
Jason Langer, 2001
Raffaele Urraro è nato il 1940 a San Giuseppe Vesuviano dove tuttora vive e opera. Dopo aver insegnato italiano e latino nei Licei, ora si dedica esclusivamente al lavoro letterario. Collabora come redattore alla rivista di letteratura e arte «Secondo Tempo» diretta da Alessandro Carandente. Suoi interventi critici, con saggi e recensioni, sono presenti anche su altre riviste, come «La Clessidra», «L’Immaginazione», «Capoverso», «Sìlarus», ecc.
Ha pubblicato molte raccolte di versi e opere di saggistica tra cui Giacomo Leopardi: le donne, gli amori, Olschki, Firenze 2008; La fabbrica della parola – Studi di poetologia, Manni Editore, San Cesario di Lecce 2011; “Questa maledetta vita” – Il “romanzo autobiografico” di Giacomo Leopardi (Olschki editore, Firenze 2015), e Le forme della poesia – Saggi critici (La Vita Felice, Milano 2015).
Commento di Giorgio Linguaglossa in forma di poesia alla maniera della «nuova ontologia estetica»
«ho sognato che Dio mi chiedeva di scrivergli
una recensione per la sua creazione…»
disse proprio così. inutilmente io mi schermii dicendo
che non mi sentivo all’altezza…
allora Dio si è rivolto a Gino Rago
[del resto anche lui è un membro della nuova ontologia estetica]
ma, sfortunatamente per il Signor Dio, anche Gino ha declinato l’invito
con l’argomento che il Buio rotola alla velocità della luce
e altre smargiassate che non vi sto qui a ridire,
e allora quel manigoldo si è rivolto a Mario Gabriele
dicendogli che lo avrebbe accolto nel regno dei cieli se…
ma il risultato è stato che il poeta di Campobasso se l’è data a gambe;
insomma, a farla breve, Dio ha dovuto rinunciare…
e sì, e la «creazione» è rimasta senza alcuna recensione
*

Old Chicago, Jim Watkins
Citazioni in exergo di Raffaele Urraro
Ho sognato che Dio mi chiedeva
di scrivergli una recensione
per la sua creazione.
(Charles Simic)
Uomini, perdonatelo,
perché non sa quello che ha fatto!
(José Saramago, Il Vangelo secondo
Gesù Cristo)
ab/io/genesi è questo mondo che ruota
niente sarebbe questo girotondo
senza l’io cosciente che intravede
e parla e fissa le parole
(r.u.)
Gli dèi devono ringraziare la poesia
se si trovano in cielo.
(Charles Simic)
Nota dell’autore
Questo libro di versi non vuole essere il controcanto della Genesi, né la satira della Scrittura, né si configura come il canto di un predicatore che vuole convincere gli altri sulla sua verità. Non ho la presunzione di dire cose rivoluzionarie, né ho l’umiltà per nascondere le cose che penso e tenermele per me. Ho voluto solo raccontare in versi la mia visione delle cose e del mondo prendendo spunto dalla Genesi, fonte che mi ha ispirato e mi ha spinto all’espressione poetica per dare corpo a quella visione cosmologica che è venuta formandosi nella mia mente con gli studi e la riflessione.
In questo libro sono solo un poeta, uno che cerca di dire, lavorando colle/sulle parole, le sue idee, i suoi sentimenti e, rispettoso dei sentimenti e delle idee di ciascun individuo, cerca di esporre le sue convinzioni sulla genesi e sul destino finale del cosmo, della terra, della vita, della storia, dell’uomo.
Avvertenze particolari
1. Il Pensiero, con la iniziale maiuscola, è il Pensiero ritenuto il logos creatore dell’universo, mentre il pensiero con la iniziale minuscola è il pensiero umano che, nella mia visione, ha dato vita al Pensiero: è questo il sillogismo teoretico che ha illuso e deluso, che illude e delude, che illuderà e deluderà gli uomini di ogni tempo.
2. Questo libro si sostanzia di testi poetici esplicativi dei versetti della Genesi e di altri testi che sono nati dalle mie personali riflessioni sui contenuti biblici.
3. Debbo al mio carissimo amico Raffaele Perrotta, che la adotta di norma, la segnalazione dell’inizio dell’interrogativa per mezzo del segno ¿, come d’uso nella lingua spagnola.
4. Il testo biblico da me seguito è quello della versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana del 2007.
5. Bereshìt, il titolo, è parola ebraica, significa «In principio» e indica
propriamente la “Genesi” («Origine»).
R.U.
