
dove vi sta portando questo treno di feroce mediocrità,
di feroce ambiguità, di feroce ipocrisia?
Giorgio Linguaglossa
26 settembre 2017 alle 14:17
In onore di Alfredo de Palchi, pubblico qui questa mia invettiva:
LA VOSTRA GENERAZIONE SFORTUNATA
à la maniére di Trasumanar e organizzar (1971)
Cara generazione sfortunata dei poetini di vent’anni,
di trent’anni, di quarant’anni, di cinquant’anni, di sessant’anni…
Vi scrivo questa lettera.
Guardatevi intorno:
dove vi sta portando questo treno di feroce mediocrità,
di feroce ambiguità, di feroce ipocrisia?
Guardatevi allo specchio: siete tutti invecchiati, imbruttiti, malvissuti
vi credevate giovani e invece siete diventati vecchi, conformisti,
leghisti, sfigati, banali, balneari…
Che tristezza vedo nelle vostre facce,
che ambiguità, che feroce vanità, che feroce mediocrità:
CL, PD, PDL 5Stelle, Casa Pound, destra, sinistra, pseudo destra, pseudo sinistra,
immigrati, emigrati, referenziati con laurea, senza laurea,
con diplomi raccattati, rattoppati, infilati nel Sole 24 ore,
settore cultura, nella Stampa,
a scrivere le schedine editoriali degli amici e degli amici degli amici,
nelle case editrici che non contano più nulla…
Guardatevi allo specchio: siete sordidi, stolidi, non ve ne accorgete?
Guardatevi allo specchio! Siete dei Buffoni, dei malmostosi!
Che tristezza questa italia defraudata,
derubata, ex cattocomunista, leghista, cinquestellista, renzista…
Voi, Voi, Voi soltanto siete responsabili
della vostra inaffondabile mediocrità,
e non chiamate in causa la circostanza della mediocrità altrui,
della medietà generalizzata,
la responsabilità è personale ai sensi del codice penale
e del codice civile…
Voi, unicamente Voi siete i responsabili
della vostra insipienza e goffaggine intellettuale…
Che tristezza: non avete niente da dire, niente da fare,
disoccupati dello spirito e disoccupati
della stagnazione universale permanente che vi ha ridotto
a mostri di banalità con i vostri pensierini
paludosi e vanitosi alla ricerca di un grammo di visibilità
nei network, nei social, con il vostro sito di leccaculi e di paraculi,
svenduti senza compratori…
Che tristezza vedervi tutti abbottonati, educati e impresentabili
in fila dinanzi agli uffici stampa degli editori
a maggior diffusione nazionale!
Che tristezza nazionale!
Caro Pier Paolo, quel giorno di novembre del 1975
io ero a Roma, scendevo alla fermata del bus 36
(catacombe di Sant’Agnese) per andare a via Lanciani
al negozio di scarpe di mio padre quando seppi del tuo assassinio…
Capii allora che un mondo si era definitivamente chiuso,
che sarebbero arrivati i corvi e i leccapiedi
e i leccaculo, i mediocri, i portaborse…
Lo capii allora scendendo dal bus la mattina,
erano le ore 8 del mattino o giù di lì,
e capii che era finita per la mia generazione e per quelle a venire…
Lo ricordo ancora adesso. È un lampo di ricordo.
(scritta in diretta, su L’Ombra delle Parole)

Guardatevi allo specchio: siete tutti invecchiati, imbruttiti, malvissuti/ vi credevate giovani e invece siete diventati vecchi, conformisti,/ leghisti, sfigati, banali, balneari…
Il monito di Franco Fortini
Scriveva Franco Fortini nei suoi «appunti di poetica» nel 1962:
«Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi».
«La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».
Ritengo queste osservazioni di Fortini del tutto pertinenti anche dopo cinquanta anni dalla loro stesura. I problemi di fondo, da allora ad oggi, non sono cambiati e non bastano cinquanta anni a modificare certe invarianti delle istituzioni stilistiche. Vorrei dire, per semplificare, che certe cattive abitudini di certe istituzioni stilistiche, tendono a riprodursi nella misura in cui tendono a sclerotizzarsi certe condizioni non stilistiche. Al fondo della questione resta, ora come allora, il «consenso sui fondamenti della commozione». Insomma, attraverso la lettura e l’ingrandimento di certi dettagli stilistici puoi radiografare e fotografare la fideiussione stilistica (e non) che sta al di sotto di certe valorizzazioni stilistiche; ed anche: che certe retorizzazioni sono consustanziali alle invarianti del gusto, del movimento delle opinioni, alla adesione intorno al fatto poetico… insomma.
Scrive Franco Fortini ne L’ospite ingrato (1966): «La menzogna corrente dei discorsi sulla poesia è nella omissione integrale o nella assunzione integrale della sua figura di merce. Intorno ad una minuscola realtà economica (la produzione e la vendita delle poesie) ruota un’industria molto più vasta (il lavoro culturale). Dimenticarsene completamente o integrarla completamente è una medesima operazione. Se il male è nella mercificazione dell’uomo, la lotta contro quel male non si conduce a colpi di poesia ma con “martelli reali” (Breton). Ma la poesia alludendo con la propria presenza-struttura ad un ordine valore possibile-doveroso formula una delle sue più preziose ipocrisie ossia la consumazione immaginaria di una figura del possibile-doveroso. Una volta accettata questa ipocrisia (ambiguità, duplicità) della poesia diventa tanto più importante smascherare l’altra ipocrisia, quella che in nome della duplicità organica di qualunque poesia considera pressoché irrilevante l’ordine organizzativo delle istituzioni letterarie e, in definitiva, l’ordine economico che le sostiene».
