
Petr Král con Alessandro De Vito allo Slavia caffè, Praga, 2016
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Quello che colpisce in questi mini racconti di Petr Král è il modo con il quale l’autore tratta gli «oggetti». Innanzitutto, non c’è nessuna «epifania» degli «oggetti», gli «oggetti» di Král sono quelli che tutti usiamo tutti i giorni, quindi non sono «cose» quanto oggetti che restano oggetti sia prima che durante e dopo che ne abbiamo usato. È il nostro modo di percorrere le contingenze degli oggetti, le disfanie degli oggetti; quelle «disfanie» sono le nostre esperienze, le micro esperienze, quelle impercettibili e invisibili esperienze-contingenze che ripetiamo in ogni attimità di ogni giorno senza pensarci su. L’idea di Král è che in quelle «disfanie» o «contingenze» si riveli un segreto che non sapevamo, o meglio, che forse sapevamo in modo inconsapevole ma che dimenticavamo subito dopo aver esperito la contingenza. In secondo luogo, le «disfanie» degli «oggetti» accadono all’improvviso quando si verifica una condizione esistenziale di allentamento dell’ordine razionale.
È chiaro che in queste «disfanie» králiane non si dà alcuna «verità» (nel senso tradizionalmente inteso dalla tradizione filosofica come emersione del nascondimento alla piena luce della visione), si danno soltanto dei contenuti veritativi, cioè quei contenuti che afferiscono alla «verità» in quanto esponenti della «non-verità». Tutti i nostri atti della vita quotidiana sono intessuti di queste attimità e di questi contenuti ideativi, solo che non ci facciamo caso e passiamo oltre, passiamo ad occuparci di altre cose, le cose che l’io auto organizzatorio ritiene serie.
Per esempio, nella poesia di un Mario Gabriele si verifica qualcosa che è l’esatto contrario di ciò che si ritrova nella poesia degli autori che presuppongono un contenuto di verità epifanico ritenuto fisso e stabile nelle dimore degli «oggetti». È chiaro che qui siamo nella antica ontologia del novecento italiano. In Král come in Mario Gabriele o nella scrittura poetica di Steven Grieco Rathgeb, ci troviamo in un altro universo esperienziale e ideativo: qui non si dà alcun contenuto di verità purchessia, in questa «nuova fenomenologia psichica», che non è una cosa solo italiana, non si dà alcun contenuto imperituro di verità ma soltanto un contenuto energetico e ideativo; la traccia psichica che lasciano gli enunciati della poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera dei quanti di energia linguistica e psichica, elementi linguistici de-simbolizzati.
Nella poesia di Petr Král, di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb ma anche in quella di Giuseppe Talia, che a una prima lettura potrebbe apparire «normale», non si rinviene nessun «focus» delle composizioni, non si dà mai alcun centro simbolico, la loro poesia è sempre scentrata, eccentrica, ultronea, abnormale, abnormata, ci troviamo dinanzi ad una nuova fenomenologia estetica.
Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero
Nei testi poetici di Petr Král, come nelle sue prose di Nozioni di base, sarebbe errato cercare un «centro» unico della composizione, perché il «centro» appare ovunque: è dislocato e si dis-loca continuamente. Gli «oggetti», anch’essi, si dis-locano, seguendo le linearità sghembe del «presente»; un «presente» che si configura, non come vasta pianura, estesa dal «prima» al «dopo», ma come reticolato fitto di attimi e di attimità, che si dis-locano casualisticamente, allo stesso modo di una materia instabile, o di un pulviscolo.
Noi, poeti della Nuova Ontologia Estetica, ci sentiamo molto vicini alla poetica di Petr Král. Per fare un esempio, potrei citare il nostro Steven Grieco Rathgeb, le cui poesie sfuggono proprio al concetto di «centro» unico. In esse, i più svariati «centri» si dis-locano seguendo il solco delle micro fratture del reale, là dove si situano le cosiddette «disfanie».
In definitiva, le «esperienze» di questa «nuova ontologia estetica» o «nuova fenomenologia estetica», peculiari nella poetica di Král, si danno negli interstizi delle e tra le «epifanie». Il «presente» di queste «disfanie» non coincide più con ciò che risulta nelle «esperienze» delle tradizionali «epifanie». Le «esperienze» che si fanno in questa nuova ontologia o nuova fenomenologia sono assai diverse dalle antiche «esperienze», quelle dettate dalla ontologia novecentesca, la quale, considerando unicamente l’esperienza dell’«epifania», non è in grado di distinguere elementi valoriali «altri», e, di conseguenza, non potrebbe mai offrirci gli strumenti necessari per comprendere le poesie e le prose di Petr Král.
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1935) Martin Heidegger riprende la concezione dell’opera come strumento-per, come mezzo, ma con una differenza rispetto a Essere e tempo: che l’esser-mezzo del mezzo viene sviluppato, non a far luogo dall’attività progettante dell’uomo, bensì attraverso l’analisi di un’opera d’arte, e prende per esempio un quadro di Van Gogh, che raffigura un paio di scarpe da contadino. In questa famosa opera, l’esser-mezzo del mezzo, la sua essenza, abita in qualcosa di più profondo della semplice «utilizzabilità» di cui il filosofo aveva parlato in Essere e tempo: essa abita nella sua «fidatezza» (Verlassigkeit); «In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo mondo (…) la fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra, la libertà del suo afflusso costante. L’esser-mezzo del mezzo, la fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza. L’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza». 1
Ora, nei racconti di Petr Král, i personaggi si accorgono dell’esistenza degli «oggetti» quando si interrompe la «fidatezza» di cui ci parla Heidegger: è allora che i personaggi fanno esperienza dello stupore e gli «oggetti», improvvisamente, diventano «cose», diventano altro, fanno esperienza del divario che si apre tra gli «oggetti» e le «cose», del mutismo degli oggetti-strumento e del linguaggio misterioso delle «cose». Le epifanie degli «oggetti» accadono in quei momenti in cui siamo distratti, quando pensiamo ad altro; è allora che ci accorgiamo con stupore che gli «oggetti» sono in realtà delle «cose»: quelle «cose» che noi non vedevamo e non sapevamo riconoscere.
1 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, Christian Marinotti Editore, 2000 p. 97
Ecco cosa scrive Milan Kundera di queste prose di Petr Král:
È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela. Pur sapendo che cosa vuol dire la parola “fumare”, non eravamo in grado di vedere quel che “fumare” significa in concreto, in che modo gesti banali e automatici ci legano al mondo o ci permettono di allontanarcene, come testimonia la storia del non fumatore Lenin che chiede una sigaretta a Trockij allo scopo di dimenticare per un minuto la rivoluzione. Pur sapendo che cosa vuol dire “solitudine”, la cecità esistenziale ci impediva di renderci conto che soltanto una porta sottile separa la nostra “stanza della solitudine” dal salone dove rumorosamente la festa continua.
Quante volte, alla fine di una serata, abbiamo visto una donna andarsene, ma tutto ciò che riempiva l’ultimo sguardo che gettavamo su di lei lo dimenticavamo un secondo dopo. È sorprendente come tutte queste situazioni quotidiane, tanto insignificanti quanto elementari, si lascino così poco influenzare dall’originalità di una psicologia. Esse ci attendono, ci sottomettono. È una lezione di modestia che la bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana di Král impartisce al nostro individualismo.
Appunto di Massimo Rizzante
«Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del portacenere, dei bicchieri e della caraffa, che immobili disegnano la pianura del tavolo». Questa “nozione di base” di Petr Král è tra le più brevi composte dal poeta. Per questo rivela l’essenza di tutte le altre, anche di quelle più lunghe.
Che si parli di una camicia che «ha fatto il suo tempo» e che ci ispira un «addio così commosso» quale quello che daremmo a «un’amante», o di una porta che durante una visita ad alcuni amici ci introduce in una stanza «attrezzata ma vacante» che «estende il nostro soggiorno» su questa terra di uno «spazio supplementare», o ancora di una vasca da bagno che improvvisamente da letto d’amore si trasforma «nella nostra tomba», tutto ciò che Petr Král tocca diventa spettacolo, spectaculum, ovvero, apparenza. È grazie al suo stupore davanti agli oggetti e alle situazioni della vita quotidiana, concepiti come apparenze, che il poeta scopre una dimensione nascosta della prosa del mondo. La regola d’oro di Král è che basta guardare a lungo una camicia per distorcerla di un nonnulla e gettarla nella pianura sconosciuta dove ci abbraccia come un’amante dimenticata. Ma da dove viene lo stupore del poeta che libera le cose dalla loro funzione e che gli permette di camminare senza quel pesante fardello per le strade della prosa? Da dove viene questa grazia? Non si è mai tanto vicini alla grazia come durante quei mattini quando si assiste «stupiti allo spettacolo» di ciò che si conosce a memoria. È durante quei risvegli che tutti gli oggetti e tutte le situazioni della vita quotidiana mostrano quel che potrebbero essere, che il presente ama contemplarsi davanti allo specchio delle sue possibilità. Così Petr Král, indossando ogni giorno una camicia bianca fresca di bucato, saluta il volto mattutino di quell’amante che ogni notte dimentichiamo: l’esistenza.
Appunto di Yves Hersant
Tutto quel che dice, è di sfuggita. Senza indugio, senza mai lanciare sulle cose uno sguardo totalizzante. Ma scrutandone i dettagli, o lasciando che vengano a lui le fugaci apparizioni; lasciando che l’acutezza dell’occhiata subentri a ogni teoria; lasciando risuonare nella memoria – la sua e la nostra, che vengono quasi a confondersi – il discreto rumore dei passi, o il tintinnio del bicchiere sopra al bancone. La sua motricità pedonale, per riprendere la bizzarra espressione di Michel de Certeau, può condurlo nei più reconditi luoghi del nostro mondo mondializzato; però è tra gli arabeschi delle nostre città, dove le sue erranze evocano a volte il grand Flâneur del xix secolo, che realizza di preferenza i suoi fecondi micro viaggi. Né geografico, né geometrico, né panottico, il suo spazio è da subito quello della poesia e del mito. Eppure si rivela perfino romanzesco, perché popolato da virtualità concrete. Sgombra d’ogni lirismo e soprattutto alleata di una prosa che etichettare come “poetica” sarebbe quanto di più prosaico si possa dire, la poesia di Petr Král non è affatto incompatibile con la saggezza del romanzo. Di questo romanzo che scrive in pieno cammino, come una storia multipla e frammentaria, senza smettere di scrivere nemmeno in curva. Non è stato forse proprio lui a dirlo chiaro e forte: «La missione del poeta non è affatto quella del fine dicitore, quanto più semplicemente d’un topografo (agrimensore, per dirla con Franz Kafka) dell’esistenza?». In un’opera precedente (Testimone dei crepuscoli, 1989) Petr Král offriva in parallelo una serie di poesie e il racconto degli aneddoti che li avevano generati. Al contrario, nelle pagine che state per leggere, le due correnti sono confuse: La camicia come Il vecchio saggio, La vasca come La folla, sono minuscoli ma intensi racconti-poemi incoativi, in cui si manifesta l’antica potenza delle forme brevi. Dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano che decisamente non ha nulla di banale; analista minuzioso delle condotte più surrettizie, ci riconcilia con il mondo lacerando ogni nostra certezza. Questo amante del burlesque diventa così un grande educatore dello sguardo: d’un colpo solo, ci insegna che la nostra realtà ne nasconde ben altre. Dietro ad ogni porta può aprirsi una vita nuova.
[Petr Král, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]
da Petr Král, Nozioni di base, Miraggi, 2017
Il caffè
Il sabato, dopo aver dormito a lungo, usciamo e scivoliamo indietro nel tempo con la morbida indeterminatezza che solo la mattina meno impegnata della settimana consente; ci uniamo ai vivi, un po’ di sbieco, solo quando, appoggiati al bancone del bar, ordiniamo un caffè che berremo osservando incuranti la strada e il suo sfocato viavai dietro il vetro. Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento.
La camicia
a Milan Schulz
Una camicia pulita è la nostra seconda – e miglior – pelle: i suoi ondeggiamenti e rigonfiamenti dilatano il respiro di quella che ci è data una volta per sempre, la onorano e la cullano quasi affettuosamente. Anche il giorno che ci circonda, insinuandosi con un colpo d’aria sotto la camicia, sembra quasi accarezzarci. Quando una camicia ha ormai fatto il suo tempo ci congediamo da lei lentamente, come fosse una donna. La camicia ci è più vicina di un cappotto, nelle cui tasche già vaghiamo a volte desolati come nel mondo. E con i pantaloni, che ogni mattina sono lontani quanto la stazione, non va certo meglio.
Lo spettacolo
Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo.
Radersi
Prima di raderci spalmiamo la schiuma bianca sul viso, come clown prima di entrare in scena, sotto di essa ci è più facile trovare la nostra pelle nuda; come in una parentesi di breve eternità ci attardiamo soli con noi stessi ai margini del tempo, nella cui corrente stiamo per immergerci. Proprio come accade al momento del risveglio è in quell’attimo che ci sovvengono i pensieri più profondi e originali della giornata e ancora meglio: mentre ci radiamo e misuriamo senza fretta l’estensione della nostra nudità, sappiamo tutto.
Mentre il corpo è occupato nella cura di sé, concentrato su ogni suo minimo aneddoto, l’anima, come un’ape libera, sorvola il mondo intero, e osserva i suoi nascondigli sconosciuti.
Un impercettibile tremito nell’aria o in noi stessi, un semplice niente, deciderà della riuscita della rasatura – e allo stesso modo dell’atto d’amore che in fondo ora, con il rasoio, offriamo a noi stessi. Niente è anche la brezza che sfiora la guancia con una goccia di colonia, come l’ultimo fremito dell’abisso che, grazie alla rasatura, abbiamo felicemente oltrepassato.
