La nuova Forma Poesia, La struttura in distici. Dialogo e poesie di Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Mauro Pierno, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Rossana Levati, Guido Galdini, Mario M. Gabriele

 

Foto Jason Langer, Canary Wharf no. 1, 2008

Una poesia di Anna Ventura. Mi sono preso la libertà di fare un esperimento: l’ho riscritta in distici; da Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013) EdiLazio, 2014

Anna Ventura

Petronio Arbiter

L’Arbiter sapeva
di essere in pericolo,

e non se ne curava; sapeva
che, comunque, la morte arriva,

né temeva un’anticipazione;
ma lo disgustava l’idea

di una violenza brutale,
di una mano sporca

che lo avrebbe trafitto
con un pugnale

forse già insanguinato. Perciò,
meglio morire per propria scelta,

a banchetto, tra parole leggere.
Forse aveva ragione Trimalcione,

che nel suo epitaffio,
dove si definisce

“pio, forte e fedele”, avverte:
“Non ascoltò mai un filosofo”

L’Arbiter amava quella creatura
nata dalla sua fantasia inquieta:

così lontana da lui,
così vicina alla terra.

Giorgio Linguaglossa
Un interlocutore, che vuole rimanere anonimo, scrive alla mia email:

«caro Giorgio,

questo è l’inizio della tua poesia:

A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,

corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.

A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.

Lascia che te lo dica con franchezza, la poesia che hai postato è veramente brutta, è anti acustica, spezza il ritmo, è affettata (nel senso che fai a fette la sintassi), è artificiale (cerchi di spezzare la coda delle lucertole) perché spezzi in continuazione il flusso delle parole, è gratuita perché contrariamente a quello che dici qui si trova un Grande Io che interviene dappertutto nella sintassi e nella stesura prosodica con le forbici in maniera selvatica e con la lametta, tagli e spezzi tutto quello che c’è da tagliare e da spezzare. Alla fine rimane un singhiozzato spezzato intervallato da spazi. Il primo verso contiene 4 parole ed ha 4 punti. Non ti sembra un po’ eccessivo? E questa sarebbe la nuova poesia?».

Foto Ombre sul muro

Mauro Pierno
26 luglio 2018 alle 10:57

Nella vacanza. Questo ritmo.
Le onde arretrano.

Disseminano bacini.
Non affiorano ed i pesci

serpeggiano.
Le dune sovrappongono questo rumore d’aria e scuote il finito. Inganna un momento il tempo

così simile ad una costa sdraiata.
Tra le cosce una perfezione inutile.

Gino Rago
26 luglio 2018 alle 11:32

Porte non aperte, saracinesche abbassate, inferriate, bianco che domina su tutto, bambini e pianoforte compresi… L’oblò non accompagnato da nessun aggettivo… Sul piano linguistico questi versi di Giorgio Linguaglossa sono la gloria definitiva dei sostantivi i quali gettano alle ortiche tutto il truismo e i significanti di tanta poesia [senza destino] di casa nostra, sul piano tematico si avverte invece tutta la condizione dell’uomo del post-postmoderno o del transumanesimo, un uomo senza tempo e senza spazio certi, riconoscibili,
assenza di memoria e assenza di una idea-progetto di futuro, un labirinto senza filo di Arianna di incomunicabilità totale… E’ la metafora dell’esilio più terribile, l’esilio dell’uomo a tentoni nel proprio corridoio.
Ogni lettore forse davvero vede e sente nell’altrui poesia ciò che è in grado di vedere e sentire, scaricando sui poeti-autori i propri limiti, le proprie inadeguatezze.
Anche in questi versi la proposta di essi in distici sono di alto rendimento estetico.

Lucio Mayoor Tosi
26 luglio 2018 alle 13:09

Nella poesia “Omega” l’interlocutore è posto altrove, in un non-luogo. Si presume che stia ascoltando e registrando quanto gli viene riportato dalla visione dell’autore – operatore scientifico –; il quale autore scrive da speleologo, inabissato com’è nell’inconscio. Quando riemerge “c’è un terrazzo. / Una ringhiera si affaccia su un mare nero”.
Io che sono un lettore “della domenica” capisco che si tratta di un sogno; e che l’autore mi rassicura (perché va detto che le poesie di Giorgio Linguaglossa spesso sono incubi della significazione, ma sempre incubi sono).

«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.

È un verso che non sdrammatizza, dice soltanto che se un qualche significato c’è, sta nell’evento. È già trascorso. Qui nulla è rimasto di significato, significante, ritmo o quant’altro possa far pensare a qualcosa di esterno all’evento poesia.
L’anonimo interlocutore parla un linguaggio che non può più essere detto scambievole.

Rossana Levati
26 luglio 2018 alle 14:19

Leggendo “Omega” di G. Linguaglossa mi è venuto da chiedermi subito perché l’insistenza così evidente sul colore bianco che avvolge luoghi e persone, colore dell’invisibilità (come distinguere infatti, tra le pareti bianche, le figure bianche di bambini?) ma anche della mancanza, quasi l’ambiente descritto fosse quello asettico di un ospedale, luogo di sospensione e di attesa temporanea, prima del ritorno alla vita di sempre o del passaggio ad altra vita. Il mare scoperto dietro la porta è nero infatti, con tutto ciò che quel colore rappresenta in se stesso: il buio metaforico di quei “morti che hanno inghiottito il buio”, il rinvio a un mondo sprofondato, con i suoi templi diroccati, che è quindi anche il buio del Tempo (storia che inghiotte se stessa, lasciando i residui delle colonne), buio della memoria e del sotterraneo non così accessibile, ma per tornare al quale è necessario aprire, “con circospezione”, le porte sprangate del tempo.

Ho seguito la traccia di questi colori, passando da un testo all’altro: il buio in cui si aggirano i vecchi di Charles Simic, sprofondati nelle loro camere tetre, nelle stanze nere proprio come quel mare oscuro, delineate dalla sottile striscia di gesso bianco che divide i due mondi, quello visibile ed esterno e quello sconosciuto della morte che prende forse il passo implacabile e invisibile dei topi nascosti nel muro (il bicchiere d’acqua è lo stesso che hanno bevuto i padri morti che ci precedono di poco in cucina, con un’immagine presente anche in Ritsos).

Nera la pelliccia di volpe citata dalla Lipska che si vende per sottrarsi alla memoria smemorata che non pratica più i luoghi visibili e che si libera di noi spargendoci in frammenti sui luoghi della nostra vita, quelli che dovrebbero trattenere il tempo e i ricordi, nero l’Atlantico di Transtromer che si staglia su quella notte che avvolge il mondo, con quella tromba scura dell’ascensore che continua il suo viaggio verticale nelle viscere della terra, sfiorando forse gli strati delle ere geologiche, di un altro tempo in cui sono sepolte le generazioni e i ricordi, e avvolta dall’ombra è la metro sotterranea della Giancaspero, dove invano gli occhi scrutano l’equivoco di chi non ha più strade da tentare per raggiungere certezza di se’: scoprirsi sospesi nel mondo, estranei a se stessi, con una lingua incapace di ancorare al tempo e di dare consistenza al mondo esterno, quello dei corpi e dei giorni, significa anche dover esplorare, come accade in queste poesie pure tutte così diverse nelle immagini e nel ritmo, un mondo oscuro, sotterraneo, inquietante, ai confini della memoria e dell’ignoto, all’inseguimento di ricordi di tutto ciò che è sepolto “giù nel profondo”, al tempo stesso perduti ma anche troppo vicini a noi.

Giorgio Linguaglossa
26 luglio 2018 alle 16:42

Posto la poesia in argomento:

Omega

[…]
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,

corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.

A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.

D’istinto, mi dirigo a destra [a destra (!?)],
[perché a destra (!?)]
[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.

Archi di trionfo. Templi diroccati. Colonne.
[…]
La seconda porta.
Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.

Sono invisibili, ma io li vedo.
A tentoni… giro una maniglia.
[…]
Apro la terza porta.
Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.

Adesso sono visibili.
«Davvero, che gioco è questo (!?)».

Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
Una ringhiera si affaccia su un mare nero.

«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.

In verità, nelle prime stesure della prima strofa di questa poesia saltava agli occhi che essa non era stata scritta con tutti quei punti a mo’ di spezzatino, ma era scritta come un’onda unica fonica e sintattica, alla maniera della ontologia estetica novecentesca. E la cosa non mi piaceva affatto, mi lasciava insoddisfatto. In seguito, nel corso degli ultimi 4 anni ho iniziato a segmentare il testo con dei punti, togliendo i verbi e gli aggettivi (che confondevano e ostacolavano a mio vedere il colpo d’occhio della lettura). La stesura in distici è stata l’ultimissima e decisiva modifica che ho apportato al testo.

