
Quando mi svegliai da questo sogno di cose e persone/
ero tornato e non c’era più nessuno./ Solo soffiava costante, tenace come un mastino
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com
[Steven Grieco Rathgeb nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]
Commento di Chiara Catapano
Capita da un po’ di tempo a questa parte ch’io non riesca a distogliere lo sguardo da quei monti del Pindo, da quella Grecia che per alcuni (di noi) più che luogo geografico è coincidente con una qualità dello spirito. Forse meglio dire “oltre quel luogo”, come se una consistenza luminosa – appena materia, quasi spirito – osasse imprimerci un segno e ci spingesse insistentemente ad affermare: “tu sei questo”. Chi l’ha provato, lo comprende di certo con “un senso in più” proteso verso l’infinito. Ciò che desidero fare questa sera è, con quelli che sono i miei mezzi poetici, offrire quel senso nella lettura di una poesia che potentemente rivendica l’appartenenza ad un luogo, forse più reale di quello cui concretamente allude la materia.
E ciò che affiora dalla superficie immateriale – poco più sotto, poco più dentro a quella natura fenomenica di cui parlavo ora – è l’anima del paesaggio. Se noi siamo qui, testimoni dell’avvenimento poetico, e ne misuriamo metrica e intenti, non possiamo altresì dimenticarci della sua stessa anima. Di questa io voglio parlare.
L’anima inconsapevole – perché eternamente assolvente al proprio destino – emerge dalla poesia Μαϊστρος ricondotta a noi dal vento, più in là facendosi trasportare, dove ogni nostra categoria vacilla. Il ritmo dei versi misurato – i movimenti ampi: si sta, si ha l’impressione di stare, a misurare la distanza tra due cavalloni, in mare aperto (con buona visibilità a avanti tutta). E il soffio del Maestrale ci viene continuamente suggerito, e si chiude dove non più udito, tace anche nel verso.
La poesia Μαϊστρος è un addio curioso, perché chi scrive è appena arrivato. Ma è così, l’anima inconsapevole desta nel paesaggio ci fa barcollare; insinua nella sua pienezza la frammentarietà dell’esistenza umana. Come misurarla, se non attraverso un tempo interiore che raggiunge e fa esperienza dell’altra, che sbocca dentro una terra in noi più viva di quella reale?
Abbiamo avuto modo in questi ultimi tempi di lavorare fianco a fianco, S.G.R. e io, così ho potuto davvero calarmi dentro quei versi ai quali rispondevo con particolare incuriosita frequenza: mi ha detto che il Paesaggio, il “suo” Paesaggio, vuol suggerire qui un annullamento, vuole riportare al grado zero lo spaesamento: ci suggerisce insomma la non-nostalgia nel ritorno. Che è quasi un paradosso, un koan, poiché sappiamo che la parola “nostalgia” è naturalmente legata al ritorno e al dolore. Dunque sospesi tra due: due paesaggi (quello esterno e quello interiore), due visioni del mondo (attaccamento al paesaggio o abbandono del doloroso eterno ritorno), ecco vediamo aprirsi il pertugio minino.
Nella poesia lo sentirete sotto forma di dissonanza rispetto alle immagini proiettate nei versi; un campanello d’allarme, che vi farà mettere in dubbio se stiate guardando davvero nella giusta direzione (se stiate davvero osservando il paesaggio che il Poeta vi indica). In quel passaggio aperto da pochi versi (tre in tutto, che lasciano un’eco anche quando noi ci allontaniamo da loro) la possibilità di misurarci con l’incommensurabile: due che tendono all’Uno, oppure a infinite Unicità.
Ma poi questa è la cifra del Poeta in tutta la sua produzione: sempre, mentre i versi si snodano e conducono in una direzione, qualche cosa avviene (pochi suoni-sillabe che insinuano il dubbio): la direzione muta totalmente, siamo presi come cavalli al morso e costretti a invertire la marcia, con grazia certo, ma sotto mano determinata.
I versi son questi:
“Nel cieco della luce vado rovistando”
“E il modo delle acque di sciacquarsi sempre a riva”
“Di nuovo, nel moltiplicarsi smarrito dei miei futuri
quei promontori guarderebbero solo se stessi.”
Nell’economia della poesia, che è quasi un poemetto, sono pochi. Pure bastano, sono anzi perfettamente bastanti, perché qualcosa in più o in meno, e l’incanto non sarebbe. L’incontro con e tra i due movimenti (interno ed esterno, tempo-luogo) non esisterebbe.
[foto di Chiara Catapano]
Steven Grieco-Rathgeb
Ο Μαϊστροσ – all’Epiro – Vento E Asfodelo
Quando mi svegliai da questo sogno di cose e persone
ero tornato e non c’era più nessuno.
Solo soffiava costante, tenace come un mastino
attraverso la chiusa finestra
mi soffiava il maestrale attraverso
una fessura nel torace.
Alla finestra soffiava azzurro vuoto il vento
lo stesso che a lungo negli anni portò
avvenimenti luoghi persone, ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio.
Lui che in altre condizioni di tempo, luogo e persona
diventò in mille mascheramenti le tramontane
mareggiate e ventate di scirocco, cozzare di nuvole
e rullio di Golfo, montagne, promontori
fattezze appena accennate su volti fuggenti
ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi e gocce d’acqua
microcosmi che stillano dai rami uno a uno.
Loro continueranno a mangiare pesce
a mangiare sul piattino candida feta: continueranno
nelle stanze fra incrociati letti e masserizie
a morire sotto la croce greca.
La sera accenderanno lumi davanti alle icone
e sarà la preghiera alla Dea Speranza.
Continueranno col nero dei sacerdoti,
con l’ala corvina di quattro secoli e mezzo a sventolare
nel bianchissimo azzurro, a vivere e morire.
Passando da qui, voi avete detto: non capiamo
non vediamo, non cogliamo l’attimo che tu evolvi
pregno di mondo, respiro tenace fuggente nel pensiero
nelle cinematiche figure proiettate
a migliaia su di uno schermo vuoto.
Ma io non scolpisco la luce di Seferis.
Uguale talvolta l’angolo osservato,
il suo mirabile altrove non è mio.
Nel cieco della luce vado rovistando:
nessun asfodelo, solo nerobianche immagini
proiettate furibonde su di uno schermo
che non lascia traccia.
E dove sembra il mare incresparsi obliquo verso riva
il vento soffia nella stessa furibonda direzione
proietta queste nere figure, ricordi e promontori
che non intagliano perché senza sostanza,
ombre nel vento che soltanto soffia luce.
Qui dove risalgono uccelli nell’aria, schegge senzienti
catapultati in alto sul mare verdazzurro.
Di nuovo, illusorie bianche nubi ammassate all’orizzonte.
Di là, verso il mare aperto trasecolando, il limone
ingiallirà al sole, il basilico nell’ombra della pergola,
le nuvole statiche ferme sul retro di casa.
Poi da altre finestre che inquadrano Arta, nella distanza
le catene del Pindo incoronate da cumuliformi.
E nella calma di vento, i vecchi seduti davanti al Golfo.
Possa io parlare sempre di te, involandomi su
attraverso questi taciturni ai tavolini
alle tazzine di caffè vuote annerite.
Sono loro i miei autori: libellule
prigioniere alle vetrate, meglio di me
hanno sognato la vastità.
Promontori visionari in tutta la loro lunghezza immobili.
Mi guardano e guardano con i miei occhi.
E il modo delle acque di sciacquarsi sempre a riva,
le rondini di mare che scompaiono nell’aria stranite.
