Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Gif La noia

Nota di Gino Rago

Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:

«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».

I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.

1- Silvana Baroni

Persa e ritrovata

Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.

 

2 – Gino Rago

il Vuoto, lo specchio

Cara Signora Jolanda W. ,

[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,

lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]

 

3 -Ghiannis Ritsos

Quarta dimesione [da Crisotemi ]

” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.

C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]

 

4- Guido Galdini

Specchio

è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?

Tiziano Scarpa

Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

5 – Giuseppe Talia

Speculum

Morirò su questa cyclette
lo sento dal battito del cuore
e da questa gronda di sudore
che mi cola dalla fronte
come il sangue del Cristo.

Il mio specchio è un retrovisore.

Una Venere lotta con il tapis roulant.
Le conto le costole.
Ne mancano due all’appello,
quelle fluttuanti sul decorso
obliquo del Summa Theologiae.

Mi riempie gli occhi
ma non posso fermarmi –
sarebbe una sconfitta –
nonostante avverta una fitta.

Imposto il programma a barre intermittenti.
Zompo come una marionetta.
Respiro attraverso la cuffietta.

Arriva, arriva il vento!
Si specchia nello specchio:
Anemosssss
Kathorossss

Una lunga fila nella sala attrezzi
del purgatorio.
Gli abbonati alla tortura
sferrano attacchi ai pesi,
ai manubri, ai dischi contesi.
I corpi si bilanciano,
entrano in trazione;
alzano e abbassano maniglie
in un rumore di ferraglie.

Lo specchio a cui tutti si specchiano:
l’inferno-out, il paradiso-in.
E’ una via crucis lo spin
asciugamano e bottiglietta- biberon.

Morirò su questo vogatore, lo sento
quando l’istruttore- Caronte- moggio
mi incita a non cedere il passo
a superare l’orlo del collasso.

L’esercizio terminerà tra qualche minuto.
Premere un tasto qualsiasi per continuare.
Secondo voi che faccio?

6 – Mario Gabriele

Non ho scritto nulla sul tema dello specchio

I
Non ho scritto nulla sul tema dello specchio. Ritengo che sia la parte più segreta e abissale del nostro inconscio. In questo senso mi rifaccio ai dipinti di Magritte con il personaggio visto di spalle e che non rivela nulla di se stesso, rispetto a chi voglia rispecchiarsi di lato, di fianco e di fronte.
Lo specchio resta un oggetto a sé. Ha la stessa funzione di un disco a 33 giri.
Se non ci mettiamo la puntina. il disco non parte e non rivela il sound (fuori metafora siamo noi i rivelatori di ciò che vogliamo). Se siamo tristi o allegri, lo specchio riproduce sempre la nostra fisiognomica. La poesia è lo specchio di noi stessi, Lo specchio invece, è il nostro alter Ego nell’epoca della riproducibilità.

7 – Zbigniew Herbert

Lo specchietto

Cosa riflette lo specchietto sul bordo del tavolo:

lo specchietto riflette il soffitto
il prato bianco dei desideri

e anche
l’angolo della stanza
lo sparviero rinsecchito

la biblioteca la farmacia
con le fiale per la tristezza

metà di una vecchia riproduzione
piena di rossi frastuoni
sotto un cielo molto sottile

cosa riflette lo specchietto

un pettine
e una ciocca di capelli

un pennino schiacciato
e una penna picchiettata

se lo specchietto fosse una stella
rifletterebbe il vigile sonno dei pianeti

rifletterebbe la faccia chiara del sole
l’irradiamento dello spazio
l’etere e l’argento

il conto di una saggezza distante
se lo specchietto fosse una stella
rifletterebbe
la splendida terra rotonda
con le chiome canute delle eclittiche

ma non c’è di che disperarsi
non c’è niente da rimpiangere

8 –Donatella Costantina Giancaspero

Kane allo specchio

I
E come non ricordare Citizen Kane, Quarto potere, il capolavoro di Orson Welles (1941). Qui il tema dello specchio è interpretato in modo magistrale già dalla prima scena.
Una finestra in primo piano introduce a un tratto lo spettatore da un esterno fosco e inquietante a un interno altrettanto cupo, fortemente enigmatico. Si tratta di un suggestivo esempio di raccordo ingannevole in una catena di sequenze che sfidano la nostra percezione della realtà. Una incomprensibile nevicata cede il posto a una sfera con la neve, stretta nella mano di un uomo; il primissimo piano di una bocca coincide con la prima parola del film, Rosebud; di nuovo l’inquadratura della mano, con la sfera che si rompe sul pavimento. E qui viene il bello: il regista, dopo aver scomposto la realtà in frammenti, la deforma davanti ai nostri occhi: l’immagine di una infermiera che entra nella camera è mostrata attraverso i frantumi di vetro, in un gioco di distorsioni e di rifrazioni tipico del cinema di Welles. Un cadavere viene ricoperto da un lenzuolo. Quarto potere si apre con la morte del suo protagonista per poi ripercorrerne a ritroso la travagliata esistenza in una narrazione a flashback senza continuità temporale.

II
E, per concludere, citerò l’ultima scena di Quarto potere, dove ritorna la sfera con la neve vista all’inizio, e poi restiamo senza fiato sulla straordinaria sequenza degli specchi.
Charles Kane, in preda alla collera, fa a pezzi la camera di Susan, la seconda moglie dalla quale è stato abbandonato.
In quel piccolo regno dell’horror vacui, distrugge tutto, tranne una cosa: la sfera con la neve della sequenza iniziale. Poi, rigido, con lo sguardo vitreo, Kane esce lentamente dalla stanza, sotto gli sguardi atterriti della servitù.
L’uomo si ritrova solo ad attraversare un corridoio arredato da specchi
che riflettono e moltiplicano la sua immagine all’infinito,
in un superbo esempio di mise en abîme.

9 – Jorge Luis Borges

Gli specchi

Io, che sentii l’orrore degli specchi
non solo in faccia al vetro impenetrabile
dove finisce e inizia, inabitabile,
l’impossibile spazio dei riflessi

ma in faccia all’acqua specchiante che copia
l’altro azzurro nel suo profondo cielo
che a volte riga l’illusorio volo
d’uccello inverso o agita un tremore

e avanti alla distesa silenziosa
del sottile ebano la cui tersura
ripete come un sogno la bianchezza
d’un vago marmo o d’una vaga rosa,

oggi al termine di tanti e perplessi
anni d’errare sotto varia luna,
mi chiedo quale caso di fortuna
volle che io paventassi gli specchi.

Gli specchi di metallo, il mascherato
specchio di mogano che nella bruma
del suo rossastro crepuscolo sfuma
il volto che mirando è rimirato,

infiniti li vedo, elementari
esecutori d’un antico patto,
moltiplicare il mondo come l’atto
generativo, veglianti e fatali.

10 Mauro Pierno

Avvenne per acclamazione.
Ricevettero tutti quanti palette riflettenti.
Le uniformi regolari anche.
Ai polsini led intermittenti.
Tutti avrebbero fermato tutti.
Si posizionararono.
Fu convenuto un unico fischio,
un richiamo morbido.
Un fruscio incontrollato di uccelli.
E avvenne.

