Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta

Foto donna velata

Le parole vorrebbero immedesimarsi nelle carte da parati, o scappare

LA NAVE DEI GIORNALISTI

Le parole, poverine, vorrebbero immedesimarsi nelle carte da parati, o scappare. Perché è una sorta di eccidio, di strage: fuggono disordinatamente nell’aria, dove rimangono falcidiate, impigliate, condannate alla sparizione. Impagliate. Solo qualcuna si libera, riesce perfino a fuggire, ma senza saper dove.
Forse perché c’era quella affermazione davvero incredibile: fra trent’anni non ci sarà più la proprietà privata… Affermazione che subito si è librata sovrana sopra questi sette importanti personaggi, questa élite del giornalismo d’antan. Ora è visibile nell’intera sala. Dalla ricchissima carta da parati si percepiscono le prime avvisaglie, arrivano dai candelieri che fluttuano: uno scarto, un trasalimento, un brivido – difficile dire: poi il tavolo delle conferenze comincia a inclinarsi sempre più pericolosamente a destra, scricchiolando va a ingavonarsi sempre più giù; il lato sinistro sale pericolosamente, con i giornalisti su questo lato sinistro che si sorprendono di essere così in alto, quasi dominanti. Forse solo perché Stefano, glorioso giornalista di un grande quotidiano napoletano, ha detto quelle cose riguardo agli immigrati che arrivano sulle “nostre sponde”… e ha osato dire quella cosa sulla proprietà privata, chissà: per questa semplicissima ragione, lui e i suoi vicini stanno appollaiati lì in alto, come allocchi, a guardare i colleghi molto più in basso.

Il concetto rigorosamente non-marxista della proprietà privata quale relitto del passato abolita dalla massacrante torsione del tempo elettronico-tecnologico, di un capitalismo quindi ormai spavaldo e libero dai suoi più classici e vincolanti ormeggi, questo concetto sale dalle sette teste posizionate sopra i sette busti tutti in fila, rigidamente verticali, dietro la lunga tavola delle conferenze: sale ancora più in alto e li guarda giù, che strani che siete, ridacchiando, mentre una sua perfetta replica esce dalla porta in fondo alla sala e si insinua… qualcosa esce dalla porta, ma a ben vedere già si trova nell’andito deserto – dove i camerieri si affaccendano a imbandire i tavoli dei rinfreschi – da lì esce smarrita e piangente per la via silenziosa, buia in questa sera di metà marzo. Ma, e non so come diavolo, l’andito è pieno di una folla che parla e chiacchiera allegramente provocando un brusio così fastidioso che più volte qualcuno del pubblico si gira verso di me con un grande punto interrogativo impresso sul volto in grassetto nero: “La prego, cancelli questo paragrafo: dà fastidio, non si riesce a seguire cosa dicono i relatori”.

Quando vedo Stella Riori più avanti, nella terza fila a destra, mi sembra che le vie del pensiero siano davvero tortuose. Sembra che le vie siano tortuose, ma sono perfettamente diritte, e vengono da un passato molto più lontano. Ciò che Stella disse a cena tre anni fa, nella sala da pranzo della sua lussuosa casa, a chi commentò sulla finezza di quella porcellana: “Sì, questo servizio di piatti lo regalò Napoleone III a mia nonna”. In quella occasione lei fu profeticamente capace, con quel semplice passato remoto ‘regalò’, con il suo intrigante sapore arcaico, di evocarmi il presente in questa elegantissima sala conferenze della FUGA, Federazione Unitaria Giornalisti d’Antan. Perché la gente del pubblico, mentre ascolta i giornalisti parlare della catastrofe, maneggia quei piatti quasi come fossero pensieri, li guarda li studia e li ammira. E il tavolo e i giornalisti s’inclinano tutti a destra: e la gente non sembra rendersi conto di cosa potrebbe succedere se l’inclinazione aumentasse ancora. Eppure dovrebbero capirlo da tutti quei preziosi piatti che passano di mano in mano, quei piatti che rischiano di andare in frantumi ma hanno dentro tutta la linea storica discendente da Napoleone III a noi; e sono i giornalisti-marinai che veleggiano sghembi e quotidianamente sopravvivono al proprio naufragio.

Questa linea così dritta rappresenta gli inizi di un presente assoluto che a sua volta è l’inizio prima degli inizi, poiché l’oggi è assoluto e tutti i giornalisti non fanno, con il loro scrollare di testa, che sottolineare questo fatto incontrovertibile: che il passato possiamo solo viverlo in questo eterno istante presente. Allora è come se affiorasse un qualcosa e mi chiede: “Cos’è ‘Disfania’?” … Già, ‘disfania’…: “Non è per caso una semplice afonia, o una cacofonia?”. “No”- ribatto, sicuro di me – “è l’involversi, ripiegarsi, dilaniante attorcersi su se stessi: il cocciuto, perenne, irriducibile interrogativo”. “Non mi basta, sai?”. Allora cerco numi dal voice recorder: ma quello, mascalzone, risponde sempre come piace a lui: “L’Io è in perpetuo movimento, è sempre qualcun altro, qualcos’altro. E’ il tempo strabiliante. Ma a te e alla tua domanda do una buona notizia: abbiamo già scienziati al lavoro per bandire per sempre la notte. Allora tutto sarà chiaro”.

[Steven Grieco Rathgeb, foto di Chiara Catapano]

Ecco che la scena si appronta e tutto ricomincia. Ci fascia la sala elegantissima che brilla di passato. La luce dei candelieri di Murano sopra alle nostre teste brillano di passato. Si dia inizio ai lavori! Tutti insieme sentiamo profonda ammirazione per questi sette uomini, per la loro insopprimibile, umanissima, virile volontà di non farci incorrere nella disgrazia, di non farci soccombere alla sciagura: queste sette figure sedute al gran tavolo delle conferenze. Di colpo spio me stesso rispecchiato laggiù, in un angolino nascosto della parete, che seguo attento l’incontro-scontro fra questi sette grandi luminari dell’informazione. Siamo tutti orecchie.

“E’ sabato”, esordisce Niccolò, autentica star del giornalismo, una vita spesa come corrispondente da New York – la meravigliosa, irripetibile New York di allora-: “Il bicchiere di plastica, in questo pomeriggio molto ventoso di marzo, viene sospinto dalle raffiche e scende via Monzambano saltellando, rotolando e sbatacchiando sull’asfalto. Sì, via Monzambano, proprio dove abiti tu”, ripete Niccolò, e guarda quell‘angolino dove io, nascosto, mi rispecchio. “Quel bicchiere leggero, spensierato, vi faccio notare: leggero e spensierato. Ecco il grande problema dei nostri tempi”. E qui Niccolò alza le sopracciglia significativamente fino a farle raggiungere il soffitto, un soffitto altissimo, come si conviene ad una importante sala convegni come questa.

“Ma non poi così spensierato”, fa notare Orfeo, suo glorioso collega, nativo di Bergamo, una vita spesa a Milano al servizio della stampa di altissimo livello… Sì proprio lui, che fu il primo ad annunciare per radio, nel lontano ’75, la strepitosa vittoria del generale Võ Nguyên Giáp: “Non così spensierato, voglio dire, quanto la impudente baldanza del bicchiere accartocciato sia la nostra coscienza sporca, metamorfizzata nei mille sorrisi impietriti della plastica di cui lui si è fatto vettore, spensierato, frivolo fanciullo. Ullo ullo”.