Perché a lungo andare tutto diventerebbe inspiegabilmente reale.
Poi un giorno rompersi a pezzi. Di nuovo sarebbero altri
quei promontori che nel silenzio guardano se stessi.
Quei promontori guarderebbero solo se stessi.
Ecco perché arrivate quando sono già partito.
Questo è lo studio della luce, gli uccelli furtivi
fra gli scuri specchi d’acqua.
Non ne avete studiato l’immobilità.
E nell’erba, nascosti fra le lagune fuggenti
come innumerevoli cavalli di Troia.
Venuti qui, avete solo detto:
non abbiamo visto, non abbiamo colto l’attimo
che si evolve pregno di mondo, dove soffia il vento
sibilo cavo, triste Φλογιέρα avara d’immagini.
In distanza loro mi guardano immobili
e sembrano il mio sguardo.
Perché le schegge del mio pensiero-luce
potrebbero soltanto nel cielo del proprio rarefarsi
tornare un giorno a se stesse, come le onde
prendere il largo e tornare a riva.
Creando un domani e un dopodomani, il mio cercare
tornerebbe a rompersi su questa riva ancora.
E di nuovo questo mio trasalire al volo di rondini di mare
ferite più intense nell’etere già così splendido.
Di nuovo, nel moltiplicarsi smarrito dei miei futuri
quei promontori guarderebbero solo se stessi.
Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Si laurea nell’ateneo tergestino in filologia bizantina. Vive per alcuni anni tra Vienna, Atene e Creta, approfondendo così i suoi studi sulla cultura e la lingua neogreca. Collaborazioni recenti: Fondazione Museo storico del Trentino: assieme al dott. Andrea Aveto dell’Università di Genova: riedizione dei “Discorsi militari” di Giovanni Boine, nell’ambito di uno studio sull’autore portorino. Per Thauma edizioni: ha curato l’edizione di “Per metà del cielo”, della poetessa slovena Miljana Cunta (trad. Michele Obit). Per l’Istitucio Alfons el Magnanim CECEL – Consejo Superior de Investigaciones Cientìficas, rivista “Anthropos” numero di febbraio 2015, l’articolo: “Sopra la rappresentazione transmoderna del sé”.
L’attività prevalente e continuativa (da ottobre 2012), consiste nella direzione, accanto allo scrittore Claudio Di Scalzo, della rivista d’autore on-line Olandese Volante (www.olandesevolante.com); al cui interno, oltre alla pubblicazione di testi letterari in poesia e prosa dei direttori e di alcuni collaboratori, vengono curati autori e maestri in modo “transmoderno”, come la rivista attesta nel sottotitolo: “Transmoderno, arti, pensosità, letterature.” Con Perrone editore esce nel2011 la sua prima raccolta Apice stretto in Verso libero- antologia poetica a cinque voci con prefazione di Letizia Leone. Nello stesso anno 2011 pubblica la raccolta La fame edita da Thauma Edizioni; nel 2013 pubblica La graziosa vita (Thauma edizioni) dialogo sulla tomba di Giovanni Boine, uscita sotto l’eteronimo di Rina Rètis – opera dedicata allo scrittore portorino. Ha collaborato fino al 2013 con l’associazione culturale “Thauma” di Pesaro, per la cui casa editrice è stata curatrice. Ha curato il cortometraggio poetico basato sul poemetto inedito Alìmono, in collaborazione con gli artisti pugliesi Iula Marzulli, Marianna Fumai (RecMovie) e Gaetano Speranza: prima proiezione il 26 dicembre 2016 al Lecce Film Fest. Collabora con la compagnia teatrale Fierascena, fondata dall’attrice e regista Elisa Menon.
La poesia di Steven Grieco Rathgeb nell’era di Aquarius
Quando mi svegliai da questo sogno di cose e persone
ero tornato e non c’era più nessuno.
Solo soffiava costante, tenace come un mastino
attraverso la chiusa finestra
mi soffiava il maestrale attraverso
una fessura nel torace.
Alla finestra soffiava azzurro vuoto il vento
lo stesso che a lungo negli anni portò
avvenimenti luoghi persone, ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio
Così, molto semplicemente, muovendo da uno sguardo fenomenologico e stereometrico Steven Grieco Rathgeb adotta un oggetto invisibile, un vento, il maestrale, un oggetto che non è un oggetto perché inafferrabile, mobile, aeriforme, che occupa un luogo e non lo occupa, che sta lì e non sta lì, un oggetto senza forma ma non informe, un oggetto che passa nel paesaggio mentre che il paesaggio e la dimenticanza passano con lui; ecco, questo «oggetto» apre il «vedere» ad un altro vedere, apre lo spazio, gli spazi, il tempo, i tempi e li emulsiona, li fonde e li trasforma in altro. Allora, quell’oggetto che noi credevamo di vedere, che credevamo di avere lì a portata di mano, quell’oggetto si è dileguato, smarrito e confuso per le valli del paesaggio greco cui questa poesia si è ispirata. E così il «vedere» si è fuso con un gesto, con un moto dello spirito, si è fatto anima, paesaggio, passaggio del paesaggio, è diventato altro, si è arricchito di echi, di sponde, di rifrazioni e si è dileguato. Così, il passare del paesaggio coincide con il passare dell’anima, dei tempi e degli spazi in un fluire incessante che non conosce né mai potrà conoscere requie, quell’universale scorrimento di tutte le cose che ci provoca sgomento ed estasi. Soltanto grazie a questa disposizione dello spirito gli oggetti, il paesaggio, le cose che ci circondano possono diventare linguaggio, linguaggio poetico, perché il linguaggio poetico è come un filtro invisibile, una sorta di ragnatela fittissima che attrae le cose, gli esseri e le persone, e le cattura nel proprio dire, in un certo senso uccidendole ma anche eternizzandole nel linguaggio.
La poesia inizia da un «risveglio», e il risveglio è, insieme, una dimenticanza e una rammemorazione, qualcosa per la quale non abbiamo una parola e che il poeta chiama Ο Μαϊστροσ, parola scritta nella lingua degli dèi ormai fuggiti, nella lingua degli achei e di Omero. E in quale altra lingua poteva essere denominata quella «cosa» invisibile che scorre in questo linguaggio poetico? Un linguaggio post-omerico oserei dire, un linguaggio del modernismo europeo, quello che va da Mandel’stam a Milosz e, qui da noi, a Steven Grieco Rathgeb. E che cos’è il modernismo se non il senso della comunità della cultura europea che tanto stava a cuore al poeta russo? Il modernismo di Steven è la consapevolezza di essere la memoria storica di uno sviluppo spirituale dell’Occidente europeo. Tutto qui.
La domanda di cui ho parlato nel post di ieri, di chi mi chiedeva che cosa intendessi per «modernismo» (per l’interlocutore parola pericolosa), mi fa sorridere. Come fare per far capire a un letterato che cos’è il «modernismo»? Sarei dovuto ricorrere ad argomenti di sociologia della letteratura, e infatti ho tentato di dire in breve che cosa sia stato il «modernismo» della poesia europea. Ma è tutto inutile, il «modernismo» è una categoria dello spirito, non è una cosa che si acquista al supermarket, al supermarket della cultura massmediatica. È che non si dà risposta ad una domanda siffatta. La migliore risposta è il silenzio, e anche la dimenticanza.