11 – Francesco Lorusso

Il secchio e lo specchio

E non sapremo mai fino dove
noi due fummo in fine sospinti
quali occhi adesso ci separano
e se giacciono il resto delle ombre
alla resa alta della pietra muraria
dove Marte ci pose in campo
un gioco a scambio traguardato
o la nostra porta tutt’ora persa
aperta nel mattino o nello specchio
del presente che oramai ci divide

12 Francesca Dono

di Lalie Lescorgot

Davanti allo specchio qualcosa si
Muove Più di un baleno La strana
Velatura di una figura gettata in
Avanti Non c’è molto sul vetro
Gli angoli ruotano sugli angoli
Il piano attraverso gli sfoghi del paesaggio
Dopo l’erba un treno di alluminio
Certi profughi espulsi da ogni traversata
Di acqua fredda
Com’è possibile che tutto sia
Distante e sconosciuto?
Un grande lavandino esplode con
Gli abitanti dei volti senza vita
A sorpresa un estraneo si fisserà
“On demand “ al tuo esile corpo
In un solo sorso di polvere Dall’ultimo
suono diabetico che si ripete infinito.

Foto parigi Lorenzo Pompeo

Foto di Lorenzo Pompeo, Cappelli con specchio a Parigi

13 Giuseppe Gallo

Come non essere d’accordo con chi afferma che ? In questo dire vogliamo metterci anche noi stessi?

Sullo sfondo il palazzo di ferro e cemento
ha una parete di vetro con la polvere addosso
rivolta ad oriente per riscaldarsi al sole.
E su e giù e a destra e a sinistra altre lastre a specchio
anch’esse annerite.
Ogni tanto un riflesso
un luccichio maturo di tramonto.
Puntando gli occhi a volte
ci incontriamo in quel balenio,
raro come una chiara pupilla,
e ci sembra in quell’istante il mondo,
con le cose e la materia,
un lampo.
Il crollo del nel nostro destino.

Lidia Are Caverni

Lo specchio

Si diluiva il tempo, una velocità opaca che divorava manufatti, uno smontaggio che dava tristezza come quando si parte.
La fiaccola non ardeva più, un deposito anonimo per i fantasmi dei sogni ambiziosi di Mattei che faceva dell’Italia la raffineria d’Europa e Venezia con essa.
Eppure la laguna stabiliva una continuità troppo a lungo stabilita: un affiorare di gabbiani stravolti e di nasse per un giorno qualunque, perso in un’atrocità di un futuro non più imprevedibile.
Le tre donne le stavano di fronte nella posizione che negli autobus obbliga i viaggiatori a guardarsi. Stare dirimpetto non le piaceva, se possibile preferiva sedere di fianco, per poter guardare a proprio agio fuori del finestrino o seguire i propri pensieri.
Ma alla fermata a cui era salita non c’era stata altra scelta, d’altra parte le seccava stare in piedi per tutto il percorso fino a Venezia.
Delle tre , due si trovavano già in autobus sedute vicine, una era salita con lei ed era andata a disporsi all’altro lato della figura centrale. La persona seduta proprio di fronte a lei era giovanissima, una ragazzina ancora, forse dei primi anni di qualche liceo. Costituiva nell’insieme un qualcosa di singolare. Portava un cappello di feltro marrone di foggia maschile, non eccessivamente grande, le arrotondava la testa e di taglio maschile era anche il cappotto di colore scuro e il doppio petto.
I capelli erano scuri, non troppo lunghi, sollevati indietro sopra l’orecchia sinistra e il lato destro invece un poco sceso sul viso.
I tratti erano delicati, con le guance tonde e morbide dell’infanzia e la bocca che si serrava seguendo i caratteri di un libro che teneva sulle ginocchia. Leggeva e con una matita segnava veloce le frasi o le parole che voleva mettere in evidenza.
Che fosse abituata a leggere si percepiva per il gioco degli occhi e il girare rapido delle pagine.
Di quando in quando guardava davanti a sé con tranquillità oltrepassando con le sguardo verso lo sfondo della laguna che ora si delineava precisa: un’acqua trasparente di cui s’indovinava il rigore. Gli occhi avevano il colore del cappello, un poco più chiari e lucidi.
Le due donne ai lati parevano creare un’alternanza come certe tavole dipinte attorno a un altare. Eppure neppure il loro aspetto era trascurabile, quella salita assieme a lei era una ragazza giovane, con i capelli scuri e lunghi leggermente ondulati, le labbra dipinte col rossetto, l’insieme attraente e pulito. Trasse poi di tasca un paio di guanti di lana dai colori vivaci. Li infilò e rimase con le mani sovrapposte e quiete. Guardava dritto, gli occhi persi nella laguna.
L’altra donna non era più giovane, per quanto non potesse essere definita anziana, il viso scarno che forse era stato bello. Un berretto le copriva i capelli. Appariva cordiale, più delle compagne affrontava il suo sguardo con una serena compiacenza.
Era talmente presa dalla vista delle tre donne che il resto dei viaggiatori scompariva, non solo quelli che erano seduti uno dietro l’altro che poteva vedere solo di spalle, ma anche quelli che aveva a fianco. Avrebbe, per vederli, dovuto voltarsi intenzionalmente e le risultava indifferente.
Oltrepassarono il cannone, un treno scorse lento lungo la ferrovia, coprì la laguna.
Provò a leggere la destinazione, lo faceva sempre quando vedeva passare un treno, le pareva di iniziare il viaggio e l’incrocio fra il mezzo su cui si trovava che fosse automobile o autobus le provocava una sensazione di gioia infantile. Si aspettava quasi di vedere persone affacciate ai finestrini e sbirciava dentro, malgrado il movimento veloce, per cogliere l’intimità degli scompartimenti Soprattutto di sera, una serie ininterrotta di luci accese costellate di teste.
Anche andare a Venezia era per lei ogni volta un viaggio, una scoperta preannunciata di scorci mai visti o ritrovati sui canali e le calli, misteriose come alcove.
La ragazzina continuava a leggere, annotando leggera sollevando il capo col gesto di chi riflette su quanto sta apprendendo. L’autobus andava veloce, forse doveva recuperare un ritardo, eppure il movimento non pareva infastidirla.
Le due donne stavano quiete. Erano ormai al Tronchetto, tra poco sarebbero arrivati.
D’un tratto le tre donne girarono il capo contemporaneamente verso di lei e con stupore si accorse che avevano tutte gli occhi del medesimo colore, il miele dolce della ragazzina, il dorato più consapevole della ragazza, il maturo tostato della donna e non solo, anche la forma era simile.
Provò la sensazione di essere guardata da un’unica persona, come se le sue compagne di viaggio non fossero altro che la rappresentazione di tre momenti di una medesima vita.
Per un attimo i loro sguardi si incrociarono col suo, poi si distolsero, ma restava sospesa un’unione che legava.
Considerò che anche il colore dei capelli era uguale e che il nucleo fondamentale di tutta l’assurda vicenda era la figura di centro: l’ignara fanciulla che non cessava di tenere sulle ginocchia il suo libro e di leggere.
A Piazzale Roma l’autobus rallentò, compì la rotazione che lo poneva nuovamente in posizione di partenza.
La donna urtò leggermente il braccio della ragazzina, piegandosi poi sorridendo verso di lei, quasi a volergliela presentare o offrire.
Allora capì: le tre donne non erano altro che se stessa e che lei costituiva l’anello mancante della sequenza. Provò una vertigine, una sospensione indicibile di tempo.
Poi la ragazzina ripose il libro nella borsa sportiva che teneva fra i piedi, lasciò cadere la matita nel suo interno e con gesti rapidi e sicuri trasse un pacchetto di crackers.
Ad autobus fermo, i viaggiatori scesero e anche lei scese, senza riuscire ad afferrare nella mente quando anche le tre donne si fossero alzate.
Si allontanò in fretta e a un certo momento si accorse di correre con la fuga che voleva infrangere lo specchio.
Nell’angoscia che la stringeva sentiva che lei, protagonista, era in realtà l’esclusa.

