Poesie di Gino Rago, Chiara Catapano, Mauro Pierno, Lorenzo Pompeo con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Scala con ombra

la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità. L’illusione è lo specchio della verità, anzi, è la verità che si guarda allo specchio.

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Nelle poesie che seguono si tocca un vulnus problematico della «nuova ontologia estetica». I poeti presentati hanno abbandonato alle ortiche la moda delle parole che parlano dell’«io» e delle sue adiacenze e del «tu»; la poesia ricomincia daccapo, alla maniera di Lucrezio, dal De rerum natura, in Gino Rago, alla maniera della disconnessione sintattita e sintagmatica di Mauro Pierno. Riprende a tessere il filo del discorso poetico dall’origine, dal nulla, dal vuoto, dalla mancanza di senso.

L’essere, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non risponde al predicato, non rientra nel linguaggio nel quale sembra, tuttavia, in qualche modo, anche risiedere come all’interno di una dimensione illusoria (come un palazzo fatto di specchi che si riflettono l’un l’altro), nella quale l’io pensa di esserci; ma, allora questo è il luogo di un grande abbaglio se l’io della percezione immediata crede ingenuamente in ciò che vede e sente. Ed è appunto questo ciò che fa il linguaggio della poesia: far credere in quel grande abbaglio. Ma è, per l’appunto, un abbaglio, una illusione. Per questo la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità che filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare perché avrebbe messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo dei concreti e delle certezze, del nomos e del logos, parole altisonanti che all’orecchio della Musa invece suonano false e posticce. L’illusione è lo specchio della verità, anzi, è la verità che si guarda allo specchio.

L’io, per quanto manifesto, reperisce altrove il suo statuto ontologico: nella sua mancanza costitutiva, che lo costituisce come impalcatura del soggetto.
L’io mento, è la vera dimensione dell’io penso.

L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio, il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio, il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose, che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso, che dialoga con se stesso.
Il mondo dell’innominabile, delle petizioni cieche in quanto prive di parole che stanno nell’inconscio, una volta raggiunto il Realitätprinzip, e cioè la dimensione propriamente linguistica, ecco che indossa l’abito di parole. Ma non sono quelle le parole che la petizione chiedeva, sono altre che la petizione non aveva previsto, né avrebbe mai potuto immaginare.

La petizione panlinguistica propria delle poetiche del Novecento scivolava invariabilmente nell’ombelico autoreferenziale, in quanto diventata ipoteca panlinguistica. Il linguaggio poetico, in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso per via della stessa logica differenziale che vedeva nel gioco dei rinvii la sua sola consistenza, si autonomizzava, si chiudeva su se stesso e diventava linguaggio che si ciba di linguaggio. Una dimensione auto fagocitatoria. Nella dimensione auto fagocitatoria scivola inevitabilmente ogni petizione panlinguistica.

Che lo si voglia o no, la poesia del novecento e del post-novecento, è stata colpita a morte dal virus del panlogismo, sconosciuto ad altre epoche e alla poesia di altre civiltà.
Nulla è più disdicevole dell’atteggiamento panlogistico proprio delle poetiche privatistiche e post-privatistiche che pretendono di commutare una ipoteca linguistica in petizione di poetica, in intermezzo ludico facoltativo.

C’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile, che resiste alla irreggimentazione nel discorso poetico. Ecco, quello che resta fuori è l’essenziale.
L’unica sfera in cui si dà Senso è nel luogo dell’Altro, nell’ordine simbolico.
Allora, si può dire, lacanianamente, che «il simbolo uccide la “Cosa”».

Il problema della «Cosa» è che di essa non sappiamo nulla, ma almeno adesso sappiamo che c’è, e con essa c’è anche il «Vuoto» che incombe sulla “Cosa” risucchiandola nel non essere dell’essere. È questa la ragione che ci impedisce di poetare alla maniera del Petrarca e dei classici, perché adesso sappiamo che c’è la «Cosa», e con essa c’è il «Vuoto» che incombe minaccioso e tutto inghiotte.

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica», solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta, solo una volta estrodotto il soggetto linguistico che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono, cartesianamente, Essere e Pensiero, quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica.

Nella poesia di Mauro Pierno c’è qualcosa, anzi, ci sono moltissimi oggetti «in venditori, in portaborse, fruttivendoli, operai, salumieri, dottori,/ artisti, direttori politici- lavoratori insomma,», ma in realtà c’è il vuoto, puoi toccare con mano la mancanza di senso come struttura significativa profonda del reale.

La poesia di Lorenzo Pompeo, in memoria del padre, è la più tradizionalmente classica, è una elegia priva di elegismo, fredda, distaccata, con alcune parole della antica patria metafisica (clessidra, il carillon, la musica), ma ci sono anche fraseologie stranianti (la mano del dentista), ci sono interrogazioni, il tutto in una orchestrazione sonora acromatica e asintomatica.

Foto man who wear hat

Il poeta ama la nascita imperfetta delle cose

Gino Rago

Il Vuoto non è il Nulla

Preferiva parlare a se stesso, temeva l’altrui sordità.
“L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada,
non come vada il cielo”.
[…]
A Pisa tutti tremarono.
Il poeta ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
In principio…
Il poeta lo sa.
È nei primissimi istanti dell’universo materiale.
Non c’è lo spazio, non c’è il Tempo,
non si può vedere nulla,
perché per vedere ci vogliono i fotoni,
ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
Né si può ‘stare’, perché per stare ci vuole uno Spazio;
nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’),
perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
[…]
In principio, nei primissimi istanti… è solo il Vuoto.
Il Vuoto, soltanto che non è il Nulla.
È un Vuoto zeppo di cose.
È come il numero zero.
Lo zero che contiene tutti i numeri.
I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
In Principio…
Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
Ma il silenzio che contiene tutti i suoni.
Il silenzio di Cage.
E l’universo della materia?
Viene dalla rottura della perfezione.
[…]
È stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca,
ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito,
il tempo e lo spazio, l’uomo che scrive la vita,
la poesia che si espande dal vuoto che fluttua.

Ulisse in vestaglia

Ulisse è in vestaglia, spiccia tra le stoviglie
della reggia.
[…]
“Spio la vita dalle fenditure
a distanza neutra dagli eventi.
Estraneo a me stesso annuso il giorno
con le certezze d’un rabdomante
taglio il percorso della luce quando rimbalza
dalle bottiglie al cuore.”
[…]
“Chi davvero sei?”
[…]
“Sono in vestaglia,
navigo da libro a libro,
sbaglio i vettori della rosa dei venti,
sa, non sempre indovino la stella polare,
schivo a fatica scogli,
fingo naufragi,
mi invento qualche approdo di fortuna,
lo vedi anche tu…
L’Odissea?, è una grande bugia”

Foto femme diafane

Morta Penelope appesa al legno dell’attesa-croce-telaio

Chiara Catapano

Ulisse

Torna Ulisse dopo cent’anni.
Torna alla sua casa vuota dove morti son tutti:
Morto Telemaco, intonaco d’infiniti viaggi in cerca del padre,
Morta Penelope appesa al legno dell’attesa-croce-telaio;
Morti i Proci e nessuno ricorda più tirannia o l’odore di schiavitù.
Morto anche il fido Eumeo ed Argo, che mai più rivedrà il suo padrone.
Cent’anni, egli ancora fresco gagliardo: nessuno ad attenderlo, nessuno
Che infine imparò ad addomesticare la morte.

