
Un enigma ci parla, vuole essere significato. Qualcosa ci parla ma noi non comprendiamo quella lingua
Giorgio Linguaglossa
24 aprile 2018 alle 17:39
Un enigma ci parla, vuole essere significato. Qualcosa ci parla ma noi non comprendiamo quella lingua
Il linguaggio della Giancaspero sorge quando muore il linguaggio di Zanzotto. Un nuovo linguaggio non può sorgere fintantoché il vecchio linguaggio è in auge; il nuovo linguaggio è uno spazio che si apre e si apre; è lo spazio che è per il linguaggio, non è mai prima o dopo il linguaggio, lo spazio è il prodotto del dispiegarsi del nuovo linguaggio. Nella poesia citata della Giancaspero vediamo il linguaggio allo statu nascendi, assistiamo al dispiegamento dello spazio sullo spazio, lo spazio si fa spazio sul linguaggio che lo porta e lo fa esistere. Mentre il linguaggio zanzottiano è ancora un linguaggio semantico e fonologico, quello giancasperiano non lo è più, ha chiuso per sempre il pentagramma fonologico e semantico delle parole, le nuove parole abitano uno spazio deprivato di fonologia e di semantica. Ma, direte voi, come fa uno spazio siffatto a stare in piedi da solo? È che lo spazio è il portato del nuovo linguaggio. Tutto qui. Molto semplice. Leggiamo:
Una poesia di
Donatella Costantina Giancaspero
Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde:
a colpo d’occhio, una scodella di corti steli marroni
piantati nel brodo di polvere.
Accanto al posacenere, l’ora di Armonia,
in attesa di salire col fumo al mentolo.
Alla fine dell’estate, un nido di vespe nel lampadario.
Un enigma al telefono.
Il problema logistico che sposta l’inizio delle lezioni.
La matita, sul quaderno pentagrammato da dodici righi,
sempre un po’ alticcia:
sottolinea le quinte e le ottave parallele,
mentre di scorcio, una misoginia filiforme
intesse la trama ocra del divano.
Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso
contro un’ombra fluttuante. Le cose,
dentro il display grigio di un acquario.
È la memoria che tiene insieme le «cose» così costipate. La memoria è come il calcestruzzo, immobilizza le cose che esistono come un ologramma in un istante dello spazio-tempo: «Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso / contro un’ombra fluttuante». La poesia espone uno «stato di cose», ma uno stato di cose, la «questità», è sempre un enigma, perché le cose stanno in un insieme a prescindere dall’io che non c’è più. le cose galleggiano nel nulla da cui sembrerebbero provenire. Se si legge bene la poesia ci accorgiamo che l’io è scomparso, la costruzione sintattica è costruita senza far ricorso ai predicati, cioè ai verbi che designano una azione; i verbi sono stati eliminati, sono caduti insieme alla eliminazione dell’io. Quello che resta è un insieme di enigmi che coincidono con un insieme di cose. Le cose sono enigmi che, in quanto tali, non possono essere in alcun modo risolti in quanto sono stati vissuti, sono ormai nel passato e, in quanto tali, sono già stati dissolti. È la memoria che ha il compito di tenere insieme la sottilissima rete filamentosa nella quale le cose sono rimaste impigliate.
Ma torniamo all’«enigma» che nella poesia viene menzionato: «un nido di vespe nel lampadario./ Un enigma al telefono». Qui ci troviamo davanti ad una metafora, che è anche un problema ermeneutico; perché «un nido di vespe»?, e perché sul «lampadario»? Tutta la poesia ruota attorno al suo baricentro, ma il baricentro è una metafora, ovvero, un «enigma». Qualcosa ha bucato il filtro della coscienza auto organizzatoria dell’io, qualcosa che viene dall’inconscio, una pulsione cieca si è manifestata ed ha preso il vestito linguistico, nient’altro che questo è una metafora: qualcosa riceve un vestito linguistico, ma quel qualcosa è muto, o meglio, parla un altro linguaggio, un linguaggio che l’io auto organizzatorio non conosce; il «nido di vespe» parla attraverso un ronzio minaccioso, ci parla «al telefono», un ronzio che viene dall’alto e che incombe insieme alla luce che proviene dal «lampadario»; ogni volta che si accende la luce si ripresenta e si ripropone quel ronzio minaccioso che non è possibile eliminare. C’è come un rumore di fondo ineliminabile, questo ci dice la metafora.
Qualcosa ci parla ma non con il linguaggio delle parole ma con un altro linguaggio, è il linguaggio dell’inconscio che, per poter essere esplicato, ha bisogno di un vestito linguistico; ma già in sé il vestito linguistico è fatto per coprire, tradurre e falsificare quel «qualcosa» di minaccioso e innominabile che ha preso la propria residenza in quella metafora. In quel ronzio minaccioso, in quell’acufene che può essere udito soltanto dal parlante, risiede tutta l’algebrica significazione di quel mistero. In fin dei conti l’«enigma» è un mistero che non può essere risolto ma che pur sempre vuole significare… però può essere rappresentato, raffigurato, oggettivato. È quello che fa la poesia. Qualcosa ci parla, ma noi non intendiamo quella lingua sconosciuta che proviene dal di dentro di noi, qualcosa vuole prendere un vestito linguistico, ma ciò che esce da questa vestizione è un «enigma», un mistero che non può essere attraversato dall’ermeneutica. Ciò che resiste all’ermeneutica, lì c’è lo zoccolo duro del «reale», quel «reale» che sta dentro di noi, e che sta fuori di noi, e che non può essere eliminato con un decreto prefettizio dell’io.

Mi dica – se lo sa – da un bel po’ di tempo/ mi tormenta un pensiero
Edith Dzieduszycka
Sulla riva del fiume, un bel giorno d’estate
Sulla riva del fiume, un bel giorno d’estate
a distanza normale
– che vuol dire normale? –
s’erano sistemati su scomodi sgabelli due pescatori.
A terra il materiale scatola per le esche, mosche, vermicellini,
ami e mulinelli, canne, grande cestino.
In tuta verde loro, con capelli a visiera.
Mollemente distese su pieghevoli sdraie le mogli
in disparte, si annoiavano
leggendo poesie, forse facendo finta.
Più passava il tempo meno mordeva
preda, malgrado gli ampi gesti
da mulino a vento per buttare l’arpione.
Si alzò irritato uno dei pescatori.
S’avvicinò all’altro con fronte corrucciata.
“Mi dica – se lo sa – da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero. Forse sono venuti
il posto e il momento per domandarci
da dove ci arriva la Coscienza del Sé?
Chi ci ha caricati sulle spalle quel peso?
Mi dica – se lo sa – di quale utilità per noi
è il capire che ora, qui ci siamo, tra che cosa
e chi sa quale altra cosa poi? Ben presto
dall’arpione verremo acciuffati
e non ci sarà modo di dire non vogliamo.”

Che cos’è la «Cosa»? – D.C. Giancaspero ce lo rivela:
«un nido di vespe nel lampadario».
La «Cosa» è ciò che resta fuori della rappresentazione. È ciò che non può essere linguisticamente nominata se non come catacresi. L’inconscio è la casa degli innominabili, lì ci sono i senza-nome.
Quanto resta escluso dal processo di conoscenza dell’oggetto è das Ding. «Il Ding è l’elemento che originariamente il soggetto isola, nella sua esperienza del Nebenmensch, come per sua natura estraneo, Fremde», così Lacan
Giorgio Linguaglossa
25 aprile 2018 alle 7:40
Che cosa ci dice la poesia? Ci dice che «un bel giorno d’estate» «sulla riva del fiume» ci sono «due pescatori» che stanno pescando. «Mollemente distese su pieghevoli sdraie le mogli» si annoiano, forse leggono poesie o altro. La poesia assume la forma della parabola, che è un tropo retorico dove si dice qualcosa per intenderne un’altra; infatti si dice che due pescatori stanno pescando mentre le mogli, in attesa, si annoiano. Sembra un quadro di Edward Hopper, un tranquillo quadretto di spensierata vita borghese, limpido e chiaro… talmente chiaro che «qualcosa» ci dice che il quadretto è troppo idillico per essere vero, «qualcosa» ci suggerisce che «qualcuno» sta mentendo, che la «cosa» rappresentata non equivale alla «cosa» significata.