Foto Specchio Lorenzo Pompeo

Foto di Lorenzo Pompeo

Lorenzo Pompeo

Commento di Giorgio Linguaglossa

Sullo specchio

Che cos’è lo specchio, per la filosofia è ancora un mistero. Che cos’è? Un nulla? Un qualcosa?. O l’uno o l’altro.

Mi si dice che non è né l’uno né l’altro, che non è né un nulla né un qualcosa. Bene, e allora cos’è? E perché ci inquieta così tanto?. Il mito di Narciso ci dice qualcosa, ma qualcosa che narra dell’io, del sorgere della consapevolezza dell’io, il primo bagliore dell’autocoscienza; con il che diventiamo duali: io e l’altro, io e il mio riflesso.

Ma, ci chiediamo, c’è dell’altro? Se rivolgo lo specchio verso il cielo, vedo il cielo, se lo rivolgo verso il mare, vedo il mare. E allora? Allora, direi che lo specchio ci rivela qualcosa, qualcosa di essenziale, che io, il cielo, il mare, le nuvole e tutte le cose che stanno nel mondo sono, siamo un effetto di specchio… anche i nostri occhi sono uno specchio, nell’occhio si riflettono tutte le cose del mondo, così quando io guardo uno specchio è come se uno specchio fosse posto davanti ad un altro specchio: lo specchio dei miei occhi specchia il nulla che è in me e che è nello specchio, il nulla fatto di pieno, di cose piene. E allora non possiamo non giungere alla conclusione che lo specchio è un nulla che riflette un altro nulla.

Direte voi, e allora lo specchio è uno zero? No, perché lo zero è un numero e, posto lo zero, implicitamente pongo tutti i numeri. E allora non resta che riconoscere che lo specchio è un nulla che ci rivela il nulla di tutte le cose. La vertiginosa abissalità dello specchio ci conduce vicino all’esperienza del nulla che è qualcosa, qualcosa fatto di nulla…

Che cos’è lo specchio? E perché ci riguarda da vicino?
Che cos’è l’ombra? Che cos’è l’ombra riflessa nello specchio?

Davvero inquietante.

Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».1]

1] T.W. Adorno, Dialettica negativa Einaudi, 1970, p. 68

Giorgio Linguaglossa Gino Rago

da sx G. Linguaglossa e G. Rago, Ostia, 2017

Gino Rago è nato in Calabria, a Montegiordano (CS), il 2 febbraio 1950. Da anni vive e opera fra la Sibaritide e Roma, dove si è laureato in Chimica Industriale, presso l’Università La Sapienza. Nella capitale, per più di 30 anni è stato docente di Chimica.
Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005).
Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa 28 Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016) e nel saggio psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Progetto Cultura, Roma, 2018).
È membro della Redazione dell’Ombra delle Parole e collabora con la Rivista Trimestrale «Il Mangiaparole» [Roma, Progetto Cultura].

39 commenti

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39 risposte a “Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

  1. E’ sorprendente questa poesia di Gino Rago. Basta fermarsi un attimo a leggerla, nel percepire un linguaggio nuovo, a raggi infrarossi, con i suoi riverberi pluriestetici. E’ questo il vero senso della NOE che si enuclea all’interno di un discorso dalle innumerevoli pulsioni, fino a restituire alla parola una nuova fisicità. Quanto al testo di Guido Galdini, la sua proposta mi collega agli esiti estetici di Alberto Vitacchio, di tendenza verbo-visiva, già a suo tempo documentata da Giorgio Moio su Risvolti: una scrittura visionaria e materialistica, ovviamente non in senso dispregiativo, ma sperimentale e progettuale, anche se i tempi sono cambiati.

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  2. Lettera allo Specchio
    di Lidia Popa

    Caro Specchio, oggi abito in te come in una stanza,
    piena di armadi e abiti di seconda mano.
    Su una parete hai una libreria di tre piani.

    Là, impolverati e ancora non aperti, giacciono
    i libri degli amici poeti. Letture sconclusionate…
    Alcune non molto interessanti.

    ce n’è uno con un titolo mistico.
    Ti fa viaggiare tra le ombre.
    Attraente, lo devo ancora finire di leggere. Poi ti scrivo.

    Una stanza rimane ferma non viaggia.
    Solo i sogni dentro di lei possono viaggiare
    attraverso di te, specchio.

    Una notte ho sognato la morte, agonizzava.
    Mi chiedo se la morte si specchia dentro di te,
    e se lo fa di notte quando tutto dorme.

    Il mare e il cielo sono uno specchio.
    Là, si specchiano i naufraghi in cerca di salvataggio.
    E i gabbiani che si cibano di corpi putrefatti.

    L’umanità ha uno specchio?
    E se l’ha, è una ombra,
    non si frantuma di sdegno?

    Non senti un vuoto dentro di te, specchio?
    Mi sento vuota come una stanza che affonda in alto mare.
    Chissà se potrò scriverti ancora. Un triste saluto,

    La stanza dei bambini che annegano.

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  3. Sul testo di Tiziano Scarpa dico semplicemente che negli anni sessanta e settanta ho letto decine di migliaia di versi simili… il testo di Scarpa mi sembra una trovata pubblicitaria tipica di un’epoca in cui i poeti fanno servizio di finta oreficeria o sciacquano i piatti nei retrobottega delle trattorie (leggi gli uffici stampa degli editori) della scrittura creativa (come si dice oggi).

    Convengo con quanto scrive Mario Gabriele:

    «Lo specchio resta un oggetto a sé. Ha la stessa funzione di un disco a 33 giri. Se non ci mettiamo la puntina. il disco non parte e non rivela il sound (fuori metafora siamo noi i rivelatori di ciò che vogliamo. Se siamo tristi o allegri, lo specchio riproduce sempre la nostra fisiognomica. La poesia è lo specchio di noi stessi, Lo specchio invece, è il nostro alter Ego nell’epoca della riproducibilità.»

    La tematica dello specchio, come ogni tematica, può essere trattata in chiave lirico-diaristica o con la chiave della nuova ontologia estetica. Convengo anche nel fatto che la poesia di Gino Rago sia quella che meglio interpreta il nuovo modo di concepire la scrittura: via i verbi, via gli aggettivi inutili, via gli inserimenti dell’io e spazio agli attanti oggettivi e concreti.

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  4. Giuseppe Gallo

    Riprendo la mia domanda retorica del precedente intervento perché qualcosa è andato perduto.
    -Come non essere d’accordo con chi afferma che “l’immagine dice la nullità delle cose”? Ecc. ecc.
    Chiedo scusa a L’ombra, o allo Specchio? Perché spesso e volentieri lo specchio stesso è così distorto da raggiungere perfino le radici del nostro essere e le sorgive della lingua.

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  5. anch’io trovo splendidamente superba la poesia di Gino…

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  6. Lo specchio solleva interrogativi sull’autenticità. Io sono, diciamo così, favorevole all’autenticità involontaria, quella che si realizza durante il percorso della scrittura – penso a Dante che nella Divina Commedia si è mantenuto autentico in ogni verso malgrado l’idea, che è del tutto fantastica – quindi non l’affronterei di petto; e chi ci prova, se non ha gli attributi necessari andrà incontro sempre a seri problemi. Bene ha fatto Gino Rago a muoversi nell’assurdo:
    “Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
    Mario Gabriele mangia una Sacher con panna (…) Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta”
    ma scrive anche:
    “Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,
    sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato”

    Ecco a cosa servono l’assurdo, il non senso, la leggerezza. Sono funzionali all’autenticità, la colgono di sorpresa, quando non te l’aspetti. E’ un modo nuovo di fare scherma.
    “Una risata da dietro i gerani”.