Sono di vento le stanze: la luce gli scuce le palpebre.
Dietro i gradini imperlati di notti antiche, la nostra memoria;
Dietro i vagiti di statue corrotte come bambini alla guerra,
Lì sorge la nostra dimora. Mia gioventù…
Non sono solo, sotto l’arco dell’uscio: con me cupi trafficanti di schiavi
Stringono in pugno qualche piuma di palpitante cutrettola,
E i loro palmi graffiano al cuore la viva mia porta.
Mie stanze.
Una sordità puerile incide latte sui capezzoli ad Artemide;
Un’età che vale quanto una vita intera, affilata falce dell’incomprensione.
Ecco, vedo avanzare Maria Nefèli, fiocco di neve
che sposta l’equilibrio del mondo.
Questa sorte mi son tirato in grembo e filo e fuso
Perché vi sia chi un giorno recida ogni mia conoscenza.
Così Maria Nefèli dispiega sulle sue gambe le minute ali della cutrettola.

Parla ad un’ombra. Dentro di lui il mare ha corroso ogni cosa.
Non esiste destino che possa alloggiare nell’immobile gesto del tempo
Come in questa mia casa.
Questo rifugio, non porta neppure ricordo di guerra.
Ah, non poter morire! Mentre ogni cosa cara ci viene a mancare.
La casa come chiusa palpebra, trema.
Quale l’oscurità nell’assenza?
Qualcuno ha acceso dei ceri nelle stanze disabitate,
Attende lo schiudersi minimo, un’inflorescenza
Dopo tanto vagare.
Ecco la prima radice dell’uomo, suggerisce Maria Nefèli:
La prima radice è di sale.
A questa altre seguono, e come solide dita agguantano
Della terra resurrezione.

Foto No face

anche nelle più piccolissime frazioni e che gli attimi insomma i residui granelli svuotati/ ancora giacessero

Mauro Pierno

29

Credereste alle impensabili posizioni notturne
malleabili e morbide elucubrazioni erotiche nelle fatte & rifatte
camere del fuori,
fuori tutto!
che al rinvenire dell’alba ritrasformassero i corpi in camioncini portaoggetti
– in venditori, in portaborse, fruttivendoli, operai, salumieri, dottori,
artisti, direttori politici- lavoratori insomma, – Lavoratoriiiiiii?!!!-
di una terrena risonanza vitale?
Lo credereste ancora se questi stessi
ungendo il mondo di miriadi di spermatozoi
approfittando del messaggio del passaggio dell’assemblaggio
del parlamentaggio dell’ingranaggio
fecondassero il tempo
anche nelle più piccolissime frazioni e che gli attimi insomma i residui granelli svuotati
ancora giacessero
come resti futuristici di noi stessi? …
– Lo credereste? –

Foto Diplopia

Lorenzo Pompeo

Davanti alla tua lapide

Il giorno era quello giusto,
fissato da una congiura di circostanze,
il numero chiamato è quello mio
il dentista è di buon umore,
sua è la mano che sa
come sedare il dolore,
sapevi di essere giunto
al momento a te destinato.

Il filo di sabbia
nella clessidra ha danzato
tutta la notte, le distanze
che ti separano dal nuovo giorno
si sono consumate,
il carillon, lentamente si è spento,
inutile attendere ancora
fulmini e saette.

Dopo la musica è solo silenzio,
liscio, bianco, pulito, freddo.
Come lapide di un cimitero.

Nella fuga senza fine,
nella salita ansiosa e lenta,
degli anni che passano invisibili
come le stagioni, tutto è scivolato giù.
Ai farmaci non chiedere dilazioni:
tutto ciò che fu non tornerà più.
L’artigiano lo sapeva bene,
per questo quando gli hai chiesto
di quanto tempo aveva bisogno
per riparare l’orologio
ti ha risposto: “un’eternità!”.

La mano del dentista
è salda e ferma nell’estrarre le radici.
Le vedo, sono lì, davanti a me,
insanguinate e dolenti,
parte di me ormai lontana,
trofeo di avorio e pena
in dote a un avvenire promettente.

Onto RagoGino Rago è nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È membro della redazione dell’Ombra delle Parole.   Email:  ragogino@libero.it

Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Studia filologia bizantina con il prof. Paolo Odorico e si trasferisce per alcuni anni ad Atene e Creta, dove approfondisce i suoi studi su cultura e lingua neogreca. Collabora con il Museo storico del Trentino per il quale sta curando la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine. Suoi articoli e testi creativi sono apparsi su riviste cartacee e online italiane ed estere. Dirige assieme a Claudio Di Scalzo la rivista transmoderna Olandese Volante (www.olandesevolante.com). Traduce dal greco moderno (Ioulìta Iliopoulou, Agathì Dimitrouka). A luglio 2014 ha presentato al festival Stazione di Topolò la raccolta di poesie La graziosa vita, edita da Thauma edizioni sotto l’eteronimo di Rina Retis.

Mauro Pierno 1

Mauro Pierno, nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Autore di testi teatrali, scrive poesia da diversi anni. È vincitore della terza edizione del premio di poesia organizzata  dall’A.I.C.S. “G.Falcone” di Catino (Bari). Animatore culturale. È presente nell’antologia – il sole nella città -2006 La Vallisa, Besa editrice, sue poesie sono presenti in rete su Poetarum Silva LITblog, Critica Impura, Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche. Promuove in rete il blog “ridondanze”. Nel 2017 ha pubblicato  nella collana “I Quarzi” la prima raccolta in versi  “Ramon” con Terra d’ulivi edizioni.

 

 

Lorenzo PompeoLorenzo Pompeo nato a Roma nel 1968.
Dottore di ricerca in Slavistica, traduttore letterario e non (in qualità di traduttore e interprete ha collaborato col Tribunale di Roma), ha tradotto con diverse case editrice alcuni romanzi dal polacco e dall’ucraino, autore di due vocabolari e, ovviamente in cooperativa, di tre figlie e inoltre organizzatore di diverse rassegne cinematografiche a Roma e a Varsavia.
È autore di Auto-pseudo-bio-grafo-mania (Ibiskos Editrice Risolo, 2009), raccolta di racconti e scritti nel quale egli mette in atto i principi di una scrittura dadaista, ma a partire dai dati concreti del contesto in cui da sempre vive, ovvero Roma, capitale dell’assurdo quotidiano, nella quale tutto, comprese le acque del Tevere, scorre lento, opaco e sonnolento da un passato remoto e glorioso verso un futuro che non promette niente di buono, passando attraverso secoli di lenta ma costante e coerente decadenza.
A seguire, il romanzo breve In arte Johnny. Vita, morte e miracoli di Giovan Battista Cianfrusaglia (CIESSE, 2010), nel quale il protagonista, celebre personaggio romano, presumibilmente scomparso tra la fine degli anni ’90 e i primi del decennio successivo, per una fortuita coincidenza si imbatte in una oscura faccenda: il presunto ritrovamento dell’ultimo improbabile frammento dello Scudo Crociato.
Nel 2011 ha ideato e curato, in collaborazione col sito http://www.braviautori.com, il bando di concorso “non spingete quel bottone” per una antologia di racconti dedicati all’ascensore. L’antologia, che raccoglie i migliori 31 racconti pervenuti, è uscita nel 2012, con l’introduzione dell’antropologo Vincenzo Bitti e la copertina disegnata dall’illustratrice Roberta Guardascione e alcune illustrazioni di Furio Bomben, mentre il bando “biblioteca-labirinto numero 25” per racconti sul libro e sulle biblioteche, da lui ideato e curato, è ancora in corso. Ha proposto sul sito “braviautori” alcuni suoi racconti, che hanno totalizzato fino a oggi 6414 visite. Un suo racconto è stato selezionato nell’antologia 256K – 256 racconti da 1024 Karatteri e nell’antologia La paura fa 90. 90 racconti da 666 parole, entrambe curate dal sito Braviautori mentre il suo racconto La bambola è stato selezionato sul sito Storiebrevi.
Nel 2017 ha ideato e realizzato il blog di poesia http://www.ilvascellofantasma.it