Bereshìt (In principio… ), Marcus edizioni, 2017
prologo
sto accovacciato all’ombra
di un platano
– che non è un platano
e non è neppure una pianta –
qui nell’eden circondato
dall’opalescenza infastidita della noia
a bere un bicchiere di vino
annacquato con un po’ di fantasia
e a giocare con nuvole di passaggio
disegnando nell’aria
ghirigori evanescenti
vedo veli bianchi che stendono nell’aria
una sottile malinconia
(veli bianchi bianchi veli
che a vederli ti s’offusca il cuore)
mentre il ricordo della terra
e della vita
è segno di pura nostalgia
non si direbbe
eppure
nell’eden non si sa cosa fare
: una volta morti
si è morti dappertutto
sulla terra se bevi un bicchiere
almeno senti il corpo rotolarsi
nelle brezze della sera
e quando fai l’amore
davvero ti senti bussare
alle porte dell’abisso
per entrare nello spazio del nulla
che sembra spazio del tutto
qui nell’eden
se ne stanno con le mani in mano
a sdrucire le trame del tempo
pigro e insolente
e a contare le ore
che non passano mai
ma io voglio stare
dentro il tempo
e dal tempo calarmi
fino alla fonte primigenia delle cose
anche se le cose
sembrano soltanto
mere proiezioni del pensiero
il Pensiero e il pensiero
Prima riflessione del pensiero
il mondo è figlio del Pensiero
ma a sua volta il Pensiero
è figlio del pensiero
sembra tutto uno strano sillogismo
: prima nasce il mondo e nasce l’uomo
e poi l’uomo dà origine al Pensiero
che ha creato il mondo in confusione
è in questa macerazione della mente
che il segreto del mondo si nasconde
tante volte
nelle oscure agonie della notte
l’animo si disperde
nei sentieri di una vita immaginaria
e corre dietro a ipotesi e congetture
attratto da un’inquietante
chimera che l’assale e spinge
fino alle origini del mondo
… ma è fatica sprecata
è inutile distendere la mente
in genesi perdute
nella lontananza del tempo
: si perde il filo del pensiero
e si rischia di rimanere lì
nel mondo delle tenebre insondabili
senza squarciare del buio
neanche un rimorso
senza trovare neanche un barlume
delle verità impossibili
: a stento si ritrova
il filo ingarbugliato del ritorno
ma il pensiero si slancia
oltre gli steccati del pensabile
proteso a volare oltre le stelle
per violare il regno della notte
recalcitrante nella sua afasia
poi coperti di fuliggine i suoi occhi
ripercorre il cammino a ritroso
sempre cercando un senso
anche nella cosa che sa
che un senso non ce l’ha
bereshìt (in principio)
In principio Dio creò il mondo e la terra (Genesi, 1, 1)
in principio era l’abisso tenebroso e nero
pullulavano pulviscoli di nulla
intorno al Pensiero che vagava
perduto nel suo vuoto di cristallo
fatto di specchi deformanti
che cinguettavano schegge d’infinito
era un Pensiero
che non aveva un progetto a cui pensare
e perciò continuava a vagare
come uno che non sa cosa fare
spirito affranto
dall’inerzia del nulla
che lo involgeva nelle spire della noia
e allora
con un atto inconsulto
dando un calcio all’impotenza
che lo stringeva nelle morse del nulla
cominciò a porre in atto
il suo progetto di dare una forma
all’informe confusione della mente
e fu il mondo
sprofondato nel buio
tenebroso e nero
e fu la terra
crosta indistinta
aguzza da ogni lato
coperta di caligine arruffata
mentre nell’aria aleggiava
lo spirito irrequieto del Pensiero
anche la terra non sapeva che fare
persa e confusa nelle sue paure
involta in una nube
nera come la notte
: senza la guida sicura di una stella
non sapeva neanche dove andare
e allora cominciò a volare
e vola ancora
roteando su se stessa
così… tanto per fare qualcosa
l’ energia cosmica
Seconda riflessione del pensiero
l’energia racchiusa
in un punto sperduto nel vuoto
cercava disperata di involarsi
nelle strade dello spazio
gocce di fuoco
si spinsero allora
in ogni luogo vuoto
generando mondi su mondi
in una girandola senza fine
e senza fini
: una forza vitale
pronta a varcare
le soglie dell’universo
ad ogni refolo di vento
vedo in quella forza che sale
il segno della cosmica energia
e allora la mia fantasia
corre per strade inusuali e vuote
e lo sgomento dell’anima
mi assale e distorce
ogni mia certezza
ma io so che il mondo
è nato così
senza neanche un’idea
un progetto
il filo di un percorso
e tutto è confuso