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  7. Giuseppe Talia

    Mi piace molto la fotografia di Giorgio e Gino a Ostia 2017. E’ come se si tenessero per mano.: specŭlum e specĕre.

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  8. La Nuova Poesia italiana allo Specchio

    Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa


    Nella prosa di Lidia Are Caverni ci sono tre donne che siedono davanti alla protagonista nell’autobus che conduce a Piazza Roma, a Venezia, (quante volte ho fatto quel viaggio, andata/ritorno, quando abitavo a Mestre e andavo tutti i giorni a Venezia!). Il racconto è fatto di nulla, di sguardi che la protagonista lancia alle tre donne sedute davanti a lei. Improvvisamente, la protagonista comprende:

    «Allora capì: le tre donne non erano altro che se stessa e che lei costituiva l’anello mancante della sequenza. Provò una vertigine, una sospensione indicibile di tempo.»

    Molto interessanti anche le fotografie scattate da Lorenzo Pompeo con tutti quei cappelli attaccati alla parete e uno specchio al centro, quasi nascosto,

    Allora, la protagonista esperisce la epoché (la sospensione del tempo) e la scoperta, il riconoscimento dell’Altro che altri non è che se stesso… tematica squisitamente esistenzialistica…

    Leggiamo l’incipit della poesia di Lidia Popa:

    Lettera allo Specchio

    Caro Specchio, oggi abito in te come in una stanza,
    piena di armadi e abiti di seconda mano.
    Su una parete hai una libreria di tre piani.

    Là, impolverati e ancora non aperti, giacciono
    i libri degli amici poeti. Letture sconclusionate…
    Alcune non molto interessanti.

    ce n’è uno con un titolo mistico.
    Ti fa viaggiare tra le ombre.
    Attraente, lo devo ancora finire di leggere. Poi ti scrivo.

    Una poesia in forma di missiva allo «specchio». Brillante idea. Io avrei soppresso il verbo «giacciono»; senza quel verbo la poesia scorrerebbe meglio, più spedita, più leggera (i verbi dovremmo usarli con il contagocce). Per gli antichi stoici il verbo ha la stessa natura del nome, è un duplicato del nome, è servente soltanto alla costruzione sintattica, è un chiarificatore, sancisce un legame (sintattico) tra il soggetto e un altro nome. Se riuscissimo a togliere il 90% dei verbi ci troveremmo in un sol colpo dentro il nuovo modo di concepire la composizione come una composizione di nomi, nominale, che si regge benissimo da sola… Interessante è anche l’andamento colloquiale, carezzevole e leggermente ironico della composizione, con quel «Poi ti scrivo»…

    Lucio Mayoor Tosi scrive: «Lo specchio solleva interrogativi sull’autenticità. Io sono, diciamo così, favorevole all’autenticità involontaria», ed io sono completamente d’accordo. Nella composizione di Gino Rago notiamo una grande libertà fantastica, lui gioca e si diverte con «la torta Sacher», con «la sgualdrina di Vivaldi», con Mario Gabriele avvistato «mentre si rade la barba e fischietta», con «il mio amico di Roma» «che litiga con il Signor Nulla», con gli amici poeti «della nuova ontologia estetica» colti in momenti casuali e insignificanti, mentre mangiano «una Sacher con panna»:

    Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

    hanno un debole per le pasticcerie.

    È un quadro davvero sconclusionato quello che ritrae Gino Rago, ma, appunto per questa sua sregolata leggerezza, la poesia è viva, effervescente…

    Anche la poesia di Mauro Pierno è nettamente sconclusionata, eppure ha un senso. Leggiamola:

    Avvenne per acclamazione.
    Ricevettero tutti quanti palette riflettenti.
    Le uniformi regolari anche.
    Ai polsini led intermittenti.
    Tutti avrebbero fermato tutti.
    Si posizionarono.
    Fu convenuto un unico fischio,
    un richiamo morbido.
    Un fruscio incontrollato di uccelli.
    E avvenne.

    Brillante. Leggera. Ultronea. È una poesia affabile, estraniata, sconclusionata, priva di scopo (intendo lo scopo lirico), priva di risultato (intendo che non ambisce a nessun risultato estetico), è una poesia squisitamente emotiva, che sembra scritta di getto in un momento di felicità espressiva, una poesia «gettata» nel vuoto e nel senza significato, una poesia coraggiosa perché non ambisce a dire niente di utile al lettore, non dà alcun suggerimento al lettore. La nuova poesia italiana è questa, tratta della problematica dell’autenticità, è una poesia squisitamente esistenzialistica ma di tipo nuovo, con una nuovissima sensibilità, con un piglio serissimo e disincantato, scritta con la consapevolezza di nuovi mezzi linguistici.

    Interessanti sono anche lo fotografie scattate da Lorenzo Pompeo con tutti quei cappelli attaccati ad una parete con uno specchio al centro, quasi nascosto, che ritrae la nostra nullità. Interessante anche il modo di trattare questa tematica esistenzialistica, Lorenzo si rivolge direttamente allo specchio, gli fa una preghiera, una invocazione:

    restituisci il contorno
    a questa pletora di fantasmi,
    questo sciame di profilattici,
    questo almanacco di sembianze
    aggrappate a una molletta,

    Acutamente, chiosa Lucio Mayoor Tosi:

    Ecco a cosa servono l’assurdo, il non senso, la leggerezza. Sono funzionali all’autenticità, la colgono di sorpresa, quando non te l’aspetti. E’ un modo nuovo di fare scherma.

    “Una risata da dietro i gerani”.

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    • Caro Giorgio, ti ringrazio. Ho l’abitudine di commentare in poesia. Mi sento in imbarazzo perché l’impulso è più forte di me. La immagino come uno strumento. Devo fare attenzione perché, se si corrode come un coltello, arrugginisce. Lo sguardo sull’atteggiamento ironico che spesso accade nella mia poesia, è stato accolto. Non a tutti piace l’ironia nord-orientale. Molti la trovano come arie di superiorità e si offendono. Nella mia poesia preferisco alludere ai classici più che ai contemporanei, con riferimento metaforico. Per quanto riguarda i verbi, non usarli, non lasciare al intenditore che pochi indizi per scoprire il senso, dovrei fare astinenza. Provo a fare l’intervento estetico. Spero non sia dolente.

      Lettera allo Specchio

      Caro Specchio, oggi abito in te come in una stanza,
      piena di armadi e abiti di seconda mano.
      Su una parete hai una libreria di tre piani.

      Là, impolverati e ancora non aperti,
      i libri degli amici poeti. Letture sconclusionate…
      Alcune non molto interessanti.

      Hai uno con un titolo mistico.
      Ti fa viaggiare tra le ombre.
      Attraente, lo devo ancora finire di leggere. Poi ti racconto.

      Una stanza rimane ferma, non viaggia.
      Solo i sogni dentro di lei possono viaggiare
      attraverso di te, Specchio.

      Una notte ho sognato la morte, agonizzava.
      Mi chiedo se la morte si specchia dentro di te,
      e, se lo fa di notte, quando tutto dorme.

      Il mare e il cielo sono uno specchio.
      Là, si specchiano i naufraghi in cerca di salvataggio.
      E i gabbiani che si cibano di corpi putrefatti.

      L’umanità ha uno specchio?
      E se l’ha, è un’ombra,
      non si frantuma di sdegno?

      Non senti un vacuum dentro di te, Specchio?
      Mi sento vuota come una stanza che affonda in alto mare.
      Chissà se potrò scriverti.