 

16 commenti

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16 risposte a “Poesie di Gino Rago, Chiara Catapano, Mauro Pierno, Lorenzo Pompeo con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

  1. gino rago

    Nel caso di Chiara Catapano Ulisse torna dopo un tempo di assenza lungo cento anni… Anche Telemaco è morto e Odisseo “[…]Parla ad un’ombra.” perché “Dentro di lui il mare ha corroso ogni cosa.” e a questo verso di bellezza rotonda Chiara Catapano ne inanella altri di bellezza sorprendente
    [“Dopo tanto vagare.
    Ecco la prima radice dell’uomo, suggerisce Maria Nefèli:
    La prima radice è di sale.”]
    Ma Chiara crede fermamente sia in Ulisse, sia nella Odissea…
    Per me, per quel che può contare, non è così: Ulisse per me è in vestaglia e anziché sfidare i marosi lotta arreso con le stoviglie e la stessa Odissea è una grande menzogna…

    Ulisse in vestaglia

    Ulisse è in vestaglia, spiccia tra le stoviglie
    della reggia.
    […]
    “Spio la vita dalle fenditure
    a distanza neutra dagli eventi.
    Estraneo a me stesso annuso il giorno
    con le certezze d’un rabdomante
    taglio il percorso della luce quando rimbalza
    dalle bottiglie al cuore.”
    […]
    “Chi davvero sei?”
    […]
    “Sono in vestaglia,
    navigo da libro a libro,
    sbaglio i vettori della rosa dei venti,
    sa, non sempre indovino la stella polare,
    schivo a fatica scogli,
    fingo naufragi,
    mi invento qualche approdo di fortuna,
    lo vedi anche tu…
    L’Odissea?, è una grande bugia”

    Gino Rago

    [Sui versi di Mauro Pierno, scelti, proposti e commentati da Giorgio Linguaglossa, tornerei più in là ma subito devo chiedere a Mauro Pierno
    il perché di questo verso:
    “anche nelle più piccolissime frazioni e che gli attimi insomma i residui granelli svuotati”,
    nel quale lo confesso quel ‘nelle più piccolissime frazioni’ un pò mi disturba.]
    GR

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    • Rossana Levati

      A proposito dell’ “Ulisse in vestaglia” di Gino Rago, propongo qualche mia considerazione:

      Poesie di Gino Rago, Chiara Catapano, Mauro Pierno, Lorenzo Pompeo con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa


      Dopo la definizione iniziale di un Ulisse “casalingo” e dimesso, ridotto a semplici lavori domestici, più adatti a un oscuro servitore della reggia che al re in persona, la poesia prende la direzione di un’inedita intervista, per altro situazione consueta ai nostri giorni dove tutto è intervista, anzi chiunque “entra nella cronaca” solo se opportunamente intervistato.

      Lo stesso Ulisse è ormai lontano da ogni possibilità di autodefinirsi e comprendersi. La sua principale attività è quella di “intercettare” il mondo al momento giusto, non perché abbia un eroismo particolare ma perché abile a mettersi in questo modo sotto i riflettori: “taglio il percorso della luce”, “spio la vita dalle fenditure”. Un ladro quindi di vite altrui, un usurpatore, incapace di portare in se’ e di nutrire qualunque eroismo.

      Paradossalmente sempre in vestaglia, privo ormai perfino di abiti adatti a un eroe, richiama l’Ulisse di un famoso quadro di De Chirico: la sua navigazione è su un tappeto che riproduce il mare, su quel tappeto egli ruota su se stesso, incapace di abbandonare la stanza in cui si svolge la sua vita. La porta è aperta, il mondo è fuori da quella porta, ma Ulisse è lì, ripetutamente e solidamente ancorato a quel tappeto-luogo di mistificazioni e di avventure.

      Finalmente, nel suo disorientamento che ce lo riporta come supremo fingitore, privo di certezze, incapace di navigare e di leggere i segni del cielo (anche la stella polare gli è estranea), sopravvissuto per puro caso agli scogli, ci rivela la sua mistificazione: tutta un’invenzione la sua leggenda (invenzione di Omero sì, ma anche di un “Ulisse-personaggio” che è stato al gioco dell’inventore, un personaggio di secondo grado che ha ingrandito quel gioco amplificandolo a dismisura sulla linea d’onda della falsità).

      Finti erano i naufragi, finti gli approdi: quasi stupito, il nuovo Ulisse, che nessuno si sia ancora accorto di questa lampante menzogna alla quale ha ancorato il suo mito: “lo vedi anche tu…”. E’ significativo che sia Ulisse stesso a “svelare” l’abbaglio e l’illusione della sua favola-mito, perché tutti gli altri (i lettori) non se ne sono accorti. Il suo mito, la sua leggenda, è come uno specchio sul quale è stato riflesso un vuoto che ha preso mille nomi (i luoghi, i mostri, le avventure, i personaggi) ma era una menzogna, ed ora che la menzogna è rivelata lo specchio appare vuoto, e Ulisse torna ad essere un uomo in vestaglia, senza più nulla da offrire.

      L’Odissea non è più luogo dove si accampano gli eroismi dell’arte della sopravvivenza secondo la virtù dell’eroe paziente e “dal multiforme ingegno”, ma finzione per eccellenza, racconto dei racconti, tutta organizzata e costruita su una grande bugia: e se è così, Ulisse non sarà più l’eroe da portarci dentro e da imitare, ma il campione dei mentitori, quello da cui ci auguriamo di poter prendere le distanze e che vogliamo abbandonare al suo destino.

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  2. gino rago

    Anche in queste considerazioni su “Ulisse in vestaglia” Rossana Levati mostra una efficacissima capacità di interpretazione dei versi. Lo fa con un suo linguaggio direi ormai riconoscibile e non le sfugge il verso decisivo della mia composizione che è sulla bocca di Ulisse, vale a dire “Estraneo a me stesso”, verso con il quale irrompe nella poesia il tema della estraneazione, della separazione da se stesso e dagli eventi… [A suo tempo, lo stesso Giorgio Linguaglossa interpretò quell’ “Estraneo a me stesso” come ammissione disarmata dell’intellettuale o dell’uomo di cultura o del Maestro di pensiero, di questo tempo, ormai incapace di alzare nel mondo
    la sua voce, come dire che la cultura ha rinunciato al suo compito storico.]