La poesia è stata costruita in feroce inimicizia con il «suono», con la poesia fonologica e sonora della tradizione italiana che va da Pascoli e D’Annunzio a Franco Fortini di Composita solvantur (1995). Quello che è avvenuto dopo l’ultimo libro di Fortini nella poesia italiana non lo ritengo, da questo punto di vista, interessante… con l’eccezione di Stige di Maria Rosaria Madonna [1992 e adesso in Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2018, pp. 148 € 12], la quale opera uno strappo vistosissimo con la poesia della tradizione novecentesca in senso lato.

La poesia in argomento è stata costruita nell’ambito della nuova concezione estetica della «nuova ontologia estetica». Mi rendo benissimo conto che ad un orecchio abituato ed educato alla «vecchia ontologia estetica» la poesia possa sembrare brutta e cacofonica. Anzi, il fatto che venga recepita così mi convince sempre di più che mi trovo (ci troviamo) sulla strada giusta, la strada del rinnovamento di una stagnazione del pensiero poetico che si è protratta per più di 50 anni. Innanzitutto, nel mio testo, la fonologia, il suono ha perso la sua centralità, anzi, sono stati relegati in ultima posizione. Il suono complessivo delle parole, la Stimmung non è data dal suono del significante ma dal cozzo acustico della fonemica e dal cozzo dei significati.

Riflettiamoci un attimo: Il «suono» è stato spodestato dalla sua centralità e sostituito con il «niente»… e questo è evidentissimo se rileggiamo per esempio le poesie di Mauro Pierno, di Alfonso Cataldi e di Donatella Costantina Giancaspero postate nell’articolo.
È avvenuta una rivoluzione, e non ce ne siamo accorti. Rectius, chi non la vede è perché non ha occhi e orecchi per avvedersene.

Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso» afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando io ad esempio scrivo:

«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari

utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della «nuova ontologia estetica».

Leggiamo cosa dice un maestro della teoria del linguaggio, Ferdinand de Sassure:

«Le sillabe che si articolano sono impressioni acustiche percepite dall’orecchio, ma i suoni non esisterebbero senza gli organi vocali; così una “n” esiste solo per la corrispondenza dei due aspetti. Non è dunque possibile ridurre la lingua al suono, né distaccare il suono dall’articolazione boccale; reciprocamente, i movimenti degli organi vocali non sono definibili se si fa astrazione dall’impressione acustica.
Ma ammettiamo anche che il suono sia una cosa semplice: è forse il suono che fa il linguaggio? No, il suono è soltanto uno strumento del pensiero e non esiste per se stesso. Sorge qui una nuova corrispondenza piena di pericoli: il suono, unità complessa acustico-vocale, forma a sua volta con l’idea una unità complessa, fisiologica e mentale. E non è ancora tutto.
Il linguaggio ha un lato individuale e un lato sociale, e non si può concepire l’uno senza l’altro.
Inoltre, in ogni istante il linguaggio implica sia un sistema stabile sia una evoluzione; in ogni momento è una istituzione attuale ed un prodotto del passato.
[…]
Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale… La lingua, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione».1]

1] F. de Sassure, Corso di linguistica generale, Paris, 1922, trad it. 1967. edizione del 2001, pp. 1-19

Giorgio Linguaglossa

caro Guido Galdini,
permettimi di disporre la tua poesia in distici. penso che la poesia ne guadagni:

l’esilio è essere lontani
la vicinanza è invece essere vicini

ma quando si è esiliati da vicinissimi
in una terra che ha slacciato i suoi legami

e dimenticato quello che era da ricordare
non è data più terribile lontananza,

Guido Galdini
27 luglio 2018 alle 10:25

grazie Giorgio, perfetto.
La virgola dopo l’ultimo verso era un refuso, ma a rileggerla mi sembra che non sia fuori posto.

Giorgio Linguaglossa
27 luglio 2018 alle 12:10

Per una ragione che ancora non ho capito bene (ma forse Lucio Mayoor Tosi me la può spiegare) la struttura in distici è quella meglio rispondente alle esigenze della poesia della nuova ontologia estetica. Ci dev’essere ovviamente una ragione. Dopo tanto girovagare in tutte le strutture strofiche, siamo approdati alla struttura in distici. Ci dev’essere un segreto.

Giorgio Linguaglossa
27 luglio 2018 alle 12:37

Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso»1] afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando io ad esempio scrivo:

«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari

utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione intermediaria del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della nuova ontologia estetica.

La scena della doccia in “Psyco” è stata girata con 78 differenti posizioni della macchina da presa e 52 tagli di montaggio, esprime bene il modo di riprodurre un oggetto da una pluralità di sfaccettature o punti di vista.

1] op. cit. p. 22

Lucio Mayoor Tosi
27 luglio 2018 alle 17:54

Monostici e terzine; per quanto a mio avviso sia preferibile il primo, se si vuole intervallare. Le mie sono solo constatazioni, nulla che in sartoria non si sappia già; come il fatto che il doppio verso orizzontale sarebbe da intendersi, nel nostro caso, come derivato dal verso libero; del quale mantiene intatta appunto la libertà.

Che la stoffa di questo distico-della-frammentazione sia elastica e performante è piuttosto evidente: può ospitare più frammenti, sopportarne lo stress – tenuto conto che il frammento è quasi sempre un balzo spazio temporale – sulla beltà della tradizione – oppure discendere al terzo verso, primo del distico sottostante, senza problemi di sorta… Si presenta quindi come agile struttura, per altro riconoscibile, identitaria di un modo nuovo di concepire poesia.

Di contro ravviso due problemi, aspetti che non si possono trascurare:
uno, la noia della riproposizione visiva, specie su testi lunghi, alla quale si può ( si deve) rimediare ma al prezzo di uno sforzo immane: pena il calo di attenzione già a pagina tre, se va bene. Quindi bisogna scrivere snelli (si sa che le righe orizzontali…). Ma questo dovrebbe essere un invito a nozze per molti di noi.

Due: la prevedibilità del punto di arrivo; perché, a meno di scomporre in distici un testo scritto in precedenza, un testo che non ne teneva conto, può accadere che si pensi e si scriva restando in misura. Fine del verso libero, ma anche del frammento dirompente, o sorprendente; per una poesia di libero accesso, il cui merito principale sarebbe quello di porre attenzione alla preziosità del distico; nel qual caso, se non altro, si otterrebbe un diffuso miglioramento del versificare, a tutto vantaggio della poesia sulla prosa.
Be’, non è poco.
Con questo non mi sento affatto certo di avere risposto alla domanda: per quale ragione la struttura in distici è quella meglio rispondente alle esigenze della poesia della nuova ontologia estetica?
Aspetterò il passo illuminante, probabilmente il prossimo discordante che metterà ulteriore distanza dalla riva. Già li vedo, i morti che si compiacciono.

Lucio Mayoor Tosi
27 luglio 2018 alle 18:08

«Di chi sei figlia, e di chi sei madre?»
Del vento in arrivo all’aeroporto. Non ho valige. Ho attraversato

velocemente il piazzale dei taxi. Un gatto.
Gli occhiali da sole nel taschino del blazer. Passato, futuro

e nel mezzo una croce.
Ti vedo malmesso. Hai piombato d’oscurità il tuo destino.

Non farlo con me.
Per me respira. Io sceglierò parole profumo di fiori del cimitero.

Finte banconote ti lascerò sul comodino
affinché ti possa disperare in libertà. E tu gli ultimi papaveri

di primavera. Ma che siano veri.
Da “L’intervista”. Poema in via di composizione.

Giorgio Linguaglossa
28 luglio 2018 alle 7:29

copio e incollo da

http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-registro-bordo/

La struttura di questo testo si basa sui distici dove, con maggiore evidenza, si immette il frammento, con proprie sintesi progettuali.

Mario M. Gabriele

Fly Me To The Moon

Signora Stefford i crickets sono andati via.
E’ rimasta solo l’upupa con i suoi up up up.

Non ce ne sbarazzeremo facilmente.
Ormai ha messo le ali sul tetto di Henry.

Ora ci si mette pure il cane Dillinger
a creare sobbalzi e paura.

La città ha una nuova urbanistica con piani terra
dove a sera dorme l’uomo senza nome.

Helen Britt, vicina ai 9o anni,
ha donato la casa ad una onlus.

Nel book-room è diventato best seller
il libro -50 sfumature di grigio- di E.L. James.

Anni 40 e nuovo secolo: che altro aspetti?
Fly me to the Moon!

Andiamo da Mc Lee a interpretare le centurie.
Mary si è fatto un vestito il giorno prima degli esami.

La giornata non è tra le più belle. Piove.
C’è una Street Art sulla A 16. Sembra Warhol.

Due niggers aprono il libro della sera
archiviando Burundi e Burkina Faso.