      Un triste saluto,
      La stanza dei bambini che annegano.
      P.S. Non lasciateli morire, sono angeli.
      © Lidia Popa

      Scrisoare către Oglindă

      Dragă Oglindă, astăzi trăiesc în tine ca o cameră,
      plină de dulapuri și haine de mâna a doua.
      Pe perete ai o bibliotecă cu trei rafturi.

      Acolo, prafuite și încă nedeschise,
      cărțile prietenilor poeți. Lecturi neterminate …
      Unele nu prea interesante.

      Ai una cu un titlu mistic.
      Te face să călătorești printre umbre.
      Atractivă, încă mai trebuie să termin de citit. Apoi îți spun.

      O cameră rămâne staționară, nu călătorește.
      Doar visele din interiorul ei pot călători
      prin tine, Oglindă.

      Într-o noapte, am visat moartea, agoniza.
      Mă întreb dacă moartea se oglindește înlăuntrul tău,
      și, dacă se întâmplă noaptea, când totul doarme.

      Marea și cerul sunt o oglindă.
      Acolo, naufragiații se oglindesc în căutarea salvării.
      Și pescărușii care se hrănesc cu trupuri putrede.

      Omenirea are o oglindă?
      Și dacă o are, este o umbră,
      nu se spulberă de dispreț?

      Nu simți un vacuum înlăuntrul tău, Oglindă?
      Mă simt goală ca o cameră scufundată în marea adâncă.
      Cine știe dacă voi putea să îți scriu.

      Un salut trist,
      Camera copiilor care se îneacă.
      P.S. Nu lăsați-i să moară, sunt îngeri.
      © Lidia Popa

      Questo è il risultato. Ho scritto anche la variante in rumeno, come forma espressiva linguistica per chi lo conosce.

      “L’essere vacuo da ogni piacere o dispiacere, importa essere pieno di noia.” (Leopardi)

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  9. Poesia: codice linguistico in grado di auto-decodificarsi in lettura.

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  10. su segnalazione di Guido Galdini, dal sito atelierpoesia.it pubblico una poesia di una giovane poetessa rumena.

    Ofelia Prodan

    Traduzione di Mauro Barindi

    Elegii halucinogene / Elegie allucinogene

    *

    elegie halucinogenă

    geanta din piele de crocodil e goală și plânge
    de teama că în curând va fi burdușită.
    sulul de hârtie igienică meditează toată noaptea
    la sinele său ascuns și, dimineața, se înfășoară și se desfășoară
    în jurul sinelui său revelat. ciocanul bate nervos
    cuie în mânerul fotoliului. cafeaua clocotește de fericire
    în ibricul metalic. pipa pufăie și pufnește.
    geanta din piele de crocodil este
    burdușită cu organe de crocodil conservate în formol.
    sulul de hârtie igienică intră în stare
    modificată de conștiință și se iluminează.
    predică tuturor metode și tehnici de iluminare.
    ciocanul se indignează și îl bate măr în cuie,
    în schimb, geanta îi soarbe vorbele
    în interior și organele conservate în formol prind viață.
    geanta din piele de crocodil se iluminează
    și devine un crocodil iluminat.
    cafeaua clocotește în culmea fericirii.
    pipa se așază în fotoliu și ascultă
    pufăind și pufnind. treptat, se liniștește.
    inspiră adânc fumul și se îneacă, tușește tabagic.
    cafeaua dă în foc. focul se stinge. crocodilul ia pipa între dinți.
    pipa se sufocă și sucombă. sulul de hârtie igienică
    stă în poziție de lotus și levitează în jurul
    camerei care filmează și developează aura crocodilului iluminat.

    elegia allucinogena

    la borsa in pelle di coccodrillo è vuota e piange
    per timore che presto sarà stipata di cose.
    il rotolo di carta igienica medita tutta la notte
    sul proprio io nascosto e, la mattina, si arrotola e srotola
    attorno al proprio io rivelato. il martello conficca nervosamente
    chiodi nel bracciolo della poltrona. il caffè gorgoglia di felicità
    nel bricco di metallo. la pipa sbuffa e risbuffa.
    nella borsa in pelle di coccodrillo vengono
    stipati organi di coccodrillo conservati in formalina.
    il rotolo di carta igienica entra in stato
    alterato di coscienza e si illumina.
    predica a tutti metodi e tecniche di illuminazione.
    il martello si indigna e lo tartassa di chiodi,
    invece la borsa ne sugge le parole
    al proprio interno e gli organi conservati in formalina riprendono vita.
    la borsa in pelle di coccodrillo si illumina
    e diventa un coccodrillo illuminato.
    il caffè gorgoglia al culmine della felicità.
    la pipa si adagia nella poltrona e ascolta
    sbuffando e risbuffando. poco a poco si calma.
    inspira a fondo il fumo e si soffoca, tossisce da fumatore incallito.
    il caffè si sversa sul fuoco. il fuoco si spegne. il coccodrillo afferra la pipa fra i denti.
    la pipa si soffoca e soccombe. il rotolo di carta igienica
    assume la posizione del fiore di loto e lievita sopra
    la camera che filma e sviluppa l’aura del coccodrillo illuminato.

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    • Fedele la traduzione. Molto originale la tragedia ironica del caffè versato sul fuoco e la borsa in coccodrillo diventata un regista del film della carta igienica che si srotola. Complimenti all’autrice e al traduttore.

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  11. È il classico testo di una poesia femminile al femminile… avrebbe delle doti naturali ma l’autrice è priva di consapevolezza culturale di quello che sta facendo, gioca con i verbi (sbuffando e risbuffando) gioca con le parole, si diverte, si sente che si diverte, ma quello che fa lo fa senza alcuna consapevolezza culturale di quello che fa… Questa è la vecchia estetica del gioco e delle allitterazioni. Non mi sembra gran che… si avverte che manca di studi di base e di serietà di base… la poesia non è un luogo giubilatorio…

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  12. cara Lidia Popa,

    anche qui da noi in Italia ci sono centinaia di autrici e di autori che fanno una pseudo poesia del corpo e del gioco per accattivarsi la benevolenza del pubblico medio degli altri autodafè, ma non mi sembra che la vendita di tali libri sia così imponente… le sciocchezze restano sciocchezze… anche se li pubblicano Einaudi e Mondadori

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  13. Ho improvvisato questa poesia come commento ad alcune poesie di Raffaele Urraro che presto posterò su queste colonne…

    Commento di Giorgio Linguaglossa in forma di poesia alla maniera della «nuova ontologia estetica»

    Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa


    ho sognato che Dio mi chiedeva di scrivergli
    una recensione per la sua creazione…

    disse proprio così. inutilmente io mi schermii dicendo
    che non mi sentivo all’altezza…

    allora Dio si è rivolto a Gino Rago
    [del resto anche lui è un membro della nuova ontologia estetica]

    ma, sfortunatamente per il Signor Dio, anche Gino ha declinato l’invito
    con l’argomento che il Buio rotola alla velocità della luce

    e altre smargiassate che non vi sto qui a ridire,
    e allora quel manigoldo si è rivolto a Mario Gabriele

    dicendogli che lo avrebbe accolto nel regno dei cieli se…
    ma il risultato è stato che il poeta di Campobasso se l’è data a gambe.

    insomma, a farla breve, Dio ha dovuto rinunciare…
    e sì, e la «creazione» è rimasta senza alcuna recensione

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    • donatellacostantina

      Caro Giorgio,

      due curiosità: 1. perché il Signor Dio non si è rivolto anche alle poetesse de L’Ombra delle Parole?, ovvero Anna Ventura, Letizia Leone, Chiara Catapano, Alejandra Alfaro Alfieri e, in ultimo, la sottoscritta… Forse il Signor Dio ha qualche problema con il sesso femminile?