In Italia è stato dismesso il pensiero sulla poesia
Vogliamo dirlo? Ancora una volta Pasolini e Fortini, gli ultimi due poeti in grado di porsi anche come critici del loro tempo.
Però, però, bisogna anche dire dei limiti di Pasolini e di Fortini, e bisogna spezzare una lancia in favore di Vittorio Sereni che volle pubblicare il primo libro di Alfredo de Palchi nella nuova collana della Mondadori dedicata ai «poeti nuovi» nel 1967: Sessioni con l’analista, che riunisce le poesie scritte nel decennio precedente.
A rileggere oggi le poesie di de Palchi risalta la modernità del suo linguaggio poetico. Forse nessun altro linguaggio poetico degli anni sessanta ha l’immediatezza e l’incisività quasi brutale del linguaggio di de Palchi, al cui confronto sbiadiscono anche gli esperimenti linguistici dei “novissimi”.
Però, però…
sono cinquanta anni che in Italia si è smesso di pensare sulla poesia, i poeti di questi ultimi cinquanta anni si sono dimostrati non all’altezza del compito che la Musa aveva messo sulle loro spalle, si sono limitati a fare poesia dell’immediatezza, hanno ricominciato a parlare di Bellezza, di Musica, di Ispirazione, di Grazia, di Mito, di mini canoni… etc, in realtà ciascuno si faceva i fatti propri con il proprio corteo privato di sostenitori e apprendisti, con tanto di benedizione di un pensiero estetico acritico.
La «nuova ontologia estetica» vuole essere questo. Per chi ancora non l’ha ben compreso, vuole rimettere in moto il pensiero critico, vuole rimettere in moto il linguaggio poetico…
Il limite della impostazione culturale della critica di Fortini e di Pasolini alla poesia del loro tempo è che guardano il reale con occhiali ideologici, vedono il problema poesia in termini di linguaggio, in termini di interventismo sul linguaggio, come se il poeta fosse «fuori» del linguaggio e fosse possibile operare una manipolazione, un intervento sul linguaggio dal di «fuori». quando invece il poeta si trova «sempre» «dentro il linguaggio» e che non è possibile alcuna «manipolazione o interventismo» sul linguaggio per chi si trova già «dentro» il linguaggio.
È questa la novità concettuale introdotta dalla «nuova ontologia estetica», la consapevolezza che noi siamo sempre e comunque «dentro il linguaggio» e non possiamo uscirne mai e per nessuna ragione.
E comunque, noi della «nuova ontologia estetica» riteniamo ancora valido il principio espresso da Fortini negli anni sessanta:
«Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi».

René Magritte, autoritratto
Jurij Tynianov si opponeva a una concezione evolutiva della letteratura
che procede per salti e per spostamenti piuttosto che secondo uno sviluppo uniforme. In ogni genere, osservato a un dato momento, si distinguono tratti fondamentali e tratti secondari. E sono proprio i tratti secondari, i risultati e le deviazioni «casuali», anche gli errori che producono nella storia dei generi mutamenti più cospicui da annullarne in certa misura la continuità. Si può parlare di continuità per la nozione di «estensione», che oppone le «grandi forme» (romanzo, poema, racconto lungo) alle piccole (racconto breve, poesia), e di continuità per i «fattori costruttivi» (per esempio, il ritmo nella poesia e la coerenza semantica – trama – nella prosa) o per i materiali; ciò che cambia è ben più importante per la individualità del genere: è il principio costruttivo che fa utilizzare in modi sempre nuovi i fattori costitutivi e i materiali.
Gli spostamenti e le mutazioni all’interno di uno stesso genere,
mettiamo, la poesia, sono molto importanti per comprendere come a volte delle piccole novità conseguite in periferia (il caso Alfredo de Palchi con Sessioni con l’analista è manifesto) o presso delle riviste sconosciute (“Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi e ci metto anche “L’Ombra delle Parole”) possano avere ripercussioni, per vie sotterranee, sulle linee maggioritarie della poesia del secondo Novecento, espressioni delle due più grandi città italiane: Roma e Milano. Ecco allora che la spinta al rinnovamento avviene spesso, anzi, quasi sempre, per il concorso di circostanze anche fortuite: tipo una rivista (oggi telematica) che riunisce intelligenze di varia provenienza come L’Ombra delle Parole.
Riporto una osservazione di George Steiner:
«ritengo supremamente difficile parlare sensatamente di un dipinto di Jackson Pollock o di una composizione di Stockhausen […] Il mondo delle parole si è contratto. Non si può parlare dei numeri transfiniti se non in termini matematici; non si dovrebbe, propone Wittgenstein, parlare di etica o di estetica nell’ambito delle categorie attualmente disponibili del discorso […] Vasti settori del significato e della prassi appartengono oggi a linguaggi non verbali quali la matematica, la logica simbolica e le formule della chimica o della relazione elettronica. Altri settori appartengono ai sottolinguaggi o antilinguaggi dell’arte non oggettiva e della musique concrète. Il mondo delle parole si è contratto. Non si può parlare dei numeri transfiniti se non in termini matematici…».1]
1] George Steiner Linguaggio e silenzio 1958 trad. it. 1972, Rizzoli, p. 40

G. Steiner: le parole stesse sembrano aver perso in parte la propria precisione e vitalità
George Steiner ha scritto:
«il fatto che l’immagine del mondo si stia sottraendo alla presa comunicativa della parola – ha avuto la sua influenza sulla qualità del linguaggio. A mano a mano che la coscienza occidentale si è resa più indipendente dalle risorse del linguaggio per ordinare l’esperienza e dirigere il lavoro della mente, le parole stesse sembrano aver perso in parte la propria precisione e vitalità. So bene che questo è un concetto controverso. Presume che il linguaggio abbia una “vita” sua in un senso che va oltre la metafora…».1] La poesia deve albergare nei sobborghi della «zona oscura», dell’impronunciabile, avendo cura di mantenere la distanza, abitare la distanza e la lontananza, custodirle come il più intimo dei segreti.