La folla di attenti ascoltatori ha un moto di disagio, esterrefatta che un giornalista della sua fatta – del suo peso specifico, si badi bene – intoni un ritornello così significativo. “Ma che, è andato?” sussurra il mio vicino. “Mi permetta, è proprio lei che non ci sta con la testa: perché invece, sotto sotto in quel ritornello si percepisce un senso di perdizione”, dice una signora al mio vicino: “Sì, qualcosa proprio di distopico (e qui guarda me con una certa durezza!!!): e ne sono conturbata. Non me lo sarei aspettato, proprio qui, nella storica sede della FUGA; e poi da uno della levatura di Orfeo, grande firma dei tempi che furono”.

Lo guardo rotolare giù per la mia via e devo dire che, in effetti, pur sembrando indifeso, non è poi così indifeso. Hanno ragione i luminari. L’altro giornalista aggiunge: “Come dicono gli americani, ‘we’ve done nothing wrong, we think – and see, the oceans are full of plastic’”, torcendosi le mani in disperazione. Chiedo in un sussurro al mio vicino chi è il leggendario giornalista che sta parlando in questo momento. “Ma è Umberto, non lo riconosce?”, mi risponde con lo stesso sussurro. “Ah, certo. Grazie”. “Noi giornalisti ci siamo sempre mantenuti nei limiti della ragionevolezza, non abbiamo mai esagerato”, sta dicendo Umberto. “Sempre con quel suo magnifico aplomb – mi sussurra il mio vicino – quel bel contegno da naufraghi dell’albero fiorito. Ma per tutti questi giornalisti il vento è così forte da oscurare con il suo rombo le loro voci, ch’essi registrano”. “Non ho mica capito, sa?”, dico io. Ma subito la nostra attenzione torna al tavolo delle conferenze, perché ci sorprende il “fruscio della carta”, leggendario rumore che fa trasalire ogni bravo giornalista: infatti, dalla testa di Umberto in questo momento sta uscendo un’immagine, la vediamo tutti: le presse piano-cilindriche a vapore, i lavoratori in canottiera e con i volti neri che lavorano giù in tipografia; il trafelato, glorioso, giovanissimo cronista sopraggiunto nel mezzo della notte, un attimo prima che il giornale vada in stampa! Ed ecco, lo scoop!
Il palo della segnaletica!

Foto donna tra i veli

“Siamo arrivati, signori. Siamo arrivati, non c’è dubbio.”

“Siamo arrivati, signori. Siamo arrivati, non c’è dubbio”. Questo Umberto sta dicendo. Già arrivati? Già adesso che ancora siamo all’inizio di questa conferenza dal titolo, “Il futuro del giornalismo stampato: picco o naufragio?”, questa madre di tutte le conferenze? Mi vien quasi da ridere da quanto la tristezza mi avvinghia. “Cinquant’anni di giornalismo – sta dicendo – partendo proprio dalla naia, sì, da quei primissimi anni in cui , correva l’anno 1959, se ricordo bene, facevo l’umile cronista, ma per un grande giornale, si badi bene, una di quelle testate che non esito oggi, oggi che mi trovo accerchiato dalle macerie, ovunque le macerie, a chiamare ‘gloriose’! Scarpinavo per le vie a raccogliere qualsiasi briciola di notizia: ed eran vie, vi faccio notare, molto diverse dalle vie di oggi…”. Ormai è chiaro che Umberto ha rubato la scena sia a Stefano che a Niccolò. Sta per dire qualcosa di memorabile, lo sentiamo tutti… A Umberto, uomo grande e poderoso, sembra incavarsi il torace; si toglie di colpo la parrucca di capelli radi e grigi, perché la testa possa scendergli giù e entrargli in quell’incavo: “Le vie, dicevo, ben ordinate di allora…- ed ecco, infine Umberto sgancia il clou della serata – … Sì, quando tutti i pali della segnaletica stavano bene in piedi, bene in verticale rispetto all’orizzontalità del suolo…”. Già così presto il clou? Ma se abbiamo appena iniziato?

Eppure un brivido attraversa la folla. Un forte mormorio di approvazione. Noi più giovani non abbiamo, ahimè, memoria di quella verticalità: è da mo’ che i pali della segnaletica stanno piegati. Accidenti però, penso io, da tempo avviato per la strada buia, guarda come riesce un grande giornalista, ancora al giorno d’oggi, a fissare la realtà complessa delle cose con una semplicissima immagine!

Interviene Alberico, il moderatore: “E mi permetto di aggiungere qui, che il pericolo più grande oggi – la sfida che tutti, dico tutti, ci troviamo a fronteggiare – è che il flusso random d’informazioni d’un tratto ingavoni il mondo. Pendere giù, come dire, tutto da un lato. Signori miei, qui si rischia il naufragio. Altroché.”
Gianrico, altra significativissima firma del miglior giornalismo, che con simpatica informalità gli amici chiamano Gianni, dice: “Non ci vuole mica poi così tanto, sapete. Può succedere così, di colpo”.

“Sì”, annuisce gravemente Stefano, da sempre a capo della gloriosa e storica scuderia di quell’altro grande quotidiano del Nord, di cui ora non ricordo il nome: “E con tutta la conseguente produzione di hardware nei mercati emergenti, ciò a sua volta determinererebbe un inabissamento ancor più rischioso. Il pericolo è, in effetti, molto, molto alto… Non si parla qui di un semplice tramezzino e un buon sorso di Prosecco”, aggiunge con sorriso indecifrabile.

“…Un grande giornale, badate bene – riprende Umberto – un giornale che mi ha insegnato il mondo”. E mamma mia! Tutto questo brusio, questo continuo viavai fuori: cosa succede là, all’ingresso, alle nostre spalle? …Che poi, in effetti, adesso è il davanti, non il dietro, di questa incantevole palazzina Anni 20, storica sede della FUGA, poiché ne costituisce l’entrata… Ma una volta che noi tutti siamo entrati nella sala delle conferenze, non c’è niente da fare, l’entrata risulta essere l’uscita. Siamo noi in sala ad essere girati dalla parte sbagliata. Non c’è proprio niente da fare. Ci hanno turlupinato, ecco cosa. E quindi cosa succede là nell’entrata, o all’uscita, come dir si voglia? Chi sta parlando, quali impellicciate signore e primordiali gentlemen con in mano lo smart phone così spesso illuminato di novità, di breaking news, di notizie fresche fresche, parlano, vociano bisbigliano di qualche orribile catastrofe?
Intanto Umberto continua: “Signori miei, siamo proprio arrivati”. E subito si corregge: “Eh, voglio dire, siamo arrivati QUI: e quando una società non sta più bene, il segno inconfutabile del suo disagio è costituito dai pali della segnaletica per le vie che stanno piegati di lato”.

