verso che ha al suo interno un nuovo principio della Forma e della Trasmissione psicoestetica.
Si dichiara altresì la non dipendenza del fattore poesia dal linguaggio, sia esso poetico o in prosa. Tuttavia, se volessimo intervenire sul poetico, sfoltendo con decisione fattori lirici, aggettivazioni, verbi e metafore, nella piana che si verrebbe a creare, di tutta prosa, il fattore poesia potrebbe risultare indistinguibile. A meno che non si adottino accorgimenti, regole diverse per ciascuna tendenza, mezzi e strumenti adeguati (il lettore dovrà munirsi di setaccio per poter separare le pepite d’oro dalla sabbia).
Nazario Pardini sa di trovarsi nel deserto della prosa quando scrive:
La sabbia scotta i piedi e di gran lena
ci infiliamo nell’onda. Il mare è fresco,
invitante, fluente;
Evidente l’anti sperimentazione, tanto quanto il niente, tabula rasa del poetico… Gli strumenti però sono quello che sono; si tenta il gioco facile, come “burrasco” in “mi imburrasco / per la forza di un vento che d’inverno / mi assale con frustate” o, peggio, quel “arancio” in “Puoi vedermi / quando arancio le guance e tingo il cielo / degli amplessi fecondi”.
Se gli strumenti sono questi… Il Nobel, se glielo daranno mai, sarà per l’acquerello.
corri a perdifiato
fino a incontrare il volto di colei
che chiese al tempo di volgersi in camelia.
cari Lucio e Gino,
se voi togliete il fondamento di mezzo, cosa resta? Se voi togliete la zattera su cui poggia la significazione che cosa resta? – Il fondamento non c’è, è inutile andarlo a cercare nella memoria, nel passato, nel futuro, sulla luna… non c’è, e quindi è meglio andare ad acchiappare farfalle, è più convincente.
Se non c’è il fondamento delle cose è perché le cose sono saldamente fondate sul nulla da cui fuoriescono. Porre la differenza ontologica tra essere ed ente, è un dichiarare fasullo. Lì non c’è alcuna differenza ontologica. L’unica differenza ontologica è tra ente ed ente. E qui si chiude il cerchio. L’unica differenza ontologica è fra essere e nulla.
L’unica differenza tra una poesia apologetica della natura come quella di Piersanti e una poesia che ha messo nel dimenticatoio questa problematica come quella di Mario Gabriele, è che la differenza è tra i grumi di senso, nella densità delle rifrazioni.
Io già sorridevo trenta anni fa quando leggevo le poesie sulla natura di Zanzotto. Avrei voluto chiedere a Zanzotto: dov’è la natura?, me la puoi indicare? – Forse l’unica natura ammissibile è quella che sta sulla luna, quella dove ancora non è arrivato l’uomo con la sua tecnica.
Quanto al Nobel, il fatto che si sia preferito darlo al cantautore piuttosto che a Philip Roth, la dice lunga sullo scadimento della giuria del Nobel. Un triste segno dei tempi.
Ringrazio Giorgio Linguaglossa per essersi addentrato della questione futura, del nuovo e del “sempre uguale” ( la normalizzazione del nuovo).
Io penso che non dovrebbe contare tanto la riproducibilità dell’opera d’arte quanto la sua destinazione; la quale destinazione dovrebbe trovarsi quanto più vicino possibile a quella sua naturale, di one to one con il fruitore. Quindi mi aspetto una commistione tra poesia e opere d’arte visiva sonora e in movimento. La forma frammento mi sembra anche a prima vista la più adatta ad essere isolata e riutilizzata in diverso contesto. Riuscire a dire molto o niente con poche parole è per questi tempi la normalità.
Parafrasando la famosa asserzione di Heidegger: «l’essenza della tecnica è qualcosa di non tecnico», io direi: «l’essenza del linguaggio è qualcosa di non linguistico».
E mi chiedo: che cosa significa questo pensiero?
Più sopra intendevo dire della non dipendenza della poesia rispetto al linguaggio. Con questo non mi riferivo all’assenza di linguaggio.
Resta difficile individuare poesia in un testo tutto in prosa. Non esistono norme al riguardo. Dunque servono strumenti adatti: tutta la teorizzazione di tempo interno ed esterno, le disfanie, ecc.
Gino Rago
– 21ma Lettera a E. L. con un commento di Giorgio Linguaglossa
[Dismatriati]
cara Madame Hanska,
ieri ho parlato a lungo con la donna di Somalia
giunta da noi chissà per quali vie.
Se potesse prenderebbe un panno,
pulirebbe tutta la sua vita, cancellerebbe il viaggio,
getterebbe a mare la valigia che l’ha portata fin qui,
dice che ha perso in un sol colpo tutto il suo capitale.
Dio invece non è più tornato dal mio amico di Roma,**
dice di non sentirsi in forma, o forse si vergogna
perché se la spassa tutte le notti con Madame Jovanka,
e le sue damigelle presso l’albergo della felicità.
Si lamenta perché il mio amico**
si è rifiutato di scrivere la recensione sulla creazione…
ma, in fin dei conti, neanche lui si sente troppo bene,
e così prende la tintarella sulla spiaggia sul Tevere
dove l’amministrazione capitolina ha edificato uno stabilimento balneare,
dice che vuole ascoltare le parole del fiume,
quelle sì molto più interessanti della mega creazione.