Steiner vuole dire un concetto molto importante: l’immagine del mondo nel linguaggio si è indebolita, il mondo si sta sottraendo al linguaggio, il linguaggio non rappresenta e non può più rappresentare tutta la complessità e variabilità del mondo…di qui all’oblio della memoria che il linguaggio avrebbe di sé il passo non è poi molto lungo… ma il discorso poetico, proprio perché libero dall’utile, ha la capacità di mantenersi a giusta distanza dei sobborghi del «segreto» dell’ente, quel «segreto» che non può essere avvicinato dalla lingua di relazione ma che la lingua di relazione contiene in sé come possibilità inespressa, che diventa espressa nell’evento della forma-poesia, in quell’atto di compromissione senza compromessi che contraddistingue la dizione poetica.
Potremmo dire così, che la dizione poetica è quel tipo di linguaggio che ci avvicina di più all’extra linguistico, al non tematizzabile linguisticamente, a ciò che resta di una esperienza che sta fuori dall’ambito linguistico. Con le parole di Derrida: «Perché io condivida qualcosa, perché comunichi, oggettivi, tematizzi, la condizione è che ci sia del non-tematizzabile, del non-oggettivabile. Ed è un segreto assoluto, è l’absolutum stesso nel senso etimologico del termine, ossia ciò che è rescisso dal legame,, staccato, e che non si può legare; è la condizione del legame sociale, ma non lo si può legare: se c’è dell’assoluto, è segreto».2]
1] George Steiner Linguaggio e silenzio (1958), Rizzoli, 1972 p. 41
2] Jacques Derrida, Ho il gusto del segreto, in Jacques Derrida e Maurizio Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Bari, 1977 p. 51
Giorgio Linguaglossa
26 settembre 2017 alle 12:21
Montale scrive in Satura (1971) appena 4 anni dopo l’uscita del primo libro di Alfredo de Palchi Sessioni con l’analista (1967), queste parole:
«Incespicare, incepparsi / è necessario / per destare la lingua / dal suo torpore. / Ma la balbuzie non basta / e se anche fa meno rumore / è guasta lei pure. Così / bisogna rassegnarsi / a un mezzo parlare»…
Montale scrive una «poesia del dormiveglia», cinico-scettica, come è stata battezzata ma con l’animus di chi ha perduto la fede nella sua antica «sartoria teatrale»: «La mia Musa è lontana», è uno «spaventacchio»; «La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio/ di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo/ chi di lei si vestiva». Montale si attrezza a scendere dal palco dell’idioma illustre per adottare il vestito linguistico democratico, demotico, giornalistico:
La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei più) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio
di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo
chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita
di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto
di cannucce. È la sola musica che sopporto.
Il nostro intendimento è semplice: noi vogliamo rimettere in piedi la poesia italiana del Dopo Satura. Riprendiamo quindi il filo del discorso che si è spezzato dal 1967 anno di pubblicazione del libro d’esordio di de Palchi, Sessioni con l’analista, e ripartiamo da lì. L’obiettivo della Nuova Ontologia Estetica è questo per chi non l’abbia ancora compreso: rimettere in piedi la poesia italiana, noi non siamo i sacerdoti della sacra Musa, fare i sacerdoti non è il nostro mestiere. Riprendiamo il filo del discorso da dove Fortini ce lo aveva consegnato:
«Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi».
Gino Rago
26 settembre 2017 alle 9:53
Un nuovo “linguaggio critico” per la Nuova Poesia Italiana del frammento, della poesia degli stracci e mitopoietica, neoconcreta e ultronea
Irrompendo nella storia dell’arte i Capogrossi, gli Hartung, i Mathieu, gli Scanavino (arte segnica e gestuale, nella pittura contemporanea) e poi i Burri (pittura materica), i Pollock, i de Kooning, i Francis (pittura d’azione), senza dimenticare i Fontana e gli Scialoia (pittura spaziale) e i Dorazio (pittura neoconcreta e arte cinetica), se niente hanno fatto, hanno costretto la cosiddetta ‘critica d’arte’ a rivoluzionare quanto meno il lessico nel nuovo gergo critico, e non tutti i critici d’arte furono trovati pronti…
Perché si comprese ob torto collo che non si potevano applicare alla pittura contemporanea gli schemi, i paradigmi, le misure che si usavano per quella ‘antica’ usando espressioni, anche abusate, come “bella materia”, “ricco impasto”, “variopinta tavolozza…”, “agili pennellate”, “delicati arabeschi” di fronte a cenci raggrumati, lamiere contorte, tele tagliate.
Eppure a lungo, errando clamorosamente, alcuni interpreti d’arte non furono inclini ad abbandonare quel “linguaggio critico” che se si addiceva ancora all’arte di ieri, inadatto appariva a quella contemporanea…
Temo che la “critica letteraria” abbia lo stesso problema oggi di fronte alla «nuova poesia» che viaggia, con un suo moto interno inarrestabile verso un nuovo baricentro, sotto la sigla di poesia della NOE, con tutti i nomi già precedentemente elencati cui va aggiunto quello di Giuseppe Talìa.
È come se il critico d’arte si attardasse a parlare ancora di “accordi di colore” di fronte a un’opera di Klein tutta azzurra o dinnanzi a “una superficie irsuta di chiodi o seminata di fori e di tagli inflitti alla tela” (Dorfles) d’un Lucio Fontana….