      2. e perché il Signor Dio non si è rivolto al poeta, scrittore, critico letterario de L’Osservatore romano, Sabino Caronia, che avrebbe ben altri titoli per interloquire con l’Onnipotente?

      Resto in fiduciosa attesa di una tua risposta.
      Grazie!

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    • E’ il massimo dell’ironia, Giorgio! Meno male che Dio ti è venuto in sogno! Ma se mi fosse apparso all’improvviso, se solo avesse rinunciato per un minuto alla sua Assenza, dicendo dall’alto dei cieli: IO SONO IL DIO DI TUTTI GLI ESSERI UMANI E DI TUTTE LE COSE DA ME CREATE, si sarebbe attivato di nuovo il mio COLON IRRITABILE, che ancora perdura nonostante prenda giornalmente KIJIMEA e PROLIFE. Non sto qui a fare pensieri metafisici e filosofici. Sarebbe troppo lungo il discorso e provocherebbe il risentimento di molti lettori che hanno un proprio CREDO.Ciò non toglie che io guardi il MONDO in tutta la sua meraviglia, rimanendone estasiato. Ciò che rovina tutto è la MORTE. Il FLOP DELL’UNIVERSO! Stando così le cose,era meglio se DIO avesse guardato da solo la sua CREAZIONE, così come si guarda LA FABBRICA DI MATTONI A TORTOSA, nel Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo.

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    • Il titolo della creazione era forse “TUTTO RITORNO’ IN ME”?
      Si è trattato di un brutto sogno. Deve avertelo chiesto un falso Dio. La Terra ne è piena. Anche molte donne sono Dio. Ormai nessuno ci fa caso.

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    • Magistrale scelta del brano musicale.

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  14. gentilissima Costantina,

    come tu sai la questione è nota e controversa, il Signor Dio
    ha delle reticenze ad interloquire con il sesso femminile

    e sì, per via della questione dello spirito santo che ingravidò
    la madonna e del Signor Paolo di Tarso (di quel figuro

    non dico altro), e del Concilio di Nicea e di quello di Trento
    i quali hanno statuito essere le femmine prive di anima

    e altre corbellerie che non sto qui a rammentare ai rispettabili
    e colti lettori dell’Ombra…

    fatto sta che il Signor Dio predilige avere a che fare con il sesso
    maschile e, caso bizzarro, proprio con gli esponenti della

    «nuova ontologia estetica», per quanto atei impenitenti
    e materialisti, tanto più benvisti in quanto tali…

    quanto poi al perché il Signor Dio abbia trascurato
    Sabino Caronia, già critico letterario dell’Osservatore

    romano e delle sue adiacenze, in possesso di ben altri
    titoli accademici e professionali, in fede, non saprei dire…

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  15. L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Sbranato oh! specchio di chi è il regno delle brame?

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  16. Cecco Angiolieri (1260 circa 1313)

    S’ì fosse foco, arderei ‘l mondo;
    s’ì fosse vento, lo tempesterei;
    s’ì fosse acqua, ì l’annegherei;
    s’ì fosse Dio, mandereil’en profondo

    s’ì fosse papa, sarè allor giocondo,
    che tutti i cristiani imbrigherei;
    s’ì fosse ‘mperator, sa che farei?
    a tutti mozzerei lo capo a tondo

    s’ì fosse morte, andarei da mio padre;
    s’ì fosse vita, fuggirei da lui:
    similmente faria da mì madre

    s’ì fosse Cecco, come sono e fui,
    torrei le donne giovani e leggiadre,
    e vecchie e laide lassarei altrui.

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  17. Sabino Caronia

    Ritengo giusto dare la mia risposta nell’editoriale del prossimo numero di “Il Mangiaparole”. Ritengo sufficiente per ora richiamare anche per la mia poesia le considerazioni di Contini sulla concezione teologica ” apofatica e negativa” di Jacopone da Todi, come ben intuito da Giorgio Linguaglossa già a proposito di alcuni componimenti del mio libro La ferita del possibile (Rubettino, 2016). Grazie.

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  18. letizia leone

    A questo bel post ricco di poesia, ironia, riflessioni, approfondimenti estetico-filosofici sullo specchio aggiungo come postilla questa “Miscellanea brevissima” sul tema ( Cioran, Barthes, Zambrano, .Le Clézio, Merleau-Ponty ). Grazie a tutti e un saluto!

    Nel pozzo piatto dello specchio c’è il regno dell’intelligenza avversa. La realtà, la realtà riprodotta non è più la stessa. Si è fatta cava, si è caricata di simboli. Ciò che qui era duro, il legno, il metallo o la pietra, si è come svuotato laggiù; gli oggetti sono caverne. La parodia è demoniaca. L’universo scimmiottato mostra i suoi sarcasmi e i suoi uncini. Lancia il suo grido di pappagallo, il suo grido rauco, stupido cattivo, ed è come se non ci fosse mai stato sulla terra niente di vero e di dolce. Specchi, domini illimitati dell’inferno, non luoghi ignobili della morte, ma presenze del male nella vita. Piccole presenze aperte sul niente, che riflettono il nulla della menzogna. Laghi pallidi. (da J.M.G.Le Clézio “Estasi e materia”)

    Lo specchio appare perché io sono vedente-visibile, perché esiste una riflessività del sensibile, che esso traduce e raddoppia. Attraverso lo specchio, il mio esterno si completa, tutto ciò che ho si più segreto passa in questo viso, questo essere piatto e chiuso, di cui già sospettavo l’esistenza vedendo il mio riflesso nell’acqua. Schilder osserva che, quando fumo la pipa davanti allo specchio, sento la superficie liscia e bruciante del legno sono solamente laddove sono le mie dita, ma anche in quelle dita gloriose, in quelle dita puramente visibili, che sono nel fondo dello specchio. Il fantasma dello specchio trascina fuori la mia carne, e contemporaneamente tutto l’invisibile del mio corpo può investire gli altri corpi che vedo. D’ora in poi il mio corpo può comportare dei segmenti prelevati sul corpo degli altri, come la mia sostanza passa in loro: l’uomo è specchio per l’uomo. ( da M. Merleau-Ponty “L’occhio e lo spirito”)

    A Torino, all’inizio della crisi, Nietzsche si precipitava continuamente allo specchio, si guardava, si allontanava, si guardava di nuovo. Nel treno che lo portava a Basilea, la sola cosa che chiedesse con insistenza era ancora uno specchio. Non sapeva più chi era, si cercava, e a lui, così attento a salvaguardare la propria identità, così avido di sé, non rimaneva, per ritrovarsi, che la più grossolana, la più miserabile delle risorse. (da E. Cioran “L’inconveniente di essere nati”)

    E Atena consegna a Perseo non la spada, ma lo specchio, perché l’eroe possa guardare di riflesso la bellezza ambigua, annunciatrice del frutto finale dell’Oceano insondabile; lo specchio perché non vedendo la Medusa direttamente egli si liberi di ogni sensazione connessa a tale vista. Una figura vista allo specchio manca di quel fondo ultimo di cui lo sguardo va in cerca più in là dell’apparenza, come quando, guardando direttamente, e unendosi alla vista l’udito, ci si attende e ci si preoccupa di ascoltare. Nessuno ascolta dunque la figura riflessa da uno specchio, mentre all’acqua ci si accosta disposti ad ascoltare…Ci propone e ci offre, lo specchio di Atena, un modo di vedere…( da M. Zambrano “Chiari del bosco”)