Gli orologi
Le grandi città sarebbero di certo incomplete senza i grandi orologi che svettano all’improvviso per strada sul viavai dei passanti; ma la conferma che gli occhi cercano nel loro quadrante va molto al di là dell’accertamento dell’ora esatta. Lo sguardo che in risposta ci rivolge il quadrante, aperto e sereno dietro le lancette che con la loro posizione evocano non tanto l’ora precisa, quanto uno sbadiglio segreto del tempo – quello sguardo ci sostiene in un certo senso grazie solo alla sua impassibilità; il tempo di cui ci dà notizia è solo quella durata infinita, estesa in ogni direzione, che fa da sfondo a tutto ciò che esiste, l’assenza di colore sparsa in tutto il quadrante ci rammenta semplicemente che siamo al mondo.
Lo spazio di numerose città – soprattutto meridionali – si rivela ancor più chiaramente perché viene demarcato dagli orologi che mostrano a ogni angolo di strada qualcosa di diverso, un altro tempo, un’altra stagione – senza nemmeno sembrare imprecisi per il luogo e il quartiere in cui si trovano, ognuno col suo movimento e il suo ritmo. L’orologio sul piccolo municipio di un quartiere di Bruxelles – particolarmente esemplare – ha continuato per anni a mantenere ostinatamente le lancette fisse sulle dodici, un simbolo dell’ora zero che include tutte le altre.
L’attaccapanni
Essere solidali con l’attaccapanni e con la sua nudità, che mantiene intatta sotto il peso provvisorio dei nostri vestiti da clown.
Il cappello
Quando riposano insieme in vetrina – un cappello di paglia frivolmente estivo, un altro, scettico, in tessuto impermeabile, un provinciale cappello tirolese e subito accanto un mondano borsalino – essi compongono un mondo intero e un potenziale racconto in cui, immobili e imprevedibili, si spartiscono i ruoli come carte da gioco. Nella grigia corrente con cui i cappelli fanno ondeggiare sullo schermo una strada piovosa, uno di loro nasconde il nostro ignoto assassino, ma quale?
Tutti quelli che indossiamo sono veri amori, estranei e complici allo stesso tempo. Quando a un angolo di strada lo solleviamo dalla testa in segno di saluto o in onore del pomeriggio, uno stralunato infinito sorride di sfuggita tra la testa e il cappello.
Il treno
a Alain Roussel
Non c’è mezzo di trasporto che come il treno abbia ampliato la nostra conoscenza del mondo. Ancor prima di metterci in viaggio col nostro, già stiamo partendo con quello che si è mosso sul binario accanto, ci dà l’impressione di essere noi in movimento, ci toglie il fiato a tradimento lasciandoci solo la massa del nostro corpo, sorda e immobile, come se fossimo già tornati indietro. E quando ormai siamo in viaggio, tra le carrozze del treno che viene dalla direzione opposta ci viene incontro il cielo, inaspettatamente vicino e turbolento, scoppiettante e pulsante tra gli spazi come un cordone di vivo acciaio. Da quando i treni esistono sappiamo che quelli su cui viaggiamo non sono mai quelli in cui siamo seduti.

Petr Král nel suo studio
Treni
I nostri treni non vanno più a vapore, ma il loro respiro è comunque più ampio dei binari che percorrono e dell’itinerario stabilito.
La porta
La porta è uno sbarramento che alziamo contro gli intrusi e contro il mondo esterno, eppure non facciamo che guardarla nell’attesa che qualcuno la oltrepassi: la portinaia che ci infila una lettera sotto la soglia, qualcuno che inaspettatamente viene a bussare in tarda notte. La fermezza o l’esitazione con cui apriremo la porta contribuirà a definire il carattere del messaggio che il visitatore ci porta, e la gravità o l’eccitazione dei momenti che passeremo con lui.
Ancor più importante è il modo in cui apriamo la porta quando ci apprestiamo ad uscire; la determinazione con cui afferriamo la maniglia e oltrepassiamo la soglia – molto più di quella con cui ci alziamo dal letto – anticipa l’esito e l’importanza di quel che fuori ci aspetta, ci facilita o ci ostacola nel raggiungere il luogo di un appuntamento importante, oppure inutile, e nel trovare un buon ristorante. Abbiamo la chiave della porta, ma non del giorno che incontreremo al di là di essa, quella la troviamo proprio grazie al modo in cui la oltrepassiamo. A volte esitiamo davanti a un negozio o un’officina sconosciuta chiedendoci se spingere la porta ed entrare; i segreti che le porte nascondono suscitano in noi desiderioe dubbio, temiamo di venir trascinati in un ingranaggio oscuro o al contrario di rimanere delusi, ci diciamo che, comunque, non ci saranno rivelati. E abbiamo i nostri motivi, non sarebbe la prima volta: il vecchio bottegaio che ci vendeva i precliky coi vermi dentro, il tenebroso studio del fotografo mai rischiarato da un flash, ma intriso di puzza di piscio, oppure quei negozianti che col loro corpo ci impedivano la vista del retro del negozio, l’espressione di chi vuol far credere che dietro di loro non ci sia niente. Eppure
è comunque necessario spingere la porta ed entrare, anche solo per il gesto di farlo; anche se potrebbe sembrare che non stiamo comunque entrando da nessuna parte, vivere significa
forse soprattutto questo, spingere una porta ed entrare dentro l’altro, o semplicemente in un’altra stanza. Anche quando si tratta di casa nostra è così che a volte trascorriamo
la giornata, semplicemente entrando nella cucina vuota, o nella camera da letto; forse la barzelletta sul precursore russo della televisione, che non faceva altro che portare un quadro da una stanza all’altra (cornice compresa), ha un significato più profondo di quanto sembra e cela una lezione fondamentale dell’arte di vivere. Anche quando d’estate facciamo visita agli amici e apriamo all’improvviso la porta della stanza degli ospiti – arredata ma disabitata – sentiamo aleggiare nel suo silenzio la memoria sconosciuta, dei nostri ospiti e nostra, una memoria che estende il nostro soggiorno in quel luogo di un nuovo spazio.
Le stanze, di cui apriamo la porta, sembrano opporre resistenza, mantengono la loro peculiarità difendendola a volte così strenuamente da apparire ancora più diverse di come ci aspettiamo; nella camera accanto un corpo si alza dal letto con la minacciosità di un’anima defunta, e anche una donna che conosciamo intimamente ci respinge confusa nel buio mormorando che non è sola. A volte bussiamo alla porta di qualcuno senza ricevere risposta, anche se sappiamo di essere attesi; ci hanno tradito, si sono chiusi a chiave e stanno festeggiando senza di noi, riuniti al solo scopo di esserci sleali. Anche quando la porta che abbiamo davanti è la nostra non sempre sappiamo cosa ci aspetta al di là, magari non abbiamo nemmeno le chiavi e la nostra umiliazione è ancora maggiore perché siamo causa della nostra stessa vergogna. E mentre ci chiediamo mortificati cosa abbiamo fatto per meritarci questo, con chi siamo sleali lì dentro, la casa che ci è così familiare, ora inaccessibile, in cui vaghiamo malinconicamente con la nostra immaginazione, diventa estranea e distante, come una stanza per gli ospiti.
Il cestino
a Jan Vladislav
Versione più nobile del secchio della spazzatura, in cui facciamo sparire la parte più indecorosa, triviale e puzzolente dei nostri delicati manicaretti, il cestino per la carta è quasi un caro amico, ancor più del piccolo cestino del bagno che a volte, al mattino, cerchiamo di centrare con un piccolo oggetto, come un bersaglio lontano, nello sforzo di verificare quanto siamo pronti al nuovo giorno. Il cestino della carta lo trascorre con noi, prosaicamente resta con pazienza al nostro fianco, sempre pronto a inghiottire nuove reliquie o documenti che non ci appartengono più: buste vuote, inutili stampe, messaggi e promemoria scaduti, abbozzi di lettere, scatole di sigari fumati. Li abbiamo disconosciuti ancor prima di gettarli via definitivamente, solo sul punto di addormentarci, talvolta, guardiamo mentalmente nel cestino, dall’alto, come durante un volo sprezzante in aereo. (Ma cosa ha spinto, nel bel mezzo del pomeriggio, la nostra matitina a tuffarcisi dentro con tanta testardaggine?) Se poi per caso dobbiamo immergerci nel cestino per ripescare umilmente un foglietto finito lì per sbaglio, viviamo la cosa con sdegnosa umiliazione, tanto più se il cestino ci mette di fronte a una verità inconfessata: la realtà della nostra esistenza non è forse tutta lì, riflessa in ciò che con tanta determinazione abbiamo eliminato – la semplice materia avvizzita delle scatole vuote, delle buste strappate, delle matite consumate e delle pagine piene di cancellature, senza ulteriori messaggi? E, come se non bastasse, appena ci apprestiamo a schiacciare di nuovo tutto nel cestino ci accorgiamo che non c’entra più, tanto ingegnosa e precisa era la struttura che quei resti avevano creato, semplicemente stratificandosi, passivi e indolenti, nel corso dei giorni. È come se quella scultura di rifiuti, ricostruita ora in una forma sinistramente precisa e compatta, fosse il nostro primo vero monumento. A volte, di sera, sullo sfondo della finestra oscurata, sembra quasi bella…
La camicia
a Milan Schulz
Una camicia pulita è la nostra seconda – e miglior – pelle: i suoi ondeggiamenti e rigonfiamenti dilatano il respiro di quella che ci è data una volta per sempre, la onorano e la cullano quasi affettuosamente. Anche il giorno che ci circonda, insinuandosi con un colpo d’aria sotto la camicia, sembra quasi accarezzarci. Quando una camicia ha ormai fatto il suo tempo ci congediamo da lei lentamente, come fosse una donna. La camicia ci è più vicina di un cappotto, nelle cui tasche già vaghiamo a volte desolati come nel mondo. E con i pantaloni, che ogni mattina sono lontani quanto la stazione, non va certo meglio.
Lo spettacolo
Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo.
Gli orologi
Le grandi città sarebbero di certo incomplete senza i grandi orologi che svettano all’improvviso per strada sul viavai dei passanti; ma la conferma che gli occhi cercano nel loro quadrante va molto al di là dell’accertamento dell’ora esatta. Lo sguardo che in risposta ci rivolge il quadrante, aperto e sereno dietro le lancette che con la loro posizione evocano non tanto l’ora precisa, quanto uno sbadiglio segreto del tempo – quello sguardo ci sostiene in un certo senso grazie solo alla sua impassibilità; il tempo di cui ci dà notizia è solo quella durata infinita, estesa in ogni direzione, che fa da sfondo a tutto ciò che esiste, l’assenza di colore sparsa in tutto il quadrante ci rammenta semplicemente che siamo al mondo. Lo spazio di numerose città – soprattutto meridionali – si rivela ancor più chiaramente perché viene demarcato dagli orologi che mostrano a ogni angolo di strada qualcosa di diverso, un altro tempo, un’altra stagione – senza nemmeno sembrare imprecisi per il luogo e il quartiere in cui si trovano, ognuno col suo movimento e il suo ritmo. L’orologio sul piccolo municipio di un quartiere di Bruxelles – particolarmente esemplare – ha continuato per anni a mantenere ostinatamente le lancette fisse sulle dodici, un simbolo dell’ora zero che include tutte le altre.
Il cappello
Quando riposano insieme in vetrina – un cappello di paglia frivolmente estivo, un altro, scettico, in tessuto impermeabile, un provinciale cappello tirolese e subito accanto un mondano borsalino – essi compongono un mondo intero e un potenziale racconto in cui, immobili e imprevedibili, si spartiscono i ruoli come carte da gioco. Nella grigia corrente con cui i cappelli fanno ondeggiare sullo schermo una strada piovosa, uno di loro nasconde il nostro ignoto assassino, ma quale? Tutti quelli che indossiamo sono veri amori, estranei e complici allo stesso tempo. Quando a un angolo di strada lo solleviamo dalla testa in segno di saluto o in onore del pomeriggio, uno stralunato infinito sorride di sfuggita tra la testa e il cappello.