“Qualcuno l’ha fatto di notte”, interloquisce il suo vicino, niente po’ po’ di meno che il grandissimo Alfonso, astro del giornalismo sportivo torinese degli anni ’60 dal sorriso affascinante, sapiente affettatore di notizie fasulle: “Lo fanno sempre di notte”. La notizia – che ciò accada di notte – è totalmente inaspettata, un colpo di frusta che ci lascia sconcertati. “Se mi fai finire, caro Alfonso – interrompe cortesemente Umberto… – sono sempre i vandali della notte che dirottano le nostre società, portandole sull’orlo del baratro. Incappucciati, correndo per le vie, spiccano grandi salti. O allora un ubriaco, un babbeo che non ha capito niente dei nostri modi, della nostra civiltà, istupidito dai fumi dell’alcol dopo un festino in casa di amici, sbatte con la macchina contro quel malaugurato palo: in questo modo piegando la segnaletica, piegando le direzioni e gli stessi sensi delle cose, non soltanto il senso unico delle cose, ma doppi sensi, voglio dire, i dubbi, insomma i leciti interrogativi. In una parola: questi vandali piegano la doppia percorribilità del nostro civile e civico vivere. E il loro stato di incoscienza non gli dà nemmeno modo di capire cosa realmente hanno fatto. Qui sta la tragedia del nostro tempo”.

Noi del pubblico trasaliamo di fronte a tanta dolorosa verità. “Sì”, annuisce Stefano, attempato, alto, anche lui profondamente incavato su se stesso, ma ciononostante perfettamente d’accordo con Umberto: “Certo, certo.. se però, Umberto, mi fai finire… i pali della segnaletica piegati in giù, sì: ma, non a terra, faccio notare: non del tutto a terra. E’ questo il punto: è il loro esser sghembi la nostra prova immarcescibile”.
“Il palo siamo noi!”, grida qualcuno seduto due o tre file dietro di me. Rabbrividiamo, la tensione è altissima: la fine della proprietà privata, i tramezzini, l’entrata che in questo esatto momento è diventata uscita come per deriderci o farci un torto. Molti non reggono, si alzano silenziosamente e si dileguano con eleganza, solo qualche tremito ne tradisce il turbamento.
“Siamo noi”, assentono gravemente tutti i giornalisti in coro, muovendosi lenti e pesanti nelle sedie. La nostra ammirazione per loro si fa sconfinata.

“…Un ubriaco in macchina… – insiste Gherardo – o qualcuno, chissà chi, nottetempo, che si è divertito a sovvertire le nostre direzioni. Due o tre ragazzoni, dopo una serata in discoteca, correndo e sbraitando per la via – lo sapete anche voi come i giovani son pieni di questa insopprimibile vitalità, no? Spiccando un gran salto si sono aggrappati in due, in tre al palo: e il palo si è piegato giù, si è piegato fin quasi giù a terra, per non segnalare più un bel niente, non spiegare più in modo corretto i sensi e le percorribilità delle nostre società…”. “Un vero inferno”, si lascia scappare qualcuno che si è affacciato alla porta, la bocca piena di tramezzino e il bicchiere di Prosecco in mano, proveniente da quella maledetta entrata-uscita dove molti altri imboscati già si affollano ai tavoli, scolando vino e ingollando panini.

Di nuovo si scrollano i pesantissimi giornalisti, come svegliandosi e risvegliandosi da una profonda meditazione sulla vanità delle cose. “Che sbornia. Che immensa sbornia”, dice Umberto. Il tavolo delle conferenze, pericolosamente inclinato sulla destra, scricchiola, imbarca distanza, tempo, spazio. Sprofondando a destra, i giornalisti non sembrano avvedersene: questo il bello del giornalismo di marca, questi gli aristocratici della notizia stampata, portamento eretto, fronte alta, intelligente; non sono niente se non solidali fra di loro, sempre d’accordo su ciò che conta davvero. Tutti e quattordici gli occhi, un solo occhio intensissimo che guarda qualcosa di non visibile: un piano metafisico negato a noi comuni mortali. E’ la lungimiranza, penso, ammirato: perché anch’io, tutto sommato, non vedo quello che pure è perfettamente visibile. Da tempo cammino nella via buia. Tu, in fondo, hai una pensione di cui non mi posso lamentare. Nel voice recorder la mia voce muore: adesso il buio e vastissimo silenzio, sussurrato, attonito, dispiega l’accadere del mondo. Il bus 649 passa veloce e invisibile da Piazza Indipendenza diretto a Termini, a Conte Verde, ai luoghi rimembrati ma inafferrabili e infinitamente tristi.

[S. Grieco Rathgeb nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Lettera a Adeodato Piazza Nicolai

Caro Adeodato,

ti ringrazio del tuo pensiero, la tua offerta di tradurre la mia poesia “Bohor”, comparsa qualche settimana fa su L’Ombra delle Parole. https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/24/chiara-catapano-dalla-disfania-allindicenza-della-parola-poetica-loriginalita-come-nostos-ritorno-allorigine-con-poesie-di-d-h-lawrence-giorgio-linguaglossa-steven-gr/ 

Sarà difficile che io traduca “Bohor” in inglese. E ti dico subito perché. Da quando avevo circa 20 anni, la questione di scrivere poesia per me era già stata superata dalla impellenza che sentivo di lavorare invece su come e perché si scrive una poesia. Tutto per me stava nell’angosciante non-essere della poesia, nella sua atroce futilità. Dopo Eliot, Pound, Auden, Hughes e Sylvia Plath, l’inglese non offriva quasi più nessuna pregnanza in materia di scrittura poetica, ma solo déja-vu, piccoli epigoni che dicevano ad altri come scrivere, e quel loro intendimento su come scrivere era: “mettersi in riga! scrivere un testo gradevole, compiuto, ‘significativo’ (ma non troppo), soprattutto stilisticamente all’altezza della sacra (ma in realtà più riduttiva) ‘tradizione letteraria inglese.” Un prodotto morto all’arrivo. Qualsiasi spericolata manovra per aprire le fessure della lingua e pervenire a nuovi sensi delle cose, nuove suggestioni, non erano in genere ammissibili. Lo stesso Eliot aveva, una volta scritti i suoi capolavori, messo in guardia dalle avanguardie (!!), dall’ardire, dallo spericolato inoltrarsi in luoghi sconosciuti per dire l’Oggi. Certo, allora, negli anni 1960-80, esistevano tentativi di uscire dal cerchio incantato della mediocrità – ce n’erano tantissimi – ma io sentivo che erano quasi tutte navi che andavano alla deriva.

Nel 1970-73, anni per me parigini, avevo iniziato a verificare quanta estraneità ed alterità la lingua mi avrebbe consentito di esprimere, prima di dirmi: “caro ragazzo, penso che tu stia esagerando”. Scoprii che però questi limiti erano generosissimi, E che questo si era sempre fatto anche in passato, altri poeti si erano cimentati in questo senso: ma rientrando loro ormai nell’alveo della ‘sacra tradizione i loro esperimenti non erano più visti come esperimenti, le loro sperimentazioni erano diventate invisibili, facevano ormai parte della tradizione. Ma un tempo non lo erano stati affatto. Questo vale anche per i Romantici nei loro momenti più spericolati, e in questa categoria rientra comodamente anche un gigante inattaccabile come Wordsworth. Io amo Wordsworth!

A Parigi scoprii che la lingua era generosissima, dea dal grande ventre e con la vulva esposta, dea che tutti credono puttana ma è in ogni attimo supremamente e inaccessibilmente vergine: era lei il mio Eterno Femminino, il mio das Ewig Weibliche di Goethe. Insomma, la Venere di Willendorf

(http://www.theenglishgroup.co.uk/blog/2012/03/08/venus-of-willendorf/)

Lei mi avrebbe fatto fare tutto quello che volevo, e quando non fosse stata d’accordo mi avrebbe colpito, buttato giù, e lasciato a piangere disperatamente nel fango del non-senso.