Da quella lontananza rovesciata raggiungiamo la lontananza nostalgica. Non essere a casa propria ovunque. Mi viene in mente una parola: Ο Μαϊστροσ, mi viene in mente un ricordo, tanti ricordi, mi viene in mente anche tutto ciò che ho dimenticato, mi vengono in mente il sorriso e lo spaesamento, ed entro nell’ordine della distanziazione; prendo le distanze da tutto ciò che ho dimenticato e da tutto ciò che ricordo, ed entro nella disposizione dello spirito che richiede la Musa, il linguaggio poetico.
Ho parlato di sguardo stereometrico per dire che qui siamo fuori dalla poesia del punto di vista, legata ad un concetto cartesiano del vedere, ci troviamo in una visione sdoppiata, bilaterale, trilaterale come se vedessimo con un occhio frontale e altri due laterali, con due occhi posizionati su entrambi i lobi parietali, il favoloso sguardo «sincipitale» intorno a cui Mandel’stam indagava cento anni fa. Allora lo sguardo diventa aereo, può ruotare liberamente intorno agli oggetti, si fa esso stesso orizzonte degli orizzonti, diventa visione prismatica e multifocale, e l’occhio non può che fibrillarsi e ritrarsi… Una poesia tutta giocata sul fiato, sullo spezzarsi del fiato; occorre per far questo approvvigionarsi di una gran quantità di ossigeno e scalare la parete rocciosa, vertiginosa e perpendicolare dei monti, e sospendere ogni accordo o disaccordo, ogni pensiero, per poter fluttuare sopra i pensieri, sopra i sogni (o sotto i sogni), sopra gli affanni e le piccole gioie…
Ecco perché arrivate quando sono già partito.
Questo è lo studio della luce, gli uccelli furtivi
fra gli scuri specchi d’acqua.
Non ne avete studiato l’immobilità.
Ecco che sono arrivate, misteriosamente, delle presenze che chiudono il tempo, che operano un contromovimento rispetto al tempo dell’io dissoltosi insieme alla flogosi dell’anima; il tempo estatico, il tempo della dimensione estatica è il tempo eleatico della continuità e del cambiamento, e l’anima, aggrappata tormentosamente alle «rondini del mare» e agli «uccelli furtivi» dilegua e ritorna alla Lichtung, allo slargo, alla radura della dimensione estatica. In quella dimensione il tempo è tutti i tempi e lo spazio è tutti gli spazi, ma viverci lì, in questi spazi e in questi tempi della flogosi, è impossibile e l’io si ritira nella dimensione della cecità che tutto vede e antivede che, propriamente, è la dimensione del vedere della posizione estatica. Più che propensione fenomenologica questa poesia di Steven Grieco Rathgeb è una poesia della dimensione trascendentale, ci narra l’esercizio di un «vedere» senza il corpo che è il lato in ombra della «cecità», dove il tempo si fa ancora più lento, scorre con una lentezza irremeabile, sembra quasi fermarsi ossidato dallo spazio e dagli spazi che la poesia apre senza mai chiuderli, come una serie di parentesi che si aprano e si aprano all’infinito con tantissime parole dentro fatte di silenzio imperfetto come può essere la lingua degli umani, la lingua imperfetta dei silenzi.
La «nuova poesia» non vede più in bianco e nero: «Come ospitare il giallo in una logica del bianco e nero»?
Straordinaria domanda che io porrei al centro della nostra ricerca di una «nuova poesia»: come mettere il giallo all’interno di un quadro in bianco e nero? Ecco, forse Lucio Mayoor Tosi potrebbe rispondermi. Se accettiamo la provocazione di Rovatti, dobbiamo pur tentare di rispondere in qualche modo: come mettere il giallo, il rosso, il verde e tutti gli altri colori in un quadro in bianco e nero? La domanda è provocatoria, ma alla domanda corre l’obbligo di dare una risposta. Come potrebbe la poesia epigonica di oggi rispondere a questa domanda? Io penso in nessun modo, lei continua a fare una poesia grigia, neanche in bianco e nero…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/22/steven-grieco-rathgeb-una-poesia-%ce%bf-%ce%bc%ce%b1%cf%8a%cf%83%cf%84%cf%81%ce%bf%cf%82-maestrale-commento-di-chiara-catapano/comment-page-1/#comment-36018
«Sembra che la fenomenologia voglia condurci là dove non vogliamo arrivare, e cioè a riconoscere che il mondo dia un nostro fenomeno. Perché non vogliamo arrivarci? Probabilmente perché non vogliamo restare soli al mondo (o nel mondo).
Perché questa onnipotenza del vedente ci sembra un trucco, e abbiamo molti motivi per credere che, alla fine, ci renda impotenti; inoltre, sappiamo già che per evitare il trucco dobbiamo rinunciare a un’illusione che ci gratifica, ma sappiamo pure che non ci è possibile rinunciare davvero a questa illusione. Il filosofo stesso sa (come sa, per esempio, Merleau-Ponty) che per uscire dalla presunzione narcisistica del vedente si entra in un paradosso e in uno stato di inquietudine: lo sa perché glielo dice con messaggi sempre meno ambigui l’intero Nietzsche, freud, e Heidegger. Gli dicono che mentre parla del vedere sta continuando a parlare del pensiero del vedere e non della visione, e gli fanno anche sapere che in ogni caso (anche quando si accorge di scambiare il vedere con il pensare) di nuovo si ritrova, in quanto filosofo, in un pensiero del vedere. Anche chi osa spingersi più avanti, e così si allontana dal modo normale di pensare della comunità filosofica, come è il caso di Merleau-Ponty (che si avventura in un’opera impossibile come Il visibile e l’invisibile), anche questo filosofo continua a pensare in bianco e nero.
Quando Merleau-Ponty contrappone il pensiero di sorvolo all’abitare il mondo, e ci offre osservazioni preziose sul vedere come abitare e sull’abitare come distanza, e dunque anche sulla visibilità come distanza, anche lui ci invita a pensare una contrapposizione piuttosto che un paradosso, e comunque ci invita a pensare e dunque, in un certo modo, a sorvolare. Se non si esce mai davvero dalla logica del pensiero che pensa in bianco e nero, il problema è allora come non uscirne (il che si convertirebbe in una sanzione senza appello) ma come starci dentro. Come ospitare il giallo in una logica del bianco e nero. Come abitare il nostro sorvolo (sapendo che per abitare il sorvolo occorre ospitare il sorvolo stesso, senza credere di poterne fare a meno)
L’occhio che sorvola (osservatore esterno che prende, come si dice, una distanza critica) non si limita a lasciare il posto allo sguardo che abita (osservatore interno?). Lo sguardo in questione non è un vedere meglio, un’acutezza della vista, anche se la filosofia, nella sua storia, è in buona parte questa strategia di trascendimento dell’occhio: storia di un occhio sublimato nel pensiero per mettersi in grado di vedere oltre e di più. Occhio che si trasfigura in una vista intellettuale che riesce a vedere ciò che l’occhio non vede, l’invisibile o dei fantasmi. Occhio divino, si direbbe, capace di andar dentro le cose e sopra di esse. Occhio che non è più occhio, bensì mente o mantica, e così il filosofo diventa veggente, a prezzo della propria cecità. Contro questa metafisica del vedere, che prende ogni volta la mano del filosofo, il richiamo all’ottica e alla sensibilità è certo una salutare compensazione, ma poi, come sappiamo, l’installarsi nell’ottica non risolve il problema, anzi lo rilancia. Effettivamente noi vediamo di più di quanto vediamo, e insomma dobbiamo riconoscere che vediamo anche quello che non vediamo, e infine che il vedere non si può limitare all’occhio. Merleau-Ponty: nel visibile c’è l’invisibile, il visibile è una piega dell’invisibile. Lo sguardo non è un occhio più potente: è altro».