Il cestino
a Jan Vladislav
Versione più nobile del secchio della spazzatura, in cui facciamo sparire la parte più indecorosa, triviale e puzzolente dei nostri delicati manicaretti, il cestino per la carta è quasi un caro amico, ancor più del piccolo cestino del bagno che a volte, al mattino, cerchiamo di centrare con un piccolo oggetto, come un bersaglio lontano, nello sforzo di verificare quanto siamo pronti al nuovo giorno. Il cestino della carta lo trascorre con noi, prosaicamente resta con pazienza al nostro fianco, sempre pronto a inghiottire nuove reliquie o documenti che non ci appartengono più: buste vuote, inutili stampe, messaggi e promemoria scaduti, abbozzi di lettere, scatole di sigari fumati. Li abbiamo disconosciuti ancor prima di gettarli via definitivamente, solo sul punto di addormentarci, talvolta, guardiamo mentalmente nel cestino, dall’alto, come durante un volo sprezzante in aereo. (Ma cosa ha spinto, nel bel mezzo del pomeriggio, la nostra matitina a tuffarcisi dentro con tanta testardaggine?) Se poi per caso dobbiamo immergerci nel cestino per ripescare umilmente un foglietto finito lì per sbaglio, viviamo la cosa con sdegnosa umiliazione, tanto più se il cestino ci mette di fronte a una verità inconfessata: la realtà della nostra esistenza non è forse tutta lì, riflessa in ciò che con tanta determinazione abbiamo eliminato – la semplice materia avvizzita delle scatole vuote, delle buste strappate, delle matite consumate e delle pagine piene di cancellature, senza ulteriori messaggi? E, come se non bastasse, appena ci apprestiamo a schiacciare di nuovo tutto nel cestino ci accorgiamo che non c’entra più, tanto ingegnosa e precisa era la struttura che quei resti avevano creato, semplicemente stratificandosi, passivi e indolenti, nel corso dei giorni. È come se quella scultura di rifiuti, ricostruita ora in una forma sinistramente precisa e compatta, fosse il nostro primo vero monumento. A volte, di sera, sullo sfondo della finestra oscurata, sembra quasi bella…
Il balcone
(a Prokop)
La casa alle nostre spalle, travolta dalla festa, è piena di luci e frastuono, il balcone su cui ci siamo rifugiati è però immerso nel buio, anche le grida arrivano smorzate. Non siamo sempre soli, qui accanto due sconosciuti si strusciano l’uno con l’altro mugolando piano. Ma se in casa vagavamo stancamente nella ressa come in una sala d’aspetto gremita, qui sul balcone sentiamo come non mai di essere parte del romanzo del mondo, anche se solo nel ruolo di muti testimoni. Le confidenze che riusciamo a scambiare coi nostri amici più cari assumono qui, sul balcone, una suprema importanza; anche se non le porteremo via con noi, rimarranno sempre nel buio in cui il balcone annega e nella notte verso cui ci sporgiamo – forse proprio perché sono importanti. La conversazione notturna che sentiamo svolgersi tra due signori, sul balcone del Comitato Centrale, risuona con un’eco confusa nella piazza silenziosa della città di cui siamo temporanei ospiti. Pur trattandosi probabilmente solo dei banali pettegolezzi di due guardie notturne, questi, per il solo fatto che i due sono usciti a chiacchierare sul balcone, diventano significativi e irreparabili.
Hotel
a Michal Ajvaz
Una stanza d’hotel non è che l’illusione di una casa, un palcoscenico dove recitiamo l’abitare; offre però insperate possibilità, libera le azioni e i gesti quotidiani dalla rete dei bisogni conferendo loro un maggiore slancio. Una notte trascorsa in albergo, anche se con la compagna di sempre, prende un significato nuovo, quasi proibito. Ancor più toccante, ed eccitante, è trovare su quel palcoscenico che è l’albergo le tracce di una vera casa e i dettagli di un’autentica vita domestica, fossero anche solo i pannelli di vetro colorato della porta della cucina, dove il proprietario si ritira come in un pensionato accogliente, oppure un quadro dipinto a metà abbandonato su un cavalletto, proprio accanto al nostro letto. Gli albergatori italiani, ben consapevoli del nostro debole per questo genere di ritrovamenti, integrano discretamente l’arredamento delle stanze con i loro mobili, un armadio di campagna o un antico candeliere. Anche se viaggiamo da soli, già dalla soglia la stanza d’albergo ci lascia intravedere un’esistenza del tutto sconosciuta – o un aspetto insospettato della nostra – di cui possiamo vivere almeno un breve frammento. Se inaspettatamente ci assegnano una suite abbiamo accesso addirittura a più vite insieme: il letto della buia camera in fondo sembra concepito per permetterci di sfogliare, la notte, le ali di un angelo misterioso, mentre il divano della piccola anticamera, illuminata da un ripido lucernario, farà risplendere il pallore dei nostri pomeriggi come mai prima. Al ritorno dal viaggio poi a volte la nostra casa ci sorprende, lo sguardo si immerge all’improvviso in profondità inusuali, si intrufola fino all’ignoto fondo dei noti spazi tra i volumi della libreria, o negli angoli dietro il letto o dietro la vasca, dove trova nuovi abissi e scopre dei retroscena mai intuiti. Se ci scopriamo incapaci di abitarla da soli, ecco spuntare alle nostre spalle una folla di oscuri sarti, pallidi bagnini, leoni apatici – forse anche docili sonnambuli – venuta a tenerci compagnia col suo discreto, cordiale respiro.
La familiarità
a Jiří Fiala
La pioggia che ci sorprende davanti a un vecchio bar, costringendoci ad entrare, ci permette di abitarci per un po’, forse anche di sopravvivere all’apocalisse. Ma il bar che ci diventa davvero familiare è quello dove ci ritroviamo al mattino a sorseggiare un vino bianco accanto al guardiano che, diretto al lavoro, si è fermato qui a riprendere il berretto dimenticato.
Altrove
a Martin Pluháček
Durante una serata in birreria, anche se riuscitissima, di colpo il gruppo di amici viene colto dall’impellente urgenza di trasferirsi altrove, a volte nemmeno facciamo in tempo a sederci che già cominciamo a chiederci dove andremo dopo. Vogliamo davvero stare insieme agli altri, non preferiremmo andare a casa a dormire, inabissarci in noi stessi e nel buio, nelle profondità delle intemperie dell’inverno, immusonirci da soli, struggendoci di nostalgia per la birreria e per gli amici? Forse temiamo che staremo di nuovo lì a guardarci perplessi, come quella volta nel solaio? O forse vorremmo aprire un localino solo per noi, una cantina, o magari portarli a casa nostra e fare in modo di poterci riunire sempre lì. E comunque, sicuramente, poi ci verrebbe voglia di trascinarli, inconcludenti, ancora altrove, oltre casa nostra, fino alle profondità che abbiamo dentro, fino ai lontani anni in cui gli amici non erano che ombre attese sui muri spogli della nostra caverna. Come se i cerchi, nell’oscurità del locale giusto, potessero allo stesso tempo restringersi e allargarsi…
Il bagno altrui
Prima di entrare in un bagno sconosciuto prendiamo in prestito dagli ospiti un asciugamano, non chiediamo però cosa ci aspetta, vogliamo scoprire da soli l’ordine segreto del piccolo locale: la posizione degli stendibiancheria e degli interruttori, il funzionamento della doccia. La nostra esplorazione però va per le lunghe, cerchiamo invano la limetta e il cestino della spazzatura, il modo in cui gli oggetti sono disposti ci sfugge e vaghiamo confusi. Vorremmo quasi chiamare i padroni di casa in aiuto e chiedere loro come hanno organizzato le cose e perché, dove hanno preso l’idea di sistemarle proprio in quel modo? Saprebbero forse anche dirci perché continuare a vivere, e come?
Il muro e il recinto
(a Honza)
Un vecchio muro non ci nasconde niente e non ci è d’ostacolo; è solo la fine di un viaggio che ora ci resta da scoprire dietro il film della pioggia che, da lontano, abbiamo visto cadere davanti al muro, come fosse uno schermo. Quando siamo di fronte a un muro, cominciamo subito un nuovo viaggio, una paziente e attenta esplorazione della sua massa irregolare, di tutti i suoi infiniti dettagli, le ombre dei solchi, le fessure, le macchie d’umido, penetrando nel fondo della sua memoria stratificata. Un logoro recinto di legno è invece un paravento intrigante, che ci spinge a guardare al di là e indovinare cosa nasconde e promette, quale stupefacente dirigibile o balena si gonfia segretamente lì dietro, apprestandosi ad arcuare il suo dorso scuro sopra la palizzata; quali tronchi vi sono ammassati e quali assi impilate per la costruzione di nuovi, straordinari recinti. Man mano che lo esaminiamo intuiamo oltre il recinto la presenza di sempre più cose, forse vi è celata un’intera città sconosciuta. Affiora del resto anche dai resti dei vecchi manifesti pubblicitari ancora incollati sulle assi, e nei nodi e negli anelli del legno è disegnata la sua mappa.
La porta girevole
Attraversando l’atrio spazioso di una banca, o di un hotel, insieme a degli sconosciuti o con i nostri cari, a volte ci allontaniamo dagli altri e da noi stessi, i nostri sguardi si incrociano appena mentre continuano a vagare da una parte all’altra nella vellutata penombra sotto l’alto soffitto, dove del frastuono del mondo arriva giusto un’eco; l’instancabile risacca di tutti i mari e delle suole sui marciapiedi delle città di colpo attutiti in questo quieto mormorio, quasi solo un respiro. Un’unica palpebra ci fa l’occhiolino dal fondo della sala, la porta girevole attraverso cui tutti quelli che entrano o escono scompaiono pigramente nella tremula luce del giorno. La stessa sala perde in quel tremolio i suoi contorni, risuonando dell’eco di tutte le altre hall, degli atri, delle sale d’aspetto di porti e stazioni e del continuo afflusso delle folle che vi transitano, e insieme ad esse veleggia fuori dal tempo e unisce la sua memoria alla loro in un’unica immemorabile onda. Intessuta di luci e ombre, è ora solo un luogo di attesa e di libero passaggio, dal buio al giorno e ritorno, un’immateriale sala d’attesa oltre la cui soglia gli intrecci di ogni rappresentazione hanno inizio e contemporaneamente fine.
Mentre usciamo, sulla schiena già il respiro pressante della folla sterminata, la porta girevole davanti a noi scava il vuoto. Ci permette però un piccolo ballo, trasformando la nostra uscita in un istante di vertigine senza peso, che ci fa smarrire ogni riferimento al punto che il mondo, ovunque guardiamo, ci offre motivo di meraviglia. Non sappiamo nemmeno dove la porta ci scaraventerà, avanti, indietro, a nord o a sud, nemmeno se galleggeremo sulla superficie o ci inabisseremo verso il fondo. Riappariremo sulla scena come un semplice starnuto, o una risata, guizzati fuori all’improvviso da dietro le quinte.
Lo stuzzicadenti
a Michal Novotný
Lo zoticone che parlando con noi si infila lo stuzzicadenti tra i denti e lo succhia, ce lo punta contro come fosse un’arma. Colui che, finita la cena, lo maneggia coprendosi discretamente col palmo della mano ci collega, noi e il tavolo a cui sediamo, allo spazio circostante e la sala da pranzo finisce per includere lo spazio della stazione notturna che sta scoprendo, con sua grande meraviglia, all’interno della sua bocca. Quando l’autore di Ubu re usò lo stuzzicadenti per l’ultima volta, sul letto di morte, dietro il palmo della sua mano lo girò segretamente verso il futuro e verso di noi, suoi posteri.
La valigia
Seguiamo con lo sguardo la nostra valigia che si allontana, sul nastro trasportatore dell’aeroporto o in mano al facchino dell’albergo, come se si portasse dietro anche una parte di noi. Quando ci viene restituita dalle profondità di un deposito o di un’altra sala aeroportuale la riconosciamo subito e la salutiamo, ma con sentimenti ambivalenti. Sembra la stessa, ma non lo è, il viaggio che ha affrontato, diverso dal nostro, è ancora più inquietante proprio perché non ha lasciato tracce evidenti. A volte, mentre più tardi la svuotiamo, spunta tra gli effetti personali una forcina mai vista, e sentiamo quasi risuonare l’eco di una risata lontana. La valigia viaggia anche per noi, è la nostra casa itinerante, lo scrigno segreto che ci permette di entrare in spazi altrimenti inaccessibili. Sfortunatamente possiamo solo fare congetture sulle mani che l’hanno frugata e hanno tenuto impunemente tra le dita – magari anche per lunghi minuti – il nostro pettine, il sigaro, la matita –, o sugli amori, sugli assalti di orribili custodi all’oscena allacciatura di qualche biondina, di cui è stata testimone la valigia nel buio di un deposito. Invano la esaminiamo da lontano, sola nell’androne deserto in una città straniera, ancora una volta non avremo modo di riconoscere l’alter ego sconosciuto a cui abbiamo offerto la valigia come fosse un’esca, quasi pronti a cedergliela. Dunque non ci resta che prelevarla e, trascinandola, tornare ad essere i servi di noi stessi.
Il verde e il blu
(a Standa)
Il verde e il blu sono a prima vista incompatibili, come recita il detto ceco: «Verde e blu insieme, per i pazzi van bene». Il problema però è come distinguerli, visto che agli estremi delle loro gamme tendono a confondersi: l’erba verde ombrata di blu, il blu tendente al verde del cielo serale, il mare verdazzurro. I due colori si osservano gelosamente a vicenda, si tengono d’occhio e perseverano nella loro unicità. Il blu si moltiplica a vista d’occhio, ogni pittore ha il suo, come se ogni singolo sguardo rispondesse a una sfumatura diversa. Il verde invece si restringe in se stesso e in pochi toni di base: il verde bottiglia, il verde di un tavolo da biliardo, il verde profondo delle vecchie capote e delle serre, il verde muschio della tappezzeria dei bar. E di verde luccicano anche le trappole nascoste, i fuochi fatui, i ceppi fosforescenti, lo smeraldo degli anelli velenosi. È il colore stesso del mistero e la sua immediata cifra poetica, mentre nel blu, dall’indaco notturno all’azzurro mattutino, il mistero non è che una presenza lontana, semplificata in un simbolo metafisico. Del verde ci fidiamo, e ci immergiamo in esso come in uno stagno, il blu invece dobbiamo andare a cercarlo per poterlo raggiungere.
nota su Petr Král
Se in Internet cerchiamo Petr Král, ovvero uno dei maggiori esponenti della letteratura ceca contemporanea, verifichiamo un dato che ci rattrista e ci rallegra al tempo stesso: solo la nostra rivista telematica, L’Ombra delle Parole, gli ha dedicato ampio spazio. Pochi altri blog si sono limitati a pubblicarne due o tre poesie, al massimo, insieme a qualche breve cenno biografico, senza altro commento.
Però, l’altro giorno, cercando appunto in Internet Petr Král, mi sono imbattuta in una bella notizia: a Torino, nell’ambito della III edizione dello “Slavika Festival” (dal 18 al 25 marzo), è stata presentata l’edizione italiana di Nozioni di base (Miraggi Edizioni, 2017), un centinaio di brevi prose dello scrittore ceco, tradotte da Laura Angeloni. Precedente a questa pubblicazione, è l’eccellente antologia Tutto sul crepuscolo, che raccoglie la produzione poetica più rappresentativa di Král, realizzata con grande cura da Antonio Parente, per Mimesis (2014): lo stesso editore che, già nel 2005, aveva riunito, nel volume Sembra che qui la chiamassero neve, una pregevole selezione della poesia ceca contemporanea. Tra gli autori, il nostro Petr Král.
