Archivi del giorno: 11 agosto 2018

Nazario Pardini – Sette poesie inedite, I dintorni della solitudine, con una Nota esplicativa di Giorgio Linguaglossa – Pardini fa un canto della «terra», esprime una ideologia stilistica antica  ed estranea al modernismo. Fine dell’epoca della metafisica sotto il vessillo categoriale della Verwindung

Gif paesaggio onirico

rinegoziazione, riabilitazione attiva della «fantasmagoria» delle merci (dizione di Adorno)

 

Nota esplicativa di Giorgio Linguaglossa

Per la poesia di Nazario Pardini è come se la civiltà tecnologica e lo sviluppo capitalistico non ci fossero mai stati, sono semplicemente ignorati. Si badi, non negati ma ignorati. Pardini allestisce uno scenario bucolico arcaico, che è come dire che la materia del mondo tecnologico non lo riguarda affatto e che l’evento storico destinale della comunità storica non è mutato granché dalla civiltà pretecnologica a quella tecnologica. Questa impostazione è ovviamente del tutto legittima, anche altri autori di oggi come Umberto Piersanti adottano questo punto di vista, la poesia è considerata da questi autori in modo non critico, come immediatezza del dato, come un darsi della «natura», come continuità con il mondo agricolo della civiltà pre-tecnologica. Da questa impostazione equivoca e di infingimento occorre guardarsi, da essa deriva che la memoria viene impiegata come il principiale per l’indagine di un mondo remoto e l’elegia ne sarebbe il correlativo stilistico.

Negli ultimi due post abbiamo passato in rassegna due poeti diversissimi: Franco Fortini (nato nel 1917) con Composita solvantur (1994), opera con cui si chiude il novecento, e Mario Gabriele (nato nel 1940) con Registro di bordo, opera ancora inedita che si muove nell’ambito della nuova ontologia estetica e di un esistenzialismo stilisticamente in posizione molto avanzata. Adesso, presentiamo Nazario Pardini (autore certo molto lontano dagli esiti della «nuova ontologia estetica», anche se della stessa generazione di Mario Gabriele), con queste poesie inedite che si muovono in un orizzonte di restituzione di senso destinale ad un mondo pre-tecnologico fantasticato e fantasmato con uno stile che ripropone l’asse della tradizione primo novecentesca, de L’Alcyone (1903) per intenderci, depurato del pathos enfatico e della ideologia neopagana dannunziane.

Se D’Annunzio intendeva restituire alla «natura» la verginità, la ferinità e la vitalità che il primo paleo capitalismo italiano di Giolitti è impegnato a dissolvere, Pardini, estraneo ad ogni ideologema paleo capitalistico, che opera nella Unione europea della moneta unica, si rivolge alla «natura» come a un rimedio del «male» naturale. Ha una considerazione della «natura» come farmaco, ciò che funziona come un antidoto, che può curare. In tale accezione, Pardini  inserisce il lessico moderno entro un metro endecasillabico di aulica ascendenza senza concedere nulla al modernismo e alle ideologie novecentesche del «nuovo». Ma questo, mi chiedo, non rischia di porre il problema della categoria del «nuovo» nel complesso delle dinamiche di quel «sortilegio» delle merci e delle parole del nuovo capitalismo globale?

 

Gif donna con pomo

Se c’è la memoria c’è il tempo. Se c’è la memoria non si dà l’oblio della memoria

Ciò che chiamiamo poesia sono gli eventi inaugurali

 «Ciò che chiamiamo poesia sono gli eventi inaugurali in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole comunità storiche».1]

La poesia di Nazario Pardini prende l’avvio dall’evento storico individuale sociale della situazione rammemorante per rintracciare il filo conduttore di una civiltà scomparsa, si comporta un po’ come un archeologo o uno speleologo che dall’esame di alcuni reperti fossili risalgono alla compagine comunitaria di una civiltà remota. Pardini racconta del «Serchio», di «una giovine ragazza [che annaffia] i vasi dei gerani», di piccioni in volo «sopra il tetto», di un «altoparlante che annuncia» che «la merenda è lesta»… brandelli della memoria che la memoria riattacca come francobolli di un’età perduta.