nello spazio infinito che l’involge
vuota trascendenza e muta
Terza riflessione del pensiero
filtrando le nubi avvolgenti
che circondano l’anima di notte
mi avventuro al di là
al di là del muro
nell’oltranza che c’intriga e ci cattura
e mi scontro con l’assenza
vuota trascendenza e muta
l’ energia del vuoto
Quarta riflessione del pensiero
sto pensando all’energia del vuoto
e un tremore dell’anima mi assale
penso alla notte primordiale del mondo
al nulla spaventevole e infecondo
fino all’attimo in cui un tuono
fragoroso e cupo
del vuoto sprigionò la forza arcana
all’improvviso
nell’immenso dell’abisso nero
brillò una luce sfolgorante
grande quanto il tetto del cielo
e un gemito luminoso
segnava le doglie del vuoto
che si liberava finalmente
del suo peso
e sto pensando alla particella di dio
scommessa del pensiero
proteso a dare scacco matto
al Pensiero che s’appropria del mondo
e lo sconvolge nelle sue contorsioni
è il nulla che ha prodotto il mondo
un nulla che nientifica se stesso
e gli dà vita
la luce e le tenebre
Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre
(Genesi, 1,4)
e il Pensiero volle con la luce
fissare il bianco e il nero
il giorno e la notte
taciturna alternanza del tempo
non sapremo mai perché
all’improvviso
il distinto con l’indistinto si alterna
forse fu l’idea dello spazio
e del tempo
a sistemarsi nella mente del Pensiero
se un giorno potessimo affacciarci
sull’“orlo vertiginoso delle cose”
e afferrarne tra le mani l’alito profondo
capiremmo la genesi
del nulla e del tutto
ma inutile risulterà
ogni tentativo dell’animo
già turbato nelle sue vibrazioni
era scura la terra e spoglia
“Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque
mare”
(Genesi, 1, 10).
era scura la terra e spoglia
materia grezza che feriva il cuore
ci vorrebbero parole scorticate
per dire la sua faccia sporca
ma lentamente
dalle croccanti crepe del suolo
le gocce zampillanti del color d’argento
scesero in rivoli scomposti
là dove le spingeva
la forza dirompente del declivio
: e la terra lacrimava
acqua e acqua e acqua
… e fu il mare
se penso alla nascita del mondo
Nona riflessione del pensiero
se penso alla nascita del mondo
avverto un brivido profondo che stordisce
non perché pensi al come che ci sfugge
ma al peso che si porta nelle tasche
il Pensiero che pensò il mondo e lo creò
c’è un’ombra nella mente
Decima riflessione del pensiero
c’è un’ombra nella mente
che si ferma sulla scorza delle cose
e non va via
e fissa il limite del pensiero vagante
che va e ritorna nelle sue fantasie
povero pensiero delirante
che s’involge confuso nelle spire
delle sue elucubrazioni senza fondo
o col fondo lontano che spaura
… e si dispera
solo l’uomo sa di essere
Sedicesima riflessione del pensiero
tra tutte le cose che sono
soltanto l’uomo
ha la percezione di sé
anche se ne ignora il perché
siamo come pietra gettata
a caso in un intruglio
fatto di liquida mobilità
o come la rosa del deserto
che deve la vita ai cristalli di sabbia
accumulati per caso
o come un seme portato dal vento
e caduto all’improvviso
in un luogo qualunque
è questo il segno
della nostra fragilità
e dell’oscuro destino che c’inquieta
Citazioni sull’Origine.
Il filosofo cinese Sung Lin nel suo saggio sull’origine della pittura sostiene che l’unica via per uscire dal caos sia il nominare le cose:
«Quando all’inizio il cielo e la terra si disgiunsero, si originarono le cose, … ma tutto era confuso perché non c’erano i nomi. Anche il cielo e la terra non sapevano come chiamarsi, finché si levò un uomo illuminato che diede un nome a tutte le cose, cosicché il Basso e l’Alto, gli esseri che si muovono e le piante che germogliano furono separati l’uno dall’altro.»
Per Plotino il fuoco è
«bello in sé più di ogni altro corpo poiché, paragonato agli altri elementi, assume il posto dell’idea; infatti tende verso l’alto, è fra tutti i corpi il più sottile e segna il trapasso verso l’incorporeità… Esso brilla e splende, quasi fosse un’idea.» (Plotino, I Enneade – libro 6, cap. 3, vol I).
Alla fine della Scienza della logica Hegel definisce l’idea assoluta come
«la parola originaria, che è un proferimento, ma tale che, come proferimento, è immediatamente di nuovo dileguato, mentre è.»