Nonostante questo, è sempre troppo poco per conoscere un poeta, prosatore, traduttore, saggista, autore di opere sulla storia del cinema; un grande intellettuale, insomma, che guarda la realtà con occhi “spesso piuttosto perfidamente obliqui”, come Král dichiara ironicamente nella nota introduttiva alla sua antologia Tutto sul crepuscolo.

Donatella Costantina Giancaspero e Giorgio Linguaglossa tra gli oggetti di un pranzo, 2018
Eurolines
Oltre il confine guardo dall’autobus, nella pioggia mattutina
cammina per strada un uomo nudo,
nient’altro, non ha nemmeno il telefonino,
nell’incerto territorio della frontiera può davvero accadere di tutto
(penso),
un uomo nudo, forse si è ubriacato e forse lo hanno derubato,
quotidiana apocalisse di fine epoca,
forse basta dirsi che anche ciò fa parte del mondo, un uomo nudo
sotto la pioggia del mattino
al confine come un baluardo avanzato del nuovo giorno, un uomo
intensamente nudo
e dietro di lui il vago tremore di un caso sconosciuto,
il suo breve o lungo cammino fin qui,
verso il baluardo avanzato del giorno e dell’epoca,
la donna del chiosco dispone già con prudenza da qualche parte il
pacco di giornali, altrove c’è una stanga, piove,
un uomo nudo, anch’egli ha una madre da qualche parte, una
palazzina distante o un mucchietto rinsecchito, qualcuno ride e
indica col dito
nella nebbia, nudo e solo come da qualche parte in Russia (solo
che lì sarebbe più strano, più sigillato
in se stesso, la pioggia più fitta e il caso più intricato), qui e ora
soltanto un uomo
come un fatto crudo, un Marziano quotidiano e uno scampanellio
che si trascina intensamente per la mattina nuda
da nessuna parte –
(Hm ovvero Le misure dell’errore, 2002)
Petr Král, Tutto sul crepuscolo (Mimesis Edizioni, 2014)
Traduzione di Antonio Parente
Ma chi è Petr Král?
Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico, anche come insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ’90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.
Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).
Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Autore anche di prosa e curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte. Ha collaborato con la famosa rivista Positif e pubblicato due volumi sulle comiche mute.
La creazione poetica di Petr Král è segnata, come abbiamo detto, dall’incontro con il surrealismo. Il tema centrale è il rapporto tra realtà e immaginario. Un rapporto che, durante gli anni Settanta, diventa via via più articolato e conduce il poeta ceco verso esiti espressivi e formali di particolare interesse: la sua poesia si configura quasi come una sorta di commento della realtà, che mescola le esperienze quotidiane più banali, gli oggetti di uso comune, con l’istantanea psicologica dei personaggi, avvolti da un alone di vuoto. I luoghi descrivono gli interni domestici, dove va in scena la vita quotidiana, oppure appartengono al paesaggio urbano: strade, piazze, autobus, lampioni, treni, stazioni avanzano sulla pagina, e, spesso, un interlocutore muto condivide il colpo d‟occhio e le riflessioni che ne scaturiscono, gli interrogativi sul significato dei gesti, sul senso di un’affannosa, quanto frustrante, esistenza. Il tutto reso in modo tale da evitare il pur minimo ristagno nel cliché del patetico. In questo contesto, l’angolo visuale dal quale si osservano le cose risulta, per così dire, “spostato” rispetto alla prospettiva consueta, quella frontale, da cui ci affaccia da decenni la nostra poesia tradizionale. Viceversa, la prospettiva di Petr Král è resa di scorcio. Per questo motivo, il discorso che ne deriva non è diretto, esplicativo, ma rimane nel non-detto, è sottinteso, mascherato, indirizzato su percorsi periferici, inconsueti. Un certo ispessimento, o indurimento di espressione, e, ancora di più, il suo contrario, ovvero quel senso di ironia e auto-ironia, peculiare di talune poesie, possono essere interpretati come una reazione difensiva contro la transitorietà del mondo, contro il nulla. E l’effetto di mascheramento che l’ironia produce, quell’apparente alleggerimento della parola, rende, al contrario, più manifesta la sofferenza esistenziale e la malinconia che l’accompagna, il dramma che la suggella.
(Donatella Costantina Giancaspero)
Gino Rago – 9 domande a Giorgio Linguaglossa
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/18/petr-kral-ventisei-brevi-prose-da-nozioni-di-base-miraggi-2017-il-concetto-di-esperienza-nelle-disfanie-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-donatella-costantina-giancaspero-commenti-di-mila/comment-page-1/#comment-34088
[Stralcio di una intervista immaginaria su La COSA, in 9 domande e in 9 risposte, elaborate dai Capitoli su La COSA in Critica della Ragione Sufficiente di Giorgio Linguaglossa]
1 – Domanda:
Spesso ti sei confrontato oserei dire in tutti i tuoi saggi psicofilosofici con il tema della COSA riprendendo la domanda «Che cosa è una cosa?» di Heidegger
Risposta:
Heidegger per spiegare “cosa una cosa sia” prende in esame una “cosa” tra tante: la brocca.
2 – Domanda:
Quindi, non “una brocca”, ma “la brocca”…
Risposta:
La domanda su “la brocca” e non su “una brocca” non riguarda questa o quell’altra brocca, ma la brocca «in quanto tale», riguarda la sua «essenza». Perché «In quanto recipiente la brocca è qualcosa che sta in sé.»
Proprio questo stare in sé «caratterizza la brocca come qualcosa di autonomo. In quanto autonomia di qualcosa di autonomo, la brocca si distingue da un oggetto (Gegenstand)».
3- Domanda:
Così ben definita, così intesa, che uso fa Heidegger della brocca nel suo pensiero direi meditante?
Risposta
La brocca permette ad Heidegger di interrogarsi, secondo un suo personale procedimento, sulla cosalità della cosa. La cosalità della brocca nel procedimento fenomenologico di Heidegger consiste nel fatto che essa è come «recipiente». Quando noi passiamo al riempimento della brocca, il liquido fluisce nella brocca vuota. Questo gesto del riempimento fa dire ad Heidegger: «Il vuoto, questo nulla della brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene»
4 – Domanda:
Quindi, la cosalità della brocca non è affatto legata al materiale che la costituisce [argilla, metallo,vetro…]
Risposta:
No, la sua cosalità si lega esclusivamente al Vuoto che contiene
5 – Domanda:
Ma da un punto di vista chimico-fisico o scientifico la brocca non dovrebbe essere considerata vuota, ma piena, piena di aria…
Risposta:
Se ci lasciassimo sviare da una riflessione o valutazione o interpretazione di tipo scientifico ci lasceremmo sfuggire l’«essenza stessa della cosa», perderemmo cioè di vista la domanda:
« In che cosa consiste l’esser-brocca della brocca…»
6 – Domanda:
E Heidegger secondo te come aggira questo dubbio legato alla scienza, posto dalla scienza ?
Risposta:
Lo fa in virtù di questa riflessione meditante: “ l’esser brocca della brocca” consiste esclusivamente nell’offerta, nell’offrire perché «L’essenza del Vuoto contenente è raccolta nell’offrire».
Seguendo al contrario la via scientifica non lasciamo alla brocca che il vuoto sia davvero il “suo” Vuoto.
Il vuoto della brocca trova la sua essenza nell’offerta. E in questa offerta secondo Haidegger «[…] permangono insieme terra e cielo, mortali e divini».
7 – Domanda:
E’ un’affermazione sublime, sublimante. Puoi spiegarcela meglio?
Risposta:
La spiegherei così: l’offerta del versare dà da bere agli assetati, quindi dà da bere ai mortali.
Ma se il gesto del versare assume il senso di consacrazione l’offerta del versare da bere si rivolge agli dèi immortali.
8 – Domanda:
L’essenza della brocca che risiede nella offerta è il suo coseggiare?
Risposta:
Sì. Perché a questa offerta che è l’essenza della brocca si può dare il nome di COSA
9 – Domanda:
Secondo te è quindi giusto affermare in conclusione che l’essenza della brocca si manifesta soltanto nell’atto stesso della offerta del liquido da versare?
Risposta:
E’ giustissimo, tant’è che lo stesso Heidegger nel suo saggio su La COSA afferma:
« L’esser brocca della brocca si dispiega ed è racchiusa nell’offerta del versato».
(Gino Rago)
*
Nota.
Non potrò dare il mio contributo al dibattito che di certo si svilupperà su questa pagina importante di oggi per un grave lutto che mi ha colpito stamattina all’alba. Chiedo a tutti/e comprensione.
Caro Gino, anche se non conosco i termini precisi del lutto che ti ha colpito, ti sono fraternamente vicina.Torna presto tra noi, per darci forza e prenderne a tua volta.Il nostro discoso non può fare a meno del tuo contributo.Con grande affetto, Anna Ventura
Questo post di oggi è molto importante perché ci indica una via da seguire.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/18/petr-kral-ventisei-brevi-prose-da-nozioni-di-base-miraggi-2017-il-concetto-di-esperienza-nelle-disfanie-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-donatella-costantina-giancaspero-commenti-di-mila/comment-page-1/#comment-34090
Che Petr Král sia un poeta di raffinatissima intelligenza, non è una novità per chi capisce qualcosa di poesia, ma quello che è nuovo nelle sue prose come nelle sue poesie è il suo personalissimo concetto della «Cosa» e delle «cose», del loro misterioso essere là, della ubbidienza delle «cose», del loro essere «affidabili»… ma se c’è la «cosa» essa c’è perché c’è la «non-cosa» (pensiero ovvio); c’è il vuoto della cosa, c’è il vuoto di prima della cosa e di dopo la cosa. A chi sfugga questo semplice dettaglio non potrà che fare prosa e poesia del «pieno», questi ultimi sono gli scrittori del «pieno», scrittori acritici e aproblematici e aproteici, diciamo scrittori vegani, perché si pongono davanti alle «cose» come si può porre una persona munita di saldo e comodo senso comune… ma le cose non stanno così, le cose sono vive, sono state prodotte per essere vive, non per essere morte. «La fenomenologia estetica» delle poesie e delle prose di Petr Král si occupa di questa problematica. Come Morandi si occupava di bottiglie e solo di esse, così Král si occupa delle «disfanie» tra gli «oggetti» e della loro permutabilità in «cose». A mio parere qui si apre una sterminata miniera di minerali utilissimi alla prosa e alla poesia. Dico qualcosa di strano?
grazie
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/18/petr-kral-ventisei-brevi-prose-da-nozioni-di-base-miraggi-2017-il-concetto-di-esperienza-nelle-disfanie-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-donatella-costantina-giancaspero-commenti-di-mila/comment-page-1/#comment-34092
Gli oggetti hanno un potere grandissimo, che tuttavia ci sfugge. Credo che un artista che ha intuito questo potere, tanto da farsene martire/testimone sia Warhol. La sua ripetitività ossessiva è un tentativo di appropriazione dell’oggetto stesso, un atto di amore, prima che di conquista.Amo molto gli oggetti, ma la vita mi ha in segnato a saperne accettare la distanza, la perdita,l’oblio. Resta una traccia sottile,un’ombra che, talvolta, si ripropone alla memoria e anche alla realtà stessa; perchè gli oggetti, talvolta, ritornano.
Petr Král
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/18/petr-kral-ventisei-brevi-prose-da-nozioni-di-base-miraggi-2017-il-concetto-di-esperienza-nelle-disfanie-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-donatella-costantina-giancaspero-commenti-di-mila/comment-page-1/#comment-34093
Appiè di fanfara
a Claude Courtot
Di tutti i mezzi espressivi, la musica è quello che, probabilmente, ci delude meno. Soltanto l’ascolto di alcuni dischi fonografici, quali le prime registrazioni “giunglesche” dell’orchestra di Ellington, è capace di placare almeno un po’ quella fame interiore ed indefinibile che regolarmente si impossessa di me nel periodo pre-natalizio, nelle giornate insoddisfacentemente brevi di inizio inverno e scorcio anno. Soltanto con quei suoni preziosi e soprattutto, naturalmente, con i toni leggendari della cornetta di Armstrong di fine anni Venti, riesco a venire a patti con la malinconia che mi assale nelle serate estive e di fine primavera, quando la vita rivela in maniera così opprimente tutta la sua vana bellezza.
La musica non lascia in bocca lo sgradevole sapore della disillusione, poiché è sempre pienamente presente e si concede alla nostra solitudine senza riserve, proprio quelle per le quali altrimenti, volenti o nolenti, deprechiamo – almeno in ultima istanza – ogni altra forma di messaggio poetico, inclusi i testi o le immagini, il cui linguaggio ci pare più confidenziale. Come mezzo di espressione assoluto – e “lingua in se stessa” – la musica non conosce aneddoti di pensieri nascosti e significati segreti; a chi è disposto ad ascoltare, rivela tutto d’un colpo. Proprio lei, in altre parole, di tutte le arti è quella che meno tenta di fingere che “sotto il reale esistano strati, sepolti o soppressi, di significati, percezioni, realtà o verità”; di dissimulare “che tutto, in particolar modo ciò che vi è di fondamentale, è sempre stato a portata di mano e in superficie”[1]. La profonda veridicità delle relazioni che i toni allacciano con chi li ascolta, nell’istante in cui riempiono d’un tratto l’intero orizzonte acustico, si fonda senza dubbio anche nella congenita amnesia della musica – nel fatto che ogni volta sia di nuovo senza passato, senza futuro e “senza dimora”. La musica esiste soltanto nell’attimo in cui risuona ed è ascoltata; soltanto lì dove risuona e per colui che l’ascolta. In definitiva, ciò è vero anche per la realtà; tutto ciò che vi è di fondamentale è non solo “a portata di mano e in superficie”, ma è sempre presente proprio ora e qui. O cavalli che galoppate verso l’incendio, siete voi stessi quelle fiamme inquiete, la cui lucentezza avete premura di vedere sulla vostra pelle umida.