Anche la notte è passata con le ore.
Il colloquio con Sophy non è stato brillante.

Suona papà Doc il blues del Cotton Club,
è morto il canarino del Wisconsin.

Meg lo diceva che in casa c’era un clarinetto,
ma nessuno l’ascoltava.

5 thoughts on Inedito di Mario M. Gabriele da Registro di bordo

Lucio Mayoor Tosi says:
giugno 22, 2018 at 6:14 pm

Sembra dire: tutto è letteratura, finzione. Ma già che ci siamo facciamola bella.

Mario M. Gabriele says:
giugno 22, 2018 at 7:22 pm

Grazie, Lucio, ma io veramente ho fatto questi distici sballottato dal titolo della canzone di Frank Sinatra cioè Fly me to the moon “Fammi volare fino alla Luna” per distaccarmi un po’ da questa terra. Grazie anche a Francesca Dono.

Giorgio Linguaglossa says:
giugno 22, 2018 at 6:46 pm

caro Mario,
con la scansione in distici la tua poesia ha trovato, a mio avviso, un equilibrio perfetto nel disequilibrio dell’impianto generale. Così la tua poesia ha raggiunto, anche da punto di vista visivo, una sua forma classica, gli spazi che suddividono i distici con regolarità sono funzionali ad un ordine direi trascendentale, all’ordine della civilizzazione che vuole che tutto sia ben amministrato e ben scandito mediante scansioni regolari. ed è proprio lì che tu intervieni inserendo nella prigione dorata della regola aurea del distico, l’irregolarità dell’irrazionale che balza fuori, dopo ogni distico con un formidabile impromptu. L’ordine amministrativo ama la regolarità dei moduli come ci insegna il design del moderno, predilige la scansione dorata i una regola aurea che si ripete, ricordo rimosso della violenza a cui soggiace l’irrigidito e il raggelato. In fin dei conti, l’irrigidito è il raggelato che ha trovato una forma, un vaso, una scansione. ed è qui che l’andamento sincopato stroficamente irregolare mette a nudo la costrizione ideologica del minimalismo che richiede che il tutto sia ordinato e lindo in ottime forme racchiuso.

Mario M. Gabriele says:
giugno 22, 2018 at 7:03 pm

caro Giorgio,
nella tua pagina dedicata ai distici ho preferito non intervenire dovendo realizzare questo testo. Come vedi ho preso di sana pianta la tua proposta perché la mia poesia ha un ritmo narrativo. Sono intervenuto sui 60 testi di Registro di bordo, frazionando il ritmo con l’inserimento dei distici per dare maggiore pausa al frammento. Come vedi non soffro di ipoacusia e sono sempre attento ai buoni consigli, e i tuoi sono sempre “all’avanguardia” Grazie del commento

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Giorgio Linguaglossa says:
giugno 23, 2018 at 10:59 am

caro Mario,
sono contento che il mio suggerimento sia stato accolto da te. D’altronde non avevo dubbi, tu sei uno dei pochissimi poeti autentici che ci sono in giro in Italia e hai una acutissima percezione e gestione del ritmo. Pensa che anch’io ho riscritto una mia raccolta, ancora inedita, in distici, e così mi sono accorto anche di alcuni errori di linea… È incredibile, stiamo andando tutti (anche Gino Rago e Donatella Costantina Giancaspero) verso delle soluzioni metriche molto ma molto simili, e so che anche Lucio Mayoor Tosi è attentissimo a questa nuova impostazione, però lui va con la sua sensibilità, senza fare copia e incolla del distico ma reinterpretandolo a suo modo personale. Questo vuol certo dire qualcosa, no?

Sassure scrive che «la lingua è una istituzione sociale»,1] mentre una poesia in distici è linguaggio articolato, è una istituzione stilistica; non che prima della nuova ontologia estetica non si scrivesse in distici ma, nella nuova poesia che designiamo ontologica, la struttura in distici appare preponderante, ed il perché è evidente: la struttura in distici consta semplicemente di un parallelismo di versi, cioè opera una razionalizzazione della versificazione. Tanto più la versificazione è accidentata, impiega stop and go, interrotta, segmentata, frammentata etc, quanto più la struttura in distici obbliga il testo a rispondere a condizioni di simmetria e di estensione quanto più ordinati, costringe in una successione ordinatoria un materiale verbale alquanto dissestato (sintatticamente e ritmicamente). Quindi si tratta di una struttura sovrastante che agisce come una forza «esterna» ordinatrice di forze «interne» telluriche, conflittuali e belligeranti. Ma, se vengono a mancare quelle condizioni che rendono il testo frammentato, irregolare e conflittuale, viene a mancare anche la necessità di adottare la struttura in distici, in quanto essa trova la propria giustificazione di esistenza soltanto in presenza di una versificazione in sé instabile, accidentata e conflittuale.

Come si sia arrivati alla struttura in distici, non ricordo, forse… leggendo una poesia di Mario Gabriele, istintivamente, per mio divertimento, ho suddiviso la colonna unica di una poesia di Gabriele in distici e mi sono accorto che funzionava meglio. Così l’ho comunicato a Mario il quale si è convinto dell’idea a ha preso a riscrivere in distici la sua ultima raccolta ancora inedita, e anch’io ho iniziato a riscrivere una mia raccolta inedita in distici. La cosa è cominciata così… però l’idea è nata nella dialettica e nella ricerca dell’Ombra, l’idea era già nelle cose, in re. Aspettava solo la sua ostetrica.

Si può dire che la struttura in distici incarna la razionalità strumentale, mentre i singoli versi (che rispondono alle esigenze del frammento e della segmentazione della sintassi) impersonano le pulsioni e le improvvisazioni proprie della psiche profonda, delle figure dell’inconscio, del linguaggio dell’inconscio che è organizzato con una sintassi a noi sconosciuta. Queste due forze contrastanti, una «esterna» e una «interna», possono sorgere soltanto all’unisono e possono convivere soltanto in modo conflittuale. In questo modo la struttura in distici agisce come un coperchio che tenta di chiudere e premere il ribollire delle fermentazioni profonde che si svolgono nella pentola. Insomma, è una questione di pentole e di coperchi. Una nuova struttura è indicativa di una nuova forma.

1] F. de Sassure, op cit. p. 25

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28 risposte a “La nuova Forma Poesia, La struttura in distici. Dialogo e poesie di Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Mauro Pierno, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Rossana Levati, Guido Galdini, Mario M. Gabriele

  1. Veramente interessante è l’esame estetico di Tosi e Linguaglossa. Entrambi hanno posto in evidenza la gestione dei monostici, distici, frammenti e terzine, nella compilazione di un testo poetico,alternandone gli usi al fine di dirottare il verso lungo in un’altra stanza di riserva. Personalmente ho inteso aderire all’invito di Giorgio di scucire la mia poesia il che, e ad una più attenta revisione linguistica, mi è sembrato molto convincente perché l’immissione del frammento, molto simile al distico,di soli due versi, con inizio e fine, trova in quest’ultimo il necessario supporto per inserire, pensieri, eventi, piccole tracce del presente e del passato, impostando quindi una specie di velata autobiografia storica del soggetto, e della sua visione del mondo e del tempo.Ovviamente nelle 66 poesie di Registro di bordo, dominano esempi di distici, associati ai monostici, alle terzine e alle quartine,,in quanto, specie in queste ultime, il distico-frammento diventa improprio a causa della sfasatura che si viene a realizzare.. Da qui il senso logico di una totalità impressionistica che trova la sua ragione d’essere nell’uso di questi attrezzi di mestiere che vanno assorbiti e utilizzati per aprire ampi spazi alla nuova poesia.In questo modo si armonizzano e si scandiscono i distici e i frammenti con una autonomia dell’Arte verso risultati migliori.