Si avverte una discrasia, una differenza tra il rappresentato e il «qualcosa» che, ostinatamente, non si lascia rappresentare per via diretta ma soltanto per via indiretta e per allusione. Siamo in «un bel giorno d’estate», ci informa la didascalia, è sì perché Edith Dzieduszycka ama esporre in maniera didascalica le situazioni che descrivono l’irruzione misteriosa dell’inconscio nella istanza auto organizzatoria dell’io. I personaggi sono immersi in una situazione di attesa, attendono che i pesci abbocchino all’amo. All’improvviso, si dice che «si alzò irritato uno dei pescatori» il quale, in modo del tutto immotivato e anti convenzionale, si rivolge all’altro pescatore e gli pone una domanda agghiacciante:
“Mi dica – se lo sa – da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero. Forse sono venuti
il posto e il momento per domandarci
da dove ci arriva la Coscienza del Sé?
Chi ci ha caricati sulle spalle quel peso?
Siamo arrivati al clou della poesia. Posto in una situazione di inazione e di attesa uno dei pescatori si rivolge all’altro con una domanda agghiacciante per la ingenuità con la quale è posta, chiede nientemeno: «da dove ci arriva la Coscienza del Sé?». Qui interviene la peritropè (il capovolgimento), non sono più i pesci che verranno presi all’amo ma siamo noi, sono i due pescatori che «…ben presto/ dall’arpione verremo acciuffati/ e non ci sarà modo di dire non vogliamo».

La quarta dimensione e il tempo psichico-interno
Gino Rago
24 aprile 2018 alle 19:40
La quarta dimensione e il tempo psichico-interno in alcuni versi di Costantina Donatella Giancaspero e di Edith Dzieduszycka
E’ noto che lo spazio sia stato regolato dalla geometria euclidea e che il tempo [come fenomeno fisico] sia stato misurato rispetto alla rotazione terra-sole. Tempo e spazio sono stati per secoli due campi totalmente separati.
Poi giunse Einstein e tempo e spazio divennero un tutt’uno, e l’uno, il tempo, influenzava l’altro, lo spazio. E se prima di Einstein bastavano tre misure x,y e z, per misurare qualsiasi punto nello spazio euclideo, essendo ancora lo spazio euclideo uno spazio a 3 dimensioni [tridimensionalità x, y, z], con l’irruzione in fisica di Albert Einstein, l’uomo nuovo ha dovuto immaginare un nuovo spazio, uno spazio a quattro dimensioni.
Dunque, accanto a un’altezza, una lunghezza e una profondità, per definire il nuovo spazio non più euclideo occorre [e non è facile farlo] immaginare una quarta dimensione. Quale è questa quarta dimensione? E’ il tempo.
E il tempo può essere “tempo fisico” o esterno, e “tempo psichico” o interno. E i due tempi, quello fisico-esterno e quello psichico-interno, sono entrambi assoggettati alla relatività.
Ed è grazie alla quadri dimensionalità dello spazio che Giorgio Linguaglossa può giustamente affermare, commentando la poesia davvero ‘nuova’ di Costantina Donatella Giancaspero:
“È la memoria che tiene insieme le «cose» così costipate. La memoria è come il calcestruzzo, immobilizza le cose che esistono come un ologramma in un istante dello spazio-tempo […]”,
assumendo necessariamente come quarta dimensione temporale dello spazio il tempo, ma non il tempo fisico-esterno, bensì il tempo psichico-interno del poeta, mostrando così di possedere anche in questo commento odierno pienamente il senso racchiuso nel cosiddetto “paradosso dei gemelli” usato da Einstein per spiegare la relatività del tempo-spazio.
E se consideriamo, per adesso a rapido volo di procellaria, questi ben costruiti versi di
Edith Dzieduszycka
Sulla riva del fiume, un bel giorno d’estate
“[…[da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero. Forse sono venuti
il posto e il momento per domandarci
da dove ci arriva la Coscienza del Sé?
Chi ci ha caricati sulle spalle quel peso?[…]”
non è difficile affermare che il poeta è cosciente tanto della quarta dimensione, quanto del tempo psichico-interno del poeta stesso, anche se Edith tende a mettere a dura prova ogni lettore per quella domanda implicita che i suoi versi pongono ed è la difficile materia del “Prima”.

Edith Dzieduszycka: Che facevamo nel paese del Prima?
Edith Dzieduszycka
Che facevamo nel paese del Prima?
Caro signor Raggiro,
tra rosa fra le dita e fetido concime,
tra brandelli e stracci,
ma con il cuor in mano,
la schiena curva dall’artrite sotto il vestito nuovo,
quello che concia per la festa,
mi dica, signor Raggiro,
quanti siamo, scongelati,
con tacchi a spillo o luride ciabatte,
a chiedere… a chi?
a quale meccanico di quale Quartiere Generale,
dove, quando andremo nel paese del Dopo ?
Credo siamo in tanti.
Caro signor Raggiro,
però, mi dica,
ha notato una cosa che trovo io ben strana?
Mi dica Lei, questa cosa
se mai ci ha pensato,
è che nessuno, salvo pochi eletti,
mai si chiedono:
del Dopo sì, va bene,
ma noi, cibo da vermi,
inquinati frammenti ,
che facevamo alla bassa marea
nel paese del Prima?
(Edith Dzieduszycka
23.9.2017)
Giorgio Linguaglossa
25 aprile 2018 alle 12:16
Nei racconti poetici di Edith Dzieduszycka si verifica che la catastrofe annunciata non avviene mai, che essa venga sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es.
La scrittura dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare un discorso finalmente «libero» sia dal senso che dal significato, libero dal sistema articolatorio dell’io.
«Penso dove non sono e sono dove non penso».
Questo paradossale motto lacaniano ci indica allusivamente la zona occupata dall’Es e dall’inconscio.
Una poesia come quella di Edith Dzieduszycka e quella della «nuova ontologia estetica» (in modo generalissimo) non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico.
Negli autori della «nuova ontologia estetica» un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica; noi sappiamo che l’Es rifugge dai concetti di «bello»-«brutto», accettabile non-accettabile, di buon-gusto non-di-buon-gusto, erotico o pornografico, tutte categorie ideologiche proprie dell’Io che è una istanza eminentemente auto organizzatoria, dedita alla organizzazione dell’auto conservazione e del regolare usufrutto delle categorie grammaticali.
L’Es è quanto resta della struttura dell’io penso – È l’insieme del discorso meno (con il segno -): «io non penso» ergo «io non sono», quel ribaltamento dell’assunto cartesiano che rappresenta la verità dell’alienazione, il «resto» dell’operazione di divisione del soggetto, ossia tutto ciò che è «non-io».
Non a caso, una volta arrivati a individuare il luogo dell’Es, Lacan introduce la questione del «fantasma».
Quando la parola da rappresentativa diventa enunciativa? Lo diventa, ci dice Lacan, quando giura, promette, indica, asserisce, quando utilizziamo un linguaggio domestico, per eccellenza il linguaggio politico. La parola suasoria sarebbe così quella parola che in un certo modo vuole ricucire la frattura tra enunciato ed enunciazione, l’atto illocutorio di Austin, la parola che dice e allo stesso tempo dice di dire. «Tu sei mia moglie», «Tu se il mio maestro», «Tu sei colui che mi seguirà», «Tu sei questo», «tu sei quello»: tutti esempi di parola piena, rivelatrice, persuasiva; la parola che dice la verità del soggetto sullo sfondo di finzione inaugurato dal linguaggio.

Gino Rago: Il passato non esiste. Né può esistere il futuro.
Gino Rago
25 aprile 2018 alle 10:41
Il tempo
Gino Rago
Il tempo
Il passato non esiste. Né può esistere il futuro
[come fa ad esistere il presente
se deve separare due inesistenze?].
Non esiste il dopo né può esistere il prima
perché l’universo non è infinito
ma curvo nella quarta dimensione.
Esiste l’eternità, ma come tempo che non passa mai
non come successione senza fine di secoli.
Eternità di massa infinita,
di massa senza moto.
Eternità di tempo troppo lento.
La retta si chiude su sé stessa
e il dopo coincide con il prima
[sullo sfondo il Nulla a quattro dimensioni?].
La vita si muove su ciò che non c’è
traendo partito da quello che c’è.
E il poeta? E’ un vasaio.
Lavora l’argilla per fare vasellame,
cattura nelle brocche quello che non c’è.
Lucio Mayoor Tosi
25 aprile 2018 alle 12:23
Il Tempo è continua trasformazione, è il mutare delle cose. Da questo fatto si può comprendere perché nella nuova ontologia estetica si pensi più al tempo che allo spazio: perché trasformazione è continuo evento.