E dunque, ho negli anni imparato e mille volte disimparato cosa è il ritmo del verso, cosa la risonanza interna della lingua, questo gigantesco antro uterino, questa cupola così somigliante alla finita-infinita cupola del Duomo di Firenze, che in potenza e visionariamente racchiude in sé tutto lo scibile della civiltà occidentale. Qualsiasi scienziato che ignaro usi la lingua per fare ricerche e comunicarle agli altri, non capisce una realtà profonda: che tutte le sue scoperte, le sue ricerche sono Nulla senza la lingua. E siccome la lingua ab initio è stata usata musicalmente, ritmicamente – il mondo germogliava da sonorità-ritmo-melodia-senso – per questa ragione all’origine della lingua (una origine che non è mai ferma, costantemente sfugge, costantemente cangia e non ti mostra il suo punto iniziale perché sempre diverso) sta una figura davvero particolare: il Protopoietis,  अदिकवि l’Adikavi degli Indiani, il Primo che favella, Colui che pronuncia, ‘dice’; e che quindi nessuno scienziato, nessun businessman, nessun poeta dovrebbe mai dimenticarsi della meraviglia della lingua, che egli usa anche in sogno, lingua che è di fonte ignota ma usata dagli uomini quotidianamente, come se appunto fosse soltanto la loro puttana.

Tutto ciò non sembri una mia esagerazione: sono specificamente questi punti cangianti della realtà nei quali vivo in ogni momento del giorno, e che informano la mia scrittura. Una solitudine meravigliosa, che mi ha fatto capire la gioia di questo mondo, il suo segreto significare. Per questo anche, chissà, parte della mia scrittura non è forse andata a buon fine: perché la mia lingua-padrona è durissima, e non contempla ciò che “può, forse, andare bene”. Io ci provo, io pubblico, io metto un post, ma lei decide, e il suo giudizio sarà inflessibile e inappellabile.

Scusa, Adeodato, ritorno alla questione: in inglese quindi, la mia ricerca linguistico-stilistica è andata avanti in massima parte con un lavoro sulla qualità ritmica del verso: un mio forte tentativo di frenare il lettore nel leggere un testo in modo troppo vorace e banalizzante, per quindi dargli modo di pervenire al miracolo di ciò che viene detto; per questo ho lavorato sulla relativa velocità del verso: il veloce è lento, il lento può essere velocissimo. Questo, in inglese. Negli anni ho anche capito che l’uomo deve streben, struggle, faticare per nessuna ragione. È così, e basta. Il compimento sta nell’averlo fatto, come ha detto Donatella Costantina Giancaspero l’altra sera, illuminandomi.

Ovviamente, lavorando sulla qualità ritmica, trovi su quella strada tutte le questioni relative a sintassi, semantica, etc. etc.

Parlando di ciò: hai visto cosa fa Beckett con la lingua? Hai capito il senso della compressione quasi folle che egli opera sul ritmo del suo dire? Stringe le maglie proprio perché tu non possa fruirlo di colpo, e quindi da solo rovinarti l’eventuale epifania che quelle parole potrebbero riservarti. Io non avevo mai amato Beckett, l’avevo sempre rifiutato. Solo ultimamente ho capito la sua grandezza: ciò che può sembrare minimalismo è in realtà furente compressione, metabasi, attraversamento da uno stato, da un paradigma del mondo, ad un altro. Questa cosa, detta meglio, la leggi nella impeccabile presentazione di Chiara Catapano alle mie sgraziate Disfanie.

Nella lingua italiana, a lungo sono stato un po’ timido. Anche qui però avevo iniziato negli anni ‘70 una sistematica ricerca linguistico-stilistica, perché mi era ovvio che la situazione tapina della poesia inglese era in realtà un problema poetico globale, e sicurissimamente condivisa anche dalla poesia italiana. Ma avevo paura solo di combinare pasticci. La lingua italiana mi fa spesso impazzire: come un cavallo che non vuole muoversi: frusto i suoi fianchi, bestemmio, cado in un deliquio, mi risveglio e impreco (sapendo benissimo che il problema è in massima parte mio); poi d’un tratto quella parte al galoppo e io vengo disarcionato… Insomma, non si vince. Ma questo è comune a tutti i poeti, anche se scrivono in una lingua che è in famiglia da mille anni. 

“BOHOR”

Dalla finestra? sembra piovere una luce densa, bagnata
pozze-gialle, macchie sul tavolo colano giù.
Il corpo è di qualcuno nel quadro: dettaglio non trascurabile,
sebbene sia dipinto:
le due pennellate sotto i glutei, l’opaca intrasparenza
di un’estrema fragilità:
esse e ad ogni suo muoversi disossato, gli indelebili
trauma-segni dei lager,
e lo sfrenato egoismo, le discoteche di generazioni future,
nella inesorabile discesa nel Tempo.
Penso che sia non so se luce a macchiare come un prodigio
capelli e testa di turchese:
il volto scimmiesco che volge lo sguardo verso, se veramente fosse
la finestra, spaventato.
Poi nella testa compare un altro volto, indietreggiato,
che fissa con più concentrata serietà. E per quanto agio
vi sia nel grande appartamento parigino
la figura deve inghiottire terrore,
un uomo o una donna imbarazzati nel proprio corpo:
terreno che sbraita il sacro, la sua spazialità illimitata
dilaga attraverso gli oggetti e l’aria vuoti
perché solo si dipinge.
E il suo corpo appare senza un dentro, trapassato di luce,
i suoi massacri ridotti a solo pigmento, per impedire. Ai glutei azzurri.
Un terzo volto-cane turchese ha il muso sopra, come copricapo:
per quanto agio vi sia nel grande
appartamento, questo che è solo immaginazione nel corpo
ed è fermo nel suo stupore.

Giugno 2017

Allora: io certamente non sono però in grado di tradurre il mio “Bohor” italiano in inglese. Non ho il sufficiente distacco da me stesso per poterlo fare. Già il mio tentativo di tradurre mie poesie inglesi in italiano per la raccolta Entrò in una perla, che ho pubblicato nel 2016 con Mimesis-Hebenon, lo considero un fallimento interessante e in parte riuscito, ma che mi ha anche procurato mille dubbi e sofferenze.

Tornando di nuovo alla mia poesia “Bohor”: qui tutto dipende da microfratture e costruzioni asimmetriche che a prima vista appaiono sgrammaticate (e qualche volta lo sono!) ma che essenzialmente saggiano ciò che ho detto prima: quanto può la lingua accogliere la sua propria estraneità? Microfratture è la parola con cui definisco le costruzioni sintattiche semantiche che uso in una poesia come “Bohor”. La poesia l’avevo abbozzata l’anno scorso a settembre, poi del tutto dimenticata (ne ho altre così: le dimentico, e un giorno saltano fuori come il Cristo nel trittico di Isenheim!). E io che stupidamente pensavo che fosse tutta da riscrivere, “perfezionare”… Ma come faccio? Non ho tempo, maledizione, con tutti i lavori di traduzione che devo fare per sostentarmi e che lentamente mi stanno essiccando come uno stoccafisso. Ti ritrovo “Bohor” qualche settimana fa, e vedo che questa poesia, “svestita” e “spezzettata” com’è, in realtà è finita. Quello che avevo cercato di fare allora – sbarrare il passo alla troppo facile fruizione del lettore – mi è riuscito.