Estemporaneamente ho steso queste mie meditazioni stimolato dalle riflessioni di Giorgio Linguaglossa sulla “Vergine degli stracci” di Michelangelo Pistoletto (1967) a proposito dei versi miei di Collage (Poesia fatta con gli scampoli), proposti alla lettura dei colti e fedeli frequentatori de L’Ombra delle Parole qualche giorno addietro.
E se da un lato mi rincuora la con-divisione dichiarata da Giorgio Linguaglossa nel suo commento di allora, dall’altro (ahinoi) tale condivisione conferma i miei timori su una critica letteraria non in grado d’attrezzarsi del giusto ed efficace armamentario interpretativo fondato su un nuovo, appropriato “linguaggio critico”.
Lo segnalarono assai criticamente ( anche in forma risentita) alcuni maestri di Estetica negli anni ’60 del Novecento, fra cui Gillo Dorfles, riferendosi alla incapacità di certa critica di cogliere i segni del nuovo gusto estetico contemporaneo.
E proprio Dorfles, in un suo memorabile pezzo, poi ospitato in “Ultime tendenze dell’arte oggi”, così si espresse: «Queste opere come il Cancello di Mirko alle Fosse Ardeatine, certe grandi plastiche di Franco Garelli a Torino, di Berto Lardera a Rho, di Barbara Hepworth dinnanzi a Staten House di Londra, gli immensi graffiti e rilievi di Costantino Nivola a Chicago e Boston, la pareta metallica intagliata da Lassaw in una banca di Skidmore a New York, ormai ben note, sono le nostre “Stanze del Vaticano”, le nostre “statue-colonne” di Chartres…».
Per chi si vuole divertire, incollo l’URL del video della presentazione tenuta dallo scrivente e da Sabino Caronia del libro di una amica, Lidia Popa, poetessa italo-rumena avvenuta qui a Roma, Biblioteca Nelson Mandela nella rassegna a cura di Roberto Piperno il 10 maggio.
Propongo che l’Invettiva di Giorgio Linguaglossa diventi la prima pagina del prossimo numero de Il Mangiaparole! Una scossa benefica per tutti! Grazie!
Ricevo sulla mia e-mail queste intense e competenti riflessioni di Rossana Levati su una mia recentissima poesia [fa parte del Ciclo poetico “Lettere a Ewa Lipska”] e le con-divido per dare un contributo al dibattito odierno, davvero importante e coinvolgente.
Rossana Levati: impressioni su “Nona Lettera a Ewa Lipska” di Gino Rago
” Alla lettura della poesia ci si sente presi come in un movimento vorticoso e inquieto, che non trova pace, quasi un inseguimento: luoghi diversi dell’Impero, ora a sud, ora a nord, e luoghi diversi all’interno della stessa città, Berlino. Un inseguimento che non si conclude perché la meta è “troppo distante”: ma è una distanza nello spazio, nel tempo e soprattutto un sentimento di assenza che si impone in modo desolato.
Non si può raggiungere chi è sparito, e la disparizione della persona inseguita attraversa tutto il testo, da un verso all’altro. Poco cambia che la persona non sia reale, che sia la protagonista di un romanzo dell’amico-poeta di Roma, o la poetessa Lipska, destinataria della lettera. Alla mancanza di ogni traccia della donna si accompagna per altro l’assenza di Cogito: nessuno ha lasciato tracce e soprattutto nessuno è tornato da quella meta di un viaggio che sfiora a più riprese la morte. Tra i pochi indizi certi, “Ravensbrück”, il nome di un campo di concentramento [di sole donne, considerate donne reiette e come tali non degne di procreare] che, appena pronunciato, fa traballare il poeta-indovino; un’altra localizzazione funebre nel finale della poesia, il “cimitero Dorotheenstädtischer Friedhof, in Chaussestraße”; e quel “treno blindato” su cui Lenin ha raggiunto la stazione ‘Finlandia’ andando verso Mosca ma che al tempo stesso allude a troppi altri trasporti verso luoghi di sterminio, treni blindati senza ritorno.
Dalla morte non si ritorna, e neppure Cogito, l’uomo pensante, è riuscito a tornare (anch’egli arrestato dalla Gestapo, anch’egli salito su un treno blindato come racconta l’amico-poeta di Roma); alla prima sparizione della donna se ne aggiunge così un’altra (una rimanda all’altra) e il disorientamento della ricerca inutile e dell’irraggiungibilità della meta si espande di verso in verso. Nessuna traccia, nessun ritorno: il vuoto del nostro tempo non accetta definizioni e forme, né si può addomesticare e risolvere: nessuna soluzione all’enigma del vivere che si esprime in una durezza di immagini: la “lama dell’Impero che taglia il respiro”, le pietre che restano pietre.
Immagini dure, quasi una replica dell’impenetrabilità di un mistero, dell’irraggiungibilità di un senso. La lama taglia il respiro e la musica non suona, i fogli non vogliono più frusciare e il poeta-indovino non può che chinare la testa, improvvisamente privo della sua funzione di guida. Il poeta (quello antico) non può più rivelare nulla; il poeta (quello nuovo) può intrecciare una rete di segni e lasciare le sue tracce al lettore.”
GR
L’Invettiva di Giorgio ai poeti di oggi è potente. La generazione sfortunata che viaggia su un treno di mediocrità che scrivono schedine per gli amici degli amici è la parte più squallida e desolante del fare letteratura e poesia, oggi.
Prendo i primi due versi: “poetini di vent’anni,
di trent’anni, di quarant’anni, di cinquant’anni, di sessant’anni…” per dare qualche stoccata con alcune sestine di La Musa Last Minute.