Non è dello stesso avviso il filosofo Vincenzo Vitiello, il quale compie una scelta etica a favore dello spazio in quanto fattore o luogo per l’organizzazione sociale, quindi la polis.
Questo potrebbe far pensare che, se lo spazio è ordine e organizzazione, allora il fattore T-tempo sia disordine, anarchia. Non è così.
Si è detto che tra i fattori centrali della nuova ontologia estetica vi siano eventi (nella scrittura e nell’esistere) e cose, gli oggetti inanimati. Entrambi questi fattori ci parlano del tempo, di passato e memoria. Le cose mostrano il passato evento, che la scrittura, di solito al presente, vivifica.
La scelta etica di Vincenzo Vitiello a me sembra teoretica, quella della NOE empirica o, per meglio dire, scientifica. Trovo infatti che la parola Tempo sia più adatta a indicare la natura delle cose e la loro fisicità, anche scientifica, molecolare o subatomica; mentre lo spazio è relativo alle Distanze, le quali rimandano al Tutto, quindi all’Ente, il quale sta a un passo dal Divino. Senza poi alcun eccetera.
Tempo e Spazio sono parole fredde, neutre e del tutto teoriche. In realtà la pienezza di Tempo e Spazio è dovuta a un terzo elemento, che pervade ed è costitutivo di entrambi, sebbene sia a questi estraneo, nel senso che non ne dipende, né può essere suscettibile di alcuna modifica. La fantomatica molecola di Dio, la quale sembrerebbe esperibile, anche se non ancora dimostrabile.
Si sta nel paradosso per cui il tempo non esiste ma esiste il tempo esistito. Il passato, che non esiste, è ed è stato. Ecco perché termini come Tempo e Spazio a me sembrano non del tutto adeguati. Si potrebbe allora parlare di formicolio del tempo, di mortalità dello spazio… ma per poterlo fare bisogna ampliare gli orizzonti della percezione: il primate deve potersi evolvere, verso il nulla, o il pieno, che lo costituisce.
Così come la parola Universo andrebbe modificata con Multiverso: il tempo ora e qui e là.
Un mirabile esempio ci viene offerto dalle poesie di Ma.R. Madonna, quando la poeta entra in contatto tele-sensoriale, telepatico, con una suora…
Lucio Mayoor Tosi
25 aprile 2018 alle 13:26
La poesia di Donatella C. Giancaspero è l’interno di un quadro cubista. Multidimensionale, appunto.
Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso
contro un’ombra fluttuante. Le cose,
dentro il display grigio di un acquario.
Descrizione precisa, che piacerebbe molto a T. Tranströmer.
Sulla riva del fiume, un bel giorno d’estate”di Edith Dzieduszycka è poesia molto NOE già nell’apparente semplicità del titolo (due frammenti separati da virgola). Il racconto poetico, senza darlo a vedere, cerca e trova la sua forma in numerosi punti. Anche se di accento straniero, è una bella poesia. Domande e risposte da mozzare il fiato.
Non so se in poesia sia giusto parlare di generi, certo che le personalità femminili su questa scena sono davvero diverse e prorompenti.

una nuova visione delle forze fondamentali della natura, una delle 4 forze, la gravità, in realtà sarebbe semplicemente un «fenomeno emergente»
Giorgio Linguaglossa
25 aprile 2018 alle 14:13
Caro Lucio Tosi,
le teorie di Erik Verlinde ci stanno dando una nuova visione delle forze fondamentali della natura, una delle 4 forze, la gravità, in realtà sarebbe semplicemente un «fenomeno emergente», come la temperatura che indica il calore contenuto in una materia…
Non è un caso che la «nuova ontologia estetica», cioè alcuni poeti italiani, si sia messa sulle tracce del Tempo… questi bizzarri poeti pensano in termini di tempo e di temporalità, ma che idea bizzarra (!?) – Ebbene, questi poeti sanno, intuiscono che è all’interno della questione «tempo» che si cela uno dei segreti più grandi (forse il più grande) dell’universo; questi poeti fanno un tipo di poesia che si fonda sul concetto (empirico, tu dici) di Tempo. E io sono d’accordo, penso che questo sia un elemento di grandissima novità della poesia degli «ontologistes» come ci chiama Petr Kral. Una poesia che ospita il tempo, una poesia orologio, una poesia che vuole catturare il tempo, metterlo in bacheca, in provetta. Ecco spiegata la predilezione delle poetesse «ontologistes» (Maria Rosaria Madonna, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka e altre) verso la questione-tempo.
Vincenzo Vitiello è un filosofo, lui intende lo spazio secondo il concetto di una «etica dello spazio», forse ci vuole suggerire una idea di uno «spazio etico»? Forse. Resta però il fatto che nessun filosofo potrebbe suggerirci l’idea di un «tempo etico» o di una «etica del tempo», perché il tempo è refrattario all’etica come anche all’estetica, il tempo è lì, è un fattore ontologico paradossale perché, come tu dici, come fa ad esistere il presente del tempo se non esistono il passato del tempo e il futuro del tempo? Che contraddizione paradossale è questa?
Leggiamo questa poesia, anche qui si vuole mettere il tempo in provetta, si vuole catturare il tempo:
…ma così sia. Un suono di cornetta
dialoga con gli sciami del querceto.
Nella valva che il vespero riflette
un vulcano dipinto fuma lieto.
La moneta incassata nella lava
brilla anch’essa sul tavolo e trattiene
pochi fogli. La vita che sembrava
vasta è più breve del tuo fazzoletto.
*
Si legga questo distico. Si tratta di un correlativo oggettivo (che oggi nessun poeta usa più) dove appare manifesto un grumo di temporalità:
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
*
Una nuova teoria della gravità potrebbe spiegare i curiosi moti delle stelle nelle galassie. O, più precisamente, alcune deviazioni nei movimenti stellari che, al momento, i fisici giustificano appellandosi all’esistenza della materia oscura. A metterla a punto è stato Erik Verlinde, fisico dell’Università di Amsterdam, che ne ha illustrato i dettagli in uno studio pubblicato su ArXiv (un server di pre-print non sottoposto a processo di revisione dei pari): il modello, chiamato Emergent Gravity, si discosta parecchio dalle teorie tradizionali della gravitazione e, almeno da un punto di vista teorico, sembra essere consistente con le deviazioni nei moti delle stelle.
L’idea di Verlinde, in realtà, non è nuovissima. E neppure semplice da comprendere.
Già nel 2010, lo scienziato aveva sorpreso il mondo con una nuova teoria della gravità, secondo la quale questa non sarebbe una forza fondamentale della natura, ma un cosiddetto fenomeno emergente: così come la temperatura è legata alla velocità con cui si muovono le molecole, la gravità emergerebbe dai cambiamenti di una sorta di blocchi fondamentali di informazione memorizzati nella struttura dello spazio-tempo. In un altro articolo, pubblicato sempre su ArXiv, (On the origin of gravity and the laws of Newton) Verlinde aveva infatti postulato che la famosa seconda legge di Newton della gravità, che descrive perché le mele cadono dagli alberi e i satelliti orbitano attorno ai pianeti, potesse essere derivata matematicamente partendo dalle dinamiche di questi blocchi fondamentali di informazione.
In questo nuovo studio, Verlinde si è concentrato sui movimenti di stelle e galassie: le regioni più esterne delle galassie, come la Via Lattea, ruotano infatti molto più velocemente intorno al centro di quanto non possa essere predetto misurando la quantità di materia come stelle, pianeti e gas interstellari. Per questo, i fisici hanno postulato l’esistenza della materia oscura, che dovrebbe costituire oltre l’80% della materia presente nell’Universo e dovrebbe essere responsabile della rotazione accelerata delle galassie. Tuttavia, al momento non esiste alcuna prova sperimentale diretta dell’esistenza di tale materia oscura. E qui entra in gioco la curiosa teoria di Verlinde: secondo lo scienziato, la velocità nella rotazione delle galassie si potrebbe spiegare ripensando la teoria della gravità, andando addirittura oltre la relatività generale di Einstein: “Abbiamo le prove che questa nuova visione della gravità è in realtà in accordo con le osservazioni”, spiega Verlinde. “A grandi scale, la gravità semplicemente non si comporta nel modo in cui la teoria di Einstein prevedeva”.