In modo leggermente diverso, questa stessa “tecnica non-tecnica” – intendo un metodo di composizione lentissimo, estenuante, con il minimo intervento razionale (ma un po’ ci vorrà sempre, non se ne può prescindere), grazie a cui il dettato poetico esce lentamente dal pensiero, ma con la sicurezza della seta che esce dalla bocca del ragno, – questa cosa l’avevo usata in diverse poesie 2015-2016, ma particolarmente in due poesie che ho scritto nell’estate del 2016: “Quando il treno rallenta a Settebagni” e “Supersimmetria del verso 22 di ‘Quando il treno rallenta a Settebagni’”. 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/07/26/steven-grieco-rathgeb-dieci-poesie-dimensioni-di-un-cerchio-e-supersimmetrie-un-prosimetrum-inedito-di-steven-grieco-rathgeb-poesie-come-installazioni-di-inchiost/

Il sistema di microfratture, dicevo, idealmente vorrebbe frenare il lettore dalla troppo facile fruizione della poesia, lasciando però intatta la sua capacità di esperienza epifanica, che gli giunge fra senso e nonsenso. Per parafrasare Mani Kaul, l’epifania, o meglio il significare, non sta nel dettato poetico, ma nelle giunture fra due pezzi di “significazione”. Sta in quel vuoto, capisci Adeodato? Capisci la meraviglia della poesia? Mani Kaul l’aveva capito nel cinema: l’attimo fra un fotogramma e il successivo. Io l’avevo capito dalla fusione a cera persa, così come l’ho vista fare una volta in India: un attimo prima che il bronzo inizi a colare nello stampo, e la cera si è già disciolta, in quell’attimo lo stampo è vuoto, e allora l’opera inesiste, ma è colma di ogni futura potenzialità! Capisci la bellezza del nostro fare, Adeodato? Del resto, basta leggere l’autobiografia del genialissimo e gradassone Benvenuto Cellini, per godersi l’impareggiabile descrizione di come andò con la fusione del suo “Perseo”. Me l’ha fatto capire anche Giorgio Linguaglossa, dicendomi più volte: “non curarti di niente! Vai avanti, fai quello che puoi.”

E non penso che molti fra i massimi musicisti di musica classica contemporanea abbiano fatto alcunché di diverso. Studiando per lunghi anni questa musica, chi ci ho ritrovato dentro? Me stesso! E tutto il mio mondo! Insomma, quello che facevano loro, lo facevo da tempo anch’io. Quando viviamo nello stesso tempo, e cerchiamo di esprimere il nostro mondo, le sottili affinità fra noi sono tantissime, seppure rimangano invisibili fino a quando non andiamo a scoprirle. Questo ritrovarsi intellettualmente ed esteticamente con quei musicisti mi ha però dato conforto negli anni: non sono solo in questo universo!

Un carissimo saluto, Steven

P.S.

In realtà “Bohor” è forse un titolo provvisorio per questa mia poesia. È invece il titolo di un pezzo elettroacustico di Xenakis, possibilmente il pezzo di musica classica contemporanea più rigoroso, più alto, e più disarmonicamente armonioso che io conosca. Sì, è proprio quel suo rigore compositivo che porta il pezzo a trasformarsi da rumore in sovrana armonia. Insomma, ho dato questo titolo alla mia poesia, perché doveva essere un innocuo tranello per il lettore intraprendente, che così, leggendo la mia poesia sarebbe andato a cercare il significato del nome e avrebbe incontrato l’omonimo pezzo di Xenakis su Youtube, corredato di quel magnifico quadro neo-espressionista di non so chi, non riesco a trovare l’autore. E avrebbe anche, chissà, deciso di ascoltarsi il pezzo di Xenakis. Comunque questi due pezzi – il quadro e la musica – sono inestricabilmente intrecciati con il mio pezzo. Giuseppe Panetta l’ha capito bene.

Foto in metro vuoto

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta

Giorgio Linguaglossa

Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del novecento. La Crisi del discorso poetico è la Crisi delle Parole

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile

e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…

Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

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13 risposte a “Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta

  1. Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del novecento. La Crisi del discorso poetico è la Crisi delle Parole

    Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta


    Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile

    e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

    Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

    Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

    Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…

    Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

    Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

    A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

    Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

    Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

    Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

    Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

    Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

    Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

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    • Mi permetto di aggiungere subito qui, dopo il primo commento di Giorgio, ciò che segue:

      DIALOGO INTRODUTTIVO A 7 DISFANIE: HIROSHIGE E L’AUTORE NEL SILENZIO E NELLA PENOMBRA DEL MUSEO “LE SCUDERIE” A ROMA

      “Hiroshige Sensei, esiste uno strano autobus a Roma. E’ il 717. Del tutto parallelo al 714, quasi ma non del tutto sua ombra, anche il 717 sembra iniziare da Termini, seguendo un percorso simile – San Giovanni, Amba Aradam, Piazza Numa Pompilio, la Cristoforo Colombo… ma poi di colpo, a Piazza Navigatori piega la via rispetto al suo più usitato compagno, e si dirige verso Odescalchi, che non è affatto un capolinea, perché da lì il 717 prosegue verso Termini.”
      “E’ semplicemente una circolare. Non ho mai visto l’ombra staccarsi da ciò che la getta. Questo fa l’artista, vorrai dire: coglie il suono prima che le due mani s’incontrino, ed è un sovra-tono. Cogli anche tu l’ombra nel suono.”
      “Ma è strano: il 717 passa solo il mercoledì, dalle ore 15 alle 18.”
      Nel silenzio crepuscolare della sala del museo, l’antichissimo artista dà segni di impazienza.
      “E di solito è vuoto, – proseguo –. Quel pomeriggio lo presi da Termini, fino alla seconda fermata in via Merulana. Traghettava sconosciuti, pochi individui taciturni, seduti chi davanti chi dietro, ma tutti assorti in qualcosa che succedeva fuori, nelle piazze e per le vie, e che io non riuscivo a vedere. Poi mi accorsi che andavano insieme a quel capolinea circolare, ininterrotto, si vedeva chiaramente dai loro visi, anche se cercavano di nasconderlo. Forse là, dove la vita mostra la sua curvatura infinita.”
      “Pensavi ciò che tu chiami ‘asimmetria’ solo di noi giapponesi? Trovarsi soltanto da questa mia parte del mondo, dove qualche millennio fa il tempo si piegò? Sbaglieresti.”
      “Una donna, si è avvicinata a me, mi ha sussurrato: ‘se non vogliono prendere il 717, c’è il C3 – l’autobus, anche lui circolare, che porta al cimitero Flaminio. Ma quello fa le corse solo di sabato e di domenica. E, diversamente, passa proprio sotto Santa Maria degli Angeli.’ Che c’entra, le ho chiesto? E lei: ‘basta guardare su verso il cielo, di sera, quando l’ultimo sole illumina la facciata in alto di luce dorata; vedrai solo i gabbiani, maestri timonieri dell’aria.’”
      Nel silenzio e nella penombra del museo, dalle xylografie escono quasi urlandomi i corpi, le acque, le distanze di questo artista. Allora esclamo:
      “Ma allora, tu ed io siamo uno? Io qui sto descrivendo quello che tu fuori dal quadro descrivi! Sono quindi la tua superficie speculare?”
      “No. Nemmeno il vetro ci divide. La mia finestra sul mondo è il tuo rifletterti: ma soltanto perché la tua era è un po’ più irreale della mia. Nessuna cosa è uguale.”
      “Lo so, Hiroshige Sensei. Siamo rimasti con le pezze al culo, ma è come indossare broccato. Tu eri vegetariano, e i tuoi uccelli sono più profondi. Non c’è rumore nelle tue precipitose cascate.”
      “Così vengono suggerite la possenza e il frastuono.”
      “Fra le tue onde tumultuose, sono un alato contrappunto gli uccelli, pezzetti di cose bianche che s’involano. Hiroshige Sensei, fammi guardare il gran libro delle tue xylografie! Fammi guardare, e a lungo meditare le molte lune nelle tue risaie, i tuoi collegamenti ipertestuali. Riempimi del tuo soffio!”
      L’antichissimo artista non risponde.
      “C’è in te una strana fissità e uno strano movimento. L’uno è l’altro, l’altro l’uno. Onogauraura*.”
      “Ho preso la fissità del paesaggio, e il movimento del paesaggio: li ho separati, e poi rimessi insieme.”
      “Ma non c’è punto di convergenza! Tu sei fra coloro che hanno illuminato me, artista occidentale, quando ero ancora imprigionato nella prospettiva.”
      “Il monte Fuji è lo sguardo che sempre ci sfugge.”
      “Io lì ho visto una divaricazione: sì, in quel punto di convergenza ho ravvisato una divaricazione. Allora, dimmi, cosa sono le disfanie! Da dove sono venute?”
      “Ti ho già detto tutto,. La pioggia quando cade fitta è ferma.”
      “Insisto, Hiroshige Sensei: perché queste disfanie, queste lacerazioni nell’intimo?”
      “Del bufalo io ritraggo la resilienza, non l’aspetto esteriore. Nei tempi chiusi, questo appare come disfania. Non ho fedi.”
      “Ma quanto per noi, oggi, sta nell’asimmetria!”
      “Cosa vuoi dire? Stai ingannando te stesso? L’essenza delle cose non torna come una somma. Consulta i matematici.”
      “Eppure il battito di una sola mano è pura obliquità, piegatura del reale!”
      “Sarà anche vero. Ma chiediti meglio: in esso cosa odi?”
      “Uno stridio dolce, che mi ricorda mille e mille cose… che la giornata, ormai primaverile, è così quieta, il sole è mite. Tutto si scioglie in una dolcezza ovunque. Poi, veloci forme oscure, ombre che passano saettando davanti alla finestre.”
      “Ci vuole così tanto a capirlo? Tu sei, come me, innamorato del mondo.”
      “Hiroshige Sensei! La prima volta che vidi, nel giardino toscano, il cotogno fiorito, rimasi a lungo imbambolato a guardarlo.”
      “Il fiore guardava te. Le rondini volano silenziose come l’ombra di una sola mano.”