    In Occidente lo specchio è un oggetto per essenza narcisistico: l’uomo non concepisce lo specchio che per guardarvicisi. Ma in Oriente lo specchio è vuoto: è il simbolo del vuoto stesso dei simboli («Lo spirito dell’uomo perfetto – dice un maestro del Tao – è come uno specchio. Non afferra nulla ma non rigetta nemmeno nulla. Riceve ma non conserva»). Lo specchio non intercetta che altri specchi, e questa riflessione infinita è il vuoto stesso. (da R. Barthes, “ L’impero dei segni”)

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  19. Sul tema dello «specchio» in poesia

    Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa


    Poiché un commentatore della rivista mi ha detto, in privato, che l’Ombra delle Parole rischia di diventare una nicchia heideggeriana, cito una frase di Adorno che condivido e sottolineo: «La critica del bisogno ontologico spinge alla critica immanente dell’ontologia».1]

    È da qui che bisogna partire: dalla critica dell’ontologia per giungere ad una nuova ontologia, ed è quello che stiamo tentando di fare da un paio di anni. Già la proposta di alcuni «temi» come questo dello «specchio» è la prova che stiamo percorrendo nuove strade mai calpestate prima dalla poesia italiana; non mi risulta che la tematica dello «specchio» sia mai stata assunta dalla poesia italiana del novecento e di queste ultime decadi, cosa che prova semmai il provincialismo della poesia italiana. Vie nuove dunque, il che implica nuove tematiche e nuovi modi di retorizzare nuovi tematiche.

    Il nuovo esistenzialismo della «nuova ontologia estetica» è anche questo: affrontare in poesia nuove tematiche, squisitamente esistenzialistiche. E non mi si venga a dire che amiamo il nuovo per il nuovo, il tema dello specchio è vecchio quanto l’homo sapiens, ma è nuovo il modo di affrontare questa tematica, e il fatto che la poesia italiana di questi ultimi decenni sia rimasta estranea a questa tematica non è certo indice della sua capacità di investigare territori «nuovi».

    Interi generi, o sotto generi della poesia, come la poesia di paesaggio (penso a Dietro il paesaggio di Zanzotto), la poesia del sociale (penso a La ragazza Carla di Pagliarani), la poesia ideologica (penso a Le ceneri di Gramsci di Pasolini) la poesia topografica (degli autori milanesi) sono caduti in disuso, si sono esauriti. È la Storia che decide chi e che cosa è tramontato, non sono i poeti. Oggi, la nuova poesia esistenzialistica investiga il tema dello «specchio». Ma non sono i poeti che lo decidono, è sempre lo spirito del tempo che lo decide, il poeta è un «medium» diceva Eliot di ciò che c’è nell’aria…

    T.W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. Einaudi, 1970 p. 87

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  20. La crisi del Soggetto novecentesco e la nuova ontologia estetica

    Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa


    La poesia maggioritaria italiana dagli anni settanta ad oggi si è soffermata sulla «retorizzazione del soggetto». Che cosa significa in termini pratici questa astrusa categoria ermeneutica? Significa semplicemente che si è fatta poesia dell’io e sull’io, l’io è diventato il governatore del discorso poetico. Ripetete queste cose per più di cinquanta anni e ne deriverà una noia mortale e una poesia già morta.
    Io inviterei chiunque voglia fare poesia a riflettere su questa piccola questione.

    Scrivevo tempo fa:

    Come potrà il Soggetto parlare di se stesso se esso non è più il Soggetto ma un soggetto? Come potrà il Soggetto validare il proprio discorso se non infirmando il discorso che va facendo nel mentre che lo asserisce? È ancora possibile un discorso non-assertorio da parte del soggetto scollegato e spodestato da se stesso? Sì, è ancora possibile.

    Questa «positività» del proposizionalismo poetico che promana come un lezzo dalla poesia assertoria e suasoria del novecento epigonico deriva dalla illusione di voler ancora imbastire un discorso poetico fondato sulla illusoria illusione del Soggetto legiferante, del Soggetto egemone (a pendio elegiaco o post-sperimentale fa lo stesso).
    Io invece ritengo altamente proficuo un discorso poetico che fondi quella «positività» sullo zoccolo duro del «negativo», della «mancanza», della «traccia», della dis-locazione, dello spaesamento, della estraniazione.

    Il fonatore dunque non coincide più con il locutore.
    Il soggetto problematizzato si rivela essere il soggetto retorizzato. Qualcuno parla, sì, non è il soggetto ma un «Altro» che parla.

    La filosofia moderna sostiene che il soggetto è indicibile. La poesia e il romanzo fanno di questo indicibile il senso stesso del discorso poetico e narrativo. Qui si rivela una antinomia del discorso poetico e romanzesco, ma è una antinomia fruttuosa che darà i suoi frutti migliori nella poesia europea da Herbert a Tranströmer.

    La traccia dell’origine, in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e manifestandosi in Altro. Con la conseguenza che il linguaggio poetico e il linguaggio narrativo subiranno le conseguenze di questa non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un Logos di un non-originario che si comporta tale e quale al logos dell’originario.

    I linguaggi poetici veramente vitali saranno quelli, a mio avviso, che accetteranno di misurarsi con la non-adeguazione del discorso poetico all’originario, che si metteranno la coscienza in pace rispetto a questo problema accettandolo come il terreno negativo dal quale ricostruire l’infranto a partire dalla frammentazione.

    La narrativizzazione della poesia moderna, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio e suasorio del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» nell’ambito del discorso poetico e narrativo. Leggiamo due versi di una poesia di Steven Grieco Rathgeb:

    Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar/ radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

    La riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto. L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante.

    Oggi anche la poesia non può non investigare con nuovi strumenti espressivi gli aspetti della attuale fase della crisi spirituale.
    Oggi una nuova ontologia estetica non può non prendere a parametro del proprio comportamento proprio questa de-fondamentalizzazione del soggetto. E ripartire da lì.

    Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

    Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
    (Fuori, un giardino.)

    Scrive René Char: «Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro».

    Le parole per entrare nella nuova patria metafisica hanno dovuto spogliarsi dei loro vestiti, hanno abbandonato sulla spiaggia la «musica», il peplo musicale nelle quali erano avvolte, hanno abbandonato l’io da cui quelle parole, come un oboe sommerso, sembravano provenire. Adesso sono davanti al mare dell’essere, nude, prive di abiti. Adesso, possono entrare nel mare dell’essere fino a scomparirvi.

    Le parole si sono liberate anche del soggetto egemone e legiferante. Il Re è stato spodestato, la monarchia assoluta del Re Sole è crollata di schianto.

    Le parole sono queste: «Due sorelle», la «veranda», «vestiti», «giallo-sera», «Fuori, un giardino». Sono parole che il poeta mette sulla linea del verso, anzi, allinea nel verso come una serie di fotogrammi privi di accompagnamento musicale; sono i singoli fotogrammi che fanno musica, non il contrario. Non ci sono verbi che fanno da veicolo musicale, i verbi sono banditi, ci sono solo «cose», «cose» mute, e le «cose» portano con loro dei «limiti», dei confini. Le «sorelle», la «veranda», i «vestiti», il «giardino» sono tutte «cose» corpose circondate da corposi limiti. Di colpo, scopriamo in poesia la pesantezza delle «cose», il peso dei loro confini, dei loro limiti.