Pardini è un poeta della memoria e della civiltà agraria sepolta. Prendere o lasciare. Se c’è la memoria c’è il tempo. Se c’è la memoria non si dà l’oblio della memoria, e quindi non si dà frantumazione, frammento, residui, frammentazione, distassia, ma soltanto fossili d’un tempo irrimediabilmente perduto. E la memoria si esprime per eccellenza nella forma della lirica. Il suo è il canto elegiaco che si svolge in endecasillabi decantati e sillabati con un lessico moderno appena, qua e là, antichizzato. Pardini fa un canto della «natura», esprime una ideologia stilistica antica  ed estranea al modernismo, vuole significare una netta estraneità alla ideologia del «nuovo», sa che questa ideologia è stata un motore potentissimo della volontà di potenza del capitalismo sviluppato e non vuole più condividerne le alterne fortune e disfortune.

Pardini ritorna così al canto di ciò che Heidegger chiama Erde, (terra), ma lo fa ancora nel quadro di una impostazione elegiaca e rammemorante. Se affermiamo che la poesia è quel linguaggio in cui insieme ad un mondo di significati dispiegati risuona anche la nostra terrestrità come mortalità, allora possiamo dire che l’endecasillabo di Pardini lascia risuonare e trasparire la mortalità e l’infrangersi della parola sulla nuda durezza dell’epoca presente, come effetto di spegnimento, lontana da ogni contaminazione con il mondo della Tecnica e del mediatico, a costo di apparire imbalsamata e infarinata nella propria purezza apollinea e adamitica. Sconta sulla propria pelle la fioritura esantematica di un male oscuro sotto stante: la volgarità della nostra epoca mediatico-tecnologica.

La risposta da dare alla categoria della Verwindung

È una tipica poesia che narra un «mondo» di significati, a suo modo e con i suoi mezzi stilistici; la fine dell’epoca della metafisica sotto il vessillo categoriale della Verwindung (un termine da prendere con le molle non nel senso di una accettazione remissiva della laicizzazione di ogni forma di vita e di esistenza sotto il regno del capitalismo globale ma come un rimettersi alla rinegoziazione della produzione di un mondo, produzione di rimemorazione, di mondità e di possibilità, produzione di Faktizität). Il problema è il pensare un’arte di oggi e del prossimo futuro in termini di rimemorazione, An-denken, e quindi di rapporto con la tradizione. Che cosa significa e implica un’arte e una poesia della rinegoziazione della rimemorazione con la tradizione? C’è ragione di ritenere che il problema del rapporto con la tradizione sarà la chiave dell’arte e della poesia del prossimo venturo futuro. Allora bisogna attrezzarsi per un lungo viaggio, calzare degli scarponi adatti alla traversata del campo minato della tradizione e dei suoi significati non più stabili, anzi divenuti equivoci e ambigui, accettare il fatto che l’arte non ci pone più in contatto con un orizzonte di significati stabili, che ad ogni tappa e ad ogni sosta dobbiamo riconoscerci e ricostruire un orizzonte di significati stabili. E questa è una condizione di debolezza ontologica.

È molto probabile che l’arte del prossimo futuro si giocherà la sua partita doppia proprio su questo punto: sulla risposta da dare alla categoria della Verwindung, non più accettazione remissiva di un Gestellt ma rinegoziazione, riabilitazione attiva della «fantasmagoria» delle merci (dizione di Adorno), riabilitazione rinegoziazione del «sortilegio» delle merci (sempre Adorno), nel quale siamo da sempre immersi, rinegoziazione del post-moderno nella nuova epoca del Dopo il Moderno con al centro la problematica della dissoluzione del valore del «nuovo» e l’avvento della innovazione continua come espressione normale della soppressione del «nuovo» e del «ritorno del sempre eguale» delle merci. Problematiche tutte che pongono e porranno l’arte del presente e del prossimo futuro dinanzi a questioni scottanti, non eludibili: in particolare, come coniugare il decesso del «nuovo» con la necessità di apportare di continuo una riabilitazione e ri-strumentazione dei procedimenti che conducono alla produzione del «sempre uguale» sub specie della ideologia della soppressione del «nuovo»? Non si nasconde qui una antinomia nel cerchio magico della «totalità ermeneutica» nella quale la questione dell’esserci e dell’arte si gioca e si giocherà le sue scarne possibilità di sopravvivenza nel prossimo futuro venturo? Continua a leggere

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