Ed inoltre, come la più “insussistente” forma di soliloquio umano, la musica ha un effetto tanto irrevocabile soprattutto perché la vertigine che evoca si sazia di se stessa: il soggetto, fonte originaria e supremo ricettore di luce che l’essere umano convoglia con la sua presenza nell’oscurità dell’universo, avverte se stesso, come in nessun altro luogo, in tutta la sua futilità e ingiustificabilità, come limpido, infondato amor proprio dell’io e – attraverso quello – di tutto ciò che esiste. Se è scaturito il bisogno di cantare, parallelamente al risveglio della coscienza umana, senza dubbio la musica – tutta la musica – offre anche una prova assiomatica del fatto che la stessa vertigine provocata dall’esistenza è qualcosa di innato nell’essere umano, e che è stata soltanto soppressa dopo aver presunto di non poter concedersi a lei senza motivazione: non ne trova ragione intorno a sé in ciò che nella natura, nella società e nell’universo vi è di esteriore. Di tutte le certezze che qui all’occasione ha rinvenuto, è dovuto prima o poi rimanere nulla più della cenere della disillusione; l’intero piacere per il dono, che è la vita, si fonda sul fatto che lei stessa è sufficiente motivo e giustificazione. Gioia oltre la speranza e senza la speranza, che non è epiteto occasionale dell’esistenza, ma sua forma essenziale: continuamente presente, vuol essere soltanto invocata dal silenzio, come melodia con la quale acquista voce il respiro umano[2].
E nel caso qualcuno non avesse capito, intendo dire che anche nella musica dell’Internazionale possono essere fonte di gioia i semplici suoni, senza riguardo del programma che devono propagandare.
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[1] Antonin Artaud, lettera ad André Breton, 28 febbraio 1947.
[2] La costante presenza della musica è dimostrata in modo particolare anche da alcune registrazioni jazzistiche degli ultimi anni (un esempio per tutti: Forest Flower di Charles Lloyd); quelle nelle quali la modulazione del motivo ricorrente, invece che incidere violentemente la composizione nel silenzio, lascia piuttosto che essa emerga in superficie dal suo profondo.
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Donatella Costantina Giancaspero
19 ottobre 2017 alle 13:56
Di Petr Král, a parte le poesie, che apprezzo sempre di più a ogni rilettura, mi ha colpito in modo particolare questo scritto sulla musica, “Appiè di fanfara”. A mio parere, le riflessioni di Král esprimono l’essenza profonda della musica, ad esempio là dove si evidenzia la sua assoluta “veridicità” nel relazionarsi con l’ascoltatore. Per questa caratteristica fondamentale, “Di tutti i mezzi espressivi – egli scrive – , la musica è quello che, probabilmente, ci delude meno”. In sostanza, il poeta riconosce alla musica quel primato su tutte le altre arti che già molti scrittori e filosofi avevano sottolineato. Ad esempio, Arthur Schopenhauer. Per il filosofo, la musica è l’unica tra le arti che va oltre la materia: non esprime semplicemente un’idea, ma è l’essenza stessa del pensiero, come si legge nella sua opera più famosa, Il mondo come volontà e rappresentazione.
«La musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse piú: cosa che non si può dire delle altre arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell’intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque, non è affatto, come le altre arti, l’immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa, della quale anche le idee sono oggettività: perciò l’effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l’ombra, mentre essa esprime l’essenza.(…) [La musica] esprime, con un linguaggio universalissimo, l’intima essenza, l’in sé del mondo, che noi, partendo dalla sua più limpida manifestazione, pensiamo attraverso il concetto di volontà, e l’esprime in una materia particolare, cioè con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità; del resto, secondo il mio punto di vista, che mi sforzo di dimostrare, la filosofia non è nient’altro se non una completa ed esatta riproduzione ed espressione dell’essenza del mondo, in concetti molto generali, che soli consentono una visione, in ogni senso sufficiente e applicabile, di tutta quell’essenza; chi pertanto mi ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non troverà tanto paradossale, se affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz’altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del tutto simile, e sarebbe cosí la vera filosofia.»
(Traduzione di Antonio Parente)
Duke Ellington (1899 – 1974)
Il grande Duke Ellington registrò Il brano “Jubilee Stomp” nel 1928 insieme alla sua band jazz, la Cotton Club Orchestra. L’ho inserito qui, perché Petr Král, nelle sue riflessioni intorno alla musica, in “Appiè di fanfara”, cita appunto le prime registrazioni dell’orchestra di Ellington. Queste, insieme ai “toni leggendari della cornetta di Armstrong di fine anni Venti” (come scrive), hanno il potere di allontanare da lui la malinconia – forse una sorta di “spleen” –, che sopraggiunge in varie occasioni, in alcuni periodi dell’anno…
Il brano è per lui e per tutti voi, amici e visitatori della rivista.
Buon ascolto!
Gentile Signor Gino Rago,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/18/petr-kral-ventisei-brevi-prose-da-nozioni-di-base-miraggi-2017-il-concetto-di-esperienza-nelle-disfanie-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-donatella-costantina-giancaspero-commenti-di-mila/comment-page-1/#comment-34107
l’altra notte l’ho incontrata per caso, in un sogno, ma non mi ha riconosciuto.
Del resto, ha poca importanza, siamo vicini all’infinito, tanto vicini che ho dimenticato di imbucare la lettera anonima con cui denunciavo il suo delitto. Però, non c’è di che, può dormire sonni tranquilli, la polizia vaga ancora nel buio; il valzer delle stelle bussa ai vetri della mia finestra… nel sogno un tizio mi diceva che Gesù è stato crocifisso con i chiodi di garofano!, buffo, no? mentre Barabba se ne è tornato a svaligiare le banche. In tutta franchezza, le dirò: si sta bene qui, all’ombra del sicomoro; qui non ci sono sbirri e la sera si va in discoteca a ballare; sì, è vero, la memoria ci ha dimenticato, che farci?, che peccato però, Mimoza Ahmeti mi ha spedito una poesia in sogno, però ha sbagliato sogno, non era il mio ma il Suo… oh, non c’è di che, chiamerò al telefono la poetessa, le dirò di correggere il tiro… ma sì, di lasciare il mio sogno e di entrare nel Suo…
Gentile Giorgio Linguaglossa,
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La informo che il Presidente mi ha conferito il mandato esplorativo per verificare a quale titolo e a quale grado di vuotità del vuoto siamo giunti. Non Le nascondo, egregio Linguaglossa, il mio rammarico, l’altro giorno per non avere accolto con i riguardi che merita il Buio che rotola a velocità forsennata. Il mio legale di fiducia mi scrive che ci sono delle questioni in sospeso ma l’Agenzia delle Entrate, ovvero, l’Erario, prima o poi si farà viva con gli impostori e gli imbroglioni, ne sono certo. Dovremo verificare quindi, quanto prima, le possibilità di accordo tra la vuotità del vuoto e la buiosità del buio e comunicare le nostre conclusioni al Presidente.
Conto sulla Sua collaborazione, dunque.
F.to Gino Rago
POESIa di
Ewa Lipska
L’oscurità Cara signora Schubert, l’onda d’urto dell’Oscurità è sei volte più rapida della pallottola sparata da una pistola. Si muove alla velocità di alcune migliaia di metri al secondo e mi assale sempre alla stessa ora del mondo.
Ricevo da Francesco Gallieri la Lettera che qui allego:
Caro Giorgio
Gino Rago sull’Ombra commenta:
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“[la nuova ontologia estetica] ( citandoti ) non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. [E deriva da un atto di fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.]
”Dunque, osare, linguisticamente osare, anche perché diversamente aumenterebbe incontrollabilmente l’entropia [come misura del disordine dell’universo] della lingua come lo stesso Gallieri giustamente afferma:
“Ricorda che la natura, a lasciar fare, tende al disordine, aumenta l’entropia”
E invece la parola può esser governata e chiamata a grandi cose se ci ricordiamo dell’idea di Giorgio Linguaglossa secondo il quale:
“La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo”. Ed è come ribadire: “Dimmi che uso fai del tempo e ti dirò che poesia potrai fare”.
Tu scrivi:
“La poesia di Gallieri è intensa, atipica, ben diversa dall’anemico linguaggio della poesia massmediatica che va di moda oggi”
E allora, dico io, osiamo, non basta dire BASTA alla deriva del minimalismo o dei vari sterili ismi ( che qui per carità di patria non cito ). Bisogna far qualcosa, e te lo dico da ingegnere cui per professione è richiesto di fare.
Ma, prima di questo, c’è un enorme problema non solo esistenziale, ma esiziale, mortale, che va ben oltre, trascende la poesia ( che è ovviamente coinvolta): è questa visione del futuro, che ti avevo già inviato e che qui ti riallego:
VERSO IL CYBER-UOMO
I nativi digitali, i cosiddetti millenials, non sono ottusamente appiattiti sul loro mondo digitale, sono l’espressione del mondo che sarà domani. E dopo di loro la generazione che seguirà sarà sempre più “connessa“. Quanto tempo occorrerà perché un chip possa essere impiantato nelle loro teste, per essere continuamente “connessi”? E magari con una capacità di memoria immensa ( si pensi al linguaggio quantistico, che è dietro l’angolo ) tale addirittura da contenere “a comando” ogni aspetto dello scibile umano. Non è fantascienza. Ad esempio Neuralink, una nuova società patrocinata da Musk, ha l’obiettivo di costruire computer nel nostro cervello per mezzo della “stringa neurale”, una tecnologia che è ancora in una fase inziale, ma che molti ritengono ampiamente realizzabile.
Ed è inutile cercare di opporsi adducendo motivi etici, religiosi, ecc.: è la strada di minore resistenza, e quindi questo sarà il futuro più probabile.
E se pensate che questo sia snaturare la nostra natura “umana”, non tenete in conto la nostra straordinaria duttilità. Così, per un bambino che nasce in una capsula spaziale, e trascorre lì tutta la vita, non ha senso la natura come la conosciamo noi – che lui non conosce – ma non per questo è meno ”umano”.
Tutto questo naturalmente nell’ipotesi che, nel frattempo, non ci autodistruggiamo.
Spingiamoci più in là. La nostra propensione ad esplorare per conoscere ci porterà senz’altro ai viaggi interplanetari. Ma la nostra fisiologia non è adatta, per una infinità di ragioni. E allora la soluzione più razionale sarà dotarci di un corpo meccanico, anche “completamente” meccanico.
Questo offre straordinarie possibilità. Forse la più importante sarà debellare in un colpo solo tutte le malattie. Senza parlare del potenziamento, grande quanto si vuole, delle capacità fisiche. Quando prima parlavo di strada di minore resistenza, cosa credete che sceglieranno le generazioni future?
Ciò che resterà del nostro corpo fisiologico sarà solo quella parte di cervello che chiamiamo “coscienza”. L’unica vera aberrazione sarà cercare di sostituire anche la ”coscienza”.
Di fronte a questo probabile, ed estremo, scenario, un amico, peraltro già anziano, mi ha detto: “Sono contento di morire”.
Non ho per il momento niente da aggiungere. Mi limito a registrare col mio linguaggio poetico – mi auguro meno “anemico”, nel senso detto prima, ma non “novecentesco” – il mio profondo malessere per l’insipienza e l’indifferenza di una umanità che rischia l’estinzione. E ti allego, per un tuo eventuale commento, la mia silloge inedita “Brutti e Cattivi”.
Grazie in anticipo per la pazienza di leggermi
un saluto caro
francesco gallieri
Alla bellissima pagina odierna, e alla ricca antologia di testi proposta, vorrei accostare queste considerazioni di Georges Perec a proposito dell’importanza del comune, del banale, dell’ordinario, anzi dell'”infra-ordinario”:
“Non interroghiamo (l’abituale), non ci interroga, non ci sembra costituire un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non contenesse nè domande nè risposte, come se non trasportasse nessuna informazione. Dormiamo la nostra vita di un sogno senza sogni. Ma dov’è la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio?
Come parlare di queste “cose comuni”, o meglio, come braccarle, come stanarle, come liberarle dalle scorie nelle quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano finalmente parlare di quello che è, di quello che siamo.
Forse si tratta di fondare finalmente la nostra propria antropologia: quella che parlerà di noi, che andrà cercando dentro di noi quello che abbiamo rubato così a lungo agli altri. Non più l’esotico, ma l’endotico. (…)
Ciò che dobbiamo interrogare, sono i mattoni, il cemento, il vetro, le nostre maniere a tavola, i nostri utensili, i nostri strumenti, i nostri orari, i nostri ritmi. Interrogare ciò che sembra aver smesso per sempre di stupirci. Viviamo, certo, respiriamo, certo; camminiamo, apriamo porte, scendiamo scale, sediamo intorno a un tavolo per mangiare, ci corichiamo in un letto per dormire. Come? Dove? Quando? Perchè? (…)
Fate l’inventario delle vostre tasche, della vostra borsa. Interrogatevi sulla provenienza, l’uso e il divenire di ogni oggetto che ne estraete.
Esaminate i vostri cucchiaini.
Cosa c’è sotto la carta da parati?
Quanti gesti occorrono per comporre un numero telefonico? Perchè?
Perchè non si trovano le sigarette in drogheria?