In ogni caso, al momento quella di Verlinde è poco più di un’ipotesi, per la quale non esiste alcuna evidenza sperimentale. Quel che è certo è ancora non si è scoperto come inserire in un unico quadro i due pilastri fondamentali della fisica moderna, la relatività generale di Einstein (che descrive la gravità in termini di deformazioni dello spazio-tempo), per l’appunto, e la meccanica quantistica: i tentativi di quantizzare la gravità, per ora, non hanno ancora portato a un risultato definitivo e consistente. Resta da capire se la strada intrapresa da Verlinde potrà gettare nuova luce su questo problema insoluto della fisica contemporanea.“Molti fisici teorici come me stanno lavorando su una revisione della teoria della gravità, e stiamo compiendo notevoli progressi in questa direzione”, spiega l’esperto. “Potremmo essere sull’orlo di una nuova rivoluzione scientifica che cambierà radicalmente le nostre opinioni sulla natura dello spazio, del tempo e della gravità”.
(da http://www.wired.it)
Mauro Pierno
25 aprile 2018 alle 14:24
La sintonia di pensiero non
ha risposta
ma batte la consapevolezza di
tempie accarezzate. Così come
“alticce matite”
che accarezzano il tempo,
l’illuminato
disputa la sua idea. Arretra
l’attesa.
Accanto per se i resti della
memoria.
Scorgere mondi in contrappunto.
Pregustare l’errore.
…(Ieri attendendo la prenotazione al CUP pensavo… non ad una poesia o ad un post in particolare… ma ad una tendenza della contemporaneità poetica… alla perfezione stessa della parola in poesia. Come dire che nel racconto poetico, cosi come assunto, come via percorribile, è presente, deve essere presente un errore trasmettibile… evidente. Lo stesso che si percepisce quando si è tra la gente, come stamani nel mio caso.
È l’errore che percepiamo, l’imperfetto storico, il dato inconfutabile delle nostre vite a confronto dei resoconti, giornalistici, politici, giornalieri, che fa scaturire la verità. Troppa perfezione uguale troppa menzogna!
Lucio Mayoor Tosi
25 aprile 2018 alle 19:19
L’ora di tempo
Comprende quel che si è fatto e non fatto
nel segmento che vogliamo considerare.
Ma è solo un’ ipotesi. Sappiamo tutti che il tempo
non esiste. E che l’hanno inventato i filosofi.
Dunque, non lasciamoci intimidire dalle bolle piene d’acqua
che volteggiano nello spazio qui e ora. Il tempo va immaginato.
Una partita di calcio. Il dramma di essere arrivati con tanto anticipo.
In anticamera, davanti alla Presidenza. O in questura.
– Trovato rifugio contemporaneamente al pianoterra di un edificio
in San Francisco-USA; a Parigi, sera, le 22: ubriaco sul marciapiede
in zona Chat noir. Un covo di barboni.
La struttura molecolare del tempo è sempre percepibile
dai corpi sensibili, afferrare l’estremità della maniglia premere con forza.
Il tempo aggiusta gli squilibri. Non arriva come uppercut
piuttosto sembra un nota di violino. Profumi, incensi e fiori sul ballatoio.
Ecco, così è il tempo.
L’inverno ha messo grinfie
di ghiaccio stupefatto
che ardente scintilla
sull’ostinato palco
dalle quinte sdrucite.
Ogni tanto
del tempo
risuonano campane
per subito fuggire
fin al tocco di ronda
all’ordine richiamo.
Il sentiero
un imbuto
che non si cura affatto
di chi si avventura.
Stringe bulloni d’oro
con pinze di titanio
ai rami penzolanti
del nostro aggrapparci.
A terra
nella polvere
ossa rosicchiate.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/26/il-tempo-nella-poesia-della-nuova-ontologia-estetica-il-linguaggio-dellinconscio-commenti-e-poesie-di-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-edith-dzieduszycka-mauro-pierno-donatella-costantina-giancas/comment-page-1/#comment-34383
Possiamo dire che la coscienza è una istanza emergente dalla dimensione linguistica? E possiamo dire che il linguaggio dell’inconscio parla una lingua «altra» rispetto al linguaggio dell’io? Il linguaggio dell’io della poesia convenzionale è roba semiseria, il linguaggio dell’io è il linguaggio che il sistema del dominio vuole che esso sia. Il linguaggio della poesia non ha nulla da spartire con il linguaggio dell’io, con il linguaggio comunicazionale-mimetico e descrittivo prescrittivo, credere in questa facezia filosofica è come credere all’unicorno.
Finalmente la nuova ontologia estetica ha messo il tavolo sulle 4 gambe, ci dice che un linguaggio poetico che non pesca nelle profondità della psiche (coscienza, autocoscienza, inconscio) è un linguaggio nel migliore dei casi giornalistico che può andare bene per la stesura e lettura di un giornale e di un rotocalco…
L inconscio, ci dice Freud, ha un estensione più ampia: il rimosso è una parte dell inconscio. Affermando ciò, Freud vuole sottrarre l’inconscio a quella rappresentazione che ne fa un gorgo di pulsioni pronte a scaricarsi sull io per riconquistare l appagamento negato. Pertanto, sottolinea, l’inconscio comprende da un lato atti che sono meramente latenti, provvisoriamente inconsci, ma che per il resto non differiscono in nulla dagli atti consci, e dall altro processi come quelli rimossi, che, se diventassero coscienti, si discosterebbero necessariamente, e nel modo più reciso, dai rimanenti processi consci. E così che l’inconscio sfora e si estende al sistema Prec, sistema che non gode di autonomia, che non si limita al solo operare la rimozione, al filtraggio delle informazioni cui è consentito accedere alla coscienza. Questo dal punto di vista dinamico. Sul piano descrittivo il sistema Inc si differenzia per caratteristiche peculiari che lo pongono in una dimensione di assoluta estraneità tanto dal sistema Prec che da quello percezione-coscienza: assenza di contraddizione e di negazione, intemporalità, mobilità degli investimenti, nonché una relativa indipendenza dalla realtà esterna, sono i tratti salienti dell inconscio. Il nucleo dell Inc è costituito di rappresentanze pulsionali che aspirano a scaricare il proprio
[S. Freud., Metapsicologia, L inconscio, in Gesammelte Werke, op. cit.; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 8. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti ( ), Bollati Boringhieri, Torino 1976 (2000), Metapsicologia (1915).]
investimento, dunque da moti di desiderio. Questi moti pulsionali sono fra loro coordinati, esistono gli uni accanto agli altri senza influenzarsi, e non si pongono in contraddizione reciproca. [ ] In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto dal lavoro della censura fra Inc e Prec. L Inc dunque non è un abisso. L inconscio non è un flusso di energia cieco. Esso è piuttosto il luogo in cui qualcosa accade e in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, rappresentanze pulsionali, che consistono nell investimento, se non nelle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno nelle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini.
L inconscio, ci suggerisce Freud, è un sistema di tracce (tracce mnestiche), e non impronte, si noti, da cui si originano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto. Ci troviamo di fronte a un punto nodale: la distinzione tra Sachevorstellung e Wortvorstellung serve per comprendere come sia possibile la comunicazione tra i vari apparati psichici. Seguiamo Freud: La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali. In altre parole, ciò che consente al sistema inconscio di spingersi nella coscienza, di farsi sentire nelle sue varie forme sintomatiche è un progresso nella rappresentazione, una concatenazione di rappresentazioni che tende ad associare alla Sachevorstellung una Wortvorstellung. Questa operazione svela la natura dell apparato psichico e del suo funzionamento, in particolare il ruolo del linguaggio nella sua strutturazione. Ma facciamo un passo indietro. L’inconscio per Freud funziona secondo due grandi principi: il principio di piacere e il principio di realtà, che è la legge che regola il preconscio o conscio. Il primo sussume quei processi di pensiero destinati a rimanere inconsci, il secondo si presenta invece nell ordine di un discorso mediato, articolabile, comprensibile, proveniente dal preconscio. I processi di pensiero inconscio pervengono alla coscienza nella misura in cui li si può verbalizzare, consegnandoli al dominio del principio di realtà. I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali
[Ibid. J. Lacan, Livre VII, L éthique de la psychanalise ( ), Édition de Seuil, Paris 1986; trad. it. di M. D. Contri, a cura di G. B. Contri, Libro VII. L etica della psicoanalisi ( ), Einaudi, Torino 1994, p S. Freud, Metapsicologia, cit.]
Qui si apre la dimensione dell io, nucleo che condivide con la percezione e la coscienza la stessa stoffa. È qui che fa la sua comparsa l’Io, nella misura in cui qualcosa che si articola in parole perviene alla coscienza permettendo l’articolazione di un discorso.