Poetini di vent’anni (non pervenuti) …
di trent’anni:
Tommaso Di Dio (classe 1982)
Sei come San Tommaso con il costato
O Di Dio e ci metti pure il dito esangue
Il fio dovuto, la ricompensa Tua e di Tutti
Alla SIAE, con le addormentasuocere?
Oppure non è cosi e lo senti anche tu
Il brulichio delle tarme alle Termopili?
di quarant’anni:
Alberto Pellegatta (classe 1978)
Per te ho fatto uno strappo alla regola,
Ho scucito la borsa e sono andato di corsa
A leggerti. Ma chi t’ha fatto poeta – mi domando –
Forse Calliope? No! Erato? No! Forse Clio,
Colei che rende celebri? Nemmeno! Chi allora,
L’AntiMusa servente della divina Monatta?
di cinquant’anni:
Gian Mario Villalta (clase 1959)
Una certa Musa non dovrebbe calzare stivali da mattatoio.
Non dovrebbe nemmeno pensare ai pubblici dialettali
Al Maternato che con un minimo sindacale scalza i rivali
Gli squali mortali, illegali, con occhiali eccezionali
Bufale aziendali e pettorali soprannaturali, havel havalim.
Una certa Musa direbbe: vieni, ti insegno a scrivere mentre muoio!
di sessant’anni:
Franco Marcoaldi (classe 1955)
E no, per te non scucio la borsa.
Non vado di corsa a comprarti.
Non perdo il mio tempo di corsa.
Mi basta l’internet fillosilicato,
Dieu qu’il fait bon la République.
Un viaggio a Recanati, la chatpoetry
calda, calda, calda da credit card.
E tra i sessantenni, Magrelli, recentemente ospite di Corrado Augias, per il quale Pasolini non è un grande poeta, ma un buon regista; Leopardi lascia il tempo che trova; Saba non è convincente. Dopodiché ci legge una sua poesia tratta dal suo ultimo Sangue Amaro, Luglio, dove ci racconta la sua invidia per l’abbronzatura altrui, visto la scarsa pigmentazione della sua pelle, notoriamente “Poil de carotte” (Jules Renard), a cui consigliamo una protezione 50, perché il sole non è più quello di una volta, ora ustiona.
Valerio Magrelli (classe 1957)
Da bambino erano un codicino di nature e venature
I Dockers Kahaki Pants salenti e discendenti la grande
Échelle disgrafica e dislessica o più semplicemente
Manomessa dalla stella binaria dei pioli del carcerato
Che batte il Lexicon della rotativa sorgiva tatuata
Nella carne condominiale del codice fiscale come dell’ISBN.
Una invettiva potrebbe essere utile se chi ne è il soggetto è in grado di trarne profitto. Poi, ognuno per la sua strada. Tuttavia Linguaglossa secondo me ha ragione: poeti e poesie che non rinnovano niente.
caro Luciano,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/14/invettiva-di-giorgio-linguaglossa-ai-poeti-di-oggi-il-monito-di-franco-fortini-spostare-il-centro-di-gravita-della-poesia-italiana-il-monito-di-eugenio-montale-la-mia-musa-ha-las/comment-page-1/#comment-34765
ma cosa mai vuoi che rinnovino i Magrelli e il Marcoaldi… bene ha fatto Giuseppe Talia a presentarci i suoi tre medaglioni per i tre «poeti» classe 30, 40 e 50 anni… questi autori, intendo i Magrelli e i Marcoaldi, non possono né innovare né non innovare alcunché, la loro scrittura è perfettamente commestibile e digeribile, è una scrittura all’Alka Seltzer, all’acqua oligominerale, è piena di bollicine, di mottetti di spirito e di battutine per far divertire il lettore e fargli vedere quanto sono bravi e intelligenti… in realtà la scrittura di Marcoaldi somiglia tantissimo a quella del Magrelli: la scrittura di Marcoaldi è giornalistica, che altro si può dire? quella del Magrelli, lo ammetto, è qualcosa di più, lui vuole davvero presentarsi come il «poeta nuovo», ma si tratta di scrittura penosa, tanto più penosa e goffa quando questo signore si mette a discettare di poeti del calibro di Saba, di Pasolini o quando qualche altro sventurato/a come la Valduga si è accinta a discettare addirittura su Leopardi, qualificandolo poeta minore o non-poeta… bacchettandolo e tergiversando sulle sue non-qualità… Insomma, la trasmissione televisiva a un certo punto ha toccato il surreale con il povero conduttore Augias atterrito e sgomento; ecco, sì, la trasmissione ha toccato il ridicolo. Poi il ridicolo Magrelli lo ha attinto quando, invitato da Corrado Augias a leggere una sua lirica, ha letto un compitino scipito scipito… che parlava di questioni attinenti alla crema per l’abbronzatura solare e che il poverino non riesce ad abbronzarsi come invece si abbronza chi ha la pelle scura e altre amenità… Insomma, io credo che Magrelli sia in perfetta buona fede, lui scrive quello che sente, quello che ritiene di dover scrivere, è privo di autocoscienza storica, e quindi scrive delle sciocchezze espresse con un linguaggio spiritoso…
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
Invettiva ai poeti di oggi.