«… l’occhio, frenato nella sua deriva idealistica, e insomma trattenuto dal trasformarsi in una pratica visionaria, accede alla visibilità non perché si potenzia in uno sguardo fenomenologico che gli permette di cogliere lo sfondo e l’orizzonte di ciò che vede, ma perché incontra lo sguardo delle cose. Perché riesce, grazie a questo incontro, a collocarsi come vedente all’interno, per così dire, e comunque a partire dalla visibilità. Dovremmo allora riuscire a pensare, e a trovare le parole per dire, un’esperienza che rivolge, e anzi proprio capovolge il narcisismo del nostro occhio».1]
1] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina editore, 2007 pp. 33,34
Un commento meditato a questa poesia di Steven Grieco richiederebbe molto spazio; nella brevità di un riscontro rapido,fisso l’immagine di quei vecchi soli che “meglio di me hanno sognato la vastità”: un verso che evoca un intero mondo spirituale,forse calato in una realtà umile, eppure capace di evocare gli immensi spazi dell’anima, spazi che si vanno facendo sempre più rari,in una corsa dissennata tesa a raggiungere approdi spesso miserabili,cieca alla bellezza e alla verità.
Nella lettura di questo poemetto io sono stata colpita soprattutto dall’immagine del maestrale che soffia “attraverso una fessura nel torace”: il verso mi ha dato l’idea che la voce parlante assuma la prospettiva di un morto che parla dall’aldilà, da un altrove senza tempo e senza spazio, che possa aver finalmente raggiunto la sospensione dei desideri e dei bisogni; così la “stanza disadorna” in cui soffia il vento mi è sembrata la stanza della memoria, priva di tracce e vuota di cose, persone e odori; ad altri ormai appartiene il bisogno di “mangiare pesce e candida feta” e il compito gravoso di continuare a vivere e morire, soprattutto morire sotto la croce greca cui rimandano anche i letti “incrociati”, senza tuttavia poterne capire il senso perché esso non si riesce a vedere (vedere e capire, “idein” e “eidenai”, condividono la stessa radice in lingua greca). Il mondo dei viventi non è che una proiezione su uno schermo illusorio, schermo vuoto della visione mancata: la vita umana, così corporea, così pesante, non è che un’ombra nera, dalla direzione “furibonda”, proiettata da un vento “furibondo” come le vite inconsistenti e provvisorie degli uomini.
La luce del paesaggio mediterraneo di Seferis è ormai lontana, e può accadere che per troppa luce non si veda più niente, ma lo spazio della visione diventa spazio della visionarietà, dove il mondo può essere immaginato e compreso nell’istante di una rivelazione improvvisa. Non ci sono nemmeno gli asfodeli, che nel mondo greco sono associati al regno dei morti, quegli asfodeli che crescono si terreni aridi e incolti, solo tazzine di caffè vuote annerite, residuo di una bevanda consumata, come la vita consumata dei vecchi che hanno fermato sogni e visioni seduti di fronte al Golfo, rinunciando alla vastità dei voli delle libellule e restringendo la loro vita quotidiana nel rito di un caffè consumato e rapidamente esaurito.
Ma la visione si impone, quella dei “promontori” del paesaggio mitico, del Pindo, che guardano l’io narrante con i suoi stessi occhi, fuori dal tempo: chi arriva sulla scena, troppo tardi, troppo legato alla terra e alla vita concreta, è ancora lontano dalla epochè, dalla sospensione dei desideri e dei bisogni, troppo legato al vedere concreto, con gli occhi del corpo, e non può che registrare il suo ritardo: “non abbiamo visto” è la frase della sconfitta e della lontananza.
L’errore di quegli interlocutori, identificati con il “voi”, sta forse nel non aver saputo intendere il “ritmo” che percorre il mondo, che fa diventare la luce buio e poi tornare luce, nel non aver saputo adattarsi alla mobilità delle onde che vanno e vengono sciacquandosi “sempre a riva”, al volo delle rondini “che scompaiono nell’aria”: il fluire del mondo, proiettato sullo schermo della mobilità del vento, potrà essere colto da chi è fuori dalla materia, da chi si fa aereo come quel vento, pronto a seguire il ritmo delle onde e il loro periodico ritorno sulla riva, o il volo delle rondini di mare.
Solo fuori dal tempo il pensiero-luce riesce a cogliere l’attimo impalpabile, fatto di tempo ma sfuggente come le rondini e l’acqua: attimo che si può inseguire e ricercare tra i promontori immobili e che fa trasalire al suo incontro.
Gino Rago
Decima Lettera a E. L.
[il bacio]
Cara Signora Jolanda W.
Oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka
[è in polemica con Schiele per «ll Bacio» di Klimt,
l’aria d’autunno si guasta].
Il mio amico* pensando all’altro amico [che ha lasciato Roma]**ha scritto:
«[…]due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno[…]»
Musica, pausa, parola, silenzio. Linguaggio senza lingua
o immagini sfocate dell’ “Io” sopraffatto?
Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.
Dal vaudeville in fondo alla locanda:
«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce dello sperma siderale»
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* il mio amico è Giorgio Linguaglossa
** l’altro amico [che ha lasciato Roma] è Steven Grieco-Rathgeb
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GR
Mi collego a quanto rilevato da Rossana Levati, ai versi
“mi soffiava il maestrale attraverso / una fessura nel torace”… “ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio”; perché questi versi mi parlano di un disagio, di una malinconia, o forse peggio di una pesante tristezza sottoposta a cura:
“ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi (…)
Steven Grieco è tra gli autori NOE quello che maggiormente si occupa dell’aspetto ontologico di questa ricerca. Il suo frammento lungo, meditato, che si dà tutto il tempo che serve, io spero possa servire da esempio, per scongiurare il pericolo che l’uso frequente del punto possa volgere nella direzione di un passo troppo regolare… Voglio dire che le immagini, penso tutte, abbiano come un loro respiro – oh, questa poesia ne è piena – alcune passano rapide, altre si soffermano.
A me ha colpito il verso, già evidenziato da Chiara Catapano, di “quei promontori guarderebbero solo se stessi”, preceduto ma con altro significato da “Poi un giorno rompersi a pezzi. Di nuovo sarebbero altri / quei promontori che nel silenzio guardano se stessi”.
Vi ho sentito senso di estraneità, quasi un Che ci sto a fare qua. Il che mi ricollega alla ferita descritta inizialmente. E alla cura che sempre la natura sa darci, quando depositiamo le nostre domande e semplicemente stiamo.
Tomas Tranströmer
APRILE E SILENZIO
La primavera giace deserta.
Il fossato di velluto scuro
serpeggia al mio fianco
senza riflessi.
L’unica cosa che splende
sono fiori gialli.
Son trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.