L’Io è così quell istanza che presiede ai processi linguistici consci. Se dunque l’inconscio è l apparato che funziona secondo la legge principio di piacere, che spinge all azzeramento della tensione, secondo uno stimolo che chiede il suo esaurimento nella motilità, il sistema percezione-coscienza, di cui l io è l’istanza e l’espressione, alla scarica immediata della pulsione sostituisce un sistema coordinato che risponde al principio di realtà, ossia alla mediazione tra stimolo-pulsione da un lato, e scarica dall altro, annunciando in tal modo quello scarto tra la realizzazione della scarica a tensione zero e la sua possibilità di realizzazione, secondo un registro adattivo. Cosa è dunque l’Io, io che Freud colloca nell interstizio tra percezione e coscienza? Nella seconda topica Freud affronta il problema e si chiede se l’io sia veramente solo un nucleo facente parte del sistema percezione-coscienza. Ci siamo fatti l idea che esista nella persona un nucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l’Io di quella persona. A tale Io era legata la coscienza; esso domina le vie d accesso alla motilità, ossia alla scarica degli eccitamenti nel mondo esterno
L’inverno ha messo grinfie di ghiaccio
stupefatto
che ardente scintilla sull’ostinato
palco dalle quinte sdrucite.
Ogni tanto del tempo risuonano
campane per subito fuggire
fin al tocco di ronda all’ordine richiamo.
Il sentiero un imbuto
che non si cura affatto di chi si avventura.
Stringe bulloni d’oro con pinze di titanio
ai rami penzolanti del nostro
aggrapparci.
A terra nella polvere
ossa rosicchiate.
Altra versione
Oltrepassare la strozzatura di questo sentiero,
…dall’altra parte dell’imbuto…una visione enorme…
https://ridondanze.wordpress.com/2014/02/03/ridondanze-18/
Grazie OMBRA.
Gino Rago
Le 3 ultime domande a Giorgio Linguaglossa [10-11-12] della intervista immaginaria su La COSA di Martin Heidegger
10 – Domanda
Ora non posso sottrarmi a chiederti:” Quando, e soprattutto, come vengono le cose come “cose”?
Risposta di Giorgio Linguaglossa:
Conosco il pensiero di Heidegger anche su questo aspetto dello studio sulle cose. Lo spiegherei così.
”Le cose come cose non vengono verso di noi in virtù o in forza di operazioni o atti dell’uomo. Ma neppure vengono a noi senza diciamo una certa vigilanza dei mortali. E Heidegger su tale passaggio è oltremodo chiaro e io così lo proporrei: con il passo indietro del pensiero puramente rappresentativo.
11 – Domanda:
Tu affermi : ‘Le cose come cose vengono con il passo indietro del pensiero rappresentativo. Puoi essere su questo punto decisivo dello studio su La COSA più chiaro?
Giorgio Linguaglossa così risponde:
Le cose vengono a noi come “cose” se il pensiero rappresentativo inteso come pensiero spiegante-fondante fa un passo indietro rispetto al “pensiero rammemorante” . E’ grazie al pensiero rammemorante che le cose vengono come “cose”.
12 – Domanda:
Ancora una volta dunque Heidegger ci invita a un nuovo inizio di pensiero
Risposta di Giorgio Linguaglossa:
E’ esattamente così. Un altro ‘inizio’ di pensiero, o l’inizio di un nuovo pensiero, impone sempre l’esigenza di un pensare diversamente con il passo indietro del vecchio pensiero.
Gino Rago
Che cos’è la «cosa»? – Donatella Costantina Giancaspero ce lo rivela:
«un nido di vespe nel lampadario».
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/26/il-tempo-nella-poesia-della-nuova-ontologia-estetica-il-linguaggio-dellinconscio-commenti-e-poesie-di-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-edith-dzieduszycka-mauro-pierno-donatella-costantina-giancas/comment-page-1/#comment-34388
La «Cosa» è ciò che resta fuori dalla rappresentazione. È ciò che non può essere linguisticamente nominata se non come catacresi. L’inconscio è la casa degli innominabili, lì ci sono i senza-nome.
Quanto resta escluso dal processo di conoscenza dell’oggetto è das Ding. «Il Ding è l’elemento che originariamente il soggetto isola, nella sua esperienza del Nebenmensch, come per sua natura estraneo, Fremde», così Lacan.1]
Quando il soggetto si trova a vivere una esperienza, una parte dell’oggetto, o tutto l’oggetto cade fuori dalla rappresentazione; di esso non si dà alcuna traccia, nessuna Vorstellung, e questa parte dell’esperienza viene qualificata come inconoscibile. Das Ding si pone come perduta nella misura in cui è l’essenziale di ciò che è perduto. Tutto ciò che poi seguirà nell’ambito del linguaggio, sarà articolabile come Vorstellung proprio perché circoscritta dall’esperienza in perdita che la Cosa pone davanti al soggetto: e cioè quel passato/presente assoluto da cui essa fa la sua apparizione.
Se das Ding è fuori del campo della rappresentazione, è cioè irrappresentabile, esso è altresì insignificabile, cioè sfugge alla presa del significante, ponendosi come resto dell’operazione della conoscenza. Se inoltre il rapporto soggetto/realtà si modula intorno al sistema della rappresentazione, das Ding è quanto ne resta «fuori», escluso. Ma tale esternalità è assolutamente centrale: nel suo esser muto infatti, das Ding rimane separato ma come ciò intorno a cui gravita lo smarrimento del soggetto. Nello psichico non c’è una rappresentazione che corrisponda a das Ding; c’è solo la rappresentanza di una rappresentazione, una Vorstellung-repräsentanz. Ciò che si dà come rappresentanza di una rappresentazione è propriamente il simulacro di ciò che manca, di quanto svuota la vita del suo godimento finale.
1] Ibid. 190 Cfr., J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 64.
Fritz Hertz (Francesca Dono)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/26/il-tempo-nella-poesia-della-nuova-ontologia-estetica-il-linguaggio-dellinconscio-commenti-e-poesie-di-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-edith-dzieduszycka-mauro-pierno-donatella-costantina-giancas/comment-page-1/#comment-34389
l’odore del bollito
Dividiamo l’odore del bollito
In parti uguali I compiti
Dei bambini riposano sotto l’aculeo di una piccola
lampada
Di fronte alla nostra casa
Hanno messo macigni di eliopropo
Ben schiacciato
Ci somigliamo tutti
Mentre la cena si serve dalla pentola annerita sopra ogni piatto
Lalie è ferma in penombra Da qualche minuto
Il verso della civetta ai lati diunafreddaustione
De Chirico scivola dal suo ritratto
Per lavarsi le mani Nel sonno
Esprimo un piccolo parere per questa poesia comunque bellissima; mi sarei fermata a”Mentre la cena si serve dalla pentola annerita sopra ogni piatto”Anna Ventura
Gino Rago
Il tempo [nuova versione]
Il passato non esiste. Né può esistere il futuro
[come fa ad esistere il presente
se deve separare due inesistenze?].
Non esiste il dopo né può esistere il prima
perché l’universo non è infinito
ma curvo nella quarta dimensione.
Esiste l’eternità, ma come tempo che non passa mai
non come successione senza fine di secoli.
Eternità di massa infinita,
di massa senza moto.
Eternità di tempo troppo lento.
La retta si chiude su sé stessa
e il dopo coincide con il prima
[sullo sfondo il Nulla a quattro dimensioni?].
La vita si muove su ciò che non c’è
traendo partito da quello che c’è.
E il poeta? E’ un vasaio.
Lavora l’argilla per fare vasellame,
cattura nelle brocche quello che non c’è.
Gino Rago
Le 3 ultime domande a Giorgio Linguaglossa [10-11-12] della intervista immaginaria su La COSA di Martin Heidegger
10 – Domanda
Ora non posso sottrarmi all’urgenza di chiederti: «Quando, e soprattutto, come vengono le cose come “cose”»?
Risposta di Giorgio Linguaglossa:
Conosco il pensiero di Heidegger anche su questo aspetto dello studio sulle cose. Lo spiegherei così.
”Le cose come cose non vengono verso di noi in virtù o in forza di operazioni o atti dell’uomo. Ma neppure vengono a noi senza diciamo una certa vigilanza dei mortali. E Heidegger su tale passaggio è oltremodo chiaro e io così lo proporrei: con il passo indietro del pensiero puramente rappresentativo.
11 – Domanda:
Tu affermi : ‘Le cose come cose vengono con il passo indietro del pensiero rappresentativo. Puoi essere su questo punto decisivo dello studio su La COSA più chiaro?