    Gino Rago

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  3. La mitologia è – è stata – organizzazione del simbolico. e dunque entrarvici è sempre una questione sottile, difficile, e i rischi si moltiplicano mano mano che ci si avventura dentro. Credo che di Ulisse (la figura che più è passata di mano in mano, spesso logora proprio dal rimaneggio – e mi ci metto anch’io, ci mancherebbe!, così difficile è ridargli verginità!) forse solo Seferis ha potuto parlare riconducendo al grado zero ogni proiezione occidentale, ogni afflato, per riportarlo lì dov’era: e riaprirgli così la strada.

    Da Πάνω σ΄έναν ξένο στίχο (Sopra un verso straniero, del 1931):
    “Egli sta, maturo, sussurrando tra la barba imbiancata, parole della nostra lingua, come la parlavano tremila anni fa”

    Credo che in questo verso Seferis abbia rifondato la verginità d’Ulisse. L’abbia riconsegnato non a noi, ma alla sua stessa icona. L’ha riconsegnato al mondo spoglio di noi.

    Sempre difficile dunque, immergersi nel mito che fu, perché il reale ha bisogno continuo di un linguaggio che lo pronunci-cosa-nuova.

    Un bell’articolo, questo, ricco di spunti di riflessione.

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  4. Giuseppe Talia

    Leggendo la poesia di Chiara Catalano mi è successa una cosa strana, non riuscivo a finire la lettura dei versi, ma saltavo a quello successivo ritrovando nelle parole dei versi iniziali anche la parte seguente, così come qui riporto.

    Torna Ulisse dopo cent’anni.
    Torna alla sua casa vuota
    Morto Telemaco
    Morta Penelope
    Morti i Proci
    Morto anche il fido Eumeo ed Argo
    Cent’anni, egli ancora fresco gagliardo
    Che infine imparò ad addomesticare la morte.

    Sono di vento le stanze
    Dietro i gradini imperlati
    Dietro i vagiti di statue
    Lì sorge la nostra dimora. Mia gioventù…
    Non sono solo
    Stringono in pugno qualche piuma
    E i loro palmi graffiano
    Mie stanze.
    Una sordità puerile
    Un’età che vale
    Ecco, vedo avanzare Maria Nefèli
    che sposta l’equilibrio
    Questa sorte
    Perché vi sia chi un giorno recida
    Così Maria Nefèli
    Parla ad un’ombra.
    Non esiste destino
    Come in questa mia casa.
    Questo rifugio
    Ah, non poter morire!
    La casa come chiusa palpebra
    Quale l’oscurità nell’assenza?
    Qualcuno ha acceso dei ceri
    Attende lo schiudersi minimo
    Dopo tanto vagare.
    Ecco la prima radice dell’uomo
    La prima radice è di sale.
    A questa altre seguono
    Della terra resurrezione.

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    • Una sorta di accelerazione-spinta mentre il verso si espande in orizzontalità? Molto interessante, Giuseppe…

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      • Giuseppe Talia

        Sì, Chiara, il ritmo si velocizza, si spezza e si ricompone continuamente, e i personaggi e gli ambienti e le loro qualità o disqualità rimangono integri in poche pennellate.
        Il tuo testo si presta benissimo a questa accelerazione, spezzatura e ricomposizione.

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  5. La s-composizione della poesia di Chiara fatta da Giuseppe Talia è molto interessante, in fin dei conti questa è da considerarsi una officina dove ciascuno è autorizzato a battere il ferro finché è caldo… ma è interessante anche perché questa scomposizione ricomposizione fatta da Giuseppe è indicativa della sensibilità che si respira all’interno di questo nuovo modo di intendere la versificazione, come un elastico, e quindi che si può tirare di qua e di là, interromperla bruscamente per poi riprenderla… Nella versione di Giuseppe la poesia acquista in intensità e in verticalità…

    Io per esempio preferirei una riscrittura che privilegi le dis-continuità tra un verso lungo e il seguente breve o brevissimo… Così:

    Ulisse

    Poesie di Gino Rago, Chiara Catapano, Mauro Pierno, Lorenzo Pompeo con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

    Torna Ulisse dopo cent’anni.
    Torna alla sua casa vuota dove morti son tutti:
    Morto Telemaco, intonaco d’infiniti viaggi in cerca del padre,
    Morta Penelope appesa al legno dell’attesa-croce-telaio;
    Morti i Proci e nessuno ricorda più tirannia o l’odore di schiavitù.
    Morto anche il fido Eumeo ed Argo, che mai più rivedrà il suo padrone.
    Cent’anni, egli ancora fresco gagliardo.
    Nessuno ad attenderlo. Nessuno.
    Che infine imparò ad addomesticare la morte.

    Sono di vento le stanze: la luce gli scuce le palpebre.
    Dietro i gradini imperlati di notti antiche,
    La nostra memoria;
    Dietro i vagiti di statue corrotte come bambini alla guerra,
    Lì sorge la nostra dimora.
    Mia gioventù…
    Non sono solo, sotto l’arco dell’uscio: con me cupi trafficanti di schiavi
    Stringono in pugno qualche piuma di palpitante cutrettola,
    E i loro palmi graffiano al cuore la viva mia porta.
    Mie stanze.
    Una sordità puerile incide latte sui capezzoli ad Artemide;
    Un’età che vale
    quanto una vita intera, affilata falce dell’incomprensione.
    Ecco, vedo avanzare Maria Nefèli, fiocco di neve che sposta
    l’equilibrio del mondo.
    Questa sorte mi son tirato in grembo e filo e fuso
    Perché vi sia chi un giorno recida ogni mia conoscenza.
    Così Maria Nefèli dispiega sulle sue gambe le minute ali della cutrettola.

    Parla ad un’ombra.
    Dentro di lui il mare ha corroso ogni cosa.
    Non esiste destino che possa alloggiare nell’immobile gesto del tempo
    Come in questa mia casa.
    Questo rifugio, non porta neppure ricordo di guerra.
    Ah, non poter morire! Mentre ogni cosa cara ci viene a mancare.
    La casa come chiusa palpebra, trema.
    Quale l’oscurità nell’assenza?
    Qualcuno ha acceso dei ceri nelle stanze disabitate,
    Attende lo schiudersi minimo, un’inflorescenza
    Dopo tanto vagare.
    Ecco la prima radice dell’uomo, suggerisce Maria Nefèli:
    La prima radice è di sale.
    Della terra, resurrezione.