Walter Benjamin pensa che il concetto di origine non sia distinguibile da quello di méta. Origine e fine si identificano e si trasformano. L’origine non indica una provenienza, una discendenza, quanto piuttosto qualcosa come Urphanomenon in senso goethiano. Così, la fine non è più qui semplice cessazione, ma, primariamente, totalità.
Martin Heidegger In cammino verso il linguaggio, 1973 trad. it. Milano, Mursia
«Il Dire originario è mostrare. (…) Questo dischiude ciò che è presente nel suo esser presente, lascia ciò che è assente disparire nella sua assenza. Il Dire originario domina e compone in unità la libera distesa di quella radura luminosa, cui quanto appare deve – per apparire – ricondursi, da cui quanto dispare deve – per disparire – allontanarsi, in cui è scritto che l’esser presente e l’esser assente – quale che sia il modo della presenza o dell’assenza – manifesti e dica se stesso.»
Fai le cose difficili quando sono facili, e inizia le grandi cose quando sono piccole. Un viaggio di mille miglia deve iniziare con un singolo passo.
(Lao Tzu)
Solo chi ha la forza di scrivere la parola fine può scrivere la parola inizio.
(Lao Tzu)
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine.
(Eraclito)
in sua etternità di tempo fore,
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.
(DANTE, Paradiso, XXIX, 16-18)
Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.
(Mario Luzi, Alla vita)
M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990
“La ragione ‘legifera’ a priori riguardo all’esistente, non perché ne deduca il fondamento, ne ‘produca’ la Causa, ma unicamente in quanto stabilisce le condizioni generali della sua conoscibilità. L’esistente, per essa, è sempre e soltanto un poter-essere, di cui mai potrà certificare l’effettiva esistenza in sé. In altri termini, la ragione può soltanto presupporre l’esistente: posto che l’esistente sia, a queste condizioni esso appare come conoscibile.”
(pag.134)
“si impone il problema di un Prius non soltanto relativo alla possibilità in generale del conoscere (di un Inizio ‘logico’, dunque), ma di un Prius assoluto, incondizionato… L’idea dell’essere precedente ogni pensiero, l’idea-limite dell’incondizionatamente esistente è l’’abisso’ della ragione…”, abisso perché la ragione non può costituire “alcun sistema del Prius, perché in nessun modo ne potrà comprendere la ragione, il perché.” (pagg. 135-36)
“L’Inizio, come Indifferenza perfettamente libera dalla necessità di essere-origine, non può certo essere costretto nella necessità di non essere origine. Nessuna necessità di muoversi alla creazione – nessuna necessità di non muoversi.” (pag. 139)
Chiosa Alfio Fantinel.
L’infinita libertà e, in questo senso Indifferenza, implicata nell’Inizio non può, dunque, essere espressa né come mera trascendenza (come pura necessità di non muoversi alla creazione), né come azione demiurgica (come pura possibilità di muoversi alla creazione).
Pensare assolutamente e incondizionatamente l’Inizio significa pensare la pura indifferenza dell’Assoluto (Dio) all’esistenza (mondo).
Urmoglichkeit, Possibilità originaria, o anche, leibnizianamente, Onni-compossibilità, può essere pensata questa ‘pura indifferenza’.
3
“L’Urmoglichkeit, come potenza di tutto-essere e insieme di non-essere, né attrae, né accoglie, né respinge l’essere in sé o da sé. La perfetta possibilità dell’Inizio significa il suo essere soltanto possibile. Nell’Inizio pensiamo il Possibile in sé, che non partecipa dell’essere, il Possibile ‘libero’ da quello schema della potenza-di-essere, che lo riduce ad antecedens dell’essere (o volontà necessitata ‘alla vita’).” (pag. 141)
La Possibilità originaria non deve essere intesa “come una deduzione dell’esistente reale, come una deduzione della necessità del passaggio dall’Inizio all’ente” … piuttosto “se sorge un essere, può sorgere soltanto a questa condizione, che l’Inizio, cioè, sia tale da distinguersi perfettamente dall’esserci e insieme costituirne la pura possibilità.” (pag. 141)
In questo modo deve essere pensata la relazione fra Assoluto e esistente e, dunque, esser pensato l’Inizio.