  2. Rossana Levati

    L’effetto prodotto dalla ripartizione delle poesie proposte in distici, per me come lettrice, mi sembra sia quello di costringermi a un rallentamento, una sospensione del ritmo, sia che io svolga una lettura mentale, silenziosa, che una lettura ad alta voce.
    La sospensione del ritmo, l’interruzione della catena sonora è accompagnata visivamente dallo spazio bianco che separa le coppie di versi, ma è anche interna ai versi stessi, spesso interrotti da virgole e segni di punteggiatura ripetuti talora anche nello stesso verso: ma la ripartizione in distici aggiunge ulteriori interruzioni, come se si volesse impedire una lettura rapida e scorrevole di un “unicum” testuale e si volesse accompagnare il lettore in un più lento accostarsi al testo. Questa lentezza non ha nulla della musicalità dell’antico distico elegiaco latino, anzi nulla di elegiaco nel senso di quell’abbandono musicale che il metro assicura con la sua inalterabile ripetitività; basterebbe sentire per esempio l’esecuzione moderna di un antico distico elegiaco, con la sua sonorità elegante ma anche con la malinconica ripetizione del ritmo, per comprendere la differenza con questi distici.
    Tutto ciò è evidente in questa esecuzione dai “Tristia” di Ovidio:

    I distici qui proposti, nella scelta di poesie operata da Giorgio Linguaglossa, invece non hanno affatto un ritmo inalterato e costante, come quelli della tradizione elegiaca; ogni coppia, si potrebbe dire, ha un proprio ritmo: alcuni versi sono più lunghi, altri più brevi, altri scavalcano il distico e si concludono nella strofa successiva, altri ancora concatenano la frase in più versi successivi, prolungando la sospensione del pensiero fino alla conclusione di molto rimandata; non sono quindi elegiaci ma frantumati, poiché la frantumazione è nell’oggi e nei mille aspetti del quotidiano, non nei versi; le pause nella sonorità non fanno che accompagnare una riflessione che segue, di coppia in coppia, la focalizzazione del poeta che progressivamente si sviluppa, di strofa in strofa, sulle immagini, i luoghi, i personaggi; sono insomma lo scheletro, l’impalcatura che sostiene l’elaborazione delle parole e del pensiero. Come tale lo scheletro deve essere rigido, anche se la costrizione non si avverte, o meglio è controbilanciata al suo interno da altre “spezzature” o prolungamenti dei versi e delle frasi.
    Cosa accade nella mente del lettore mentre la sua lettura procede così rallentata, anche attirata dallo spazio bianco che circonda i versi? Una lenta messa a fuoco del testo, l’accompagnarsi silenzioso e distante alla riflessione del poeta, l’attardarsi sugli interrogativi proposti (spesso segnati da punti di domanda, da punti di sospensione, da frasi talora assertive talora dubitative). Mi sembra insomma la direzione contraria a quella velocità implacabile che pervade tutte le forme della comunicazione odierna

  3. cara Rossana,
    la tua brillante analisi del distico nella poesia che stiamo tentando di fare mette un punto fermo sulla nostra ricerca di nuove soluzioni della forma-poesia. E detto da te che non sei un “poeta” ma una studiosa disinteressata della poesia, il tuo discorso suona come una verifica di quanto andiamo cercando.

    Informo i lettori interlocutori che sto raccogliendo tutti i pezzi significativi e alcune poesie postate nei Commenti nel mio prossimo libro che è costituito da tutti i frammenti delle nostre riflessioni e delle nostre poesie apparse sull’Ombra. Il titolo del libro sarà:

    La precarietà del Moderno (Studi sulla nuova ontologia estetica)

  4. Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto dell’intervento di Steven Grieco Rathgeb,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/07/29/la-nuova-forma-poesia-la-struttura-in-distici-dialogo-e-poesie-di-anna-ventura-giorgio-linguaglossa-mauro-pierno-gino-rago-lucio-mayoor-tosi-rossana-levati-guido-galdini-mario-m-gabriele/comment-page-1/#comment-36885
    Intervento di Steven Grieco Rathgeb

    Il poeta ha avuto un’idea per una poesia. Ha annotato delle immagini, ha formulato dei concetti. Insieme questi, chiamiamoli “segmenti”, allo stato iniziale racchiudono il grumo poetico primordiale, la ‘ispirazione’, che il poeta intende elaborare e far diventare una poesia, un’opera.
    Secondo Andreij Tarkovskij, nel cinema l’inquadratura è un “segmento colmo di tempo”. E dice anche: “la consistenza del tempo che scorre nella inquadratura, si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura.”
    Quando rifletto su queste parole, immagino di tenere in mano un recipiente pieno d’acqua. Bisogna fare attenzione che l’acqua non trabocchi. Ecco, pensiamo ad un’immagine nello stesso modo: come se questa fosse una cosa reale, vivente. E diciamo che sull’acqua, dentro l’acqua, stanno succedendo cose: c’è movimento: qualcuno sta camminando, le fronde di un albero si muovono nel vento. “Nel puro cerchio un’immagine ride.” (Perdonate la citazione montaliana).

    Segmento di tempo, dunque: come nel cinema, così nella poesia. Le immagini di noi poeti sono virtuali, cerebrali, proprio per questo probabilmente le più universali e potenti! (e le più deboli). E da lì, da quel punto di avvio dell’immagine, così semplice e originario, già inizia anche il senso che l’immagine può avere. È inutile “dare” il significato: L’immagine è già in sé significante. Infatti, l’uomo non può non dare un senso alle cose. L’opera poi diventa opera, la poesia diventa poesia, in quanto il poeta-artista segue un criterio di scelta dei segmenti-immagine e segmenti-concetto. Ciascuno con una propria vibrazione interna.

    Per continuare la citazione di Tarkovskij: se l’inquadratura è ‘segmento colmo di tempo”, “Ne consegue che il montaggio è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione di tempo all’interno di essi.” In poesia, questa pressione vorrei forse chiamarla “densità d’immagine”.
    E proprio per questo che il montaggio diventa operazione fondamentale. Per montaggio non intendo la costruzione di un sistema concettuale fatto a tavolino. Essa è l’opera di un esecutore quasi cieco, che svolge questo lavoro seguendo un solo criterio: la visione della poesia che lo ispirò all’inizio.
    Montare, smontare, rimontare. Operazione imprescindibile – soprattutto per il poeta contemporaneo, che ha scordato l’antica tradizione orale, e deve “scrivere” la sua poesia. Be’, si dirà, questa operazione la fanno tutti i poeti, da sempre: che c’è di strano? Ma un conto è privilegiare il raggiungimento del prodotto finito, un altro usare questa operazione di composizione-scomposizione-ricomposizione per far emergere la pregnanza di quel tempo interno cui allude il nostro regista. Quella densità poetica. Che poi è la viva, reale rappresentazione della visione iniziale del poeta. Che differenza c’è fra questi due modi di procedere?

    Dice Tarkovskij: “E dunque come avvertiamo il tempo nell’inquadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della ‘verità’ nel film. Quando ti rendi conto in modo perfettamente chiaro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appena a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, A QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.”

    Io questa la chiamo la visione del poeta. Che sia cineasta, pittore, musicista, è sempre poeta. In questo momento sono tutti poeti: nella loro mente trema la visione, s’increspa l’acqua nel recipiente, emerge il senso potente della verità artistica – solo artistica, nient’altro.
    Facendo qualcosa di simile a tutto ciò anche in poesia, determiniamo un vero e proprio spostamento del baricentro interno della poesia. Uno spostamento, se posso dire, ontologico. Non è più questione, del connubio “senso-eufonia” come fine ultimo del poetare, ma cercare le radici del poetare, il punto incredibile che per un attimo collega interiorità interiorità ed esterno, microcosmo e macrocosmo, generando una rappresentazione del mondo.

    Dunque, invito il poeta anche a vedere la materia grezza della sua poesia, e il suo stesso senso di autorialità, come una unica seppure molto complessa creatura vivente ( tra l’altro non interamente sua). La poesia in fase compositiva, e la poesia finita, non sono più, come dice un altro regista, Mani Kaul, uno “spazio sacro”, mentre tutto il resto è “spazio profano”. Ora la poesia è minuscolo spazio dicibile, il mondo intorno spazio indicibile. Ma anche: come organismo vivente, essa è un tutto insieme, dicibile e indicibile. LA POESIA È FUORIUSCITA NELLA VITA.

    Questo processo segna la fine della lunga strada della decostruzione della poesia del XX secolo. E’ l’apertura dell’opera artistica al mondo. Si arriva, come la musica contemporanea 60 anni fa con Stockhausen, a dire che c’è una assoluta equivalenza tra suono e rumore.

    E aggiungo un’altra cosa: la poesia che vuole darsi una valenza sociale, politica, religiosa, filosofica non convince più. La poesia trasmette una sua propria verità artistica, non un’altra. E lì la cosa deve rimanere. Il lettore, in seguito, darà il significato che vuole lui. Può sembrare gratuito, perché poi questi significati, queste suggestioni comunque affiorano nella poesia.
    E’ vero. La poesia stessa si aprirà ad un ventaglio infinito di interpretazioni. Indubbiamente. Ma intanto il poeta deve pensare soltanto a rappresentare quella verità artistica, quella specifica persuasione. In questo modo la poesia, e la disciplina necessaria per rappresentarla, trovando se stesse, si innalzano sopra tutto il resto, sopra tutto quello che nella fase compositiva “sporca” la visione del poeta: e ridonano pienamente la dignità all’opera, quella dignità che i poeti stessi hanno negato alla poesia in questi ultimi 50 anni.