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  6. letizia leone

    Testi questi, ognuno nel proprio stile, esemplificativi della NOE: qui il racconto mitico esemplare (letteratura) viene completamente destrutturato per absentia: eclissi del soggetto, dell’io narrante in alcuni casi o per usura della materia in altri (Pierno). Così l’Ulisse sradicato nella poesia di Gino Rago, in pieno oblio della memoria: “Stranieri chi siete? Da dove venite per le umide vie del mare? “ (Odissea, III). Catapultato fuori dall’azione, dall’avventura del suo viaggio, uomo senza contenuto in vestaglia reclama in modo criptico una identità, intuisce l’Evento dalla rifrazione di luce come un abbaglio domestico “dalle bottiglie al cuore”. La poesia in tempi di percezione distratta, di assuefazione o disinteresse del lettore-spettatore. In tempi di stordimento percettivo. Il riuso e il riciclo delle fonti alimenta un citazionismo di terzo o quarto grado. In Chiara Catapano è il tema del nostos: il cantore è diventato viaggiatore dello spazio-tempo. Il futuro buca il passato e l’oblio è la prerogativa dei morti. E se in Pierno s’ingorga il futuro di corpi-oggetto, detriti assemblati, “resti futuristici di noi stessi” opachi ad ogni corrispondenza (Le macerie non rispondono, ci dice H. Müller) in Pompeo lo sradicamento è dolore vivo, operazione sulla carne, smembramento, anatomizzazione:

    La mano del dentista
    è salda e ferma nell’estrarre le radici.
    Le vedo, sono lì, davanti a me,
    insanguinate e dolenti,
    parte di me ormai lontana…

    Di certo testi che accorciano la distanza che li separa dalla critica: altra delle peculiarità della nuova ontologia estetica. Poesia che “diventa essa stessa il logos dell’arte e della sua ombra, cioè riflessione critica sull’arte” (Agamben), sull’arte cancellata. Pessoa scrisse che la sua opera era un insieme di frammenti e che la tradizione “è una nota a margine di un testo completamente cancellato”…

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  7. Il crollo della mente bicamerale – Julian Jaynes


    21/09/2012 di Paolo Zardi

    Il crollo della mente bicamerale – Julian Jaynes

    Mondo di visioni non vedute e di silenzi uditi è questa regione inconsistente della mente! E ineffabili essenze questi ricordi impalpabili, queste fantasticherie che nessuno può mostrare! E quanto privati, quanto intimi! Un teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri, luogo infinito di delusioni e di scoperte. Un intero regno sui cui ciascuno di noi regna solitario e recluso, contestando ciò che vuole, comandando ciò che può. Eremo occulto di ciò che abbiamo fatto e ancora possiamo fare. Un introcosmo che è più me di ciò che io posso trovare in uno specchio. Questa coscienza, che è il mio me stesso più segreto, che è ogni cosa eppure non è nulla di nulla, che cos’è?

    E da dove venne?

    E perché?

    E’ con questo inno quasi shakesperiano al mistero della coscienza che inizia Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, di Julian Jaynes, un libro ambiziosissimo (e ricchissimo) la cui lettura rappresenta un’esperienza intellettuale così profonda, e così stimolante, da lasciare senza fiato.

    Julian Jaynes è stato professore di psicologia a Princeton, ma la sua cultura spaziava in ogni campo del sapere: archeologia, letteratura antica, linguistica, neurologia, arte, architettura. Questa vastità di conoscenze gli ha permesso di formulare una teoria sull’origine della coscienza capace di spiegare la struttura delle piramidi, uguale in ogni parte del mondo, la lingua usata da Hammurabi per dettare le sue leggi, l’evoluzione dell’uomo nella Bibbia, l’assenza di qualsiasi “io pensante” nella testa degli eroi dell’Iliade e l’assenza di qualsiasi “io pensante” persino nella testa di chi ha scritto il poema, le teocrazie del passato, il passaggio dalla caccia all’agricoltura e la nascita delle città, l’elegia greca dell’ottavo secolo avanti Cristo, la schizofrenia, la religione, la nascita e la decadenza della poesia, l’ipnosi, il potere della musica, i profeti e la possessione. Come qualsiasi teoria non dimostrabile (sarebbe necessario tornare nel passato per verificare le sue ipotesi) può essere accettata o rifiutata: in ogni caso, ci troviamo di fronte a una concezione così ampia, e così profonda, che saremo costretti a rivedere molte delle nostre convinzioni, in campi fondamentali della vita.

    Poesie di Gino Rago, Chiara Catapano, Mauro Pierno, Lorenzo Pompeo con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa


    Il problema della coscienza: è questo l’oggetto della teoria di Jaynes. Cos’é? Da dove è arrivata? Per quale motivo? Jaynes è consapevole (stavo per scrivere cosciente…) della complessità del problema, e del fatto che da secoli l’uomo si impegna in riflessioni, in esperimenti, in tentativi di conciliare due presunte entità (chiamate, di volta in volta, mente e materia, soggetto e oggetto, anima e corpo), e in disquisizioni sui flussi, gli stati e i contenuti della coscienza. Il risultato di questi sforzi è una sequenza di teorie – la coscienza come apprendimento, la coscienza come proprietà del protoplasma, la coscienza come proprietà della materia, la coscienza come imposizione metafisica, e via dicendo – che Jaynes, nell’introduzione, analizza una a una, mostrando come tutte contengano errori concettuali insuperabili, o non siano in grado di rendere conto di tutti i fenomeni che noi, empiricamente, e con assoluta certezza, sappiamo ricondurre o imputare alla nostra coscienza. Liberato il campo dalle principali teorie formulate fino a questo momento (dove questo momento è il 1975, anno di pubblicazione del libro), Jaynes passa ad elencare tutte le cose che la coscienza non è, in un climax irresistibile: non è una copia dell’esperienza, non è necessaria per i concetti, non è necessaria per l’apprendimento, non è necessaria per il pensiero; e per ciascuna negazione vengono portate così tante prove, dotate di una tale evidenza, che già alla fine del primo capitolo siamo convinti che la coscienza non serva a compiere la stragrande maggioranza delle azioni che un uomo, per quanto evoluto, compie durante la sua giornata, e la sua vita. Un esempio per tutti: quando guidiamo la macchina (un’attività particolarmente complessa, che richiede un’interazione continua e impegnativa con il mondo esterno) non usiamo la coscienza, che potrebbe essere impegnata in una telefonata, in una chiacchierata con un passeggero, o nella progettazione del weekend. E se le prove che Jaynes porta ci hanno convinto (io che le ho lette mi sono lasciato convincere) possiamo allora accettare che “sia esistita una razza di uomini che parlavano, giudicavano, ragionavano, risolvevano problemi, che facevano, in definitiva, quasi tutto quello che facciamo noi, ma che non erano affatto coscienti”. Ma fino a quando sono vissuti questi uomini?