      * Onogauraura: “ciascuna riva è l’altra”, un riferimento nei waka Heian alle cose che sono appaiate e spaiate nel contempo. Simile al senso del famoso “ni”, incrocio di sì e no.

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      • caro Steven Grieco Rathgeb,

        Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta


        qualcuno ha scritto sul muro: «Il Nulla non ha direzione». Verissimo. Un noto filosofo marxista ha scritto una volta su un libro: «Il Tutto è falso», mandando a farsi benedire la dialettica hegeliana e anche quella marxista una volta per sempre. Ergo, ne deduco che oscilliamo tra il falso del Tutto e la indirezione del Nulla, ci muoviamo a tentoni tra le disfanie e le discrasie. Madame Hanska dall’Alaska mi spedisce una cartolina piena di ghiaccio con su scritto: «Ci sei? Sei Tutto per me». Ed io le rispondo: «Mia cara Musa, tu sei Nulla per me». Come dire che la parete bianca del Nulla è un fotogramma che dura per un bimillesimo di secondo e viaggia alla velocità della luce.

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        • gentile Signor Giorgio Linguaglossa,

          Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta


          Le spedisco una cartolina dall’Antartide a meno settanta gradi centigradi. Qui non ci sono cose men che bianche, ma è un bianco così splendente che tutti gli altri colori del Vostro mondo si assottigliano. Davvero, mi venga a trovare, qui ci si vede più chiaro circa la non esistenza del Vostro mondo.
          Un cordiale saluto dalla solida positività del Nulla.

          F.to Il Signor K.

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          • Gentili Signori della nuova ontologia estetica,

            «…l’uomo si trova nuova mente senza nome e senza cognome, senza consorte e senza parenti, senza cose da fare, senza vestiti, solo, nudo, con gli occhi aperti a guardare l’oscurità… ogni sensazione si fa infinita, sembra loro che davanti ai loro occhi dei punti s’allontanino infinitamente, che cose piccole diventino infinitamente grandi e che l’infinito li beva, cercano angosciati una tavola di salvezza, un punto saldo, tutto si scompone, tutto cede, fugge, si allontana e tutto domina il ghigno sarcastico uuuuuuuuuu… niente, niente, niente non sei niente, so che non sei niente, so che qui t’affidi ed io ti distruggerò sotto il piede il terreno, so quello che riprometti a te stesso e non ti sarà mantenuto, come tu hai sempre promesso e mai tenuto, non hai mai tenuto – perché non sei niente, e non puoi niente, io so che non puoi niente, niente, niente…: Il tempo gli passa infinito e gli preterita il suo volere; egli ha l’angoscia di non aver fatto, per poter ora fare in giusto tempo mentre s’avvicina e lo stringe da ogni parte quello ch’egli non sa. Egli si sente arretrato nel tempo e si sente dissolver come si dissolve un cadavere conservato in un ambiente senz’aria se viene esposto all’aperto, che non anche esposto è già in polvere.
            Egli sente d’esser morto da tempo e pur vive e teme di morire – di fronte al tempo che viene lento inesorabile egli si sente impotente come un morto a curar la sua vita: e soffre ogni attimo il dolore della morte. Questo dolore accomuna tutte le cose che vivono e non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che come vivono temono la morte. E stillante in ogni attimo della vita nessuno lo conosce, ma lo dice con gioia, assorbente nei terrori della notte e della solitudine ognuno lo prova, ma nessuno lo confessa; che alla luce del giorno si dice contento e sufficiente (sic) e soddisfatto di sé, ma esso è nell’opinione e nella bocca di tutti quando è fatto manifesto nei fatti singoli dove l’impotenza apparendo causata da una cosa determinata è giudicata anch’essa definita e limitata a quel riguardo; e si dice allora rimorso, malinconia e noia, ira, dolore, paura, gioia “troppo” forte.
            Il rimorso per un determinato fatto commesso che non è pentimento finito per quel fatto ma il terrore per la propria vita distrutta nell’irrevocabile passato per cui uno si sente vivo ancora e impotente di fronte al futuro, è il cruccio infinito che rode il cuore.
            La malinconia è la noia che gli uomini localizzano nelle cose come se ci fossero cose melanconiche o noiose e sono lo stesso terrore dell’infinito quando la trama dell’illusione in qualunque modo per quelle cose è interrotta così che l’uomo provi il dolore di non essere e si senta sperso in balia dell’ignoto a volere impotentemente (sic).1

            1 Carlo Michelstaedter La persuasione e la rettorica, Joker, edizione critica a cura di Andrea Comincini, 2015, pp. 50-51