Giorgio Linguaglossa così risponde:
Le cose vengono a noi come “cose” se il pensiero rappresentativo inteso come pensiero spiegante-fondante fa un passo indietro rispetto al “pensiero rammemorante” . E’ grazie al pensiero rammemorante che le cose vengono come “cose”.
12 – Domanda:
Ancora una volta dunque Heidegger ci invita a un nuovo inizio di pensiero
Risposta di Giorgio Linguaglossa:
E’ esattamente così. Un altro ‘inizio’ di pensiero, o l’inizio di un nuovo pensiero, impone sempre l’esigenza di un pensare ‘diversamente’, con il passo indietro del vecchio pensiero[…].
[La domanda N.13 dell’intervista a Giorgio Linguaglossa su La brocca di Heidegger riguardante il ruolo del vasaio e del suo rapporto verso/con il vuoto; questo ruolo del vasaio, incentrato com’è sulle idee di ‘contenente’ e di ‘contenere’ in relazione alla ‘offerta’, merita credo attenzioni particolari ed è opportuno proporre la tredicesima domanda posta a Giorgio Linguaglossa con la sua ben articolata risposta su un’altra pagina de L’Ombra delle Parole].
———————————————————————
Gino Rago
———————————————————–
Modifica lieve alla nota precedente.
———————————————————–
[La domanda N.13 dell’intervista a Giorgio Linguaglossa su La Cosa di Martin Heidegger riguarda il ruolo del vasaio e del suo rapporto verso/con il vuoto.
Questo ruolo del vasaio, incentrato com’è sulle idee di ‘contenente’ e di ‘contenere’ in relazione alla ‘offerta’, merita credo attenzioni particolari ed è opportuno proporre la tredicesima domanda posta a Giorgio Linguaglossa con la sua ben articolata risposta su un’altra pagina de L’Ombra delle Parole perché in questa ultima parte dell’intervista immaginaria si affronta il senso della ‘offerta del versato’ che è cosa profondamente diversa dal ‘mescere’ il liquido dalla brocca].
——————————————————————————————————
Gino Rago
Gino Rago – 12 domande a Giorgio Linguaglossa
[ da una intervista immaginaria su La COSA, in 12 domande e 12 risposte, elaborate dai Capitoli su La COSA in Critica della Ragione Sufficiente di Giorgio Linguaglossa]
1 – Domanda:
Spesso ti sei confrontato oserei dire in tutti i tuoi saggi psicofilosofici con il tema della COSA, riprendendo la domanda «Che cosa è una cosa?» di Heidegger
Risposta:
Heidegger per spiegare “cosa una cosa sia” prende in esame una “cosa” tra tante: la brocca.
2 – Domanda:
Quindi, non “una brocca”, ma “la brocca”…
Risposta:
La domanda su “la brocca” e non su “una brocca” non riguarda questa o quell’altra brocca, ma la brocca «in quanto tale», riguarda la sua «essenza». Perché «In quanto recipiente la brocca è qualcosa che sta in sé.»
Proprio questo stare in sé «caratterizza la brocca come qualcosa di autonomo. In quanto autonomia di qualcosa di autonomo, la brocca si distingue da un oggetto (Gegenstand)».
3- Domanda:
Così ben definita, così intesa, che uso fa Heidegger della brocca nel suo pensiero direi meditante?
Risposta
La brocca permette ad Heidegger di interrogarsi, secondo un suo personale procedimento, sulla cosalità della cosa. La cosalità della brocca nel procedimento fenomenologico di Heidegger consiste nel fatto che essa è come «recipiente». Quando noi passiamo al riempimento della brocca, il liquido fluisce nella brocca vuota. Questo gesto del riempimento fa dire ad Heidegger: «Il vuoto, questo nulla della brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene» .
4 – Domanda:
Quindi, la cosalità della brocca non è affatto legata al materiale che la costituisce [argilla, metallo,vetro…]
Risposta:
No, la sua cosalità si lega esclusivamente al Vuoto che contiene.
5 – Domanda:
Ma da un punto di vista chimico-fisico o scientifico la brocca non dovrebbe essere considerata vuota, ma piena, piena di aria…
Risposta:
Se ci lasciassimo sviare da una riflessione o valutazione o interpretazione di tipo scientifico ci lasceremmo sfuggire l’«essenza stessa della cosa», perderemmo cioè di vista la domanda:
« In che cosa consiste l’esser-brocca della brocca…?»
6 – Domanda:
E Heidegger secondo te come aggira questo dubbio legato alla scienza, posto dalla scienza ?
Risposta:
Lo fa in virtù di questa riflessione meditante: “ l’esser brocca della brocca” consiste esclusivamente nell’offerta, nell’offrire perché «L’essenza del Vuoto contenente è raccolta nell’offrire».
Seguendo al contrario la via scientifica non lasciamo alla brocca che il vuoto sia davvero il “suo” Vuoto.
Il vuoto della brocca trova la sua essenza nell’offerta. E in questa offerta secondo Haidegger «[…] permangono insieme terra e cielo, mortali e divini».
7 – Domanda:
E’ un’affermazione sublime, sublimante. Puoi spiegarcela meglio?
Risposta:
La spiegherei così: l’offerta del versare dà da bere agli assetati, quindi dà da bere ai mortali.
Ma se il gesto del versare assume il senso di consacrazione l’offerta del versare da bere si rivolge agli dèi immortali.
8 – Domanda:
L’essenza della brocca che risiede nella offerta è il suo coseggiare?
Risposta:
Sì. Perché a questa offerta che è l’essenza della brocca si può dare il nome di COSA
9 – Domanda:
Secondo te è quindi giusto affermare in conclusione che l’essenza della brocca si manifesta soltanto nell’atto stesso della offerta del liquido da versare?
Risposta:
E’ giustissimo, tant’è che lo stesso Heidegger nel suo saggio su La COSA afferma:
« L’esser brocca della brocca si dispiega ed è racchiusa nell’offerta del versato».
10 – Domanda:
Ora non posso sottrarmi alla urgenza di chiederti: «Quando, e soprattutto, come vengono le cose come “cose”»?
Risposta:
Conosco il pensiero di Heidegger anche su questo aspetto dello studio sulle cose. Lo spiegherei così.
Le cose come “cose” non vengono verso di noi in virtù o in forza di operazioni o atti dell’uomo. Ma neppure vengono a noi senza diciamo una certa vigilanza dei mortali. E Heidegger su tale passaggio è oltremodo chiaro e io così lo proporrei: con il passo indietro del pensiero puramente rappresentativo.
11 – Domanda:
Tu affermi : ‘Le cose come cose vengono con il passo indietro del pensiero rappresentativo’. Puoi essere più chiaro su questo punto decisivo dello studio su La COSA?
Risposta:
Le cose vengono a noi come “cose” se il pensiero rappresentativo inteso come pensiero spiegante-fondante fa un passo indietro rispetto al “pensiero rammemorante” . E’ grazie a questo nuovo pensiero, il pensiero rammemorante che le cose vengono come “cose”.
12 – Domanda:
Ancora una volta dunque Heidegger ci invita a un nuovo inizio di pensiero…
Risposta:
E’ esattamente così. Un altro ‘inizio’ di pensiero, o l’inizio di un nuovo pensiero, impone sempre l’esigenza di un pensare ‘diversamente’, con il passo indietro del vecchio pensiero[…].
[La domanda N.13 dell’intervista a Giorgio Linguaglossa su La Cosa di Martin Heidegger riguarda il ruolo del vasaio e del suo rapporto verso/con il vuoto.
Questo ruolo del vasaio, incentrato com’è sulle idee di ‘contenente’ e di ‘contenere’ in relazione alla ‘offerta’, merita credo attenzioni particolari ed è opportuno proporre la tredicesima domanda posta a Giorgio Linguaglossa con la sua ben articolata risposta su un’altra pagina de L’Ombra delle Parole perché in questa ultima parte dell’intervista immaginaria si affronta il senso della ‘offerta del versato’ che è cosa profondamente diversa dal ‘mescere’ il liquido dalla brocca].
Gino Rago
A fianco delle brocche (l’offerta) è determinante la questione delle pezze, quelle mirabilmente descritte da Gino Rago in più occasioni – e però metterle in campo. La scomposizione formale e i continui arresti, fanno traballare il senso e rendono incerta la lettura, sicché la brocca nel suo semplice offrirsi diventa un toccasana: una cosa di cui, per il tempo che lì si arresta, ci si può affezionare. Il tempo lì si arresta perché c’è verità, ed è verità manifesta. Dunque la verità esiste, millenni di filosofia non sono trascorsi invano.