    Prima di affrontare questo quesito, Jaynes dedica due capitoli particolarmente impegnativi a rispondere a un’altra domanda, che deriva dall’attività demolitrice del capitolo precedente: cos’è la coscienza? Perché la sua definizione, e la sua comprensione, sono così difficili? Secondo Jaynes, la comprensione di qualcosa consiste nel formulare una metafora che riconduca concetti sconosciuti ad esperienze vissute, a concetti famigliari. Ma il concetto di coscienza si oppone ai tentativi di metaforizzazione (e quindi di comprensione da parte della coscienza stessa), perché non può esserci nulla di simile all’esperienza immediata stessa: è necessario allora introdurre il concetto di analogo. La mappa di una città non è una metafora della città, ma è il suo analogo; e “la mente cosciente soggettiva è un analogo di quello che chiamiamo mondo reale. Essa è costruita con un vocabolario (o campo lessicale) i cui termini sono tutti metafore o analoghi del comportamento del mondo fisico”. L’attività della mente è espressa in termini di metafore – “vediamo” soluzioni “brillanti”, ci “accostiamo” a un problema, esprimiamo un “punto di vista”, “afferriamo un concetto”, con la nostra mente che può essere “aperta, “elastica”, “ristretta”, “profonda”. La realtà della coscienza è dello stesso ordine della matematica: più che una cosa, o un serbatoio di oggetti, è un operatore, che lavora su analoghi e metafore del mondo reale. E uno degli oggetti sui quali opera è l’analogo io. La coscienza è in grado di costruire una rappresentazione metaforica, o analogizzata, dell’io, che può essere fatto muovere in un mondo virtuale, al fine di prendere una decisione: è il modo con il quale ciascuno di noi sceglie un lavoro, un compagno, una casa. Senza questa capacità di vedere se stessi, di pensare ai propri pensieri, di immaginare il futuro o di rielaborare il passato, non c’è coscienza.

    Jaynes scrive molte pagine sulla definizione della coscienza, e in alcuni paragrafi la complessità della sua esposizione richiede un po’ di impegno (“La coscienza è un prodotto dei metaferenti concreti dell’espressione e dei loro paraferenti, i quali proiettano paraferendi che esistono solo in senso funzionale”), ma il risultato è chiaro, e convincente: la coscienza definita attraverso i concetti di analogo e metafora possiede alcune caratteristiche ben precise, che Jaynes elenca e che risultano tutte conciliabili con la percezione che ne abbiamo; queste caratteristiche ci consentono di valutare se le azioni, le parole, e le opere di un essere umano presuppongono una coscienza o meno. La volizione, la narratizzazione, la conciliazione, sono atti che solo un essere cosciente può compiere, e che un essere cosciente compie necessariamente quando interagisce con il mondo. Ed è con questi strumenti che Jaynes può affrontare l’analisi della nascita della coscienza. Il primo “oggetto” che Jaynes decide di studiare è l’Iliade, il poema con il quale inizia ufficialmente la letteratura occidentale; e il risultato è sconcertante: nell’Iliade non esiste coscienza.

    In tutta l’Iliade non compare alcuna parola parole che designino la coscienza o atti mentali. Le parole che in seguito designarono “cose mentali” hanno, all’interno del poema, significati diversi, tutti più concreti.

    La parola psyche, che in seguito passò a significare “anima” o “mente cosciente”, designa, nella maggior parte dei casi, sostanze vitali, come il sangue o il respiro: un guerriero morente stilla la sua psyche al suolo, o la esala nell’ultimo ansito. Il thumos, che passerà in seguito a significare qualcosa di simile all’anima emozionale, designa semplicemente il movimento o l’agitazione. [..] Quando Glauco prega Apollo di alleviare il suo dolore e di dargli la forza di aiutare l’amico Sarpedonte, Apollo ascolta la sua preghiera e “infonde vigore nel suo thumos” (Iliade, XVI, 529). Il thumos può dire a un uomo di mangiare, bere o combattere. Diomede dice che Achille combatterà “quando nel petto il thumos gli parla e un dio lo sospinge”.

    [..] Forse più importante è la parola noos che, scritta nous nel greco più tardo, venne a significare “mente cosciente”. La parola deriva dal verbo noeo, “io vedo”. La sua traduzione più appropriata sarebbe qualcosa come “percezione”, o “riconoscimento”, o “campo visivo”. Zeus “tiene Odisseo nel suo noos“. Egli vigila su di lui.

    Tutte le traduzioni dell”Iliade commettono lo stesso errore: nel desiderio di dare una presunta qualità letteraria alla loro opera, usano termini moderni e, soprattutto, categorie soggettive che non rendono giustizia all’originale. Il verbo mermerizo che significa letteralmente “sono diviso in due parti riguardo qualcosa”, viene tradotto con “io pondero, io penso, ho la mente divisa, sono incerto, turbato, cerco di decidere”. Ma nell’Iliade il verbo è sempre riferito a un comportamento attivo, e il conflitto al quale il verbo si riferisce ha luogo nel thumos, mai nel noos. L’occhio, il campo visivo, non può essere in conflitto, come invece potrà la mente cosciente, che sarà “inventata” poco dopo.

    E in tutta l‘Iliade non esiste un concetto di volontà, e non esiste una parola per designarla. Gli uomini dell’Iliade non hanno una propria volontà e non hanno alcuna nozione di libero arbitrio. Manca persino una parola per indicare il “corpo” nel senso moderno del termine: ci sono termini per indicare le varie parti del corpo, e Omero si riferisce sempre a queste, e mai al corpo nella sua totalità. L’arte micenea, temporalmente parallela alla nascita dell’Iliade, presenta l’uomo come un aggregato di membra stranamente costruite: non esiste l’analogo me. Ma se gli uomini dell’Iliade sono privi di coscienza soggettiva, mente, anima o volontà, che cosa dà inizio a un comportamento? Cosa guida Achille, Ettore, Odisseo? “Le azioni non trovano il loro inizio in piani, ragioni e motivi coscienti, bensì nelle azioni e nei discorsi degli dei”. Quando verso la fine della guerra Achille ricorda ad Agamennone che questi gli ha sottratto la sua amante, Agamennone spiega che non fu lui la causa di tale atto, ma Zeus, e le Erinni che camminano nel buio, che gli gettarono l’ate addosso: che altro poteva fare? Gli Dei vincono sempre! E Achille cosa fa? Accetta la versione di Agamennone, perché anche lui, come il signore dei popoli conosce quelle voci, e sa come ogni uomo sia comandato da loro. Anche Omero inizia il suo poema invocando una dea: “Cantami l’ira, o dea!”. Tutto quello che segue è il racconto della dea che un aedo posseduto “udì” (vedremo dopo come) e cantò ai suoi ascoltatori.

    Jaynes sta stringendo il cerchio attorno alla tesi principale del libro: chi erano questi dèi che muovevano gli uomini come fossero automi e che cantavano poesia epica attraverso le loro labbra? Erano v o c i. Voci le cui istruzioni, le cui parole, potevano essere udite distintamente – allo stesso modo delle voci che gli schizofrenici, o Giovanna d’Arco, o i profeti, o gli oracoli, sentono. “Gli dèi erano organizzazioni del sistema nervoso centrale e li si può considerare come persone, nel senso di forti presenze costanti nel tempo, amalgami di immagini parentali o ammonitorio. Il dio è parte dell’uomo”.

    Il quadro che l’Iliade ci presenta è quindi caratterizzato da un senso di estraneità, di spietatezza e di vuoto. Non possiamo accostarci a questi eroi inventando, dietro i loro occhi fieri, spazi mentali come facciamo con ciascuno di noi. L’uomo dell’Iliade non ha una soggettività come noi; non ha consapevolezza della sua consapevolezza, non ha uno spazio mentale interno sui cui esercitare l’introspezione. Per distinguerla dalla nostra mente cosciente soggettiva, chiamiamo la forma mentale dei micenei mente bicamerale. La volizione, i progetti, l’iniziativa sono organizzati senza alcuna coscienza e vengono quindi “detti” all’individuo nel linguaggio che gli è familiare, a volte con l’aura visuale di un amico a lui caro o di una figura autorevole o di un “dio”, altre volte da una semplice voce. L’individuo obbedivano a queste voci allucinatorie perché non riusciva a “vedere” da sé che cosa fare.