(** E’ Giorgio Linguaglossa)
Commento di Giorgio Linguaglossa
Dimorare nella ontologia debole non significa fare una poesia debole, significa porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, osservare le cose come di sfuggita. Ecco, per esempio introdurre «Dio» nella poesia come fa Gino Rago e farlo andare in giro a chiedere una «recensione» al suo «amico di Roma», presentare «Dio» in vesti dimesse non significa dimidiarlo o mancargli di rispetto, anzi, il contrario, implica una restituzione di senso, un accettare la realtà delle cose, il reale pensiero degli uomini del nostro tempo i quali hanno retrocesso «Dio» sullo sfondo, in serie B. «Dio» non è più importante di qualsiasi altro disgraziato che calpesta il suolo della terra, ormai «Dio» può essere anche un nostro vicino di casa, ci possiamo anche andare al bar a prendere un caffè.
Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi.
Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come con oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità. Si accede alle cose per via della accettazione della propria finitudine, quando scopriamo il nostro essere relittuali, il nostro naufragio di relitti quali siamo. E questo lo testimonia lo Zerbrechen (l’infrangersi della parola) mediante il quale noi esperiamo la caducità e la finitezza del nostro essere mortali e l’essere la poesia un effetto di silenzio, tanto più quanto più il tono è sardonico e metaironico, come in questa poesia di Gino Rago, dove c’è un personaggio, nientemeno che «Dio» il quale interviene negli affari correnti dei mortali, e se la prende con «l’amico di Roma» che «si è rifiutato di scrivere una recensione sulla creazione», sommo oltraggio per il «Dio» il quale non è affatto «morto» come idiosincraticamente edittato da Nietzsche due secoli or sono ma è resuscitato ed ha preso luogo come mortale tra i mortali e costretto a mendicare una «recensione» al pari di un qualsiasi postulante di questo mondo.
«Le tecniche delle arti, ad esempio e prima di tutte, forse, la versificazione nella poesia, possono esser viste come accorgimenti – non a caso tanto minuziosamente istituzionalizzati, monumentalizzati anch’essi – che trasformano l’opera in residuo, in monumento capace di durare perché già fin dall’inizio prodotto nella forma di ciò che è morto; non per la sua forza, cioè, ma per la sua debolezza».1] Non accade a caso che una poesia riesca ad essere «monumento» (in senso heideggeriano) quando viene edificata con le parole anti monumentali, residuali, con situazioni e stati di cose corrivi, quando la paradossalità viene consegnata al lettore nella veste dimessa del relittuale, del residuo, del rimosso. La poesia riesce tanto più significativa quanto più appare dimessa, apatica, anti enfatica, come un accadimento casuale, un infortunio del pensiero distratto, una distrazione del pensiero.
G. Vattimo La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 95
Stamane ho scritto questo pensiero per Facebook e ci ho messo l’effigie di Salvini in orbace con tanto di medaglie appuntate sul petto. Penso che riguardi anche la poesia. Chi scrive parole non può non avvertire lo sfrigolio degli zolfanelli, il disgustoso odore di zolfo misto ad un sentore di fogna per il clima torbido e sfilacciato che si respira in Italia da due mesi a questa parte. I topi sono usciti dalla fogna e adesso ballano e cantano… la Musa, lo sappiamo, è una dea molto timida, visto l’andazzo che si respira in questo paese mi ha dichiarato che se ne starà per un bel po’ in disparte, rinuncerà ad apparire in pubblico, lascia il palco ai nuovi visigoti…
Vi è sottesa, nel nuovo fascismo, l’ideologia triviale della ricerca della felicità della razza, imbastardita dalle rubriche dei giornali femminili e dagli spot pubblicitari del capo della Lega. Si dice che è un obbligo per gli uomini della 3a repubblica fare pulizia dei diversi (omosessuali, rom, africani, clandestini). Affinché vi sia l’infelicità comune al massimo grado, si grida per questa ideologia della morte. Anche la ricerca della felicità della razza è diventato un topos triviale, una triviale ideologia in auge nelle telenovelle del nostro tempo mediatico.
Così stando le cose, in questa questità, non si capisce nulla del nostro tempo sovranista e fondamentalista se non esaminiamo attentamente la volgarità di una tale ideologia neomilitarista e fondamentalista, che non viene mai detta in modo franco ma evocata per sottintesi, in modi ambigui, sibillini; viene caldeggiato un nuovo fondamentalismo, e anche un «servizio militare per i giovani» quale via maestra verso la felicità degli uomini forti, viene caldeggiato il nuovo pauperismo per tutti, la «decrescita felice», lo stipendio per tutti. In una parola: il Bengodi, la felicità per tutti, il paradiso degli sciocchi.
Da quanto affermi direi allora che è un bene se i poeti si astengono dal trattare di cose sociali o politiche. Del resto su questo fronte è da parecchio che mancano, i poeti – che da prima dell’avvento di questo governo hanno scelto di non aderire ad alcuna ideologia.
Comunque, sono certo che se domattina un burlone annunciasse su tutti i media che abbiamo appena conquistato l’Etiopia, qualcuno scenderebbe in piazza a festeggiare. Ma molti meno di quanto si va raccontando in giro.
Anteporre gli interessi del capitale, banche e mondialismo economico, ai bisogni reali delle persone a me sembra scelta politica. Se ne può discutere ma questo governo sembra avere le idee chiare in proposito.
I poveri non vogliono il Bengodi, vogliono delle possibilità…
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