L’incudine molle
non assorbe le grida lontane
e spesso nel vuoto dei colpi avverti un dolore.
Le spighe volentieri risponderebbero
assorte
e la sorte ingannare vorrebbero,
i papaveri rossi!
La polvere esatta, il ricordo li ammala.
Grazie Ombra.
CONGEDO ( DEL DIO GELOSO )
Il tempo non eseguiva i miei ordini: ho dovuto spezzarlo in due. Dalla ferita sprizzano ancora istanti in agonia che i mortali chiamano presente.
Lo splendore dell’amore offuscava la mia vista, faceva sospirare angeli e universi.
L’ho sposato alla morte, che lo colmi d’ossa e di vuoti.
Ebbre ed immemori, le creature del bosco edificavano dimore immortali, vestivano anime inafferrabili da ogni parola. Li ho privati di tutto, imprigionandoli nei pensieri che strisciano ai piedi delle mie statue.
Ho scavato cantine nei sogni, aperto nuove albe nell’addio, confuso ferite e giuramenti, sconsacrato il candore del silenzio. Ho fecondato col mio sguardo i penetrali di flauto in cui attende la sposa del mistero.
leggiamo questi versi di Edith Dzieduszycka:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/26/il-tempo-nella-poesia-della-nuova-ontologia-estetica-il-linguaggio-dellinconscio-commenti-e-poesie-di-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-edith-dzieduszycka-mauro-pierno-donatella-costantina-giancas/comment-page-1/#comment-34415
A terra il materiale scatola per le esche, mosche, vermicellini,
ami e mulinelli, canne, grande cestino.
In tuta verde loro, con capelli a visiera.
Si tratta di una natura morta, Stilleven Stillife, Stilleben, ci sono delle «cose» che appaiono prive della presenza umana e delle persone ridotte a «cose». C’è qualcosa in quelle «cose» come se temessimo di aver dimenticato qualcosa, cose se quelle «cose» volessero parlarci, per dirci qualcosa di essenziale, qualcosa che ci era sfuggito immersi come siamo nella nostra vita cosciente e guardinga… quelle «cose» sembrano stare lì per ammonirci, per suggerirci qualcosa che abbiamo rimosso o abbiamo dimenticato o volutamente negletto… in quei momenti ognuno di noi ha avvertito con chiarezza che quelle «cose» vorrebbero parlarci ma non possono; qualcosa avrebbe voluto venire alla luce (della coscienza) e invece è ritornata nell’ombra. Tutte quelle cose che abbiamo riportato della poesia di Edith stanno lì per ammonirci che qualcosa sta accadendo, qualcosa che assomiglia ad una epifania, o forse ad una disfania, qualcosa che sta tra le apparizioni delle «cose», qualcosa di importante o determinante che ci è sfuggito a causa della nostra estraneità, della nostra disinvoltura con la quale mettiamo da parte tutto ciò che non rientra nel campo visivo della utilizzabilità immediata. Allora, abbiamo la sensazione che qualcosa ci è sfuggito, qualcosa di essenziale…
E che cosa mai significherà quella «cosa» misteriosa nominata da Donatella Costantina Giancaspero:
un nido di vespe sul lampadario
Si tratta forse di un «nido» reale o è puramente immaginario? In entrambi i casi quella catacresi ci inquieta, ci disturba, infirma il nostro sereno e incosciente attaccamento al mondo dell’immediato e dell’utilizzabile. Quella «cosa» significa pur sempre qualcosa, ma noi non lo sappiamo con precisione, e subentra in noi l’inquietudine per non esser riusciti a cogliere quel mistero… In fin dei conti in quella catacresi è annidato un enigma che noi non potremo mai sciogliere né tantomeno risolvere mediante un atto di significazione univoca… c’è qualcosa che resiste a tutti i nostri tentativi di risoluzione di quel mistero.
Eppure, l’enigma ci parla. Solo che non comprendiamo la sua lingua.
Leggendo le poesie di Dunya Mikhail, che ho scoperto grazie agli articoli su L’Ombra della Parole, ci si imbatte in questo testo:
Novità?
Una visione fuggente in uno specchio
qualcuno mi ha bisbigliato all’orecchio
ho detto una parola e me ne sono andata
le tombe si spargono col polline
un belato durante la riunione
i giardini sono ancora pensili
le parole spargono pula
frutti non ce ne sono più
uno è salito sulle spalle di un altro
un altro è sceso nel mondo di sotto
altre cose accadono nell’ombra
non so quali
è tutto
(Da “la guerra lavora duro”, traduzione di Elena Chiti”)
Ho seguito le recenti discussioni su “la cosa” esposte nell’articolo e nei commenti di questi due giorni, purtroppo non avendo a disposizione troppo tempo per una riflessione approfondita.
Vorrei chiedere a Giorgio Linguaglossa se a suo giudizio anche in questo testo della Mikhail si possa cogliere una disfania, che si ferma un attimo prima della presa di coscienza della poetessa, incapace di definire nel finale che cosa sia ciò che accade “fuori dalla portata” dello sguardo, nell’ombra.
Le immagini che preparano la resa finale (“non so quali”), la dichiarazione della propria incapacità di dire, di riconoscere l’accaduto sono immagini ambigue, che sembrano unire vita e morte: tombe su cui si sparge il polline della fecondazione, il belato di una nuova vita che accompagna la “riunione”, giardini che ostinatamente sopravvivono, ancora pensili come nei secoli passati, parole che spargono pula, quindi qualcosa che come il polline potrebbe portare vita, ma paradossalmente non ci sono più frutti e non si può dire se sia miglior luogo dove vivere quel “mondo di sotto”, se convenga salire sulle spalle di un altro per vedere più lontano o dirigersi nel mondo di sotto: l’impressione che ho leggendo questo testo è che comunque c’è un messaggio sotteso al testo che non giunge a destinazione, che la parola del poeta cerca di convincere gli uomini ma forse neppure il poeta sa più cosa dire e certamente la sua parola non è giunta a essere compresa da chi la doveva ascoltare, e che in fondo l’enigma della scena consista proprio nella mancanza di univocità delle immagini, del racconto poetico e della possibilità di definirlo e di esprimerlo, come se appunto alla fine della lettura ci si sentisse inquieti, incerti sulla destinazione e sulla definizione di ciò che è rimasto nell’ombra. A me è sembrato di ravvisare anche in questo testo “un enigma che ci parla” e di cui “non comprendiamo la lingua”.
Forse l’unica cosa su cui si potrebbe avere certezza è ciò che Dunya Mikhail dice in “Tracce”: “chissà se indovinerete/ che a volte non c’è niente che conta”.
Sfuggono nei punti della concentrazione e come nelle parole
il nesso
che abbandona l’ancora
ha in serbo il solo fiato di esistenza vana.
Traduco in trucioli
ed efferato senso
il fondo esatto che vorrà sconvolgerti.
E poi il vortice
delle minuscole molecole
non colgono l’imperfetto canto, quello mondiale.
E questa specie di cantilena affonda.
Soltanto a capo
la sostanza esiste.
Lalie non dorme.
Grazie Ombra.
L’ha ribloggato su RIDONDANZE.
A proposito delle «disfanie» nella nuova poesia
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/26/il-tempo-nella-poesia-della-nuova-ontologia-estetica-il-linguaggio-dellinconscio-commenti-e-poesie-di-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-edith-dzieduszycka-mauro-pierno-donatella-costantina-giancas/comment-page-1/#comment-34418
cara Rossana,
tu mi chiedi se a mio giudizio anche in questa poesia di Dunya Mikhail si possa rinvenire una «disfania» o qualcosa di simile. Innanzitutto, ho una stima grandissima di questa poetessa irakena, da quello che ho letto, una delle più grandi poetesse contemporanee e la resa in italiano di Elena Chiti mi sembra magistrale, per la qualità dell’italiano intendo. Sì, a mio avviso anche qui ci sono delle «disfanie», dei pensieri sconnessi si accavallano, pensieri che si fanno strada come talpe in cunicoli, nei sobborghi del pensiero cosciente, al di sotto del pensiero cosciente, a lato del pensiero cosciente, quello governato dall’istanza auto organizzatoria dell’io. Questo penso è il modo più normale di creare disfanie, quello di interrompere lo scorrimento frastico delle proposizioni con delle scissure, delle disconnessure sintattiche… epperò credo ci sia anche un altro tipo di disfania che era quello che intendeva Steven Grieco Rathgeb quando ha creato ex nihilo il vocabolo.