E ancora:
“Ogni possibile è nell’Indifferenza dell’Urmoglichkeit dell’Inizio perfettamente equivalente. Onni-compossibilità, potrebbe suonare, leibnizianamente, il nome dell’Inizio, ma tenendo ben fermo che in tale termine non si indica più alcuna costrizione di passaggio all’essere – che
perfettamente compossibile nell’Inizio è pure la possibilità di non-essere.” (pag. 142)
è sempre un piacere seguire nobili argomentazioni filosofiche quali queste di Raffaele Urraro, certamente intellettuale squisito, e anche uomo di cuore.Mi chiedo, tuttavia se la realtà di oggi ci consenta ancora questo lusso.Madre Teresa di Calcutta ,probabilmente, fece questa rilessione, quando rinunciò a fare la professoressa di lettere, per andare a soccorrere i moribondi.Se non fossi tanto vecchia, farei la stessa cosa.
Sulla necessità di “nominare le cose” per uscire dal caos vorrei riportare questa frase di Georges Perec, tratta da “Specie di spazi” del 1974 (edizione italiana del 1989, presso Bollati Boringhier), traduzione di R. Delbono):
“Lo spazio comincia così, solo con delle parole, segni tracciati sulla pagina bianca. Descrivere lo spazio: nominarlo, tracciarlo, come gli autori di portolani che saturavano le coste di nomi di porti, di nomi di capi, di nomi di cale, finchè la terra finiva con l’essere separata dal mare soltanto da un nastro continuo di testo”. “Spazio inventario, spazio inventato”, inesistente di per se’ finchè non incontra lo sguardo dell’uomo e le sue parole che lo definiscono, ma pur sempre spazio precario, che il tempo “porta via con se’ ” lasciandone “brandelli informi”.
“Lo spazio è un dubbio, devo continuamente individuarlo, designarlo” e scrivere non è che “strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava”, fissare e prolungare l’identità dei luoghi, anche con la persistenza delle scritte che si cancellano sui negozi in disuso, o con l’elenco di nomi di vie, di luoghi, di oggetti insignificanti che percorre i testi di Perec
Lo spazio, semplice “pretesto per una nomenclatura”, si fonda sui nomi e quando essi vengono meno torna ad essere caos, informe, indifferenziato, “cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato”.
Il pensiero è potente e vede in profondità
Di un qualsiasi esistente di cui si possa dare un’esperienza (la kantiana esperienza possibile) si può affermare che è conoscibile, ergo la ragione può ‘legiferare’su di esso, anche se non può dimostrare il fondamento dell’esistenza degli enti.
La mera esistenza di un qualsiasi esistente rappresenta un limite invalicabile per la ragione che è, perciò, costretta a denunciare l’aporia di fronte ad un’esistenza che può soltanto essere posta dal pensiero, ovvero, può essere riconosciuta.
L’esistenza dell’essere è per il pensiero un problema forse insolubile, ma è il medesimo problema che pone pensare il fondamento dell’esistenza del pensiero.
L’Assoluto veniva da Kant immaginato come un “ampio e tempestoso oceano” che circondava l’isola della verità l’unica isola dove c’erano le vie
praticabili dell’umana ragione.
Il pensiero filosofico non può che dichiarare l’aporia del pensiero che voglia porre il fondamento dell’infinito e del finito, cioè dell’essere e del non essere; la ragione è costretta a denunciare l’aporia di fronte al mero esistente. Porre il «problema di un Prius» equivale a porre il problema di un Posterius, entrambi sfuggono al pensiero che ne vorrebbe trovare il fondamento
Pensare questo Prius assoluto, incondizionato, “abisso della ragione”, significa pensare il presupposto del pensiero: l’essere. E si ritorna daccapo.
E come pensare la relazione, o la non relazione, tra l’esistenza e l’Assoluto? In questo modo, secondo Cacciari, si pone il problema dell’Inizio.