La pagina finale di Dialettica negativa di Adorno (Verlag, 1966, trad it. Einaudi, 1970, p. 369) recita così:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/14/invettiva-di-giorgio-linguaglossa-ai-poeti-di-oggi-il-monito-di-franco-fortini-spostare-il-centro-di-gravita-della-poesia-italiana-il-monito-di-eugenio-montale-la-mia-musa-ha-las/comment-page-1/#comment-34771
«Ciò che recede diventa sempre più piccolo… diventa sempre più impercettibile; per questo motivo di critica della conoscenza e di filosofia della storia la metafisica trapassa in micrologia. Questo è il luogo della metafisica come riparo dal totale. Nessun assoluto è esprimibile se non in materiali e categorie dell’immanenza, mentre tuttavia né questa nella sua contingenza né la sua essenza totale devono essere idolatrati. Secondo il suo stesso concetto la metafisica non è possibile come connessione deduttiva dei giudizi sull’essente. Altrettanto poco può essere pensata in base al modello di un assolutamente diverso, che irriderebbe terribilmente al pensiero. Quindi essa sarebbe possibile solo come costellazione decifrabile dell’essente. da questo riceverebbe il suo materiale, senza il quale non sarebbe, non trasfigurando però l’esistenza dei suoi lamenti, ma conducendoli invece ad una configurazione, in cui essi si comporterebbero in scrittura. A questo fine la metafisica deve intendersi del desiderare. Che il desiderio sia un cattivo padre del pensiero è fin da Senofane una delle tesi centrali dell’illuminismo europeo, ed essa vale ancora senza restrizioni di fronte ai tentativi di restaurazione ontologica. Ma il pensare, esso stesso un comportamento, contiene in sé il bisogno – e in primo luogo l’affanno. Si pensa a partire dal bisogno, anche quando si rifiuta lo wishful thinking. Il motore del bisogno è quello dello sforzarsi, che implica il pensare come fare. Oggetto della critica è quindi non il bisogno nel pensare, ma il rapporto tra i due. Il bisogno nel pensare esige però che si pensi. Esige la sua negazione per mezzo del pensare, deve scomparirvi, se vuole realmente soddisfarsi, e in questa negazione gli sopravvive, rappresenta nella più intima cellula del pensiero ciò che non gli è simile. I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente esemplare. Tale pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta.»
Qui c’è in evidenza l’aporia del pensiero nell’atto che si pensa, che pensa il suo oggetto, che esige la sua negazione, ovvero, il suo annullamento, il suo obnubilarsi, il suo inabissarsi per rinascere in un nuovo pensiero… Ecco, credo che la poesia debba pensare il suo oggetto, debba cercarlo con tutte le forze, altrimenti rischia di essere mera esternazione soggettiva del non-pensiero, del wishful thinking. Perché, sia chiaro, la poesia è pensiero, pensiero pensante, pensiero, come si dice oggi, poetante.
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Nelle boutique del centro
l’attesa nella stesura del silenzio
ha complicato
il taglio. Visioni fantastiche
sublimano abiti di manichini
in serie.
In strada corrono scampoli inafferrate di parole.
L’abbandono delle mani,
pure esplicito, allinea file di soli sarti in regola.
Si odono
solo note di ininterrotte forbici.
Grazie, Ombra.
(Presente!)
caro Mauro Pierno,
non c’è dubbio, ma nutro dei dubbi su quel «non» che la tua sia una ricerca scriteriata di senso. Nella mancanza generale di senso dell’ordo rerum è ricco di senso il fatto di avere un senso scriteriato del senso. Quello che apprezzo nella tua collocazione del senso è che nella tua poesia non c’è nessuna esibizione del muscolo cardiaco e nessun esibizionismo del senso, del peccato, della disperazione etc. chi più ne ha più ne metta… forse è stato l’insegnamento di Totò e di Peppino, eterne maschere napoletane del non senso in un mondo privo di senso ad avere senso. La tua poesia fa le veci di un sabotatore che mostra il bidone della spazzatura nel mentre che gli altri poeti ispirati indicano a dito la luna, perché il senso della luna bella è proprio il bidone di cui discorreva Adorno nella Dialettica negativa nel 1966, e il mondo non è cambiato gran che da allora, solo che adesso va più veloce di allora, e allora la poesia che dir si voglia deve acquistare velocità e speditezza nella certezza che vada a schiantarsi contro la parete del nulla… Come scrive Adorno: «una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione». (Dialettica negativa, 1966, paragrafo ultimo ed. it. einaudi, 1970 p. 340)
Seconda Lettera da Cracovia di Jolanda W.
[le domande]
Caro Signor G.R.
Sono Jolanda W., Le scrivo ancora io,
la Signora Lipska non è ancora tornata a Cracovia
[ ha l’ossessione dei refusi. Li considera come virus
perché attraversano la pagina scritta, attaccano le parole
e ne contagiano il senso].
Da quando ha conosciuto quella donna che pensava di essere una data
Ewa non è più quella di prima.
[…]
Qui è giunta l’eco delle invettive del Suo amico-poeta [di Roma]
contro quelli che ancora non sanno che la paura può perdere l’udito,
che il Tempo si può distrarre, che l’incendio è esperto,
che gli indirizzi delle città che abbandonammo possono inseguirci.
E che ogni guerra si può desiderare dalla testa ai piedi.
[…]
Le invettive del Suo amico-poeta [di Roma] sono ansia di parole
di carne, ossa, cervello, apparato respiratorio, cuore, ansia di parole vive
[ oggi chi sono i poeti a ricordare la pupilla che Venezia dilatò
sul blu-di-Prussia del mare, le offese del bianco sul nero di Manhattan,
le voci dei cesari?]
[…]
Caro Signor G. R.,
parlerò di Lei e del Suo amico-poeta [di Roma] a Ewa
[ora porta in giro la sua vita in un baule]
e non smetta mai di chiedersi:
«Chi erediterà questo mondo?»
Gino Rago
gentile Signora Jolanda W.