    In questo modo si spezza anche il laccio che lega il lettore ad una lettura obbligata della poesia. Il poeta ha trovato la sua piena libertà artistica, così la poesia rende al lettore la sua libertà, che poi non è nient’altro che il semplicissimo ma sfuggente senso dell’opera artistica compiuta. La poesia compiuta.
    Completo con una mia poesia del 1976:

    Senza Titolo

    sorge il sole degli addormentati
    inonda di rosso i visi

    dalla botola di luce dilaga
    un cielo basso incendiandosi

    i visi sono serrati in solitudine
    le fronti riflettono fiammate di luce
    dietro, navigano in sogni illimitati

  5. donatellacostantina

    Partecipo con una mia poesia

    Il vinaio

    Il vinaio accanto alla stamperia
    è il primo cliente della sua bottega.

    Nelle mattine fredde, spunta una riga
    di pigiama, dal maglione indurito.

    Il sesso colposo gli ha tatuato un’ameba
    sotto l’occhio; altre anneriscono in segreto.

    Imbratta kleenex con latte condensato:
    li semina per terra, a mezza luce,

    tra il letto e il comodino
    – per lui, che lo tradisce con uno più giovane –.

    Salite, sabato sera, che vi faccio la trippa!

    Da molti anni, il coltello del pane
    è stato rimpiazzato.

    Le coppette di vetro per la macedonia
    sono rimaste in cinque

    – quella sbreccata è finita nella spazzatura –.

    La bottega è un buco. Una crepa
    a misura di scalpello.

    • La struttura del distico, ma anche del frammento, è quella che meglio si adatta a puntualizzare gli scatti psicoestetici, in una istantanea di oggetti presenti nella proiezione delle figure. E’, in altre parole, cara Donatella, ciò che propongo nella mia poesia verso la quale mi sento facilitato a esprimerla, per semplice predisposizione, articolando i momenti, gli attimi, le pulsioni dell’inconscio,come in questi tuoi versi, che risalgono in superficie nella ricollocazione delle categorie del tempo e dello spazio.Mi sembra che ci stiamo incamminando verso una comune centralità della Forma, come espressione della realtà contemporanea: un percorso certamente asimmetrico rispetto al registro discorsivo delle procedure retroattive.

  6. Cara Donatella, io toglierei il verso “quella sbreccata è finita nella spazzatura”,una precisazione superflua,in un testo poetico di grande gusto; come di grande gusto è:”nelle mattine fredde/spunta una riga di pigiama/dal maglione indurito”Gli aggettivi non sempre sono del tutto superflui;come dimostrano i pochi da te usati nei versi citati.

  7. La poesia di Anna Ventura non è stata concepita pensando al distico, ma ne contiene; questo è per me il mistero: il fatto che si sia individuata la presenza frequente del distico in diverse poesie NOE – ma se ne trovano di frequenti anche nella poesia di Tomas Tranströmer, solo che Lui alternava liberamente, attento com’era a completare l’immagine…
    Personalmente avrei inserito almeno due terzine; ho provato e non mi pare che l’aspetto complessivo del componimento ne risenta.
    La poesia di Donatella invece sembra scritta in distici. Infatti ogni uno di questi tende a concludersi. Solo dal quarto in poi sembra volersi slegare.

    Vorrei invece dire qualcosa sulla sonorità dei versi.
    Ho preso in esame la poesia di Giorgio Linguaglossa, il poeta che considero più avveniristico, e ho notato, all’inizio, parole che si chiamano – anche se immerse nel “bianco” più volte ripetuto, volutamente:
    corridoio, pianoforte, destra e sinistra, porte sprangate. Saracinesche. Inferriate. Oblò – quest’ultima è il colpo di coda.
    Rumori, ma dello stesso genere. Donatella ci ha detto più volte a quale musica potremmo fare riferimento…

    La mia impressione è che alla sonorità non si faccia più tanto caso perché la si è interiorizzata. In fin dei conti, in quanto vivi siamo l’ultimo prodotto di una lunghissima storia; è normale che alcuni aspetti un tempo considerati fondamentali, oggi lo siano meno. Poesia ha cambiato casa, arredo, si è trovata una nuova sistemazione. Anche se devo ammettere che ancora mi sembra di riconoscere nel suono la vocazione. Naturalmente, essendomi formato su poesie per lo più tradotte, non posso entrare nel merito con la dovuta competenza.

  8. È la prima volta che Costantina adotta la struttura in distici per una sua poesia. Devo ammettere che il risultato mi sembra eccellente, come scrive Mario Gabriele il testo acquista una maggiore ariosità in quanto i distici nuotano nel bianco della pagina, sembrano sollevati sollevarsi dal nulla del bianco. Ciò che appare alla scrittura sembra provenire così direttamente da una «struttura originaria» fatta di memoria e di tempo interno sedimentato. E questo è la spia che stai facendo qualcosa di nuovo.

    La peculiarità della poesia di Costantina è la «densità interna» delle sue fraseologie, mai descrittive, quanto rievocative senza essere elegiache. Rispetto al parere espresso da Anna Ventura riguardo al verso: “quella sbreccata è finita nella spazzatura”, io sono di parere diverso, quell’inciso ci vuole, serve a spezzare e a prosasticizzare l’internsità memoriale del testo, infatti, è un inciso, cioè un «taglio», una spezzatura, e si sa quanto gli incisi e le spezzature siano frequenti nella nuova poesia, gli inserti servono per l’appunto a spezzare l’onda sonora, spezzare e interrompere lo scorrimento frastico dell’elegia o della elegia mascherata (come si usa oggi). Qualcosa che ci permette di uscire dalla vita vera ed entrare nel film, parafrasando le parole di Steven Grieco Rathgeb, gli inserti e le deviazioni servono a questo scopo.

  9. gino rago

    [Erranze-Dislocazioni-Esilio-Translinguismo-Dismatriati]

    Caro Giorgio Linguaglossa, caro Mario Gabriele, caro Lucio Mayoor Tosi, cara Costantina Donatella Giancaspero, cara Rossana Levati,
    Vi ammiro per gli interventi colti e pertinenti sulla pagina odierna de L’Ombra. e in anteprima Vi anticipico il brandello di chiusura della relazione su
    Erranze-Dislocazioni-Esilio-Translinguismo-Dismatriati
    in forma di una intervista immaginaria a un autore dismatriato.

    G R
    Erranze, dislocazioni ed esilio sono sempre di più causa di due fenomeni letterario-linguistici a crescente diffusione nel fare letteratura: il fenomeno del translinguismo e il fenomeno dei dismatriati, con i quali fin da ora occorre misurarsi].

    Gino Rago
    Intervista immaginaria a un dismatriato, autore di una raccolta di racconti del dismatrio:

    1- Domanda:
    Chi sono i protagonisti del tuo racconto Dismatria

    Risposta:
    Dismatria fa parte della raccolta Pecore Nere. I protagonisti di Dismatria sono i membri di una famiglia non italiana che da svariati anni risiede a Roma.

    2- Domanda:
    Come vivono i protagonisti del tuo racconto
    Risposta:
    Vivono nella ossessiva speranza di un possibile ritorno a casa. Tanto è vero che continuano negli anni a conservare tutto nelle valigie, tutte le loro cose nelle valigie le quali così sono diventate sostitutive degli armadi

    3- Domanda:
    Quindi le valigie come una sorta di correlativi oggettivi di precarietà, di transitorietà, anche di insirurezza
    Risposta:
    Sì, hai detto bene. Le valigie dei protagonisti di Dismatria non si staccano dalle valigie perché si sentono al posto sbagliato, si sentono fuori posto, in sospeso, si sentono permanentemente fuori luogo

    4- Domanda:
    Ne parli così precisamente nel tuo racconto che ne deduco che anche tu hai avuto le tue valigie
    Risposta:
    Anche io avevo le mie valigie e le maltrattavo, le cambiavo spesso. Le odiavo perfino perché desideravo un solido, sicuro, robusto armadio.

    5- Domanda:
    Perché, lo capisco bene il perché, ma vorrei che lo dicessi tu
    Risposta:
    Perché in un armadio avrei potuto tenere le mie cose meno in disordine e da questo soltanto avrei potuto sentire più sicurezza

    6- Domanda:
    Quindi, valigie, precarietà, disordine, insicurezza. Viceversa, armadio, stabilità, ordine, sicurezza, e dunque serenità più forte verso una idea di futuro…
    Risposta:
    Sono equivalenze presenti nei protagonisti del racconto perché le sento mie.
    Invece a casa mia la parola Armadio era tabù

    7- Domanda:
    Era tabù soltanto questa parola
    Risposta:
    No. Erano tabù anche altre parole. Erano tabù la parola casa e la parola sicurezza, erano tabù la parola stabilità e la parole radice

    8- Domanda:
    Ricordi la prima impressione di Roma
    Risposta:
    A Roma tutta la gente corre, da me la gente non corre mai

    9- Domanda:
    E tu…
    Risposta:
    Sono una via di mezzo, sono a metà strada: a Roma cammino a passo sostenuto[…]
    ———————————————–
    Gino Rago

    • https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/07/29/la-nuova-forma-poesia-la-struttura-in-distici-dialogo-e-poesie-di-anna-ventura-giorgio-linguaglossa-mauro-pierno-gino-rago-lucio-mayoor-tosi-rossana-levati-guido-galdini-mario-m-gabriele/comment-page-1/#comment-36895

      Scrive Lucio Mayoor Tosi:

      «la Poesia ha cambiato casa, arredo, si è trovata una nuova sistemazione».