L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento
[da La lugubre gondola,Rizzoli, 2011
Traduzione di Gianna Chiesa Isnardi]
Analizzando questo concentrato, denso testo di Tranströmer, che per me e per la mia ricerca di poesia è il traguardo, è [difficilissimo da toccare] il modello poetico esemplare, è facile notare che l’autore de La lugubre gondola si affida a una parola poetica essenziale, concentrata, evocativa, metafisica e con questa parola, non con altre parole, tenta l’immersione nella contemplazione del paesaggio naturale che nel poeta si fa specchio di quello dell’anima, [ecco lo specchio che in altra forma fa ritorno… ], percependo fra sé e il paesaggio stesso un nuovo ordine. Dice la Chiesa Isnardi “[…]Nella poesia di Tomas Tranströmer niente è fuori posto o in più, ogni parola ha un peso simbolico all’interno di testi che si avvicinano alla perfezione…” E poi continuando nel suo saggio, la Chiesa Isnardi usa la parola-chiave, quella che in me ha fatto scattare il guizzo dell’accostamento persuaso al nuovo corso della poesia lanciato da Giorgio Linguaglossa, proprio con Tomas Tranströmer come altissimo modello, come faro cui indirizzarci adottando il nuovo corso poetico:”[…] La poesia così diventa “meditazione attiva” in grado di destare impulsi, offrire una visione diversa, barlumi di verità. Una poesia dinamica e aperta, dove è centrale l’elemento sensoriale; una poesia in cui la lingua è spinta al limite estremo, alla ricerca della parola perfetta nel silenzio gonfio di messaggi a cui il chiacchiericcio del mondo ci ha disabituato; una poesia che non si dà mai una volta per tutte, ma continua a suscitare dubbi e incertezze, come una finestra costantemente aperta sull’ignoto…”.
Estraggo ed evidenzio:
La poesia come meditazione attiva…
Charles Simic si muove magistralmente proprio in questa scia e lo stesso dicasi per Ewa Lipska. Al di fuori di questi tre per me maestri assoluti di poesia contemporanea non sento alcun risucchio, nessuna vertigine negli abissi della parola, anche se rimane il rispetto assoluto per la fatica che è sempre dentro e dietro qualunque esperienza poetica.
La poesia della NOE deve essere Poesia della meditazione attiva…
[Se i miei bronchi fossero in grado di lavorare come vorrei anziché come capricciosamente stanno facendo da qualche settimana a questa parte, mettendomi non di rado in quella pena nota come ‘fame d’aria’ come Giuseppe Talia magistralmente l’ha definita, potrei dare forse altri contributi, ma non sempre ho la forza per ora per poterlo fare ].
Gr
Una poesia inedita di Lidia Popa
Anche a questo funerale mancherò
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/22/steven-grieco-rathgeb-una-poesia-%ce%bf-%ce%bc%ce%b1%cf%8a%cf%83%cf%84%cf%81%ce%bf%cf%82-maestrale-commento-di-chiara-catapano/comment-page-1/#comment-36019
Ho finito di lavare i piatti in cucina.
Ho messo a posto.
Ho lucidato il lavandino.
Ora brilla come l’acciaio appena sfornato.
A pranzo ho mangiato frittata con le patate.
Ho messo tutta la poesia del frigo dentro.
Quattro uova per due porzioni, cipolla e patata lessa,
una grattugiata fresca di Grana Padano.
Ho girato e sistemato tutto
su un piatto da portata.
Apparecchiato. Servito.
Mangiato. Lavato.
Stasera a cena mi è rimasto questo verso.
Insipido.
Oggi ho saputo che è morta la zia.
Lei era un pezzo di pane.
Tante volte una madre.
No, non era come mia madre.
Mia madre è viva.
Mia zia ora è una santa.
Ha convissuto per anni con la cirrosi.
Come mio padre.
Lui è morto nove anni fa, come fosse oggi.
Era quattro luglio del duemilanove.
Era nato in un giorno significativo: undici settembre,
anniversario di morte per l’America.
Per me il quattro luglio è il giorno più triste
che ricorderò per il resto della vita.
Attraversavo la strada.
Il telefono squillava.
Era mio fratello che chiamava.
Erano le diciassette e trentatré di pomeriggio.
Mio padre stava morendo.
Io non c’ero a tenere la sua mano,
a dire che andrà tutto bene.
E bene non andò.
Finii solo per cucinare ogni giorno una poesia dal frigo.
E tanta solitudine marcia.
Volevo solo decorare la morte,
descriverla meno paurosa del vissuto,
contraddicendo chi diceva che ispiro pena,
per aver cercato una vita degna altrove.
Mio padre non ha mai saputo che sono un poeta.
La zia Teodora lo sapeva.
A lei ho letto una domenica alcune mie poesie
fresche di cucina.
Ora incontrerà mio padre e le racconterà,
come so cucinare le poesie dal frigo.
Bellissima poesia, Lidia. Questa è la seconda volta che riesci a sorprendermi piacevolmente; non che io ne sappia e il mio parere non conta niente, ma quando – quando quando? – mi sorprendo allora so anche della mia critica. Grazie.
Grazie Lucio Mayoor Tosi. Conta il parere anche del più semplice lettore, quello di un critico valorizza nettamente l’opera. Non mi permetto di solecittare questo tipo di intervento critico per la mia scrittura. Sarei molto onorata se avviene a sorpresa. Ho inviato a Giorgio il mio lavoro, sollecitato, ma non pensavo a questa sorpresa. Grazie Giorgio Linguaglossa e l’Ombra.
la caratteristica di Lidia Popa è questa aderenza al «quotidiano». Il suo quotidiano non è quello appreso alla lezione della scuola lombarda ma quello appreso dalla sua viva esperienza di tutti i giorni: la cucina, il lavaggio dei piatti, la frittata di patate, il frigo, la madre, il ricordo del padre, la zia Teodora… etc. tutto vero, tutte cose vere, non c’è nulla di inventato, c’è la concretezza delle cose vere e vissute e c’è anche la serietà del lavoro per appropinquarsi alla poesia, con semplicità e con umiltà. Una calzolaia della poesia Lidia, senza grilli per la testa, come le poetesse e pseudo poetesse italiane che girano in calzamaglia e con i tacchi a spillo per far vedere quanto sono brave, e invece sono soltanto banali. Sono «poesie/ fresche di cucina», tra una frittata e l’altra, poesia frugali, senza panna, senza zuccherificio, senza l’inutile ironia o l’inutile gioco combinatorio di vocali e consonanti.
Onorata di questo commento. Grazie.
Ricevo e pubblico
Due poesie di Lidia Are Caverni
da LA CASA DELL’ORO (estate-autunno 2016)
In punta di penna
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/22/steven-grieco-rathgeb-una-poesia-%ce%bf-%ce%bc%ce%b1%cf%8a%cf%83%cf%84%cf%81%ce%bf%cf%82-maestrale-commento-di-chiara-catapano/comment-page-1/#comment-36023
In punta di penna
ti scriverei messaggi
unità di convolvoli
chiudono reti
di giardini mai visti
e tu prosegui
per gli inesorabili
percorsi cercando
la meta dell’oro
senza vedere
che sui fili la libellula
danza la danza
dell’ombra e del sole
solitario ti volgi
altrove senza ritorno.
*
Cinque farfalle
bianche in formazione
s’involano nel prato
la limaccia le ignora
crogiolandosi al sole
neri gli uccelli
macchiano il cielo
e io respiro come
avesse taciuto
da millenni la freschezza
dell’aria.
Lidia Are Caverni è una poetessa di Mestre che ha tutta la nostra stima. Pubblico qui due poesie di una sua raccolta inedita anche se la sua linea di ricerca appare più in linea con la poesia di un Piersanti che non con quella della nuova poesia che stiamo ricercando. È una ricerca degna della più alta considerazione, sicuramente è un progetto di ricerca a cui auguriamo le cose migliori…
Il nostro è un laboratorio di scambio e di proposta e la pubblicazione delle proprie poesie ha un senso in questa ottica, in una visione di confronto e di scambio di tesi, in tal accezione saremmo interessati di sapere da Lidia qual è il suo pensiero sulla nostra direzione di ricerca…
Fine osservatrice della natura la poetessa Lidia Are Caverni.