Per esempio, Donatella Costantina Giancaspero crea «disfanie» mediante il corredo di metafore e catacresi, le sue sono metafore particolarissime, sono dei buchi neri della significazione perché non hanno una significazione univoca, anzi, non hanno nessuna significazione, quelle catacresi sono semafori che lampeggiano significazioni, che lampeggiano sempre la medesima significazione, indicano un nodo dell’inconscio, un gorgo linguistico che non è possibile nominare. Poi c’è il modo di intendere la «disfania» di Steven Grieco Rathgeb, lui le crea mediante lo scorrimento di fotogrammi neutrali che si ostacolano a vicenda e creano attriti della significazione, creano dei rallentamenti e delle accelerazioni, cinetismi interni alla composizione, i suoi lapsus sintattici ne sono una spia formidabile, lui crea delle sospensioni che sospendono la significazione e la mettono tra parentesi.
In modo analogo Mario Gabriele e Gino Rago alternano e sovrappongono fotogrammi a notevole velocità seguendo la linea metonimica… Ciascuno di noi adotta e adatta la «disfania» alle proprie sensibilità espressive e alle proprie capacità, la nuova ontologia estetica non è una scuola di scrittura dove tutti gli adepti devono scrivere secondo dei dettami specifici ma è una congrega di poeti che utilizzano delle categorie e delle procedure che ci sono sempre state ma di cui si è perduto finanche il ricordo visto lo stato di desertificazione che la poesia italiana ha subito in questi ultimi decenni, una desertificazione che ha favorito l’insorgere di un amalgama di linguaggi interscambiabili, tutti mimetici e tutti narrativi e tutti agevoli da mettere su carta e da replicare in innumerevoli copie…
Gino Rago
Il tempo
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/26/il-tempo-nella-poesia-della-nuova-ontologia-estetica-il-linguaggio-dellinconscio-commenti-e-poesie-di-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-edith-dzieduszycka-mauro-pierno-donatella-costantina-giancas/comment-page-1/#comment-34420
Il passato non esiste, né può esistere il futuro.
[come fa ad esistere il presente
se deve separare due inesistenze?]
Non esiste il Dopo né può esistere il Prima,
l’universo non è infinito
ma curvo o piatto nelle dieci dimensioni
coabita con l’infinito.
Esiste l’eternità? Sì, ma forse come tempo
che non passa mai
non come successione di secoli nei secoli
[eternità di massa infinita,
di massa senza moto.
Eternità di tempo troppo lento].
Spedisco dal Prima una lettera al Dopo
e il Dopo coincide con il Prima
[sullo sfondo il Nulla a dieci dimensioni].
Il Prisma coincide con la Sfera
mentre il poeta cattura nella brocca quello
che non c’è.
GR
Si accampano in questa poesia le radici della cultura greca classica da cui tutta la poesia di Rago è permeata: le intravedo non solo in quel paesaggio del mare e del cielo rievocato nelle mediazione dell’omerico Derek Walcott ma soprattutto in quel fato che si trova acquattato nel grembo della Storia: la divina “ananche” dei greci che permea il mondo e tutti gli esseri viventi da prima della loro nascita e decide la sorte di ogni uomo, rendendolo già colpevole o innocente quando ancora si trova nel grembo della madre.
Sembra di capire che in questo insieme di forze che regolano il mondo ci sia necessità e armonia; “una sola cucitura” tiene insieme le cose ma è l’uomo che porta il caos col suo agire: rotte che si incrociano, mercanti e migranti che si inseguono, i primi a ridosso dei secondi, una folla che parte e va senza meta, il silenzio perfetto appena intaccato dalla risacca del mare diventa frastuono che assorda, caos che toglie la speranza: ma tutto ciò disturba perché si accompagna al disequilibrio, al sovvertimento dell’armonia delle forme, agli esiti della ingiustizia umana che trapela nella domanda accorata della madre-contadina, la prima a percepire tutto ciò nella limpidezza del suo sguardo: “Che rimane per noi?” vuol dire che le parti non sono state divise equamente nel mondo degli uomini: fare le parti con equità richiama infatti la catena “nemein” (=dividere) –“nomos” (=legge)- “nemesis” (=vendetta), catena sempre imperfetta nel mondo degli uomini, sovvertita in qualche punto.
Ripristinare l’equilibrio è allora compito della parola, che attinge la “nuda verità” e può risarcire il conto mancante: la parola come risarcimento di tutto ciò che manca, la parola che può fare uscire l’Io dalla condanna al silenzio, quindi condanna al nulla e alla non-essenza, e che tocca con levità il punto più segreto del mondo, quello che sta nell’incanto dell’anima dove ancora si deve essere nascosta la verità.
Mi permetto di aggiungere un mio breve componimento, che trae ispirazione dalla concezione dello scorrere del tempo presso i Maya:
nel tempo che trascorre tra il momento
in cui il dio esausto del giorno prima
depone il fardello dalla gerla del tempo,
e quello in cui il nuovo dio lo raccoglie
per poter dare inizio al suo cammino:
in quell’attimo troppo timido e breve
per avere dogane o confini
lì vorrei esistere.
Dialogo a distanza Gino Rago- Rossana Levati
[sul ciclo poetico “Poesie dalle marine” di Gino Rago]
Gino Rago
La nuda verità della Parola
«Le bianche nuvole, il cielo e il mare
con una sola cucitura…»
Derek Walcott
Le piogge d’agosto sulla cala, le luci
dell’alba su scaglie di cedri
preannunciano il caos, la sorte d’un mondo
fluttuante tra un “Io” condannato
al silenzio e l’ombra d’una palma
divorata dai sali.
Non una voce
[né un suono di Afrodite]
ode il fanciullo
dall’isola del sogno alla risacca.
Si strappa le bende anche la speranza
nello studio folle di rotte, di porti,
di mercanti, traffici e migranti
ad assordare l’opera dell’uomo,
l’armonia delle forme, la sacralità
del fato nel grembo della Storia.
Con il viso verso l’alto
beveva l’azzurro
mia madre contadina, gelosa
del grano nella zolla:« Che rimane
per noi?»
La nuda verità della parola
a dire della vita e del tramonto
nell’incanto dell’anima
[ leggera
come un’ala su spiagge di sole]
in un turpe sapore di cenere insonne.
Rossana Levati
Si accampano in questa poesia le radici della cultura greca classica da cui tutta la poesia di Gino Rago è permeata: le intravvedo non solo in quel paesaggio del mare e del cielo rievocato nelle mediazione dell’omerico Derek Walcott ma soprattutto in quel fato che si trova acquattato nel grembo della Storia: la divina “ananche” dei greci che permea il mondo e tutti gli esseri viventi da prima della loro nascita e decide la sorte di ogni uomo, rendendolo già colpevole o innocente quando ancora si trova nel grembo della madre.
Sembra di capire che in questo insieme di forze che regolano il mondo ci sia necessità e armonia; “una sola cucitura” tiene insieme le cose ma è l’uomo che porta il caos col suo agire: rotte che si incrociano, mercanti e migranti che si inseguono, i primi a ridosso dei secondi, una folla che parte e va senza meta, il silenzio perfetto appena intaccato dalla risacca del mare diventa frastuono che assorda, caos che toglie la speranza: ma tutto ciò disturba perché si accompagna al disequilibrio, al sovvertimento dell’armonia delle forme, agli esiti della ingiustizia umana che trapela nella domanda accorata della madre-contadina, la prima a percepire tutto ciò nella limpidezza del suo sguardo: “Che rimane per noi?” vuol dire che le parti non sono state divise equamente nel mondo degli uomini: fare le parti con equità richiama infatti la catena “nemein” (=dividere) –“nomos” (=legge)- “nemesis” (=vendetta), catena sempre imperfetta nel mondo degli uomini, sovvertita in qualche punto.
Ripristinare l’equilibrio è allora compito della parola, che attinge la “nuda verità” e può risarcire il conto mancante: la parola come risarcimento di tutto ciò che manca, la parola che può fare uscire l’Io dalla condanna al silenzio, quindi condanna al nulla e alla non-essenza, e che tocca con levità il punto più segreto del mondo, quello che sta nell’incanto dell’anima dove ancora si deve essere nascosta la verità.
GR
Bella la poesia di Dunya Mikhail, acuto e scavato il commento di Rossana Levati.