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mi perdoni se scomodo con questa mia il postino
per dirle di riferire alla Signora Ewa Lipska
che mi dicono esser deceduta
e al suo amico Gino Rago
il poeta che abita l’altra sponda del Mediterraneo
che non mi interesso
dei pensieri del wishful thinking,
delle carmelitane scalze,
delle teste d’uovo, e neanche dei colletti bianchi
e delle camicie verdi
che inquinano il nostro mondo
più della plastica,
che ne ho a sufficienza delle vedove allegre,
dei partitini privati, di questa zizzania dei 5 Stelle,
dei renziani e post-renziani
che trovi dappertutto come una marmellata guasta…
conosco a sufficienza le peripezie dello spirito
e i pidocchi dello spirito
per nutrire ancora residue speranze…
le dirò: lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti
e che i vivi seppelliscano i vivi
e che tutto vada in corteo al funerale al seguito del catafalco
dell’unico dio che gli uomini riconoscono.
Il Signor Cogito ha viaggiato per tre notti dalla stazione della Finlandia
tenendo corsi di estetica nel corridoio del treno blindato
che lo portava verso Mosca
e adesso riposa nel cimitero di Dorotheenstädtischer Friedhof, in Chaussestraße;
io ormai tutto quello che ho lo tengo
nella mia valigetta 24 ore con una camicia pulita, il dentifricio
e lo spazzolino da denti…
non si sa mai…
posto io una poesia che Alfonso Cataldi non riesce a postare. Si tratta di un ingegnere, si chiama Raffaele Greco e scrive in un modo che sembra scritta in stile NOE; eccola:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/14/invettiva-di-giorgio-linguaglossa-ai-poeti-di-oggi-il-monito-di-franco-fortini-spostare-il-centro-di-gravita-della-poesia-italiana-il-monito-di-eugenio-montale-la-mia-musa-ha-las/comment-page-1/#comment-34777
Approfitto del fatto che non mi seguite in tanti per fare una confessione.
Ora dirò la cosa più turpe che ho fatto nella mia vita matrimoniale.
Un torto a mia moglie, solo per il mio piacere. Che bestia sono stato.
Lo dico al prossimo tweet.
Ebbene abbiamo avuto un cane una volta, una femmina. Il nome l’ho scelto io. Indovinate come l’ho chiamata. Esatto, come una mia ex. Cioè manco una ex, una che mi piaceva un casino ma mi aveva dato il 2 di picche. Così sono fatto io.
Poi è durata poco, una decina di giorni.
L’abbiamo regalata, nonostante fosse solo una cagnolina non riuscivamo a gestirla. O forse mia moglie si era insospettita perchè io andavo dicendo Lilli, Lilli vieni qui, baciamoci, e cose così.
Allora in seguito, dopo anni e anni, mi sono chiesto:
Ma cosa sarebbe stato del mio matrimonio se avessimo tenuto Lilli (la cagnolina)?
E cosa ne sarebbe stato se Lilli (la gnocca) mi avesse dato la patata?
E l’universo, come si sarebbe evoluto?
Dunque c’è questa teoria in cui si parla di mondi paralleli io cui io e Lilli (la cagnolina) conviviamo con mia moglie, e mondi in cui io e Lilli (la gnocca) conviviamo, con o senza mia moglie. C’è anche un caso in cui Lilli (la gnocca) convive con mia moglie. E io col cane.
Sono passato quindi a investigare questa storia dei mondi paralleli.
Vediamo quali sono i tipi possibili.
Prima di tutto l’universo stesso in cui viviamo. Senza tanti sforzi di fantasia, anche se l’universo non è infinito, è sicuramente più grande di 13.8 miliardi di anni luce (un anno luce è una misura di distanza).
E quindi tutto ciò che è più lontano da noi di 13,8 miliardi di anni luce, non può avere avuto alcun contatto con noi, non ci siamo mai potuti neanche vedere, perchè le rispettiva luci non si sono raggiunte, perciò a tutti gli effetti è un altro universo per noi.
Questo però non è proprio parallelo, più che altro è lontano. Non ci attizza molto.
Un’altra ipotesi abbastanza divertente è quella che riguarda l’universo inflazionario. Oh, l’universo inflazionario è una teoria ormai consolidata che dice che subito dopo il big bang …
… che subito dopo il big bang …
… c’è stata una espansione rapidissima (“inflazionaria”) che ha avuto un sacco di conseguenze.
Tra queste conseguenze c’è anche la possibilità che siano nati altri universi oltre al nostro. Quindi in qualche modo simili al nostro, ma irraggiungibili.
Come se noi e loro fossimo su pianeti diversi, costretti a muoverci, a vivere, a vedere solo sulla superficie del nostro pianeta. Sappiamo che possono esserci, ma che non interagiremo mai.
Poi c’è un’altra teoria, che parla di altre dimensioni. Se nel nostro universo noi riconosciamo 3 dimensioni spaziali (alto-basso, avanti-indietro, destra-sinistra), + il tempo, non è detto che non esistano anche 4 o più dimensioni.
In realtà già per il nostro mondo si parla di molte più dimensioni spaziali, quindi immaginarne più di 3 non è affatto strano. Ma insomma, se ce ne fossero 4, potrebbero esserci universi paralleli proprio accanto a noi.
MI spiego meglio con un esempio.
Scaliamo di una dimensione.
Immaginiamo che il nostro universo sia un grande enorme foglio, una roba piatta insomma, in cui tutto è piatto e niente esce fuori dal foglio.
Un altro enorme foglio potrebbe essere a fianco del primo e nessuno di loro lo saprebbe.
Allo stesso modo potrebbero esserci, in uno spazio ipotetico multidimensionale, altri universi tridimensionali simili al nostro, e noi lo non lo sapremmo.
Ovvero, le teorie più accreditate dicono che l’unica forza in grado di passare da un universo all’altro è la gravità.