Mi colpisce nella sua poesia questa forma espressiva:
“e io respiro come
avesse taciuto
da millenni la freschezza
dell’aria.”
Racchiude in sé la meditazione che la natura propaga in noi ogni volta che ci immergiamo in essa. L’effetto benefico della natura è il senso di liberazione che ci lascia, allontanando stress e oppressione. Ci fa scoprire “la meta dell’oro”, vivere felici e sani mantenendo puro il contatto con la natura.
Una sfolgorante, metamorfica architettura iconica eretta sul confine fra mimetico e fantastico, sul punto di trasfigurarsi in simboli e tracce d’una trascendenza inafferrabile dal linguaggio convenzionale, che può scaturire solo da questa conversione del pensiero in estatica immersione nell’incessante fluire dell’essere, svincolato dalla prigione di schemi e categorie che formano l’illusoria, statica verità del realismo positivista: questo l’incanto verbale, pregno di echi classici integrati ad istanze post-moderne, creato da Grieco.
Vorrei accostargli un testo della Rosselli, che vedo in sintonia espressiva e spirituale.
O mio fiato che corri lungo le sponde
dove l’infinito mare congiunge braccio di terra
a concava marina, guarda la triste penisola
anelare:guarda il moto del cuore
farsi tufo, e le pietre spuntate
sfinirsi
al flutto.
Caro Giorgio, grazie per aver pubblicato due mie poesie e per il commento di Lidia Popa e ti ringrazio per i tuoi auguri. Scrivo da moltissimo tempo, sono una voce piuttosto solitaria, la mia è una ricerca che parte dal quotidiano accostarmi al mondo della natura , che trae dalla mia interiorità note a volte molto lontane dal presente. E’ come se all’improvviso scaturiscano toni tratti dal profondo, che si accostano alla vita di tutti i giorni.
La mia poesia è molto lontana da un quotidiano come quello di Lidia Popa. Seguo il lavoro di ricerca compiuto dall’Ombra delle parole e lo apprezzo. Penso che possa aiutare quanti si accostano per la prima volta alla poesia e ne traggano spunti e guida che li aiutino a discordarsi dalla mediocrità di troppi pseudo poeti.
Lidia Are Caverni
Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb “Ο Μαϊστροσ – all’Epiro – Vento E Asfodelo”, ritrovo il sentimento che mi ha avvolto, quando ho scoperto questa meravigliosa terra mistica, piena di santuari sospesi tra mare e cielo. Le preghiere e la speranza sembrano di alloggiare ovunque guardi, e non puoi dimenticare il fascino, e l’ospitalità di questo benedetto popolo erede di Aristotele e Socrate, che hanno dato al mondo una guida filosofica, di quale non potremmo fare almeno ora e nelle generazioni future.
“Loro continueranno a mangiare pesce
a mangiare sul piattino candida feta: continueranno
nelle stanze fra incrociati letti e masserizie
a morire sotto la croce greca.
La sera accenderanno lumi davanti alle icone
e sarà la preghiera alla Dea Speranza.
Continueranno col nero dei sacerdoti,
con l’ala corvina di quattro secoli e mezzo a sventolare
nel bianchissimo azzurro, a vivere e morire.”
Riporto qui l’immagine poetica di Efeso su quale ha scritto Giorgio Sefèris di Giorgòs Seferiàdis (Premio Nobel per la Letteratura nel 1963) a quale Steven Grieco fa riferimento:
“Efeso
Parlava seduto su un marmo
simile a rovina d’antico portale:
sterminato e vuoto a destra il campo
a sinistra scendevano le ombre dal monte:
“La poesia è ovunque. La tua voce
a volte incede al suo fianco
come il delfino che per poco ti accompagna
vascello d’oro nel sole
e poi scompare. La poesia è ovunque
come le ali del vento nel vento
che per un attimo hanno sfiorato le ali del gabbiano.
Uguale e diverso dalla nostra vita, come cambia
il volto di una donna che si è spogliata,
e tuttavia rimane uguale. Lo sa
che ha amato: alla luce degli altri
il mondo implode: ma tu ricorda
Ade e Dioniso sono la stessa cosa”.
Disse e imboccò la grande strada
che mena al porto di un tempo, ora inghiottito
laggiù fra i giunchi. Il crepuscolo pareva
per la morte di un animale,
così nudo.
Ricordo ancora:
viaggiava sulle coste della Ionia, in vuote conchiglie di teatri
dove solo la lucertola striscia sull’arida pietra,
e io gli chiesi: ” Un giorno torneranno a riempirsi?”
E mi rispose: ” Forse, nell’ora della morte “.
E corse nell’orchestra urlando:
“Lasciatemi ascoltare mio fratello! “.
Ed era duro il silenzio attorno a noi
e non rigato nel vetro azzurro.”
Questa terra è piena di poesia. Fortunato il poeta che gode del vantaggio di viverla. Spero che un giorno tornerò.
Propongo di visionare questo video che presenta proprio questa regione di riferimento di questa poesia per introdursi nell’atmosfera di quale parla il poeta.
Il mio elogio della lentezza e della paresse, qui:
Nel leggere questa poesia inedita di Steven Grieco-Rathgeb, Ο Μαϊστρος, ho rivolto la mia attenzione a un suo aspetto particolare, ovvero alla valenza che assumono qui gli «oggetti» nel loro farsi «cose», privati, cioè, dell’aspetto utilitario che li caratterizza nel rapporto con la soggettività del soggetto, con il muoversi del mondo da parte dell’io. Il vento, in primis, protagonista della poesia; questo maestrale che soffia come un mastino, qui non è puro vento, ma è altro dal suo essere elemento: è «cosa», vissuta a seguito di una particolare intonazione e modulazione della vita, e apre una fessura nel silenzio; è vuoto azzurro, dentro una stanza che allude ad altro, nel dispiegarsi di una primavera che è stagione «altra».
Di questo «vento» il lettore non vede mai le qualità, le proprietà fisiche, ma sempre ne percepisce il riflesso e le ripercussioni spirituali del suo agire sull’io: l’«io», questo involucro dell’organizzazione sensoriale e sociale, che qui si affina a tal punto da cogliere le minime risonanze, i sottilissimi messaggi interrotti che la natura manda ai suoi abitanti.
Nel condurci verso questa particolare prospettiva poetica, Steven Grieco-Rathgeb si avvale dell’impiego intensivo del discorso indiretto, allusivo, ammiccante a qualcosa che sta sempre al di là. Il testo non ci prospetta una narrazione, un «quadro», né una «cornice» psicologica di quanto rappresentato – al quadro manca una ragione, potrei dire citando me stessa -; non raffigura niente di tutto ciò che osserviamo nella poesia italiana degli ultimi decenni, ma sempre ci presenta la “coscienzalizzazione” di un orizzonte simbolico e spirituale. E in tal senso va inteso il paesaggio…
*
[…]
Promontori visionari in tutta la loro lunghezza immobili.
Mi guardano e guardano con i miei occhi.
E il modo delle acque di sciacquarsi sempre a riva,
le rondini di mare che scompaiono nell’aria stranite.
Perché a lungo andare tutto diventerebbe inspiegabilmente reale.
Poi un giorno rompersi a pezzi. Di nuovo sarebbero altri
quei promontori che nel silenzio guardano se stessi.
Quei promontori guarderebbero solo se stessi.