Perchè no?
Poco m’importa che queste domande siano frammentarie, appena indicative di un metodo, al massimo di un progetto. Molto m’importa, invece, che sembrino triviali e futili: è precisamente questo che le rende altrettanto, se non addirittura più essenziali, di tante altre attraverso le quali abbiamo tentato invano di afferrare la nostra verità”
G.Perec, L’infra-ordinario, Bollati, 1994 (traduzione R. Delbono)
Per Rossana Levati: che bella , questa domanda,”Che c’è sotto la carta da parati?”Anche con questa, come con certi laconici versi di Lucio Tosi, si potrebbe scrivere un romanzo.Da bambina ero affascinata da queste misteriose carte incollate al muro;di nascosto, qualche volta, ne ho sollevato un angoletto.Di solito, c’era un’altra carta precedente,che non era stata rimossa.Il mistero, così, cresceva.Nella casa al mare, dove ormai abito stabilmente, le carte da parati sono vivamente sconsigliate dagli stessi imbianchini.Ho optato per i muri a calce, necessariamente; ma li ho riempiti di quadri,di specchi, di oggetti posticci,di buchi per infilarci dentro le cose.Così capiranno di essere stati troppo austeri.
Gentile Anna Ventura, i buchi nel muro per infilarci dentro le cose, che lei ha citato, a me fanno subito venire in mente tanti versi di Ritsos, che in molte sue poesie ne parla come di “luoghi segreti” dove soprattutto le donne infilano cose preziose; forse perchè i buchi nel muro sono, come lui dice, “un luogo stretto che ci protegga dalla nostra stessa infinità”.
Ho ripreso in mano questa sera Perec, dopo molti anni dalla prima lettura, sullo stimolo della pagina odierna de l’Ombra, e mi riprometto di leggerlo di nuovo, appena possibile: è proprio da domande come questa, “che cosa c’è sotto la carta da parati?”, oppure “cosa c’è dentro il quadro?”, o “quali arredi ci sono nella stanza?” che sono nati i suoi particolarissimi romanzi, che non sono uguali a nessun altro.
cara Anna Ventura,
da bambino anch’io ero affascinato dalla carta da parati.
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Un giorno i miei genitori presero in affitto un appartamento ai Parioli di Roma (siamo intorno al 1958), lì c’erano alcune stanze con una tappezzeria stile decò, con grandi fiori colorati e grandi petali che debordavano dai pistilli. Io ne ero ad un tempo sconvolto e affascinato, percepivo in quelle forme colorate l’esistenza di un mistero… non osavo scostarne un lembo come hai fatto tu, non osavo forse perché temevo di scoprire che dietro quella carta rigogliosa e colorata ci fosse qualcosa d’altro di inquietante e di minaccioso… fu in quegli anni della mia solitaria infanzia che presi a giocare con i bottoni. Mia madre aveva una gran quantità di bottoni di tutti i tipi e di tutte le fogge. E presi a giocare con i bottoni. Avevo costruito un Impero con al centro la capitale, ricordo ancora che si chiamava Molenia; e attorno a questo impero brulicavano torme di barbari. E così facevo scontrare gli eserciti di bottoni dell’impero con le torme selvagge dei barbari. Ed erano stragi… ma alla fine, dopo alterne fortune, vincevano quasi sempre gli imperiali.
Per me bambino, quegli oggetti, quelle cose, quei bottoni erano cose vive, ogni bottone morto nello scontro con gli altri bottoni suscitava in me esaltazione, timore e sconvolgimento. Quella è stata una buona scuola di apprendimento della violenza, della falsità e della crudeltà del mondo degli adulti… a quel tempo, come tutti i bambini, mi allenavo ad entrare nel mondo degli adulti, un mondo misterioso, pensavo, dove non corrispondevano a verità le apparenze, dove dietro ogni atto di cortesia degli adulti si celava una gran quantità di prevaricazione, di falso e di violenza. Gli oggetti, le cose finite e delimitate producevano in me, nella mia fantasia, delle strane risonanze… imparavo a conoscere il mondo di fuori dallo studio della finitezza dei bottoni e della loro vulnerabilità. I bambini sono vicini al segreto del «finito» e dell’«infinito», loro sanno, immaginano che dietro ogni finito si nasconde quella cosa misteriosa che è l’«infinito», e questo li sgomenta, e cercano in tutti i modi di scacciare l’«infinito» dal finito, il nulla dall’essere. I bambini tutti sanno bene che è negli «oggetti» il segreto delle «cose»…
A proposito dei bottoni…
Zbigniew Herbert
I bottoni
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Solo i bottoni inflessibili
sono scampati alla morte testimoni del crimine
salgono dalle profondità in superficie
unico monumento sulla loro tomba
sono testimoni che Dio farà la conta
e avrà pietà di loro
ma come potranno risorgere col corpo
se sono parte collosa della terra
è sfrecciato un uccello una nuvola scorre
cade una foglia la malva germoglia
e silenzio nell’alto dei cieli
e sale la bruma dal bosco di Smolensk
solo i bottoni inflessibili
potente voce di cori ammutoliti
solo i bottoni inflessibili
bottoni di uniformi e cappotti
(Z. Herbert,, da “Rovigo”, in “L’epilogo della tempesta”, Adelphi, traduzione di F. Fornari).
I bottoni, così ripetutamente definiti “inflessibili”, sono sottratti alla morte, al fluire del tempo e anch’essi, come gli “oggetti inanimati” di cui parla lo stesso Herbert, “sono sempre a posto e non si può rimproverargli nulla”, come le sedie, i letti e i tavoli che non possono impennarsi e inginocchiarsi e sembrano “rinfacciarci di continuo la nostra incostanza”
(“Gli oggetti”, in “Hermes, il cane e la stella”, da “Rapporto della città assediata”, Adelphi, traduzione di P. Marchesani)
Caro Giorgio, nelle mie fortunose peregrinazioni ho avuto la costanza di salvare una scatola piena di bottoni,per i quali ho molta attenzione Ma uno prevale su tutti,tanto che lo conservo in uno scatolino a sè: durante la guerra, ci rifugiammo in campagna; una sera incontrammo un soldato in fuga, e lo ospitammo per un po’;nel salutarci, si strappò un bottone dalla giacca,per lasciarci un suo pegno di affetto.Gli oggetti sono un tramite per comunicare,sono più vivi di quanto sembrino,più vivi di alcuni uomini.
Per esempio, contiamo quanti oggetti sono nominati in questa poesia di Auden. Ho contato 28 oggetti:
Wystan Hugh Auden (1907-1973)
Funeral blues
.
Stop all the clocks, cut off the telephone,
Prevent the dog from barking with a juicy bone,
Silence the pianos and with muffled drum
Bring out the coffin, let the mourners come
Let aeroplanes circle moaning overhead
Scribbling on the sky the message He Is Dead,
Put crêpe bows round the white necks of the public doves,
Let the traffic policemen wear black cotton gloves.
He was my North, my South, my East and West,
My working week and my Sunday rest,
My noon, my midnight, my talk, my song;
I thought that love would last for ever: I was wrong.
The stars are not wanted now: put out every one;
Pack up the moon and dismantle the sun;
Pour away the ocean and sweep up the wood.
For nothing now can ever come to any good.
Wystan Hugh Auden (1907-1973)
versione di Paolo Statuti
Blues funebre
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Fermate tutti gli orologi, i telefoni staccate,
Un bell’osso per non abbaiare ai cani gettate,
Azzittite i pianoforti e coprite i tamburi,
Fate entrare la bara e gli amici coi volti scuri.
Gli aerei traccino un triste cerchio e sia scorto
In alto nel cielo il messaggio Egli è Morto,
Mettete il crespo sui colli dei piccioni nostrani,
E indossino guanti neri di cotone i vigili urbani.
Egli per me era i quattro punti cardinali,
La mia settimana di lavoro e i riposi domenicali,
Il mio meriggio, la mezzanotte, ciò che cantavo;
Io credevo che l’amore fosse per sempre: sbagliavo.
Spegnete tutti gli astri: nessuno ora sarà cercato;
Imballate la luna e il sole sia smontato;
Svuotate l’oceano e spazzate via il bosco,
Perché niente che sia buono ora io conosco.
(Versione di Paolo Statuti)
[…]
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/18/petr-kral-ventisei-brevi-prose-da-nozioni-di-base-miraggi-2017-il-concetto-di-esperienza-nelle-disfanie-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-donatella-costantina-giancaspero-commenti-di-mila/comment-page-1/#comment-34126
ma non solo gli oggetti, non solo le cose, ma, come ci insegna Anna Ventura, sono importanti anche la «distanza» tra le «cose», la «distanza» dall’io, i rallentamenti e le subitanee velocizzazioni, le sterzate, le frenate… in fin dei conti, un lampo lo vedi meglio se ci stai a distanza, e così un «evento», lo vedi meglio se interponiamo una «distanza» tra noi e l’«evento».
Leggiamo quello che scrive Steven Grieco Rathgeb:
Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?/ Il loro senso completo./ Solo l’ombra deve essere riconoscibile./ Il resto lo fa il poeta./ Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,/ e quindi velocissima…
*
Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.1
Di che cosa si parla? Di niente, di una «porta [che] si è spalancata». L’«Evento» è quella «presenza» che non si confonde mai con l’essere-presente, con un darsi in carne ed ossa. È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io, o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento. La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo. La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo. Con il primo piano si dilata lo spazio, con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo.
1 Steven Grieco Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis, Hebenon, 2016
Pingback: Petr Král, Ventisei brevi prose – da Nozioni di base, Miraggi, 2017, IL CONCETTO DI ESPERIENZA NELLE DISFANIE – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero – Commenti di Milan Kundera, Massimo Rizzante, Donatel
Se fossi un poeta, sarei felicissimo di essere curato e commentato come Petr Král qui da Giorgio Linguaglossa e Donatella Costantina Giancaspero. E infatti, questo post è davvero molto bello, ricco soprattutto di spunti e idee. Sembra che, anche con l’apporto di poeti non italiani, la NOE allarghi sempre più le ali. Sì, Král davvero va cercando quel grado zero delle cose che solo può far nascere il vero dal non-vero, come dice Giorgio. Penso che molti di noi, vedi un Gino Rago per dare un solo esempio, non sono più contenti, paradossalmente, di aggiungere materiali ad una poesia, ma piuttosto di scarnificarla. Allora la minima oggettualità di una poesia invita il lettore a intravederne l’essenzialità. E’ ben strano questo fatto, ma forse nemmeno tanto, se pensiamo che noi poeti oggi siamo come i bambini che hanno troppi giocattoli, (giocattoli fasulli di plastica) e non sanno che farsene: allora si buttano in terra e si mettono a modellare la terra o la sabbia, giocano con delle foglie o pezzettini di legno, o fanno un disegno su un pezzettaccio di carta, o fanno qualche altro gioco che scaturisce dalla minima oggettualità, ma dalla massima creatività mentale. Così Král: vuole scendere ad un minimo comun denominatore delle cose, ritrovando così il semplice loro essere. Curiosamente, il semplice essere del mondo è proprio la sua essenzialità. Dunque Král non ha nessun bisogno di spingersi in chissà quali siderali distanze, nessun bisogno di rivelazioni. L’esserci dell’oggetto è già di per sé rivelazione, avrebbe detto un filosofo indiano di tremila anni fa.
C’è un ghazal dell’ottocentesco poeta Urdu Mirza Ghalib, che d’un tratto si riduce diciamo così ai minimi termini, dunque abbandona tutte le metafore, la rosa e i suoi spini, l’amata (amato), l’usignolo, la candela che si spegne all’alba, e di colpo , nel bel mezzo del suo ghazal si chiede: “ma cosa sono queste nuvole? Da dove questo cielo? E gli alberi? Cosa sono gli occhi di una donna?” Di colpo egli incontra profondamente l’essenzialità di ogni cosa, e l’epifania è giustamente nel suo non avere proprio nulla di epifanico. Il solo esser lì è già miracolo di per se stesso.
Devo dire che già Kavafis usava spesso questo modernissimo procedimento, questo modo di presentare eventi che potremmo anche dire immensi in forma di un laconico, quasi indifferente resoconto dell’accadimento. Ad esempio, la prossima rovina di Caligula, tradita dal tremito dei Lari che hanno sentito il passaggio delle Erinni.
In Král siamo scesi a toccare ancor di più le comunissime “cose”, i “comunissimi” sentimenti.
Comunque, è anche interessante vedere come questo procedimento sappia anche capovolgersi di colpo. Nella composizione “Il treno”, a un tratto noi lettori cominciamo a perdere la bussola, e ci accorgiamo che il poeta ci ha aperto una fessura su una realtà niente affatto familiare, niente affatto comune. Ecco, questa mi sentirei di chiamarla realtà “disfanica”, perché secondo Chiara Catapano, è semplicemente la “intera realtà”, diciamo non solo quel campo di indagine del reale che noi, come esseri razionali, scegliamo. Questo più esteso reale viene a comporsi quando l’occhio del poeta scruta molto in profondo. Non sempre Král intende fare questo: ma quando lo fa, è molto forte. “Il muro e il recinto”, “La porta girevole” sono pezzi davvero geniali, dove il pochissimo rivela tutta la sua sfuggente intensità.
Uno dei segreti qui è il fatto che: “…l’angolo visuale dal quale si osservano le cose risulta, per così dire, “spostato” rispetto alla prospettiva consueta, quella frontale, da cui ci affaccia da decenni la nostra poesia tradizionale.”. Questo dice D.C. Giancaspero, Ebbene, sì, uno dei punti chiave della nuova poesia è proprio come dice Donatella Costantina: “Nei testi poetici di Petr Král, come nelle sue prose di Nozioni di base, sarebbe errato cercare un «centro» unico della composizione, perché il «centro» appare ovunque: è dislocato e si dis-loca continuamente.”