“In principio erat Verbum” (Gv. 1,1),
l’inizio del Vangelo di Giovanni apre, per Cacciari, infinite possibilità esegetiche e speculative intorno al problema dell’Inizio, ma qui abbandoniamo il pensiero filosofico ed entriamo in un altro campo, nel campo del pensiero teologico e cessa la speculazione filosofica
PROCESSO A CACCIARI
L’ ACCUSA
di Antonio Gnoli da archivio repubblica
“Ho letto l’ ultimo libro di Massimo Cacciari, e non ho capito assolutamente nulla. La sensazione è stata quella di trovarsi di fronte a un libro di settecento pagine il cui spessore è solo cartaceo, a un libro per lettori pazienti (carcerati e suore di clausura) e multilingue. In comune con lui credo di avere solo l’ alfabeto”. Parole forti e sferzanti, che nessuno fino a oggi aveva osato pronunciare nei riguardi di Massimo Cacciari, considerato uno dei nostri filosofi di spicco. Del resto a metterlo al riparo, almeno fino ad oggi, dai facili attacchi, c’ era un percorso filosofico tormentato e autentico: partito negli anni Sessanta dalle esperienze del pensiero negativo, il filosofo veneziano è approdato con il suo ultimo libro,
Dell’ Inizio (edito qualche mese fa da Adelphi), a un’ interrogazione serrata sui compiti del pensare. E’ toccato a Massimo Baldini – ordinario di filosofia del linguaggio all’ Università di Perugia e autore di numerose ricerche sul tema della parola – metterlo sotto accusa. Lo fa in un libro che uscirà ai primi di settembre dall’ editore Laterza e che si intitola: Contro il filosofese. In filosofese scriverebbe dunque Cacciari, per il quale Baldini ha coniato il termine di cacciarite, ossia la malattia infantile del linguaggio filosofico: “Non è mortale come l’ Aids, ma fastidiosa come la scarlattina”. Sotto accusa in particolare Dell’ Inizio: “In quest’ opera di mole cospicua”, scrive Baldini”, “ci si imbatte subito in un polveroso nuvolone di parole prese da quattro o cinque lingue diverse… in vistosi ammiccamenti grafici, in frequenti intrusioni citative dritte o rovesce, in abbondanti paraglottizzazioni (fenomeno questo che consiste nel mettere accanto alla parola italiana la traduzione in qualche superlingua).
Come si può intuire facilmente gli asserti contenuti in questa opera cacciariana sono interessanti e comprensibili quanto le terzine di Nostradamus”. Un processo, quello nei confronti di Cacciari, sommario, non privo di brutalità e tuttavia capace di andare al cuore del problema: che cosa si nasconde dietro il linguaggio spesso oscuro dei filosofi? I colpi di questo Savonarola della lingua non risparmiano neppure Emanuele Severino. “L’ esempio più tipico”, mi dice Baldini, “del filosofo oracolare”. Ma torniamo a Cacciari: “Mi chiedo se il tempo perso dietro Dell’ inizio non sia stato un furto verso altre letture”. Baldini non dà tregua, arriva a paragonare Massimo Cacciari allo psicoanalista Armando Verdiglione: “Sono entrambi fumosi e incomprensibili, uno è la risciacquatura di Lacan, l’ altro è la terza o quarta acqua del caffè heideggeriano. Hanno questa mania di spezzare le parole.
Cacciari soprattutto, il quale non scrive astrologia ma astro-logia, non informato, ma in-formato, non successione cronologica ma successione crono-logica, non impossibilità, ma im-possibilità. Potrei continuare. Ma devo dire che non so quale sia semanticamente la differenza tra astrologia e astro-logia, quale profondo e nuovo significato possegga quest’ ultimo termine, quale potere taumaturgico abbia la lineetta con la quale si spezzano e, nel contempo, si uniscono parole che da tempo si muovono onorevolmente sui sentieri del linguaggio”. Baldini non rifiuta l’ oscurità in assoluto. Distingue fra l’ oscurità delle idee e quella che è semplicemente frutto del lessico: “Vi sono libri che si leggono facilmente, ma la chiarezza svanisce quando si vuole approfondirli e, viceversa, dei libri che sembrano di primo acchito oscuri, divengono limpidi quando si cerca di comprenderli a fondo”.Alcuni filosofi del passato – ammette Baldini – possono essere stati oscuri. Ma vanno capiti: scrivevano in società fortemente repressive dove occorreva aggirare la censura. Spinoza era costretto a pubblicare anonimamente.
Nascondersi, rendere difficile l’ accesso alla verità era una forma di autodifesa. Ma in una società come la nostra, il filosofo ha il dovere di parlar chiaro. Questo libro nasce da una constatazione: ci sono filosofi che si lamentano dell’ oscurità di altri filosofi. Questo non capita fra gli scienziati, fra i medici, fra i giuristi. Per Baldini esistono i filosofi sentinella, coloro che amano la chiarezza e la controllabilità del discorso e i filosofi oracolari che preferiscono le metafore ai concetti, le libere associazioni ai ragionamenti rigorosi, le generalizzazioni illegittime alle analisi accurate. Un filosofo sentinella è Popper. Un filosofo oracolare è Severino. “Severino”, rincara Baldini, “è la Wanda Osiris della filosofia, nel senso che ama la filosofia spettacolo. Mentre la filosofia è un esercizio razionale, lui fa un uso retorico delle parole. E’ un maestro di nebbie verbali, affetto dal complesso del Redentore e ritiene con grande presunzione di essere un novello salvatore del pensiero occidentale. In realtà è un tuttologo, al quale manca solo l’ esperienza del cartomante”.