    Per sostenere questa tesi, che costringe a rivedere la storia dell’uomo, Jaynes ha bisogno di trovare le basi fisiologiche di questa mente bicamerale: dopo le competenze sull’Iliade, diventano necessario tirare fuori quelle sul funzionamento del cervello, sfruttando i casi in cui questo non funziona in modo “normale”. Ci si addentra quindi nel mondo degli psicotici, e in particolare degli schizofrenici che soffrono di allucinazioni uditive o visive. “Nella schizofrenia le voci assumono qualsiasi tipo di rapporto con l’individuo. Esse conversano, minacciano, imprecano, criticano, consigliano, spesso con brevi frasi. Ammoniscono, consolano, scherniscono, ordinano e a volte si limitano ad annunciare tutto ciò che accade. Urlano, piagnucolano, ghignano, e variano da un lieve sussurro a urla tonanti. Spesso assumono qualche peculiarità speciale: talvolta, per esempio, parlano molto lentamente, scandiscono le parole, parlano in rima o con frasi ritmate [come Omero..], e persino in lingue straniere. A volte la voce è una sola, ma più spesso i pazienti odono alcune voci diverse, e occasionalmente molte. Come nelle civiltà bicamerali [ad esempio la micenea descritta nell’Iliade], sono riconosciute come voci di dèi, di angeli, di diavoli, di nemici o di una particolare persona o parente. [..] Il paziente [..] segue solo le istruzioni che gli danno le sue voci ed è indifeso contro di loro. [..] E quando le allucinazioni sono di natura visiva, assomigliano alla scene in cui Atena appare ad Achille, o a quella in cui Nabucodonosor vede le leggi che gli compaiono davanti, o a quella in cui Teti andò da Achille, o Yahwèh da Mosè”.

    Analizzando decine di casi di schizofrenia, e riconoscendo l’incredibile regolarità di questi fenomeni, la conclusione che si può e si deve trarre è che le allucinazioni devono avere una qualche struttura innata nel sistema nervoso ad esse sottostante: quando si rompe il meccanismo che le tiene sotto controllo, ad esempio in caso di forte stress, le voci iniziano a parlare.

    La struttura innata nel sistema nervoso è data da un cervello suddiviso in due emisferi, e dalle sue aree del linguaggio: l’area di Broca, l’area motoria supplementare e l’area di Wernicke. Ma anche se tutte e tre le aree si trovano nell’emisfero sinistro, non esiste alcuna differenza tra i due emisferi: in un bambino, la lesione dell’area di Wernicke dell’emisfero sinistro determina il completo trasferimento della funzione nell’emisfero destro. Alcune rare persone realmente ambidestre hanno sviluppato le aree del linguaggio in entrambi gli emisferi. Tutti i cervelli, dunque, hanno aree del linguaggio anche nell’emisfero destro, che però non ha gli strumenti per poter parlare verso l’esterno. I due emisferi, però, sono collegati tra loro attraverso delle commissure, bande di fibre che connettono parti del cervello. La più importante proviene dalla maggior parte della corteccia del lobo temporale, ma in particolare dalla circonvoluzione media del lobo temporale incluso nell’area di Wernicke, e poi si comprime in un tratto di poco più di 3 millimetri di diametro il quale, superando l’amigdala e passando sopra l’ipotalamo, penetra nell’altro lobo temporale. Secondo Jaynes, questo piccolo tratto di fibre lo stretto ponte attraverso il quale vennero le istruzioni che costruirono le nostre civiltà e fondarono le religioni del mondo. Il lobo temporale destro organizza, nell’area di Wernicke, il linguaggio degli dèi, che arriva fino alle aree uditive del lobo temporale sinistro, il quale ode una voce divina. Un’ipotesi folle? Sarei propenso di dire di sì, se non fosse che nel 1963 due studiosi, Penfield e Perot, decidono di stimolare l’area di Wernicke di settanta pazienti, e pubblicano i risultati sul numero 86 della rivista scientifica “Brain”, in un articolo intitolato The brain’s record of auditory and visual experience: a final summary and discussion. I risultati sostengono poderosamente l’ipotesi di Jaynes. I pazienti udirono voci, ammonizioni, consigli, provenienti da luoghi strani e sconosciuti, altri rispetto a sé: altri udirono musiche, melodie ignote che erano in grado di canticchiare al chirurgo. Alcuni sentirono la voce della madre, altri di un uomo che poteva essere loro padre e del quale avevano paura; molti intimavano alle voci di smettere di parlare o di urlare. Praticamente tutti non riconoscevano come proprie quelle voci.

    Ci furono altri esperimenti condotti su una dozzina di pazienti per i quali si era resa necessaria la separazione chirurgica dei due emisferi, detta commisurotomia, tipicamente per risolvere casi gravi di epilessia. In questi pazienti i due cervelli lavorano in modo del tutto indipendente. L’emisfero sinistro sa quello che succede nella parte destra del corpo, mentre quello destra si occupa della parte opposta. L’emisfero sinistro, ad esempio, non sa cosa vede l’occhio sinistro, che comunica le sue informazioni solo all’emisfero destro. E come si comportano questi due emisferi? Quello sinistro è razionale e cosciente come un normale essere umano; quello destro, che è comunque in grado di comprendere e risolvere problemi complicati, reagisce al mondo con grande forza e, quando può, cerca di comunicare all’emisfero sinistro il suo sdegno, la sua rabbia, il suo rimprovero. Proprio come fosse un dio. In altre parole “le differenze degli emisferi nella funzione cognitiva riflettono le differenze tra dio e uomo”. E nella storia dell’uomo, c’è un momento in cui diventa necessario che l’emisfero destro si faccia sentire: quando l’uomo, da cacciatore organizzato in piccoli gruppi di persone diventa un agricoltore e fonda comunità di centinaia di persone, dove l’attività di ciascuno non può essere gestita a “vista”: serve che qualcuno dica agli uomini cosa fare. Nasce così la teocrazia.


    [..] non è impossibile che un capo potesse dominare alcune centinaia di persone, ma sarebbe stato un compito molto faticoso se tale dominio avesse dovuto esercitarsi attraverso incontri diretti e ripetuti con ciascun individuo, come si riscontra in quei gruppi di primati che conservano gerarchie rigorose.