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  2. Carlo Livia

    Dove fuggono le parole che evadono dalla prigione delle norme e illusioni veritative, alienanti e fossilizzate, costruite dalla violenza mistificante di linguaggi e culture al potere? Come può una nuova sintassi ed espressione linguistica rivoluzionare lingua e pensiero di una società mondiale completamente asservita alle funzioni del capitalismo sfrenato e invincibile?
    Le analisi e le problematiche messe in luce da Grieco Rathgeb indicano un percorso di consapevole trasformazione, in cui una difficoltà può mutarsi in opportunità: il senso di estraneità, alienazione, inadeguatezza con cui ormai tutti abitiamo il linguaggio globalizzato, deprivato di fondamento e autenticità, del supermercato universale in cui viviamo, mette in luce e rende ineludibile la necessità di elaborare strategie di difesa che permettano di continuare a pensare ed esprimersi in forme ancora dignitosamente umane.
    Nella modernità è sempre più frequente la condizione di abitare e scrivere in una lingua, o in diverse lingue, apprese ( Pessoa, Beckett, Nabokov, Brodskj, Celan, Cioran, ecc), ma questa condizione può favorire il distacco, la creatività, la consapevole visione critica di formalismi e stereotipie, la coscientizzazione dello statuto ontologicamente eteronomo della parola rispetto all’ente, la dismissione dell’abitus e della hybris idealistica e razionalistica, l’approdo verso nuove frontiere espressive e metafisiche.
    Un caso esemplare è costituito dalla scrittura di Amelia Rosselli, capace di trasformare lacune e difficoltà morfosintattiche del suo italiano, da “lapsus”, come le aveva definite Pasolini, in inaudite e sconvolgenti rappresentazioni di traumi psico-affettivi, aporie noetico-esistenziali, intuizioni mistiche, auspicate soterie, il tutto tramato in uno scenario onirico-surreale di straordinaria originalità e risultanza icastica.

    La santità dei santi padri era un prodotto sì
    cangiante che io decisi di allontanare ogni dubbio
    dalla mia testa purtroppo troppo chiara e prendere
    il salto per un addio più difficile. E fu allora
    che la santa sede si prese la briga di saltare
    i fossi, non so come, ma ne rimasi allucinata.
    E fu allora che le misere salme dei nostri morti
    rimarono per l’intero in un echeggiare violento,
    oh io canto per le strade ma solo il santo padre
    sa dove tutto ciò va a finire.

    […] Io ti cerco e tu lo sai e non muovi l’aria per
    raggiungermi! Sento gli strilli degli angioli
    che corrono dietro di me, sento gli strilli degli
    angioli che vogliono la mia salvezza, ma il sangue
    è dolce a peccare e vuole la mia salvezza; gli
    strilli degli angioli che vogliono la mia salvezza,
    che vogliono il mio peccato! che vogliono ch’io
    cada imberbe nel tuo sangue strillo di angelo.
    Sento gli strilli degli angioli che dicono addio,
    l’ho sverginato io, ritorno questo pomeriggio.
    Sento i pomeriggi farsi slavati d’amore e di
    senso, sento i pomeriggi protestare. Sento gli
    angioli turpi chiamarmi alla pietà, sento la
    linfa ripiegarsi indietro, ai padri stanchi,
    sento la pietà coinvolgere me e tutta la pietà,
    tutta la mensa preparata, agli abissi della pietà,
    all’inno nazionale decaduto, all’abisso della
    volontà […]

    […] Ed io non cosa cerco. Una battaglia di
    navi. Un pesce con la bocca aperta. Un fardello
    troppo pesante. Una luna rossa che spiuma. Sento
    gli angioli chiamarmi alla pietà, al suo lato
    destro, dolce, rotta, stanca. Sento gli strilli
    degli angioli chiedermi la pietà, dove nessuno
    gli bada o la riconosce. Jesù che gridi. Jesù
    che scrivi. Jesù che maledici. La lebbra, – la
    mia ulcera da scrivana. Sento gli strilli degli
    angioli che bramano, sento la Pietà afferrarmi […]

    Fui, volai, caddi tremante nelle
    braccia di Dio, e che quest’ultimo sospiro
    sia tutto il mio essere, e che l’onda premi,
    stretti in difficile unione, il mio sangue,
    e da quell’inganno supremo mi si renda
    la morte divenuta vermiglia, ed io
    che dalle commosse rissa dei compagni staccavo
    quell’ansia di morire
    godrò, infine, – l’era della ragione;
    e che tutti i fiori bianchi della riviera, e
    che tutto il peso di Dio
    battano sulle mie prigioni.

    Amelia Rosselli

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  3. Scrive Steven Grieco Rathgeb:

    Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta


    «Dopo Eliot, Pound, Auden, Hughes e Sylvia Plath, l’inglese non offriva quasi più nessuna pregnanza in materia di scrittura poetica, ma solo déja-vu, piccoli epigoni che dicevano ad altri come scrivere, e quel loro intendimento su come scrivere era: “mettersi in riga! scrivere un testo gradevole, compiuto, ‘significativo’ (ma non troppo), soprattutto stilisticamente all’altezza della sacra (ma in realtà più riduttiva) ‘tradizione letteraria inglese.” Un prodotto morto all’arrivo.»

    Io commenterei così:
    «Dopo Helle Busacca, Anna Ventura e Maria Rosaria Madonna, l’italiano non offriva quasi più nessuna pregnanza in materia di scrittura poetica, ma solo déja-vu, piccoli epigoni che dicevano ad altri come scrivere, e quel loro intendimento su come scrivere era: “mettersi in riga! scrivere un testo gradevole, compiuto, ‘significativo’ (ma non troppo), soprattutto stilisticamente all’altezza della sacra (ma in realtà più riduttiva) ‘tradizione letteraria inglese.” Un prodotto morto all’arrivo.»

    Incredibile, mi sono trovato a scrivere le medesime parole di Steven Grieco Rathgeb… lo so, lo so, perdonatemi questa mia ingenuità, sì, so di essere scortese nello scrivere quello che ho scritto; so di riuscire impavido e presuntuoso, e forse lo sono, ma preferisco auto affibbiarmi l’etichetta di “ingenuo”. Sì, sono ingenuo se scrivo che la poesia italiana dagli anni settanta in giù non ha prodotto che epigoni; si badi, ci sono stati e ci sono molti, moltissimi poeti bravi, che scrivono con bravura, non lo nego, ma si tratta di una «bravura» che ha nei suoi cromosomi il mestiere di «poeta»; non basta essere bravi e scrivere in modo ossequiosamente bravo, occorre qualcosa di più… Occorre osare una risposta alla crisi della poesia (e del «mondo», posso usare questa parola fuori moda?), occorre che un poeta rischi una risposta, altrimenti fa melina e melassa… produce parole nel migliore dei casi superflue, dignitosamente superflue, magari…

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  4. Giuseppe Talia

    Affascinato dalla Nave dei giornalisti, i sette Re del giornalismo messi a nudo, spogliati dall’involucro di carta che per anni li ha ricoperti, ora soppiantati dall’informazione “apparentemente libera” di Facebook, Twitter, o Google, dove tutto è apparecchiato perfettamente e a portata di click.

    Marty Baron, editore esecutivo del Washington Post, ha recentemente espresso le sue preoccupazioni relative a questo mutamento della professione. Ha affermato che i giornalisti di oggi devono «fare i loro reportage tradizionali, devono essere presenti sui social media, devono produrre un servizio da agenzie di stampa che dev’essere disponibile 24 ore al giorno, devono produrre video … È molto da chiedere».