LA DIFESA Tre autorevoli studiosi intervengono in difesa del suo pensiero ‘ SI’ , MI FA VENIRE I NERVI, MA…’ Davvero Massimo Cacciari è un filosofo verboso e inconcludente come emerge dalle accuse roventi di Massimo Baldini? L’ abbiamo chiesto a tre autorevoli studiosi italiani: Paolo Rossi, Sergio Givone e Gianni Vattimo. Apriamo con loro la questione se in filosofia è necessaria la chiarezza. PAOLO ROSSI “Considero Massimo Cacciari – con il quale ho poche esperienze culturali in comune – un filosofo rilevante. Un pensatore di prim’ ordine. Non si possono ridurre i suoi libri a un problema di chiarezza stilistica. Altrimenti La Scienza della Logica o La Fenomenologia dello Spirito di Hegel da tempo sarebbero state bandite dalla storia della filosofia. “Naturalmente Cacciari non è Hegel, o perlomeno non ho ancora sentito nessuno in giro proporci un paragone del genere. Anche Hegel fu attaccato violentemente.
A parte Schopenhauer, mi vengono in mente i neopositivisti i quali sostenevano che la sua prosa era l’ elaborazione di un malato di mente. “Davvero, liquidare qualcuno o qualcosa è facilissimo. Sarebbe meglio cercare di capire. Mi risulta che sull’ ultimo libro di Cacciari – Dell’ Inizio – la rivista di filosofia Iride abbia aperto un dibattito e che a questo dibattito sia intervenuto lo stesso Eugenio Garin, il nostro più grande storico della filosofia. E’ un modo serio di affrontare un libro serio. “In tutta la tradizione filosofica esistono libri cosiddetti oscuri. Ma un conto sono le preferenze che un neoempirista può accordare a certi autori, rifiutando che so? Heidegger, e un altro conto è illudersi che queste preferenze cancellino l’ oscurità. E’ indubbio che dietro molta oscurità si nasconda la verbosità, la retorica, il gusto dell’ allusione, in una parola: il fumo. Ma non è sempre così, non sempre il linguaggio filosofico è allusivo e metaforico. A volte l’ oscurità è solo il riflesso di vere e proprie difficoltà concettuali. Se disaccordo con Cacciari deve esserci, questo non può che nascere dai concetti che elabora e non dalle parole con cui li esprime”.
SERGIO GIVONE “Mettere sullo stesso piano Massimo Cacciari e Armando Verdiglione è un modo sorprendente per chiudere gli occhi di fronte alla cultura filosofica italiana degli ultimi vent’ anni. Siamo alla provocazione spicciola. Al pregiudizio tipico della filosofia analitica dalla quale Massimo Baldini proviene. Cioè quella filosofia che pretende di racchiudere in pochi enunciati chiari tutto il dicibile filosofico. E’ una pretesa assurda che non ha fatto ancora i conti con il proprio fallimento teorico. “Ma il paragone tra Cacciari e Verdiglione è insostenibile proprio sul piano dell’ analisi linguistica. Quanto il linguaggio di Verdiglione è elementare, è ripetitivo, è giocato su assonanze banali – insomma è un linguaggio da acchiappacitrulli -, tanto quello di Cacciari è sofisticato e denso di richiami culturali. Verdiglione ha creato un gergo. Cacciari ha uno stile filosofico. “Dell’ Inizio è un’ opera che utilizza molti registri stilistici. Ripercorre l’ itinerario filosofico di alcuni classici, come Fichte, Schelling, Hegel, con grande aderenza ai loro testi. C’ è uno sfondo speculativo straordinario. E c’ è poi un registro saggistico di grande raffinatezza.
Penso, tanto per indicare degli esempi, ai saggi dedicati a Francesco d’ Assisi e a Durer. “Baldini se la prende con l’ uso dei trattini. E’ un’ accusa debole. Sarebbe come criticare Céline perché usava i tre puntini. Baldini mi sembra un epigono di Wittgenstein che erge a suo motto la frase che là dove non si può dire occorre tacere. Questo imperativo di tacere – altrimenti si rischia di essere oscuri – ha la funzione sgradevole di esorcizzare la filosofia e risponde a un bisogno di autoconsolazione. Non possiamo farcela, pensa Baldini, e allora irridiamo coloro che cercano di uscire dai limiti che la filosofia analitica ha imposto”. GIANNI VATTIMO “Devo dire che io sono per uno stile chiaro.