      Scrive Gino Rago: «le valigie come una sorta di correlativi oggettivi di precarietà, di transitorietà, anche di insirurezza»; «Quindi, valigie, precarietà, disordine, insicurezza. Viceversa, armadio, stabilità, ordine, sicurezza»; «Le valigie dei protagonisti di Dismatria»

      La conclusione che ne traggo è questa: che la nostra «valigia» è il metro a-metrico, la nostra «Dismatria» è la «dismetria». Siamo stati fatti sloggiare dalla «casa stilistica» della poesia narrativa del novecento e siamo stati costretti a peregrinare alla ricerca di una «nuova abitazione» dove ci si potesse sentire a proprio agio, più liberi, in familiarità con le cose e gli armadi pieni di cose in disuso. La «nuova ontologia estetica» è questo percorso: di riappropriazione di una nuova «casa linguistica e stilistica», perché siamo stati esiliati dalla nostra «casa».

      Qualche giorno fa ho scritto questo messaggio ad un autore che mi aveva inviato delle poesie:

      «caro [omissis]

      per quanto tu sia bravo nella scrittura poetica, devo incoraggiarti in senso contrario: devi diventare meno bravo (lo so è un paradosso, ma non imitare, ti prego, i bravi poeti di scuola professorale che ci sono in giro!). devo dirti che la tua è un tipo di poesia che ne novecento è stata ampiamente percorsa, anche l’andamento strofico, così rispettoso della tradizione, mi appare, appunto, troppo rispettoso. Prova a mettere molti più punti e ad utilizzare il verso libero, con un inizio e una fine, rinuncia agli enjambement (salvo casi eccezionali) riduci i verbi all’essenziale e togli quasi tutti gli aggettivi (tanto sono quasi sempre inutili), tu sei bravo ma devi imparare a gettare la bravura dalla finestra! Soltanto rinunciando alla facile bravura si può tentare di scrivere qualcosa di essenziale. Ti mando il link del post di oggi che contiene una Lettera a un poeta e varie altre cose da cui potrai capire in che direzione ci muoviamo (la direzione di Tranströmer, Simic, Ewa Lipska). »

      [inutile dire che l’autore in argomento non mi ha neanche risposto intendendo il mio messaggio come una offesa alla sua Maestà poetica]

      La conclusione è che soltanto gettando a mare tutto quello che abbiamo imparato del secondo novecento italiano, diciamo da Composita solvantur (1995) di Fortini ad oggi, soltanto alleggerendoci di tutta la zavorra potremo raggiungere la leggerezza per una nuova impresa, per una nuova traversata nel mare aperto…

      = Citazione:

      Non posso cambiare il fatto che i miei quadri non vendono. Ma verrà il giorno in cui la gente riconoscerà che valgono più del valore dei colori usati nel quadro.

      Moriva oggi Vincent van Gogh
      #29 luglio

      Parafrasiamo:

      Non posso cambiare le mie poesie perché le poesie non vendono. Ma verrà il giorno in cui la gente riconoscerà che valgono più del valore delle parole usate.

  10. Propongo due mie poesie nate con i distici.

    Una falce striscia nell’erba

    Siamo più poveri perché ci addormentiamo a turno
    sul sentiero per il deserto vagando.

    Un’assordante pioggia penetra nel pensiero,
    il brivido del disagio si sente scorrere.

    Ed è di nuovo sabato, e ancora una volta sei andato
    al cimitero, ad accendere una candela lassù.

    Oggi un annuncio mortuario su una recinzione congelata.
    Solo un momento, e quel malevolo respiro fu sconfitto.

    Siamo diventati più laici o meno lusinghieri?
    Ci asciughiamo per i nostri piedi, e affamati.

    Solo lo spirito è più fresco. Apatici,
    beviamo il nostro tormento alle sorgenti fredde.

    Ci dimentichiamo, di volta in volta, di vivere.
    E poi chiediamo perché moriamo?

    Una falce nell’erba come una serpente: striscia, striscia …
    Quindi anche la vita è finita. Striscia, striscia…
    © Lidia Popa

    Onirica isola criptica

    La visione di Arnold Böcklin
    cambia colori, per Lipsia che l’ammira.

    Livido lo specchio d’acqua,
    come lastra di una tomba.

    Ipnotico e desolante.
    Una mummia o un’anima, forse.

    Un cimitero nascosto all’Uomo,
    una verità senza voce, d’identità oscura.

    Criptico e sconvolgente,
    soppresso in sé da Mallarmé.

    Il silenzio che fa paura
    senza via di ritorno.

    Funesta raffigurazione dell’isola dei cipressi.
    Forse il cimitero degli inglesi.

    Una capella in mezzo al bosco.
    Faraglioni o il castello aragonese.

    Una sagoma a mezzaluna
    con bocche ad insenatura dalmata.

    Sono dei morti di paura, disegnati.
    © Lidia Popa

    O un altra neonata in trittici.

    Una stella nell’Eremo di Goleşti

    Non ho angoli nell’anima più di quelli
    che i versi degli incubi mi attribuiscono
    sulla riva del fiume a Galati, quando la luna sorge.

    Sotto il calcare si troverà il volo dell’ingiustizia,
    sterile, come un ornamento sanguinante,
    nel singolare crepuscolo del granito.

    Un lampone in salamoia,
    e, quelle molte parole nel vangelo del tradimento,
    lacrime di salvezza sotto il ponte di pietra.

    Ombre dei salici abitano nel Danubio,
    cormorani in estasi di teste smmarite
    nel segno di una preghiera per sempre.

    A tarda notte, sorvola lo zenit
    sigillato con cera pulita,
    come una Anna nei muri dell’immortalità.

    Oppure questa suggerita dalla poesia di Lucio Mayor Tosi “Di chi sei figlia? […] che ringrazio.
    Ogni strofa un altro figlio/figlia della terra di quale siamo tutti abitanti.
    Un cocktail di spirito di osservazione che caratteriza l’artigiana che sta in me, per ringraziarvi della lettura.

    Cocktail di domande uccise e risposte
    congelate in cubetti di ghiaccio alla menta

    Di chi sei figlio con i paramenti cuciti
    da una vita piena di terrore
    spogliata dei ricordi ricamati
    in uno specchio con le sopracciglia?

    Di chi sei figlio di dimenticato concepimento
    di alcune albe di silenziose speranze
    nella vanità delle cariche simbiotiche
    riguardate delle dissolvenze incomprensibili?

    Di chi sei figlio che mi fai male oggi
    più di ieri e di domani,
    come un’ipnosi del futuro di un orlo
    disprezzato da una ragione sintattica?

    Di chi sei figlio che afferri incattivito
    stilletto con papillon argentato
    torcendo con asprezza disumana
    nelle redini del destino dogmatico?

    Di chi sei figlio quando il qualche parte
    da te, non sale senza essere spinto
    dal bordo dell’abisso che guardi
    sperando di essere un’attrazione fatale?

    Di chi sei figlio angosciante di piacere
    soffrendo due volte o quasi,
    come se i tre fossero un numero primo
    quando è imparo come la luna insanguinata?
    © Lidia Popa

    Nell’intervista immaginaria di Gino Rago mi ritrovo come un’errante in esilio, meno i tabù elencati. Il tabù che mi ero negata per tanti anni ho ritrovato a Roma. La mia patria di quale mi ero inconscientemente espatriata era la poesia. Se si scrive in italiano, rumeno o qualsiasi altra lingua non importa.

    La forma estetica scelta dal poeta per il lettore può essere una firma ma anche un’opzione, che può fare la differenza nell’epoca in quale siamo abituati a leggere notizie flash.

    Se tra un po’ parto a guardare il Danubio, il Mar Nero, i Carpati, i monasteri e eremi moldavi da vicino, forse nasceranno altri versi, magari con un surplus di carica emotiva per le batterie del futuro della poesia.

    Grazie Roma. Grazie alla lingua italiana che mi ha fatto riscoprire chi sono veramente. Grazie L’Ombra delle parole per averVi incontrati.