    E vi sono anche meno reporter. I reporter si devono barcamenare con le notizie che velocemente invadono gli spazi vitali dell’informazione e che velocemente si palesano, si arrovellano, diventano fake news e velocemente spariscono. “Ed ecco, lo scoop! Il palo della segnaletica!

    Ogni mattina per recarmi al lavoro passo da via Giusti, vicino a piazza SS. Annunziata, qualcuno ha scritto sul muro: il Nulla non ha direzione”. Forse nemmeno più una via di FUGA, penso.

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  5. Nel suo primo commento, Giorgio cita Adorno: in queste poche frasi il filosofo circoscrive tutto la questione dello sperimentalismo novecentesco, più o meno da capo a fondo. “All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati…” E qui siamo al punto, esattamente, perché il Novecento ha invece fatto dello sperimentalismo una sorta di rivoluzione permanente trotzkysta in campo estetico. E questo non poteva durare né, mentre imperava, poteva dare frutti particolarmente significativi. Sperimentalismo vero, semmai, è una Amelia Rosselli, ci fa capire Carlo Livia nel suo commento… Intanto, come Giorgio nota, poeti così diversi come Montale e Pasolini tradivano le giovani generazioni, non lasciando loro niente in mano. Quella generazione eravamo noi, a proposito.
    Da qui ad arrivare alla enunciazione di un “Grande Progetto” il passo è lunghissimo e faticosissimo, ma anche veloce, fulmineo. Come non potrei io personalmente condividere un simile progetto? Non penso che si debba aver paura di dire cose importanti, anche ambiziose, come queste. Anzi, è proprio quello che i tempi richiedono. E anche che da “ontologia estetica” ci si può spingere avanti, e arrivare a “ontologia” tout court. (Be’ certo, il termine “estetica” rimarrà per noi poeti e artisti, perché sempre di questo si tratta.) Non siamo forse noi uomini e donne oggi travolti da un tempo sconosciuto, in cui non vediamo altro che cadere giganti, ed altri giganti ergersi? Il tutto in un paesaggio che già oggi rispetto a 50 anni fa è totalmente irriconoscibile: fisicamente, ecologicamente, esistenzialmente.
    A una decina di chilometri da Jaipur, verso sud, c’era nei primi anni novanta una collina a dorso piatto, desertica naturalmente, alta circa 150 metri, lunga circa un chilometro. Intorno ad essa crescevano furiosamente nuove periferie, alimentate da soldi, palazzinari, soldi, palazzinari, soldi. 7 anni più tardi quella collina, sfruttata selvaggiamente per i materiali di costruzione che poteva dare, non c’era più. C’era la pianura.
    Visto che è necessario, allora, sì, attraversiamo il deserto di ghiaccio. Qualcuno ci accompagnerà: forse de Palchi, forse il ricordo di Ripellino, il ricordo di Amelia Rosselli, di cui Carlo Livia ha citato nel suo commento pezzi così forti e belli…
    A proposito, devo anche dire quanto sono rimasto colpito dal commento di Carlo Livia: per la sua estrema concisione, lucidità, visionarietà. Si dovrebbe pubblicare un pezzo come questo, leggerlo tante volte fra sé e sé, tenerselo sempre appresso, innalzarlo a motto della NOE.

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  6. Tadeusz Różewicz (1921-2014)
    Le forme

    Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta


    Queste forme un tempo così ben disposte
    docili sempre pronte a ricevere
    la morta materia poetica
    spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue
    si sono spezzate e disperse

    si gettano sul loro creatore
    lo lacerano e trascinano
    per lunghe strade
    nelle quali un tempo sfilarono
    tutte le orchestre le scuole le processioni

    la carne che ancora respira
    piena di sangue
    è il nutrimento
    delle forme perfette

    convergono così ermeticamente sulla preda
    che perfino il silenzio non filtra
    all’esterno

    (dicembre 1956)
    Traduzione di Paolo Statuti

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  7. Per Steven Grieco: Mi ha colpita questa tua frase:”sbarrare il passo alla troppo facile fruizione della poesia”.Non a caso, le risposte della Sibilla venivano scritte su foglie affidate al vento. Eppure, la storia della civiltà registra anche la Lectura Dantis, le serate trascorse a filò per recitare insieme antiche litanie, le ingenue esibizioni dei poeti a braccio ,e così andando. Fino all’attuale,tragico dilagare della poesia prezzolata.I modi per comunicare sono innumerevoli,e tentare di far capire, e di farsi capire, è, se non altro, un atto di carità.

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    • griecorathgeb

      Cara Anna, hai perfettamente ragione. Ma quello che diciamo io e Giorgio e tutti gli altri poeti è semplicemente che in un mondo di oggetti usa e getta, la poesia dovrebbe essere riutilizzabile tante volte, mille volte!

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  8. Sulla categoria del «nuovo» in arte

    Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta


    A proposito del concetto di «innovazione» quale componente decisiva di un’opera letteraria, cito un brano di Robert Weimann in “Teoria della ricezione” (Einaudi, 1989 p. 99):

    «L’innovazione a qualsiasi costo produce una cattiva poetica e una storia della letteratura ancora peggiore. L’estetica della ricezione, che fa propria l’idea formalistica di evoluzione letteraria, critica, è vero, la pura “canonizzazione del mutamento”, perché la “variazione estetica” non basta di per se a spiegare lo sviluppo della letteratura, dato che “l’innovazione per sé sola non costituisce ancora carattere artistico”.L’innovazione andrebbe compresa come una categoria storica, e non solo estetica. Di qui nasce inevitabilmente la domanda volta a investigare “quali siano in realtà i fattori storici che rendano veramente nuovo ciò che è nuovo di un fenomeno letterario”.
    Questa domanda in merito al rapporto fra l’evoluzione letteraria e il mutamento sociale supera in un punto decisivo l’ottica astorica dei formalisti, ma non supera, tuttavia, il principio modernistico dell’innovazione oggettiva e assoluta».

    Siamo arrivati al punto: Il «nuovo» è una categoria storica, non estetica, scrive Weidman. Il «nuovo» è una necessità quando la conservazione diventa immobilismo… le forme estetiche sono forme storiche; le forme estetiche pubblicitarie e autoreferenziali fanno parte integrante della pubblicità… un genere che non si rinnova, che non produce il «nuovo», invecchia e muore. Tanta parte della «poesia» contemporanea è scrittura priva anche della cognizione della conservazione delle forme estetiche e storiche (che pure avrebbe una sua funzione, cioè quella di conservare qualcosa in frigorifero). La poesia squisitamente «narrativa» che oggi si scrive è, rigorosamente parlando, una para scrittura, una scrittura endofasica, una scrittura mimetica di se stessa; voglio dire una cosa semplice: oggi tutti scrivono allo stesso modo, e una scrittura senza stile non è neanche scrittura ma para scrittura.

    Credo che una scrittura alla nuova ontologia estetica la si possa riconoscere subito per certe caratteristiche che non sono imitabili o esportabili, caratteristiche che ciascuno può sviluppare secondo la propria sensibilità artistica… Ad esempio, il concetto di «disfania» poetica (ma si può utilizzare anche in altri campi dell’esperienza artistica: musicale, figurativa, etc.) è tale in sé da essere un concetto rivoluzionario che offre grandi possibilità di sviluppo stilistico a chi è in grado di capirne le ragioni storiche ed estetiche. La «disfania» è, a mio modesto avviso, un concetto storico e antropologico prima ancora che estetico…

    Una «poesia» che non contenga un quid di innovazione è non-poesia.

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