    Queste «cose» messe così le une accanto alle altre potrebbero sembrare un atto di barbarie poetica, intendo quel loro essere messe assieme senza alcun accompagnamento musicale, senza verbi musicali e senza l’io che fa da direttore d’orchestra. Ma è che qui non c’è bisogno di alcun direttore d’orchestra perché non c’è più una orchestra, come avveniva per la poesia del novecento europeo da Seamus Heaney a Mark Strand, qui l’unica «musica» ammessa è la «musica» delle nude parole, delle nude «cose», con i loro confini e i loro limiti. Sono le «parole» le protagoniste della poesia. Nella nuova ontologia estetica sono le «parole» le vere protagoniste, le «parole» ci parlano, esse sanno molto di più di noi di quanto noi sappiamo di loro, perché adesso queste «parole» hanno preso a frequentare una nuova patria spirituale, hanno abbandonato per sempre l’antica patria musicale del novecento europeo per inoltrarsi in un nuovo dominio, in una nuova dimora del tutto priva degli antichi strumenti musicali dell’antica orchestra. Le parole si sono spogliate, sono diventate talmente nude da essere irriconoscibili.

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  21. donatellacostantina

    Jorge Luis Borges

    Gli specchi

    Io, che sentii l’orrore degli specchi
    non solo in faccia al vetro impenetrabile
    dove finisce e inizia, inabitabile,
    l’impossibile spazio dei riflessi

    ma in faccia all’acqua specchiante che copia
    l’altro azzurro nel suo profondo cielo
    che a volte riga l’illusorio volo
    d’uccello inverso o agita un tremore

    e avanti alla distesa silenziosa
    del sottile ebano la cui tersura
    ripete come un sogno la bianchezza
    d’un vago marmo o d’una vaga rosa,

    oggi al termine di tanti e perplessi
    anni d’errare sotto varia luna,
    mi chiedo quale caso di fortuna
    volle che io paventassi gli specchi.

    Gli specchi di metallo, il mascherato
    specchio di mogano che nella bruma
    del suo rossastro crepuscolo sfuma
    il volto che mirando è rimirato,

    infiniti li vedo, elementari
    esecutori d’un antico patto,
    moltiplicare il mondo come l’atto
    generativo, veglianti e fatali.

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  22. In questo momento vorrei capire cos’è fascismo. Cos’è oggi. Non mi basta pensare alle camice nere, alla dittatura e alla guerra. Io sto vedendo fascismo dappertutto: nero, verde o rosso che sia. Spero di potermi svegliare presto da questo incubo, dove le persone hanno sempre ragione, te la sbattono in faccia e ti va bene se non ti prendono a manganellate. Cos’è fascismo, credete davvero di sapere cosa sia? Ve lo dico io: vi sta davanti, è nel vostro specchio.

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  23. Guglielmo Peralta

    (versione definitiva. Prego cancellare le precedenti.)
    DELLE BRAME E DELLE MERAVIGLIE

    Poesia
    Tu
    vetta e abisso
    In milleunanotte custodisci
    il volto
    che nelle tue forme si specchia
    Non sei la nera regina del sogno
    che in bianca neve
    si scioglie
    Sei fata che dispensa
    brame e meraviglie
    E c’è sempre una notte
    dentro i bagliori dell’alba
    nel Paese di Alice
    E sorgi
    in milleunaluce riflessa
    nel frammento
    nottola e inganno dell’allodola
    nello specchio della parola
    che all’infinito finge
    l’universo

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  24. Guglielmo Peralta

    Terribile! Forse perché specchio della verità? Puoi, Lucio, esplicitare il tuo pensiero? Grazie.

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  25. Riprendo un mio vecchio commento alla poesia di Annamaria De Pietro per riproporlo.

    Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa


    Come ha osservato Adorno, la «musica da camera», con il salotto decorato con mobilio d’epoca grande sufficientemente da ospitare invitati scelti, è un genere che appartiene al passato. Analogamente, la poesia, la quale presuppone il classico letterato occidentale che si dedica alla lettura nella sua stanza ben rifornita di libri. Entrambe queste precondizioni (un salotto, l’esibizione di aristocraticismo e il tempo libero) sembrano più essere una caratteristica del passato che non del presente e del prossimo futuro. È molto probabile che le condizioni della lettura di un libro di alta letteratura siano oggi precarie forse ancor di più che nel recente passato, per via delle intervenute modificazioni della identità dell’uditorio mediatizzato. Già il rotocalco e il paperback sembrano regesti del passato trascorso a confronto con i diletti del monitor che già un’ombra di nostalgia vela quegli oggetti ricoperti di polvere sottile. Una «poesia da camera» sofisticata, algida e distaccata come questa di Annamaria De Pietro fa l’effetto di un elettroshock, è smaccatamente anacronistica, perché presuppone un pubblico colto dotato di sofisticati congegni di decrittazione delle opere poetiche che oggi non c’è più. Tuttavia, benché anacronistica ed elitaria, questa poesia si pone nella sua indecrittabile avvenenza come una bellezza indesiderata tra le nostre braccia. Non sappiamo più come comportarci dinanzi ad un tale rigoglio di stile e di stilizzazione. La poesia veramente emancipata si pone a noi come un punto interrogativo, richiede la nostra esclamazione, risveglia i nostri dubbi, non convince, non vuole convincerci né persuadere; non c’è alcuna tesi, tantomeno alcun messaggio, né in bottiglia né per via postale. L’«inquadratura» di questa poesia è descritta con severo ordine geometrico e matematico, sintattico e paratattico; anche le rime sono artatamente poste e intermesse non per stordire il lettore con la loro dolce eufonia quanto per ricreare le condizioni musicali di una atmosfera, che altro non è che un effetto di lontananza che appare, miracolisticamente, vicina; magia da baraccone dell’arte poetica divenuta merce e ridotta a intrattenimento. La poesia di Annamaria De Pietro pronuncia, con lo strascico delle sue vesti raffinate e ridondanti, un verdetto di condanna sulla emancipazione dell’arte dal mondo delle merci, poiché essa è sempre in procinto di ricadere nella volgarità kitsch di questa che ha sede nell’emporio e nei telemarket; ribellione alla prostituzione dell’arte poetica con un di più di solipsismo e di elitarismo.
    .
    Ecco, annoto che dietro la restaurazione di questa tecnologia stilistica la De Pietro intenda la conservazione di quell’eredità culturale che è svanita da un pezzo; ma non vedo come si possa conservare ciò che è svanito se non istituendo la sovranità di uno stile che tutto occupa, che occupi un territorio che è stato, qui da noi, abbandonato in maniera precipitosa e affrettata. Questo, credo, sia il nocciolo dell’operazione stilistica della poetessa napoletana, autrice del libro in dialetto napoletano (Si vuo’ ‘o ciardino) del 2005, più bello che abbia mai letto.
    .

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  26. Una poesia di CHARLES SIMIC, da Il mondo non finisce (Donzelli, 2001, pagg. 155, euro 9,30 – a cura di Damiano Abeni

    Il tempo dei poeti minori è alle porte. Addio Whitman, Dickinson, Frost. Benvenuti voi la cui fama non andrà mai oltre i parenti più stretti e forse un paio di buoni amici riuniti dopo cena attorno a una caraffa di aspro vino rosso… mentre i bambini stanno per addormentarsi e si lamentano per il baccano che fai nel rovistare in tutti gli armadi in cerca delle tue vecchie poesie, con la paura che la moglie le abbia gettate via durante le ultime pulizie di primavera.
    Nevica, dice quello che ha dato uno sguardo alla notte fosca, e poi anche lui si volge verso di te che ti accingi a leggere, in modo piuttosto teatrale e con la faccia che ti si fa paonazza, la sconessa poesia d’amore con l’ultima strofa (a te sconosciuta) irrimediabilmente mancante.

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