    Buona vacanza! Lidia Popa

  11. cara Lidia Popa,
    faccio un esperimento, spero con il tuo benevolo consenso: trascrivo la tua terza poesia e la trasformo dalla struttura in trittici nella struttura in distici abolendo il terzo verso. Secondo me la poesia ne guadagna in forza espressiva e concisione. Che ne dici?

    Una stella nell’Eremo di Goleşti

    Non ho angoli nell’anima più di quelli
    che i versi degli incubi mi attribuiscono.

    Sotto il calcare si troverà il volo dell’ingiustizia,
    sterile, come un ornamento sanguinante.

    Un lampone in salamoia,
    e quelle molte parole nel vangelo del tradimento.

    Ombre di salici abitano nel Danubio,
    cormorani in estasi di teste smmarite.

    A tarda notte, sorvola lo zenit
    sigillato con cera pulita,

    come una Anna nei muri dell’immortalità.

    Oppure, una ristrutturazione in distici senza sopprimere il terzo verso:

    Una stella nell’Eremo di Goleşti

    Non ho angoli nell’anima più di quelli
    che i versi degli incubi mi attribuiscono

    sulla riva del fiume a Galati, quando la luna sorge.
    Sotto il calcare si troverà il volo dell’ingiustizia,

    sterile, come un ornamento sanguinante,
    nel singolare crepuscolo del granito.

    Un lampone in salamoia,
    e, quelle molte parole nel vangelo del tradimento,

    lacrime di salvezza sotto il ponte di pietra.
    Ombre dei salici abitano nel Danubio,

    cormorani in estasi di teste smmarite
    nel segno di una preghiera per sempre.

    A tarda notte, sorvola lo zenit
    sigillato con cera pulita,

    come una Anna nei muri dell’immortalità.

    • Trovo molto interessante questa versione di Giorgio, in pratica ha tolto molto del lirismo che era presente nella versione di Lidia. Direi quasi tutto.
      Poesia antilirica, non elegiaca, non musicale… Un bel guaio, e ora come si fa, senza stampelle?
      Il fatto è che non servono, non se ne sente più la necessità. Ne resta liberata l’intelligenza, secondo me, niente più di quella che ciascuno ha in dotazione; più qualche nuovo suppellettile, tra cui il distico di cui si sta discutendo, oltre naturalmente a tempo, immagini, inconscio, ecc. Tutte cose che si possono ripiegare in formato minimo, perfette per viaggiare leggeri. Basta il necessaire.
      Hai fatto caso, cara Lidia? Io scrissi la domanda “Di chi sei figlia, di chi sei madre?” ma nel prosieguo non mi sono quasi preoccupato di dare risposta. Eppure in qualche modo rispondo, o rispondi tu… Il verso è comunque arrivato. Quindi grazie, mi fa molto piacere, e mi onora, il fatto che tu abbia tratto lo spunto per una ripartenza.

      • Caro Lucio, ti ringrazio per tua considerazione sulla mia poesia. Sono d’accordo ed è per il “quasi” che ho portato la versione finale della poesia con mia impronta in HD (scherzando ovviamente).

        Mi permetto di citare parte del tuo commento insieme alla mia poesia.

        “Poesia antilirica, non elegiaca, non musicale… Un bel guaio, e ora come si fa, senza stampelle?
        Il fatto è che non servono, non se ne sente più la necessità. Ne resta liberata l’intelligenza, secondo me, niente più di quella che ciascuno ha in dotazione; più qualche nuovo suppellettile, tra cui il distico di cui si sta discutendo, oltre naturalmente a tempo, immagini, inconscio, ecc. Tutte cose che si possono ripiegare in formato minimo, perfette per viaggiare leggeri. Basta il necessaire.”
        -Lucio Mayor Tosi-

    • Caro Giorgio, ti ringrazio e, sono d’accordo con la trasformazione in disticì, con un piccolo accorgimento sull’inserimento di alcuni maiuscoli a capo, che crea simbiosi tra i versi che formano il distico. Ecco la mia impronta finale:

      Una stella nell’Eremo di Goleşti

      Non ho angoli nell’anima più di quelli
      che i versi degli incubi mi attribuiscono.

      Sulla riva del fiume a Galati, quando la luna sorge.
      sotto il calcare si troverà il volo dell’ingiustizia.

      Sterile, come un ornamento sanguinante,
      nel singolare crepuscolo del granito.

      Un lampone in salamoia, e, quelle molte
      parole nel vangelo del tradimento.

      Lacrime di salvezza sotto il ponte di pietra,
      ombre dei salici abitano nel Danubio.

      Cormorani in estasi di teste smmarite
      nel segno di una preghiera per sempre.

      A tarda notte, sorvola lo zenit sigillato con cera pulita,
      come una Anna nei muri dell’immortalità.

      Ogni gruppo di distici ora forma un quadro importante. Secondo me potrebbe piacere più della prima variante.
      Succede con le poesie scritte di getto di trovare la forma definitiiva prima di essere inviate per la pubblicazione cartacea. Spesso ho rivisitato i miei testi.

      Quello che fa una poesia essere notata dal lettore non è il verso diviso a metà, sintetizzato in una o due parole, che leggo spesso nella poesia contemporanea. Una poesia può avere un unico verso o tanti versi suddivisi in distici, trittici, ecc., sufficienti a ricreare al lettore uno o più quadri di emozioni da ammirare. Purtroppo, di questi tempi, l’emozione che prevale è quella visiva.
      Lidia Popa

      • * errata: leggere “definitiva”

        • Dal momento in cui qui si parla di distici ed è ancora un laboratorio sperimentale con diverse opzioni, mi sembra che l’osservazione di Lidia Popa sia da tenere in considerazione in quanto ogni distico è un elemento a sé, autonomo e conclusivo. Creare salti in bianco per un distico di tre versi mi sembra una forzatura. Comunque, è un mio modo di vedere. La prima versione di Linguaglossa è senz’altro la più logica e accettabile, la seconda, invece, con lo spostamento del terzo verso è un po’ artificiosa sul testo dal titolo: Una stella nell’Eremo di Golesti di Lidia Popa: Confrontiamoci.

  12. Guido Galdini

    Il distico mi ricorda il respiro: inspirazione, espirazione, pausa…
    Emily Dickinson, in una lettera, chiedeva se i suoi versi respiravano.

  13. gino rago

    Gino Rago

    Erranze-Dislocazioni-Esilio-Dismatriati-Translinguismo

    Translinguismo: un poeta translingue

    E’ noto negli ambienti poetici il caso di un autore del Sud America, che a un certo punto della sua vicenda letteraria, giunge a ripudiare la madre lingua ispanoamericana e adotta, definitivamente, la lingua francese nel suo fare poesia.

    Anche nel caso di questo poeta, accostato ad altri del tutto simili a questo, un linguista ha adottato il termine “autori translingui”, termine con il quale il linguista [che aveva già studiato i casi linguistici di Samuel Beckett, Joseph Conrad, Eugène Ionesco, quali autori esemplari che hanno tracciato la storia della letteratura translingue] intende indicare quegli scrittori che

    “[…]dopo aver vissuto la propria cultura d’origine, si sono mossi verso una critica violenta nei confronti delle imposizioni culturali cui andavano incontro, inventando un sistema linguistico nuovo[…]”

    Un sistema linguistico, familiare anche a molti poeti della NOE, che diremmo disseminato di ibridazioni e di varie interferenze.

    Secondo le ricerche di questo linguista, gli autori translingui sono coloro che in uno stadio della loro storia letteraria scelgono di esprimersi all’interno di sistemi verbali multipli allo scopo di saltare, superandoli, tutti gli ostacoli culturali della tradizione linguistica nazionale, della tradizione di appartenenza per nascita e non per scelta [richiamo l’attenzione generale degli addetti ai lavori di poesia sul rischio facile di confondere il bilinguismo
    con il translinguismo].

    Sempre secondo gli studi rigorosi di questo linguista, oltre a costituire l’atto di una adozione linguistica, il translinguismo letterario comporta soprattutto la trasformazione della identità culturale e personale dello scrittore in transito tra due culture, quella di nascita e quella scelta, così consentendogli l’acquisizione di una nuova Weltanshauung, di una visione nuova del mondo mediata dall’altra lingua.

    Nel caso specifico di questo poeta di un Paese dell’America del Sud, il linguista ne ha interpretato la ribellione contro la lingua spagnola su due livelli principali:

    a- adottando definitivamente e liberamente la lingua francese, secondo lo spirito del suo tempo, il poeta ripudia in un gesto di ribellione il pre-dominio della cultura spagnola da/di cui tutta l’Ispanoamerica ha ereditato la lingua;

    b- utilizzando definitivamente il francese il poeta recupera la propria libertà di artista in rivolta contro ogni forma, ogni tipo di imposizione sociale con tutto il perbenismo di facciata dell’adolescenza nella sua città natale.