[…]
Il «vedere» di questa poesia – e, in generale, dell’intera poetica di Staven Grieco-Rathgeb – è un vedere «interno» più che «esterno». Così il tempo è tempo «interno». E qui l’io, simile a un ventilabro, regola il senso del «vento», l’intensità e ogni sua direzione.
A conclusione, pensando di fare cosa gradita a Steven e a tutti coloro che seguono la nostra Rivista, un brano musicale.
Iannis Xenakis (1922 – 2001), Paille in the wind (1992)
per violoncello e pianoforte.
Buon ascolto!
4 poeti che proclamano la «polivocità» della parola concentrando i concetti in immagini [molteplicità di interpretazione, abbandono dei referenti della metafora, pluralità del senso]
1 – Tomas Tranströmer
SILENZIO
Passa oltre, sono sepolti…
Una nuvola scivola sul disco del sole.
La fame è un edificio elevato
che si sposta nella notte
nella camera da letto si apre la colonna
scura della tromba di un ascensore verso le viscere.
Fiori nel fosso. Fanfara e silenzio.
Passa oltre, sono sepolti…
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
2 – Giorgio Linguaglossa
In Venedig
Il 24 aprile 1980
sono sceso alla stazione di Venezia.
In Venedig.
Festa di gondole sull’acqua. Canale di Cannaregio.
Lanterna gialla. Luna verde. Laguna.
Dame in maschera e crinoline.
Una bellissima Dama in maschera nera.
Una bellissima Dama in maschera bianca.
[…]
Notte. Pioggia. Nebbia. Ho aperto la finestra.
Stanza d’albergo di terza categoria.
Ponte dei Sospiri.
Laguna verdastra. Gondole nere.
Un tiretto con il bocchino di avorio.
Una teca di madreperla che reca un cammeo.
Un ventaglio dentro la cornice nera.
La fiala bombata del profumo semiaperta.
La toeletta con un vestito di seta azzurra.
[…]
Abitavo presso una stella sul canale nero.
Un sotoportego.
Una madamigella di Parigi
trasferitasi
in Venedig come dama di compagnia
del conte Almerighi
che poi fuggì a Vienna presso il suo non più giovane
e generoso amante…
[…]
Avenarius mi venne incontro, zoppicando,
sul Ponte dei Sospiri.
Teneva al guinzaglio orrendamente agghindati
un musicante da trivio e un pagliaccio rosso
che saltellavano tra i turisti. «Che vuole – mi sussurrò
all’orecchio – il Carnevale non si è ancora concluso».
Finita la tenzone, il musicante chiuse il violino nella custodia,
il pagliaccio si sedette al tavolino, e ordinarono
un Martini rosso con ghiaccio.
[…]
«Io e la stella ci siamo amati
– mi disse Avenarius – mio caro poeta.
Adesso siamo qui, io e lei, sul ponte.
Né di qua né di là. Un luogo neutrale.
Un luogo mentale.
E passeggiamo come manichini in un gineceo…
[io guardavo le sue scarpe di vernice made in Italy
e la sua farfallina gialla à pois]
Lei mi può capire, è così giovane!
Dopotutto, siamo ospiti del Signor Posterius, o meglio,
di un suo sogno…».
[…]
«La menzogna deve essere più logica della verità»,
mi disse Avenarius.
Il cameriere, intanto, tolse i bicchieri
e sparecchiò il tavolino.
“Che sgradevole ciarlatano!”, pensai
e scendemmo in un bar nel sotoportego a bere un’ombra.
E brindammo, allegri e festaioli.
Come un tempo.
3 – Charles Simic
GLI OROLOGI DEI MORTI
Una notte sono andato ad osservare l’azienda dell’orologio.
Aveva un forte ticchettio dopo mezzanotte
Come se ci fosse una paura insolita.
É come fischiettare superato un cimitero,
Ho chiarito.
In ogni caso, gli ho detto di aver capito.
Un tempo c’erano orologi di quel genere
In ogni cucina americana.
Ora la fabbrica ha tutte le finestre rotte.
I vecchi del turno di notte sono sulla barca di Caronte
Il giorno che ti fermi, ho detto all’orologio,
I piccoli ingranaggi che tengono di scorta
Saranno rotolati via
In qualche posto impossibile da ritrovare.
Pensando a questo, ho dimenticato di arieggiare.
Ci svegliammo al buio.
Quanto è quieta la città, ho detto.
Come gli orologi dei morti, ha risposto mia moglie.
La nonna al muro,
Ho sentito le nevi della tua infanzia
Cominciare a cadere.
4 – Ewa Lipska
Il mondo
A volte sei bello. Un vestito cosmico.
Un guardaroba celestiale di paesaggi.
Del tuo corpo si occupano gli eruditi.
Gli studiosi degli elementi.
Qualcuno prevede sempre la tua fine.
Non hai parenti stretti. A chi
lascerai tutto questo? Pianeti ficcanaso
forse ne avrebbero voglia.
Sei eterno? L’odore
della stagione morta lo nega.
La menzogna a volte ha ragione.
Ce la farò senza di te.
In fondo non mi hai promesso nulla.
Non so nemmeno
se è la storia che ha creato noi
o se noi abbiamo creato la storia.
Se siamo solo l’eco
di un cuore altrui.
———————————————————————-
Nota.
Tutto è partito da questi versi de La lugubre gondola di Tomas Tranströmer
come incessantemente ha segnalato e ribadito L’Ombra delle Parole attraverso l’opera martellante del fondatore e coordinatore Giorgio Linguaglossa e dalla Redazione della stessa Rivista Letteratura Internazionale:
“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero. ”
—————————————————————————————
GR
Aggiungo la mia ammirazione per questo mirabile poemetto, a cui mi viene di accostare, in perfetta parità, il nome di Derek Walcott.
Devo ringraziare Gino Rago che ha preso l’iniziativa di suddividere la mia poesia in distici. Infatti, così la composizione risulta molto più suggestiva. Grazie Gino.
La poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/22/steven-grieco-rathgeb-una-poesia-maestrale-commento-di-chiara-catapano/comment-page-1/#comment-36035
caro Gino Rago,
è vero, quei due versi di Tomas Tranströmer che hanno cambiato il mondo, il mondo della poesia intendo, quelle righe de La lugubre gondola (1996) mentre le 17 poesie sono del 1954, del primo libro di Tranströmer, ma in Italia nessuno tradusse quelle poesie se non dopo quaranta anni, e la poesia italiana ha continuato a fare poesia dell’io, poesia ideologicamente orientata o inorientata, poesia di superfetazione letteraria o di giochi di prestigio verbali. Nella poesia che si è fatta in Italia dagli anni sessanta ad oggi la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. La «nuova ontologia estetica» ha semplicemente preso atto dell’eclissi della poesia dell’io e ne ha tratto le conseguenze… La disseminazione che ne è scaturita è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata risorsa e il linguaggio poetico si è rivitalizzato, di colpo. Quella che era la poesia in crisi, la poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna. È paradossale, ma è stata la crisi della poesia che ha prodotto una nuova forma-poesia.
Qualunque sia la via prescelta dalla «nuova poesia»: sovrarazionalità, extrarazionalità o razionalità ultronea in senso stretto e largo, è che si è preso atto che la ragione è a malapena sufficiente a fondare l’auto organizzazione di se stessa. Il funzionamento della tecnica, il fatto che «la cosa funzioni», è un pensiero della communis opinio. Non c’è una razionalità originaria che funzioni da giustificazione per la techné, l’inconscio agisce seguendo le proprie leggi che non sono quelle dell’io né quelle di una presunta «giustificazione», vocabolo che l’inconscio non conosce. È avvenuto che sia la «nuova» filosofia che la «nuova» poesia sono rimaste prive di norme, prive di normatività, a diretto contatto con l’impensato e l’impensabile, di qui gli odierni indirizzi della filosofia debole e della rifondazione di una filosofia dei segni o di una nuova ontologia su basi parmenidee… Ma rimane il dato di fatto che la «nuova» poesia dell’inconscio le norme deve costruirsele da sola.