Non c’è altro da dire, in effetti. Vorrei solo aggiungere che questo modo di vedere non è tipico della sola NOE. In effetti le “scoperte” scientifiche degli ultimi anni, come anche l’inesorabile e irreversibile piegarsi della società umana via dal Novecento verso destinazioni del tutto ignote, fanno di questo modo di vedere il reale, un modo assolutamente principe. La poesia, la poverella che sempre regge la candelina alle altre attività dell’uomo, aspettava la NOE per capire ciò che tutti avevano già capito. (Ma che non sapevano dire in poesia…)
Caro Steven, solo due parole (e due punti esclamativi): eccellente commento!!
Per Steven Grieco: Caro Steven, se avessi tempo -e forza-mi piacerebbe di approfondire, nella tua poesia, il tema della porta.Mi sembra fondamentale; riesci a comunicare tutto:il dentro che si nasconde e il fuori che vorrebbe fare altrettanto; eppure, il messaggio li attraversa e li supera,fino a una “rivelazione”inevitabile.Così dietro i paraventi di Giogio Linguaglossa si intuisce un vissuto sofferto e meditato,uno scavo ininterrotto dentro il proprio io,in cui passato e presente diventano atemporali, rivelano legami remoti importantissimi, in una “stoffa”compatta ,capace di resistere ad ogni forbice.
Edith Dzieduszycka
a Petr Kral
À MI-CHEMIN
À peine arraché au sommeil par la sonnerie acidulée du réveil, posé sur la table de nuit à côté du verre d’eau et du comprimé de vitamines préparés la veille au soir, il appuyait immédiatement sur le bouton pour en faire cesser le détestable rappel à l’ordre. Rappel pourtant indispensable, inévitable, inexorable qu’il avait depuis longtemps, et très astucieusement – il s’en félicitait chaque matin – réglé avec une demi-heure d’avance sur le temps nécessaire pour accomplir la cérémonie quotidienne: petit-déjeuner-toilette-habillage-mise-en-train-mise-au-point-avant-d’affronter-le-monde-extérieur.
Avec irritation ou amusement selon l’embryon d’humeur matinal, il se répétait souvent les stupides adjectifs en able, dont il affublait cette implacable et antipathique étape, laquelle, sans sa prompte intervention, n’aurait pas manqué de se prolonger de façon interminable, intolérable, au-delà du supportable!
Muselé l’odieux signal, il renfilait rapidement main et bras sous l’oreiller et se préparait, au creux d’une lente impatience, à accueillir et à jouir de son moment. Moment ineffable, exclusif et solitaire qu’il comptait savourer avec volupté. Intervalle de demi-sommeil, rallonge programmée, à mi-chemin entre une absence onirique et la conscience progressive de soi-même et du monde extérieur. Il était alors prêt à déguster le plaisir éphémère, intense, presque violent à force de fragilité, qu’il ressentait dans cette émersion quotidienne. Mais il s’employait maintenant à la freiner, d’immédiate et brutale qu’elle avait été, afin de conduire par degrés légers, de façon presque insensible, ce passage de l’état larvaire agressé à celui de créature consciente et pensante. Pensante, hélas, avec tous les inconvénients et les problèmes qu’entraîne une telle activité souterraine, réfléchissait-il précisément, dans une première ébauche de retour à la réalité, heureux de pouvoir encore se blottir et réfugier au creux de ce berceau primordial irresponsable.
Car il s’agissait réellement du brin de temps le plus précieux de sa journée, mais aussi de quelque chose qui allait chaque fois au-delà, qui creusait plus profond. Comme un devoir envers lui-même. La reconnaissance de son unicité. Une sorte de retour étonné à ses propres racines, à son magma originel, accompagné du sentiment d’incrédulité chaque fois renouvelé que l’on peut éprouver face à un miracle. Et même si, de plus en plus souvent, à ces sensations positives se superposait celle, plus ambiguë et frustrante de ses propres limites, contradictions et incompréhensions, il était bien décidé à profiter au maximum de ce trésor fugace, destiné, il ne le savait que trop, à s’évanouir rapidement au fil des heures.
Dans cette demi-heure volée, rognée sur la vraie vie – mais n’était-elle pas, celle-ci, précisément, la vraie vie? – se concentrait ce qu’il savait être l’essentiel de lui-même. Un très modeste et médiocre essentiel, dont la zone d’ombre la plus intrigante et de quelque valeur à ses yeux résidait précisément – et peut-être hélas exclusivement – dans la lucidité qu’il s’attribuait, sans aucune complaisance, et dont il s’accordait le bénéfice souvent douloureux, mais surtout dans l’enchevêtrement de stupeurs dont il n’avait jamais cessé de se nourrir et – il l’espérait – peut-être de germer et de croître. Comme si ses principales richesses consistaient paradoxalement en ses doutes, ses incertitudes, son ignorance. Stupeurs infinies donc, et demandes sans réponses, d’une banalité désolante, cuisinées dans la grande marmite universelle, avec – semblait-il – pour unique résultat le fait de se brûler les doigts et la langue et de rester sur sa faim.
Un de ces interrogatifs inutiles et ridicules, mais qui le taraudait particulièrement, n’en finissait pas de venir et d’aller: pourquoi se réveillait-il chaque matin lui-même après le passage à vide du sommeil – un vide peuplé de forêts grouillantes -? Pourquoi se retrouvait-il, avec davantage d’intensité encore, aux petites heures et lueurs de ses nuits au sommeil toujours plus avare, avec une inéluctabilité et une persévérance sans égales, à l’intérieur de son enveloppe? Pourquoi se découvrait-il, avec l’égale et routinière surprise, rassurée-rassurante, en même temps qu’avec une lassitude et une sourde déception pour la monotonie de telles retrouvailles indéfiniment renouvelées – jusqu’à quand? – dans sa sueur, son odeur, ses prurits, ses palpitations, ses petites douleurs vagabondes, bref, dans son propre corps, sous l’écorce de sa peau? Peau sur laquelle il retrouvait sans surprise grains de beauté, plis, boutons, poils et sillons. Corps su par cœur désormais, mais dont il écoutait pourtant et observait avec attention les moindres signaux, anomalies et manifestations inattendues ou indéchiffrables.
Et puis, phénomène plus mystérieux encore, incompréhensible et obstiné, l’intriguait cette réintégration inlassable à l’intérieur de son autre demeure invisible, qu’il n’avait quittée que de façon apparente pour sombrer dans le pays du sommeil et des songes. Lambeaux évanescents qui lui donnaient au réveil l’impression de s’être extrait de soi-même et d’avoir enfourché les chevaux sauvages des western de son adolescence. Il lui en restait à chaque fois la sensation fugitive d’avoir été entrainé dans des expéditions en pays inconnus et lointains, dont il ne restait au réveil que les tourbillons de poussière et de sable soulevés par les sabots martelant le sol. Autre demeure enfouie dans la face cachée, insaisissable de son être personne. Peut-on appeler âme, esprit, essence, la cavalcade ininterrompue des pensées et des rêves, au pas, au trot, au galop, selon les saisons, la lumière du ciel, les nuages, le sourire ou le silence de qui t’importe? Sans grande originalité, variations ou coups d’éclat, cette écume plus ou moins effervescente, tournoyant presque toujours autour des mêmes ronds-points comme un écureuil sur sa roue, peut-on la considérer la pulpe du fruit destinée à pourrir ou son noyau indestructible?
Ne serait-il pas intéressant, enrichissant, instructif, de pouvoir s’échanger, parfois, de visiter d’autres habitacles, de s’enfiler dans d’autres corps – au delà des explorations sexuelles, peut-être les seules en mesure de permettre incursions sans fard dans d’autres entités, autrement indéchiffrables -, de découvrir d’autres mondes, aussi proches qu’inconnus, surprenants, séduisants ou répulsifs? Parce que trop souvent vaines, peu sincères, sont d’ordinaire les tentatives de communiquer à notre disposition, quand bien plutôt triomphantes sont celles élaborées, sciemment ou non, pour se cacher, à l’intérieur du silence, mais peut-être et plus encore, paradoxalement, à travers les paroles et les gestes.
Sera-t-elle un jour capable, la science, de procéder à de telles opérations? Ne sont-ils pas, déjà, sérums de vérité et greffes d’organes, le début de ce parcours? Mais Frankenstein serait sans doute non loin, tapi dans l’angle, et ce qui pourrait constituer une expérience fabuleuse ne tarderait probablement pas à se transformer en cauchemar.
Souvent dans les derniers temps il se sentait visité par un tel éventail de pensées, mes idées malsaines, comme il se vantait souvent envers lui-même de les qualifier avec un mélange d’exultation et d’embarras, même si elles n’en restaient pas moins extraordinairement intéressantes et pleines de perspectives et développements plus inquiétants les uns que les autres, et pour ces raisons mêmes fascinantes.
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Marbre, pierre, minéral immobile et figé dans l’absence, retardant le démarrage du mécanisme. Ainsi restait-il quelques minutes encore dans cet état paradoxal et complémentaire de béatitude vibrante et passivité, les yeux toujours fermés, au chaud sous l’édredon moelleux de plumes d’oie. Seulement à la fin de cette pause initiale il commençait à arquer la colonne vertébrale et à s’étirer, lentement, dans un contact renoué avec chaque minuscule parcelle de son corps.
Dans ce retour résigné plus que raisonné à la réalité, avec l’orgueil et l’humilité de qui a compris qu’il ne comprendra jamais rien, il s’appliquait ainsi, raisonnablement, à jouir de chaque instant, à cueillir chaque mouvement et frémissement de l’instrument parfait à l’intérieur duquel étaient en train de se remettre en fonctions les engrenages cachés dans chaque fibre muscle tendon nerf. Sous la peau, sa peau, son écorce, la seule dont il détenait la propriété et la clef – tout au moins s’efforçait-il de le croire – lymphe et sang commençaient à circuler plus rapidement, dans le va-et-vient incessant des circuits complexes qui parcouraient son organisme, vaisseaux canaux veines artères. Le réseau complet se mettait en marche pour fonctionner à un rythme accéléré. Neurones synapses terminaisons nerveuses continuaient à se connecter, comme à l’accoutumée – avec la seule différence qu’il en était maintenant conscient – tout comme la trame des neurotransmetteurs avec leurs multiples câbles et liaisons, actifs vingt-quatre heures sur vingt-quatre mais pendant la nuit en phase de feinte immobilité. Les perceptions assoupies se rallumaient. L’organisme tout entier, armée disciplinée, se préparait à la bataille habituelle chaque matin renouvelée. Tout cela silencieusement, presque imperceptiblement, dans un crescendo sournois dont il s’émerveillait lorsqu’il en prenait la mesure.
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En en relevant et abaissant les doigts, il allonge maintenant la pointe de ses pieds et la fait pivoter en sens horaire, puis en sens contraire. Il plie et détend les jambes, plusieurs fois de suite, en débutant régulièrement par la gauche dont le genou le fait légèrement souffrir depuis quelque temps, puis il les reporte finalement toutes les deux ensemble sur la poitrine en arrondissant le dos. A ce stade il reste ainsi, en position fœtale, pendant cinq ou six minutes, parfois plus, s’efforçant de ne pas penser, de faire le vide absolu dans son esprit, d’éloigner encore un peu le poids du jour qui avance, la lueur vague, chape de clarté, qui filtre déjà à travers les lamelles des volets, offrant aux choses leur visibilité renouvelée après l’extinction obstinée de la nuit.
En soulevant sans conviction le rideau des paupières il commence en effet à distinguer les contours et certains détails de sa chambre qu’il connait par cœur et qu’il enregistre habituellement sans y prendre garde. Les taches sombres au mur en correspondance de la salle de bains, vestiges de la dernière rupture de tuyaux centenaires. La masse imposante de l’armoire en noyer, héritage des grands-parents, qu’il aurait du mal à revendre aujourd’hui à n’importe quel antiquaire. Devant la commode Louis-Philippe surmontée d’un énorme miroir, le Boukhara rouge et noir dont la trame pelée révèle le grand âge, mais aussi la grande valeur, selon l’appréciation sentencieuse et un peu pédante de Nadia, appréciation qui le ferait plutôt sourire mais qu’il évite de relever pour ne pas la mettre de mauvaise humeur. Rien n’a changé dans cette pièce depuis la disparition de son père qui l’avait faite sienne après la mort de sa femme. Plus petite, plus silencieuse, peut-être moins de souvenirs, proximité des toilettes.
Non. Rien n’a changé. Pas même les gravures en noir et blanc ayant pour sujets des paysages avec ruines et colonnes romaines, qu’il se promet depuis longtemps de proposer au brocanteur de la rue voisine et de substituer avec les posters achetés à l’occasion d’expositions qu’il avait aimées, Burri, Bacon. La bibliothèque dont les étagères les plus hautes et les plus basses, celles moins facilement accessibles, contiennent les éditions anciennes, les grandes séries, les encyclopédies à reliures précieuses, parfois de cuir miel, souvent rouges ou vertes aux lettres d’or, ayant appartenu elles aussi à ses grands-parents, peut-être même à ses arrière-grands-parents. Au centre ses propres livres, dont les tranches plus modestes, courtes, longues, de toutes les couleurs et de tous les styles, ne se lisent qu’au prix de fort désagréables torticolis, les éditeurs n’ayant pas encore décidé dans quel sens imprimer titres et noms des auteurs. Cette gymnastique lui procure à chaque fois une profonde irritation et une sorte d’incrédulité envers leur entêtement stupide à ne pas rectifier un détail aussi banal, décidant une fois pour toutes, du moins au niveau européen, dans quel sens apposer les titres. Ils ont bien promulgué des lois sur la longueur de la queue des chiens et permis l’introduction de graisse dans la composition du chocolat…
Sur la grande table trônant originairement au centre de la salle à manger et devenue par la suite son bureau, clignotent, points lumineux saugrenus qui sonnent faux dans ce décor un peu vieillot et suranné, les stand by de l’ordinateur et de l’imprimante toujours allumées au milieu d’un fouillis de paperasse, documents, cahiers, dossiers. Là se trouve son vrai domaine, le coin réellement important de sa chambre et de sa vie. Le reste au fond lui importe peu. En vérité il voit, bien sûr, son environnement, mais son regard ne s’y attarde guère et glisse sans se poser, sûr de ne trouver là rien d’intéressant.