Dunque, la gravità è un modo per “comunicare” con gli universi paralleli. Tutto molto bello, ma non sappiamo usare la gravità per comunicare. Ah, e c’è anche il fatto che per giustificare la mancanza di materia dell’universo si sono dovuti inventare la “materia oscura” …
Non vorrei incasinarmi.
In breve, nel nostro universo manca materia. Gli effetti gravitazionali presenti sono relativi a una massa complessiva pari a 10 volte quella osservata. Cioè manca all’appello il 90 % della massa. Questa parte mancante viene chiamata materia oscura.
Una possibile spiegazione di questa materia mancante, o meglio di questo effetto gravitazionale inspiegato, è che provenga dagli universi paralleli.
Insomma, apro un digressione parallela. se volete seguirmi bene, se no comunque poi continuo con sliding doors.
La causa principale della diminuzione di una forza (tipo la gravità, o il campo elettrico) con la distanza, è che la forza con l’aumentare della distanza si espande in tre dimensioni.
Cioè se io mi allontano di un km dalla fonte della forza, quella stessa forza si è espansa …
in un km cubo, perciò perde molta della sua intensità per potermi raggiungere. Se si sviluppasse lungo una linea, come un singolo fotone, non perderebbe intensità.
Allora, ammettiamo per un momento che le dimensioni spaziali in realtà siano 4, ma ne vediamo 3.
La gravità, che è in grado di passare negli altri universi, e quindi “vede” 4 dimensioni, è più debole di quanto sarebbe in 3 dimensioni, perchè parte della sua intensità va negli altri universi.
Allo stesso modo, la gravità degli altri universi, si riversa anche sul nostro.
Bon. Non ne so molto di più. Torniamo all’ultima possibilità.
Infine c’è un’altra teoria, che deriva dalla meccanica quantistica.
Il multiverso.
L’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica porta alla formulazione della teoria del multiverso.
Ogni decisione, ogni misura, ogni possibilità porta ad un percorso diverso, un altro mondo che parte e si sviluppa da una scelta diversa da quella di questo mondo.
E così, la scelta di andare a quella festa, ha dato origine ad un mondo parallelo in cui non ci siete andati. E tutti questi infiniti mondi continuano contemporaneamente in un diverso continuum spazio-temporale.
Forse c’è anche un mondo in cui Lilli mi ha detto di sì.
In quel mondo, il mio alter ego non ha conosciuto Loredana, mia moglie.
Peggio per lui.
Cari amici dell’Ombra
si tratta di una “serie di tweet”, pubblicati appunto su Twitter, da Raffaele Greco, ingegnere, che ho trovato molto interessanti. Ho pensato di raccoglierli, lasciando uno spazio tra l’uno e l’altro.
sono interessantissimi
Raffaele Greco? Mi pare di conoscerlo. UN GRANDE, DA SEMPRE
Paola, secondo me tu sei di parte 🙂
i miei complimenti a Raffaele Greco.
Non è a caso che accadono le cose, Greco è un ingegnere, quindi viene alla poesia da un’altra strada, proviene da studi scientifici, è per questo che ha la mente sgombra della pessima poesia di scuola che si è fatta in Italia in questi ultimi decenni, lui fa poesia con una libertà e una leggerezza incredibili! E fa poesia/prosa modernissima… il fatto che non abbia mai letto né frequentato nemmeno una riga di quanto si va dicendo nell’Ombra delle Parole è una ragione in più che ci dà ragione, che la nuova ontologia estetica non è una scuola, ma un movimento reale delle cose, un nuovo ordo rerum, le cose camminano da sole, non possono essere fermate da divieti o da interdizioni, anzi molto spesso i divieti e i tabù danno nuova forza alle idee che sono insite nelle cose. E le cose camminano. La nuova ontologia estetica cammina da sola perché è nelle cose, le nuove idee si rimettono in moto dopo decenni di immobilismo… lo stile di Greco mi ricorda lo stile delle poesie di Carver… un certo tipo di minimalismo molto moderno ma molto diverso dal minimalismo di casa nostra, in Greco c’è una immaginazione ultronea, post-surreale, surrazionale, sovversiva, con uno stile fatto di stracci, stile da twitter…
Del resto non è una novità ciò che afferma Heidegger: «Chi pensa in grande erra in grande», anche la nuova poesia deve avere il coraggio di pensare in grande…
Con le parole di Fortini:
«Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi».
Grazie molte 🙂
Come dice giustamente Alfonso, io non so quello che scrivo, ma sono stato onorato di questa attenzione.
Raffaele Greco si riferisce al fatto immagino che ieri gli ho scritto su Twitter : tu sei un poeta della nuova ontologica estetica e non lo sai.
Infatti 🙂
Una poesia con video di Massimiliano Marrani
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/14/invettiva-di-giorgio-linguaglossa-ai-poeti-di-oggi-il-monito-di-franco-fortini-spostare-il-centro-di-gravita-della-poesia-italiana-il-monito-di-eugenio-montale-la-mia-musa-ha-las/comment-page-1/#comment-34800
L’invettiva non idsewologica è una codsa ancora dsa invewntare, almeno pewr quewsti nodstri tewmpi. Si dsa cxosa dsirew ma dsewnza volewre una dewtewrminata codsa, percxhé tutto è podsdsibile.
Il vuoto dsi è prewso ancxhe lew idsewologie. Abbiamo tutto dsa invewntare.
Si è rotta la tastiewra dsewl cxomputewr, dewntro cxi dstavano la dstoria ew il linguaggio dsel mondo. Il sanguew è ancxora frewdscxo, lew feritew non dsi posdsono cxontare. CXon 50 ewuro me la dovrewi cavarew. CXi ridsewntiremo quando avrò ridsolto, spewro. Graziew dsi tutto.