    Tutto il ripudio verso la madre lingua questo autore del translinguismo lo affida a una voce poetica in grado di registrare in due intensi, concentrati distici [la breve poesia nasce già in distici…] l’amarezza della condizione di esilio in cui la lingua madre lo ha costretto, madre lingua che il poeta translingue sente inanimata, come una pietra:

    Pierre Mère

    De trop t’avoir fixé ô pierre
    Me voilà dans l’exile

    Parlant un langage de pierre
    Aux oreilles du vent…

    ——————————————————————–

    GR

  14. Una poesia inedita di Giorgio Linguaglossa riscritta in distici.

    Nox Aeterna

    Un aquilone danzava in cielo con i corvi
    i benigni amici dei cadaveri.

    Dalla finestra aperta entra il vento del nord.
    Rimbalza sugli stipiti delle porte spalancate

    e si posa sulle mani di madreperla di mia madre
    che suona il pianoforte.

    Mio padre le ha spedito una lettera dal fronte
    che non arriverà.
    […].
    Un sarcofago. Amorini svolazzanti in rilievo.
    Un putto immerge la mano nel sarcofago.

    Il bambino mette la mano nel primo cassetto a destra del tiretto.
    Ruba qualcosa, dei cioccolatini….

    Il grammofono suona un quartetto di Mozart…
    […]
    Il profilo di Enceladon dal cavalletto davanti alla finestra
    osserva gli astanti.

    Raffaello ha interrotto la pittura, la «Dama con l’ermellino».
    Il cammeo sul collo di mia madre sembra oscillare.

    Scrivo una lettera a mia madre:
    «Le legioni di Roma si preparano ad una nuova campagna.

    Marco Flaminio Rufo è morto».
    […]
    Il pittore fiammingo dipinge il volto di Enceladon.
    Ritrae il mio volto di profilo, in basso, nella bandella di destra,

    sulla figura di un committente.
    Scrivo una seconda lettera a mia madre:

    «Dobbiamo partire. Per il Sud. Presto sarà inverno.
    Passeremo i mesi invernali nei quartieri d’inverno».

    Scrivo una lettera ad Enceladon:
    «Mia cara, Sarmizegetusa è presa»,

    ma dimentico di imbucarla
    o un postino sbadato ha dimenticato di recapitarla.
    […]
    Nina Berberova scrive un racconto:
    «Il lacché e la puttana».

    Io esco dalla vita ed entro nel racconto.
    Sono il lacché. Le chiedo: «Maestà, perché sono qui?»,

    ma la romanziera ha fretta, deve fare le valigie,
    deve traslocare negli Stati Uniti,

    non può rispondermi, il suo compagno Chodasevič
    è stanco e malato.

    Kafka va a spasso con Madame Hanska
    per le vie di Praga.

    Il Signor Cogito sbatte la porta ed esce di scena.
    Sale sul treno blindato zeppo di soldati.

    In corridoio, il filosofo tiene un discorso sulla Bellezza.
    Il romanzo diventa una coppa di champagne.

    Vivaldi è tornato a Venezia, abita con la sua sgualdrina
    in un appartamento ammobiliato al fondaco del Ponte di Rialto.
    […]
    Scrivo una lettera a mia madre:
    «Presto lasceremo i quartieri d’inverno».

    Quando ritornerò, penso, ritroverò il quadro
    di Enceladon con l’ermellino, sul cavalletto, che mi aspetta,

    sarà finito da tempo.
    E i corvi saranno ancora là in alto

    insieme agli aquiloni.

    *
    Una poesia inedita di Mario Gabriele riscritta in distici.

    Da registro di bordo

    L’afa offrì una tregua.
    Il professore Ernest non ha mai fatto jogging

    dopo la fibromialgia.
    Per sistemare il primo piano

    la famiglia Oliver ha messo nel giardino
    il cartello:
                                            House for sale,

    anche se l’abitazione sembra un quadro di Monet
    e c’è una tomba vuota, a due passi dall’autostrada,

    con le statue come sull’isola di Pasqua.
    I bluesmen cantano:Happy Days,

    ed è un ritorno ai fantasmi del passato
    in un amarissimo amarcord di tempi sincopati.

    Jessica crede nello Zen.
    Padre Olmer ha lasciato il testamentum.

    Nel primo capitolo del Canto di Corvin,
    ci sono passaggi che ricordano il Deutoronomio.

    -Non sono abbastanza sicura di andare in Lituania,
    ma se non fosse possibile- disse Kalina,

    -passerò il tempo a seguire
    The Order of the Burial of the Dead-.

    Alle 18 torna Milena.
    Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.

    Sale il fumo fino alla lampada.
    Andrea rinnova aria fresca.

    E’ così invecchiata Masina che non ricorda
    neppure la contemplazione primaverile

    con i primi raggi di marzo.
    Il ritorno di Gesualdo

    non ha portato i canti della Salvezza
    e della Solitudine come passepartout.

  15. gino rago

    [Dalla raccolta Fatelo sapere alla Regina... [di prossima pubblicazione]
    due inediti già scritti in distici]

    1- Decima Lettera a E. L.
    [il bacio]

    Gino Rago
    1- Decima Lettera a E. L.
    [il bacio]

    Cara Signora Jolanda W.
    Oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.

    Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,
    dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka

    [è in polemica con Schiele per «ll Bacio» di Klimt,
    l’aria d’autunno si guasta].

    Il mio amico* ha scritto:
    «[…] due specchi si specchiano nel vuoto,

    illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»
    Il vuoto dentro lo specchio è assenza o cruna nell’ago

    verso la più alta conoscenza?
    Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.

    Dal vaudeville in fondo alla locanda:
    «un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo

    è già luce dello sperma siderale».

    * il mio amico è Giorgio Linguaglossa

    2 – Undicesima Lettera a E. L.
    [nei misteri della lingua]

    Cara Signora Jolanda W,
    Le scrivo dal Centro dell’Impero.

    Cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert
    [come Roland Barthes faceva con la madre]

    La sua morte l’ho appresa dall’amica di Vienna,
    la città oggi è nella tristezza dell’autunno

    [piove da tre giorni]
    Entro al «Blumenstrasse»

    [ il Buffet caro alla Signora Schubert]
    I camerieri, il cassiere, i cuochi… Tutti la ricordano.

    Mi dicono il menù da lei desiderato:
    la sperlunga «Oktoberfest» di patate in tecia e crauti.
    Gnocchetti e gulash [senza cumino in polvere]
    […]
    Viene da Innsbruck la donna senza memoria
    che lascia lo sgabello e parla:

    «L’ambasciatore d’Austria ci confonde, usa intrecci di parole,
    la storia della Signora Schubert è tutta nei misteri della lingua».
    […]
    È proprio vero, bisogna avere il caos dentro

    • Sempre pensando al distico, trovo molto ben scritta questa poesia di Rago. Anche se qualche dubbio mi viene in merito alle parentesi – non quelle coi puntini – perché mi pare una soluzione a rischio di essere sbrigativa; dietro il non detto potrebbe esserci poesia… prendere fiato, dimenticarsi, è anche una tecnica, all’atto del concepimento, non so quanto nuova ma so che riguarda il frammento.
      Reminiscenze della scrittura fluente, fretta… il gran lavorare, ecc.

      Tutte le mie perplessità – parola di nessuno – derivano dal fatto che ancora distinguo tra poesia e quella che chiamo ” serva” (con in mano il secchio del linguaggio), la prosa. Infatti sono dell’idea che il distico possa trovare più felice applicazione nei versi resi lunghi dalla prosa; ma in poesia, o almeno in questa della frammentazione, se si vuole usare il distico di proposito, non credo si possa scappare dalle regole del metro ( lo senti il punto di arrivo, è lì che dovrai terminare). Così intesa, si prefigura come pratica estenuante. Ma anche avvincente, se oltre tutto si considera come creativo lo spazio che separa i due versi.

  16. L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Lucio Mayoor Tosi
    27 luglio 2018 alle 18:08

    «Di chi sei figlia, e di chi sei madre?»
    Del vento in arrivo all’aeroporto. Non ho valige. Ho attraversato

    velocemente il piazzale dei taxi. Un gatto.
    Gli occhiali da sole nel taschino del blazer. Passato, futuro

    e nel mezzo una croce.
    Ti vedo malmesso. Hai piombato d’oscurità il tuo destino.

    Non farlo con me.
    Per me respira. Io sceglierò parole profumo di fiori del cimitero.

    Finte banconote ti lascerò sul comodino
    affinché ti possa disperare in libertà. E tu gli ultimi papaveri

    di primavera. Ma che siano veri.
    Da “L’intervista”. Poema in via di composizione.

  17. Ma questi poeti saranno in grado di darsi questo limite…in distici?

    Un abbraccio, Grande OMBRA!

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