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S’étant remis dans sa position primitive il sort cette fois les deux bras du tiède cocon et les étire dans la fraicheur de la chambre qu’il tient avec le chauffage toujours éteint le soir précédent, car il ne supporte pas de dormir dans un lieu trop chauffé, même en plein hiver. Si par hasard il lui arrive, et cela malheureusement assez souvent, d’oublier de tourner l’interrupteur du thermostat, ses réveils s’accompagnent presque toujours de maux de tête, bouche sèche, sensation de malaise général. Ainsi chaque soir se promet-il d’être plus attentif le soir suivant. Et en effet pendant plusieurs jours il réussit à s’en souvenir. Mais bien vite et pour quelque raison stupide, invitation à dîner au dehors, cinéma, lecture captivante, ou simple distraction, il retombe dans l’ornière et de nouveau se promet, etc… et s’en veut d’autant plus que ce petit jeu absurde se révèle avoir une influence plutôt néfaste sur les factures du gaz et sur son humeur. Nadia a heureusement la même opinion que lui sur l’argument. Elle non plus n’aime pas dormir dans une pièce artificiellement chaude. Mais elle refuse pourtant non seulement la responsabilité complète de l’extinction du soir, et à la rigueur cette indisposition pourrait se comprendre, mais même sa cogestion, à semaine alternée, prétendant qu’il s’agit là d’une histoire d’homme et protestant qu’elle a déjà suffisamment de choses auxquelles penser. Ce refus est réellement irritant, étant donné qu’il s’agit d’un geste bien banal qui les concerne tous deux en égale mesure. Mais on sait que les femmes sont têtues . Plus on essaie de les convaincre d’une chose, surtout d’une chose à propos de laquelle elles sont par-dessus le marché en tort, et plus elles se butent et font les martyres…
A ce stade un quart d’heure est déjà plus ou moins passé. Et la phase successive de satisfaction se rapproche. Sur la table de nuit près de lui se trouve un gant de crin bien rugueux avec lequel il commence à se frotter énergiquement bras, cou, poitrine, ventre, pour arriver à fesses, cuisses et mollets. Il avait précédemment fait plusieurs fois la tentative de pratiquer cette opération après avoir pris son bain, mais l’étrillage sur la peau encore humide lui provoquait des démangeaisons et une irritation fort désagréable qui l’avait fait renoncer à ce déroulement du programme. Mais il ne réussissait jamais à se frotter le dos comme il l’aurait désiré, et c’était là l’unique obstacle à une satisfaction complète, et son regret majeur.
Les matinées où Nadia semble de bonne humeur, et peut-être disponible – mais il vaut mieux ne pas trop s’y fier -, d’habitude le dimanche ou les jours de fête, sans rien dire, en lui tendant simplement le gant avec un mouvement en avant du menton qui lui donne un vague air de famille avec quelque dictateur passé ou présente, il la prie de compléter cette cérémonie. À la cuisine, une fois sortie, elle de sa chambre, encore en peignoir, lui de la sienne, en pyjama, veste relevée, elle lui accorde assez mal volontiers quelques rapides aller-retour peu enthousiastes, des épaules à la ceinture, qui lui procurent des frissons et un sursaut bienfaisant d’énergie. Mais cette petite cérémonie a lieu toujours plus rarement parce que Nadia n’apprécie guère cette requête, même si elle ne dédaigne pas la réciprocité, la sollicitant au contraire fréquemment. Et il n’y a guère moyen de se défiler sans provoquer des grognements et des récriminations du genre Pourquoi toi oui et moi non?
Mais avant ces rites, en dernier lieu et à intervalles plus ou moins réguliers, avec une certaine jubilation initiale, il se concède finalement la troisième friandise intime et rythmée, en contemplant d’un regard intérieur et selon l’humeur, les formes sinueuses de Marilyn ou les cuisses fermes de Silvana Mangano immergées dans la rizière. Cette manœuvre intense et concentrée ne dure jamais très longtemps même s’il tente d’en prolonger l’agrément. Mais il s’agit de toutes façons d’une manipulation suffisamment efficace pour réussir à le mettre de bonne humeur une infime portion de la journée, bonne humeur malgré tout un peu pathétique, il s’en rendait parfaitement compte.
Alors seulement il ouvre grands les yeux, les referme très fort, puis les réouvre plusieurs fois de suite, pour les habituer au passage de l’obscurité à la clarté naissante du jour et à celle plus forte de la lampe maintenant allumée près de son lit. Il se gratte le crane énergiquement, la tête à nouveau vide, volontairement privée di pensées programmes préoccupations, qui d’ici peu se reverseront comme une avalanche en lui sur lui autour dans la maison au dehors, rouleau compresseur implacable et bruyant. Il connait la puissance destructrice de son parcours, presque toujours égal mais parfois imprévisible, motif pour lequel il est prudent de rester sur le qui-vive.
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Mais le moment est arrivé désormais de se lever. Il n’est plus temps de tergiverser. Plus aucune possibilité de revenir en arrière et de récupérer le fil des songes enfuis, le bien-être disparu, en veilleuse jusqu’au lendemain.
La chambre est froide maintenant, hostile, grise malgré la lumière diffusée par l’abat-jour. Ainsi du moins lui semble-t-elle. Avec un mouvement orienté vers l’extérieur du lit il redresse le buste, appuie les mains sur le bord, fait sortir une jambe puis l’autre, cherchant du pied les pantoufles antipathiques qui, pour quelque mystérieuse raison, ne se trouvent jamais le matin à l’endroit prévu et émet une profonde expiration, qui ressemble plutôt à un profond soupir. Il ne réussit jamais à décider lequel prévaut des deux.
Le charme est rompu. La douce somnolence est en train de s’enfuir par touches imperceptibles, absorbée peu à peu, puis définitivement vaincue par le tintamarre des couteaux cuillers tasses assiettes beurre miel confiture jetés au hasard sur la table du petit déjeuner par Nadia, par le sifflement de la bouilloire qui signale les cent degrés rejoints, par le parfum invitant des toasts grillés et du nesquick fumant. Le bourdonnement de la télévision à peine allumée se répand, impérieux, probablement à chaque heure du jour quand Nadia est seule, mais surtout le matin – lui semble-t-il – pour lui annoncer en exclusive un début de journée optimiste, avec sa grêle ponctuelle de mauvaises nouvelles. Agacé par ses commentaires intempestifs au milieu d’un scoop sur quelque enquête criminelle à la mode ou d’un service sur une bataille parlementaire particulièrement surréaliste, agrémentée d’insultes pittoresques, il essaie de ne pas l’écouter, de ne pas même l’entendre, sans toutefois tenter de la faire taire de façon trop péremptoire, ce qui provoquerait sa révolte. Mais quoi… je ne peux même plus dire ce que je veux chez moi? Ce n’est pas toi qui vas me faire taire. Mets-toi bien ça dans la tête!
Une fois terminé le petit déjeuner elle remet chaque chose à sa place, remplit la machine à laver la vaisselle, ôte les miettes, table et sol, avec un soin maniaque et commence à préparer la sauce pour les pâtes du dîner. Lui se dirige vers la salle de bains. Même s’il sait qu’elle n’entrera pas – un pacte réciproque non formulé qui garantit leur privauté – il ferme cependant toujours la porte à clef. Ce geste désormais automatique lui procure probablement un sentiment de sécurité. Il prolonge ainsi, de façon solitaire et toute concentrée sur sa personne, la demi-heure de recueillement volée au sommeil. En règle générale il prend une douche, plus rapide, mais les samedi, dimanche et jours de fête il s’accorde généralement le luxe d’un bain relaxant et particulièrement jouissif au fond de la baignoire, en s’immergeant jusqu’au cou dans la mousse qui l’enveloppe comme un cocon vaporeux et parfumé.
Drapé dans son ample peignoir – deux mesures au-delà du nécessaire… elle l’avait vu grand! – en éponge d’un violet surprenant, cadeau d’anniversaire de Nadia dont encore il ne sait trop que penser, il se rase soigneusement, approchant son visage du miroir, d’abord en raison de sa myopie, ensuite pour observer les rides désormais gravées sur le front, autour de la bouche, à l’angle des yeux. Il les contrôle régulièrement pour en vérifier l’inéluctable avancée, mais ne s’en préoccupe pas outre mesure. C’est ainsi. Destin universel. Il n’y a pas grand-chose à y faire.
Avec cette arrière-pensée désabusée il contemple souvent, alignés sur la tablette au-dessus et à côté du lavabo le défilé des tubes, petits pots et bouteilles, pinceaux, crayons et divers autres ingrédients du diable, amoncelés par Nadia et laissant pour ses propres affaires un espace minimum. Et quand il confronte l’ampleur des efforts avec l’entité du résultat, il ne peut s’empêcher de se sourire devant la glace, constatant que ce seul sourire, certainement bien plus que toutes les crèmes et onguents, contribue et même réussit à améliorer son aspect! Mais son horreur de la gueule qu’elle n’aurait paradoxalement pas manqué de lui faire pour un tel conseil fait qu’il se garde bien de lui indiquer ce vieux et peu coûteux remède! Certains de ses collègues aussi semblent être entrés dans le même infernal mécanisme et discourent gracieusement, et à son grand divertissement bien caché, de massages, lampes, palestres, teintures…
Il se donne ensuite quelques petites tapes sur les joues avec les paumes imbibées d’aftershave. Il enfile slip et Tshirt frais mis là par Nadia et s’habille avec les vêtements posés la veille au soir sur une chaise: pull presque toujours bleu foncé en V sur la chemise bleu clair, parfois à rayures, cravate elle aussi habituellement bleu sombre, pantalons gris, mocassins noirs. L’uniforme, quoi!
Il sort alors de la salle de bain rasé, lavé, propre et parfumé. Ceci pour l’aspect extérieur. Côté univers intérieur, il cherche encore à ne pas trop penser à ce qu’il prévoit se présentera à lui au cours de la journée: manèges interminables et insupportables pour trouver un parking, rendez-vous inutiles, parfois exténuants ou décommandés, dispute avec la secrétaire crétine et présomptueuse, dialogues stupides avec les collègues. En un mot, le traintrain habituel… Là précisément réside le problème. That is the question! En réalité rien de dramatique. Mais absolument rien d’exaltant. Une grisaille tellement obstinée qu’il se sentait consumer d’ennui et voyait s’approcher le moment de la retraite, avec angoisse à cause des conséquences économiques et en même temps avec soulagement pour la liberté récupérée. Liberté… pour en faire quoi?
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Ce matin-là il devait se mettre une nouvelle fois en chasse acharnée de ses lunettes; celles destinées à mieux voir loin, celles pour la récente presbytie étant déjà passées directement de sa table de nuit dans la poche de son pyjama puis dans celle de son manteau. Mais les premières, immédiatement indispensables pour conduire dans le trafic matinal, et sournoises au moins sinon plus que les pantoufles, semblaient n’avoir aucune intention de se laisser trouver. L’heure avançait. Lui tournait en rond, toujours plus agité et rouge, au point que Nadia, pourtant habituée à ce genre de scènes mais préoccupée pour ses artères, se décida à lui venir en aide et à participer à la chasse. Quelques secondes plus tard elle se présentait triomphante, brandissant comme un trophée dans sa main en l’air les lunettes récalcitrantes. “Où étaient-elles?” “Tombées dans le panier à papier, à côté du sceau pour le plastique. Tu ne changeras jamais…” Il la remercie à contrecœur et se dirige vers la porte blindée de l’entrée en contrôlant s’il a déjà mis en poche les clefs de la voiture et celles de la maison, et en enroulant deux fois autour de son cou l’écharpe de cachemire bleue.
Il faut sortir. Il n’y a rien d’autre à faire. Il faut vivre. Ne plus dormir rêver se bercer. Il faut affronter se confronter aller au combat. Toutes choses qu’il a toujours détesté. Comme de même et plus encore, il craint ce passage-charnière inéluctable qui le transporte – il serait plus juste de dire – l’entraîne malgré lui et lui fait abandonner la torpeur ouatée de la nuit, pour le plonger dans l’agitation obligatoire et grotesque, ce remue-ménage pathétique qui contraint les gens soi-disant civilisés à se plier au rythme commun, de fourmis disciplinées, obéissantes, qui plus est parfois même satisfaites.
Il savait tout cela. Il le savait parfaitement. Depuis longtemps. Même si en ce tournant du jour naissant il tentait de ne pas se le formuler. Les rares fois où il s’y était aventuré dans le trafic et le rythme de ses horaires de travail, il avait ressenti comme une nausée et un léger vertige et avait décidé de ne pas insister. Et puis l’heure désormais n’était plus propice aux réflexions philosophiques et aux introspections profondes, lesquelles ne naissaient en lui que dans le silence et la tiédeur de sa chambre, davantage encore dans le creux protecteur de son lit.
Quoiqu’il en fut, il était content d’avoir récupéré ses lunettes, achetées depuis peu à un prix exorbitant. Quand même, rien à dire, malgré ses défauts, dont celui de le répéter à satiété, elle était vraiment efficace, sa sœur… elle retrouvait toujours ce qu’il perdait!