La filosofia non può essere solo specialismo, altrimenti dov’ è la sua universalità? Ma quando occorre, ammetto lo stile oscuro. E poi Dell’ Inizio – l’ ultima opera di Massimo Cacciari – non è così oscura come Baldini pretende in un libro alle cui tesi in generale sono favorevole. “Cacciari ha delle cose da dire. Non è insomma il vuoto che si nasconde dietro a delle chiacchiere. Noto in lui anche una certa evoluzione linguistica. Non capivo i suoi primi libri dedicati all’ elaborazione del pensiero negativo – di cui ancora oggi mi sfuggono gli elementi – e dove mescolava filosofia ed economia con molta leggerezza. Non mi entusiasmava il Cacciari intermedio, quello per intenderci che studiava gli Angeli e le Icone.
Trovo invece piuttosto interessante l’ ultimo Cacciari, quello che legge Schelling e che sostiene e sviluppa delle tesi che già il mio maestro Luigi Pareyson aveva enunciato. “E’ vero che fa venire i nervi quando egli scrive de- cisione con il trattino. Ma è solo una piccola debolezza stilistica. Non è questo il punto. C’ è in questa sua opera più recente una quantità impressionante di materiali – dai testi classici della filosofia e della letteratura antica e moderna, alla mitologia, alla teologia, alla patristica, all’ Antico e Nuovo Testamento – che sono utilizzati e concentrati da far invidia a qualsiasi studioso. E’ un filosofo che occorre discutere, non liquidare. Personalmente vedo nelle sue cose più recenti il difetto di ridurre tutta la filosofia a un logicismo, alle forme grammaticali del discorso. Mi dispiace insomma che non tenga in nessuna considerazione le ragioni dell’ esistenza e della libertà che ciascuno di noi manifesta con le sue scelte concrete e talvolta drammatiche. Dimentica che dopo Hegel c’ è stato l’ esistenzialismo di Kierkegaard”.
Così canta Raffaele Urraro a un certo punto:
“[…]se un giorno potessimo affacciarci
sull’“orlo vertiginoso delle cose..”
Da Charles Simic, il poeta che più amo, e che anche Urraro pre-sceglie per ben due volte in epigrafe, di recente meritoriamente ri-proposto da Giorgio Linguaglossa su L’Ombra d. P., tutti abbiamo affinato l’idea che ‘la poesia vede quello che la filosofia pensa’; cerco una risposta nell’altro poeta-lume:
Tomas Tranströmer, ovvero, nei suoi versi che si basano su:
– l’insufficienza del linguaggio al dire;
– la distanza dell’ “Io” dalla vita;
– la lingua umana che non dice l’essenza [alla poesia altro forse non resta che le cose parlino da sole…],
– la realtà che fa chiasso o mugola ma non dice:
e che in ‘Una notte d’inverno’ toccano l’acme.
Tomas Tranströmer,
Una notte d’inverno.
La tempesta poggia la sua bocca alla casa
e soffia per emettere un suono.
Dormo inquieto, mi giro, leggo
il testo della tempesta assopita.
Ma gli occhi del bambino sono spalancati al buio
e il temporale mugola per lui.
Entrambi amano le lampade che dondolano.
Entrambi sono a metà strada dal linguaggio.
La tempesta ha mani infantili e ali.
La carovana si lancia verso la Lapponia.
E la casa avverte la sua costellazione di chiodi
che tiene insieme le pareti.
La notte è immobile sul nostro pavimento
(dove tutti i passi attutiti
riposano come foglie affondate in uno stagno)
ma fuori infuria la notte!
Sul mondo passa una più grave tempesta.
Poggia la sua bocca alla nostra anima
e soffia per emettere un suono – temiamo
che la tempesta soffiando ci svuoti.
GR
Riprendo da dove inizia Gino Rago:
Così canta Raffaele Urraro a un certo punto:
“[…]se un giorno potessimo affacciarci
sull’“orlo vertiginoso delle cose..”
Quell’«orlo vertiginoso delle cose» sono le cose stesse che si danno in modo vertiginosamente contraddittorio. Pensare significa pensare in forma di contraddizione le contraddizioni stesse, cioè, le cose stesse. Quello che vorrei dire è spingere il pensiero poetante, la forma-poesia verso l’adozione del pensiero contraddittorio, del pensiero consapevole della propria contraddittorietà che pensa le cose e le può pensare soltanto attraverso la categoria della contraddizione, quella contraddizione che deve improntare la stessa forma-poesia, lo stesso stile. Voglio dire che lo stile del pensiero unilineare è inadatto alla nuova poesia, occorre decostruire il pensiero poetante unilineare, che in sé è un pensiero conciliante e conciliatorio…