Ecco perché la poesia che va di moda oggi è quella proposizionale, assertoria, cioè fondata sul proposizionalismo, sull’ordine assertorio promulgato dall’io in quanto ogni proposizione si giustifica da sé, ha in sé una organizzazione perifrastica che corrisponde alla organizzazione dell’io giustificatorio. Si tratta di una poesia della giustificazione palesemente ideologica, della nuova ideologia che non vuole più mostrarsi come ideologia È una proposizionalità posta da quella istanza auto organizzatoria che va sotto il nome dell’io. Istanza posticcia ed effimera.
Quanto detto mette in crisi il simbolo e ciò che esso simbolizza. Gli esempi riportati da Gino Rago sono in questo senso assai significativi: il linguaggio resta incolpevole, onirico, astratto o figurativo che sia: il simbolico accidentale in qualche modo sostituisce il linguaggio lirico, mentre la perdita di ideologia rimette in discussione l’universale. La ruota della vita riprende a girare.
Prima all’evento di Harry Potter mi chiamano per farmi smistare dal cappello (Serpeverde rules)
poi passo in strada, sento musica e invece di prendere il tram mi fermo da sola in un locale sconosciuto a sentire una band
e mi ritrovo con il microfono in mano a cantare i Led Zeppelin… Oggi sono una bimba felice.
(La Selly)
Tratto da Facebook.
Cari poeti e lettori,
grazie dei commenti che avete fatto a questa mia poesia, da me scritta in Epiro nell-aprile del 2005. Era già apparsa su l’Ombra nel 2016, nel post “Dimensioni di un cerchio”. La poesia e’ stata ripresentata da Chiara Catapano, con il suo ottimo scritto analitico che ne coglie tutta l-essenza, in un laboratorio di poesia NOE dell’anno scorso.
Questa volta Giorgio Linguaglossa non mi ha chiesto il permesso di pubblicarla, e sono rimasto sorpreso a vederla postata cosi’, di colpo. Avrei gradito essere avvertito prima.
Sono settimane e mesi che mi trovo in viaggio, e spesso non posso leggere L’Ombra della parole, ne’ tantomeno commentare. Queste frasi le scrivo sul mio telefonino, scusate le eventuali smagliature.
“I promontori guarderebbero solo se stessi”, si riferisce al fatto che nell’arco della mia vita è capitato che io abbia visitato e rivisitato certi luoghi qua e là nel mondo, che mi sia toccato il destino di vedere e rivedere certi luoghi carichi per me di energia numinosa, ma che pensavo ormai del mio passato, morti e sepolti. Parigi, Roma, Jaipur e Faridabad, luoghi in Grecia; Trieste, Istanbul, Trogir: un tempo vissuti in modo profondo e totale. In seguito averli io dovuti lasciare. Ed eccoli, anni dopo, riapparire di nuovo, di nuovo da me vissuti in modo profondo e totale. Senza che mi appartengano mai, né mai possa rivendicare da essi alcunché.
Il passato non è mai morto e sepolto, né soltanto si ripresenta nella cosiddetta memoria: no, il passato si ripresenta vivo, davanti a te, reale, totalmente reale, concreto, tangibile, visibile con gli occhi fisici. Ma leggermente alterato, appena un po’ diverso da come era stato, comunque sempre immerso nella sua totale inaccessibilità, la sua totale indifferenza a te che pure lo stai vivendo e vedendo.
Finché tutto questo non mi ha insegnato che sono totalmente libero dai luoghi, dalle cose, dalle situazioni, dalle stesse persone (pur rimanendo del tutto partecipe). Altrimenti “i promontori guarderebbero solo se stessi”, e io non varcherei il nodo centrale del vivere, impigliato com’è nelle confuse e ingannevoli maglie di religione-ateismo, cultura, scienza, filosofia, poesia, arte, storia, amore, morte (Eros-Thanatos).
Per quanto riguarda il criterio con cui ho scritto questa poesia:
DEFINITION OF SUPERSYMMETRY AS I USE IT IN MY POETRY
Una poesia supersimmetrica io la definisco come una poesia che non sia stata privata di tutti i particolari “inutili” e “ripetitivi” contenuti nella bozza o nelle bozze per il solo scopo di dirla compiuta. Essa conserva una molteplicità di collegamenti con i materiali inutilizzati, e sfrutta in modo esauriente quel potenziale per assurgere a struttura aperta; una composizione che, proprio per la sua incompiutezza, proprio per la sua stessa irrisolta complessità, invita il lettore a completare il processo creativo.
Ah, sì, la poesia è una supersimmetria, perché nel 2016 avevo tolto tutte le “migliorie”, e sono tornato alla bozza, del 2005, nuda e cruda, bella e sgangherata com’è.
Steven Grieco Rathgeb scrive:
«di tutti i particolari “inutili” e “ripetitivi” contenuti nella bozza o nelle bozze per il solo scopo di dirla compiuta. Essa conserva una molteplicità di collegamenti con i materiali inutilizzati, e sfrutta in modo esauriente quel potenziale per assurgere a struttura aperta; una composizione che, proprio per la sua incompiutezza, proprio per la sua stessa irrisolta complessità, invita il lettore a completare il processo creativo».
Penso che tutti quei materiali verbali «ripetitivi» siano tracce di voci che si sono dileguate o dileguantesi ma, appunto, in quanto dileguate ne restano le tracce, echi sonori di un tempo che fu. Il rapporto tra la voce e la scrittura, che è stato approfondito dalla filosofia contemporanea (Derrida, Heidegger, Carlo Sini, Rovatti…), trova in questa poesia una esemplare personificazione, quelle voci che si sospendono e si emulsionano le une con le altre, sono le voci che la poesia accoglie e registra come un calco sonoro di tracce. Penso che proprio qui risieda il fascino di questa poesia, nel fatto del silenzio che sopravviene quando una voce si dilegua. In un certo senso questa è una poesia fatta di silenzi, di strati tettonici di silenzi che recano il ricordo di tracce di quelle voci un tempo vive. Il registro visivo e spaziale della poesia è talmente vario che configura un altro elemento dell’emersione delle voci, voci che sembrano provenire da dentro, ma che in realtà erano un tempo lontanissimo venienti dal di fuori, e così il dentro e il fuori confluiscono in una mistura dentro-fuori e fuori-dentro, tra prossimità e lontananza, allontanamento e disallontanamento… La poesia oscilla, nuota in questa contraddittoria materia equorea di voci estintesi in tracce… ed è in questo orizzonte della metafisica che può prosperare il pensiero poetico di Grieco, entro il contesto di un registro simbolico fitto di voci, di echi, di orme, di rimandi, di tracce…
Grazie mille. Tantissime le sollecitazioni: la nostalgia e il ritorno, le ripetizioni circolari, le emozioni e i sentimenti. Tristezza, disincanto, estrema calma e consapevolezza. A me pare di scorgere anche una certa gioia. E poi gli umani con le loro abitudini e gli insetti dalla anima vasta e inconsapevole e i vegetali forti e duraturi. Mi auguro che il vento continui a soffiare sempre più!!!