    Le prime città che l’uomo costruisce, in Medio Oriente, sono tutte caratterizzate dalla stessa struttura: una serie di piccole case disposte attorno a una struttura più grande nella quale vive il re. Gli abitanti non hanno ancora una coscienza: non sono in grado di narratizzare (cioè di raccontare una storia a se stessi), e non avevano alcun analogo io per vedere se stessi in relazione agli altri. Rispondevano, o reagivano, a stimoli, così come noi, guidando una macchina, in un’affollata autostrada a quattro corsie, continuiamo a prendere decisioni rapide ed efficaci senza avere la minima coscienza di quello che stiamo facendo. Ma come poteva trasmettersi il segnale in una comunità di due o trecento persone? Come avveniva il controllo sociale? Il re, o il capo, ordinava; gli emisferi destri dei cittadini registravano e poi, sotto forma di allucinazioni, ripetevano i comandi impartiti: e successivamente, queste voci diventarono in grado di risolvere problemi in modo inconscio, e quindi a parlare agli emisferi sinistri improvvisando, o dicendo cose che il re avrebbe potuto dire, ma che di fatto non aveva mai detto – esattamente come noi siamo in grado di immaginare un dialogo con un nostro amico che conosciamo bene. Ma cosa succede quando il re, che garantisce la coesione del gruppo, muore? Come garantire la continuità dei suoi comandi?

    A Enyan [piccola città medio orientale tra le più antiche del mondo] la tomba reale – risalente al 9000 a.C. e la più antica mai rinvenuta – è una struttura notevolissima. Come tutte le case, era circolare e aveva un diametro di circa cinque metri. [..] All’interno giaceva uno scheletro sostenuto da pietre; la sua testa eretta era circondata da altre pietre ed era rivolta verso i picchi nevosi del monte Ermon.

    Successivamente, non sappiamo se subito dopo o a distanza di anni, l’intera tomba fu circondata da un muro o da un parapetto dipinto con ocra rossa. Poi, senza disturbare il suo immobile abitante, grandi pietre furono disposte sopra la costruzione. [..] Sul tetto fu costruito un focolare.

    [..] Sono convinto che il re morto, sostenuto in tal modo sul suo guanciale di pietre, dava ancora ordini nelle allucinazioni del suo popolo, che il parapetto dipinto di rosso e il piano superiore col focolare erano una reazione alla decomposizione del corpo, e inoltre che, almeno per un po’ di tempo, il posto stesso, e persino il fumo che saliva dal suo sacro fuoco ed era così visibile anche a centinaia di metri di distanza, erano, come le grigie nebbie dell’Egeo per Achille, una fonte di allucinazioni e l’origine dei comandi che controllavano il mondo di Enyan. Questo è un paradigma di quanto sarebbe avvenuto nei successivi otto millenni. Il re morto è un dio vivente. La tomba del re è la casa del dio, l’inizio delle elaborate case di dèi o templi [..]. Anche la formazione a due livelli della tomba preannuncia le ziqqurat a molti gradini, i templi costruiti su altri templi, come a Eridu, o le gigantesche piramidi presso il Nilo, o le ancora più gigantesche piramidi maya ed atzeche.

    A questo punto, è fondamentale fermarsi per riassumere brevemente i passaggi di Jaynes. Uno: la coscienza non entra nella maggior parte delle azioni complesse che un uomo può compiere. Due: nell’Iliade, un libro di tremila anni fa, non c’è traccia della coscienza, e gli eroi sembrano mossi da voci divine. Tre: l’emisfero destro possiede aree del linguaggio in grado di comunicare con l’emisfero di sinistro, che non riconosce le voci come proprie. Quattro: il passaggio da una società di cacciatori a una società stanziale di agricoltori raccolti in piccole città richiede lo sviluppo di capacità di trasmissione dei comandi a distanza (nello spazio e nel tempo): entra in gioco l’emisfero destro. Cinque: per evitare che la morte del re faccia cessare le allucinazioni uditive innescate dalla sua autorità, la sua casa viene trasformata in un tempio visibile, che continua ad “emettere” comandi. Sei: il re morto diventa il primo dio della storia, e la società si organizza in forma di teocrazia.

    Enunciata la sua tesi, Jaynes passa alla presentazione di centinaia di prove a sostegno: rilievi su roccia a Yazilikaya dove il dio Sharruma stringe in un abbraccio il suo re-amministratore Tudhaliys, la pianta della città turca Çatal Hüyük, le tombe olmeche del periodo compreso tra l’800 e il 300 a.C., gli scritti di Sahagùn, uno dei primi scrittori di cose mesoamericane, testi di incantesimi rinvenuti in Assiria, le figure o idoli mesopotamici riportati alla luce a Lagash, Uruk, Nippur, Susa e Ur, le decapitazioni dei morti durante la dinastia dei Cocom che regnò su Mayapàn attorno al 1200 d.C. e le analoghe decapitazioni della cultura natufiana di Gerico del 7800 a.C., la letteratura cuneiforme, i pittogrammi di Uruk, i dèi padroni della Mesopotamia, il rapporto tra Warad-Sin, re di Larsa, con il suo dio Enki che gli fece ricostruire un’intera città, il dio-artigiano Mummu, le cerimonie del lavaggio della bocca, il blocco di granito sul quale è riportata la Teologia menfita, Osiride ovvero la voce del re morto, il dio Khnum che plasma i re con la mano destra e il suo ka con la mano sinistra (e la lateralizzazione di questa rappresentazione), la statua di Hammurabi che riceve in forma allucinatoria i giudizi del suo dio Marduk, e le sue tavole della legge prive di qualsiasi soggettività… Pagine e pagine di storie eccezionalmente interessanti, che compongono un mosaico complesso e ricchissimo di suggestioni, e che, secondo Jaynes, dimostrano fino in fondo la solidità della sua tesi.

    Ma poi le allucinazioni finiscono. E nasce la coscienza. L’ascesa dell’Assiria, brutale e crudele impero, getta nella disperazione decine di popoli. Iniziano le migrazioni. Le città vengono distrutte, i templi abbattuti. L’eruzione del vulcano di Santorini rade al suolo, con uno tsunami alto 200 metri, tutte le città lungo le coste della Grecia, decretando la fine della civiltà micenea. Le lingue si confondono.


    [..] nello spazio di una singola giornata, intere popolazioni o quanto di esse sopravviveva si trasformarono d’improvviso in masse di profughi. L’anarchia e il caos si propagarono di regione in regione sulla scia delle invasioni. Che cosa possono dire gli dèi in tanta rovina? Che cosa possono dire gli dèi, ora che la fame e la morte sono più severe di loro, ora che genti tra loro sconosciute si trovano faccia a faccia, e lingue strane vengono urlate a orecchie incapaci di comprenderle? L’uomo bicamerale era governato nei fatti banali della vita quotidiana da abitudini inconsce, e quando si trovava di fronte a un comportamento nuovo o insolito, le sue visioni-voce gli dicevano cosa fare. Strappato dal suo contesto entro il più vasto gruppo gerarchico e gettato in una situazione in cui né l’abitudine né le voci bicamerali potevano più aiutarlo e dirigerlo, doveva essere una creatura veramente miseranda. Come poteva l’esperienza ammonitoria accumulata e raffinata nel pacifico ordinamento autoritario di un regno bicamerale dirgli qualcosa che fosse ancora efficace?

    Qualcosa deve cambiare. Ma perché la risposta a questi problemi è la coscienza? Perché avviene la transizione della mente bicamerale a una mente dotata di coscienza? Jaynes propone alcune ipotesi: l’indebolimento delle allucinazioni uditive in conseguenza dell’avvento della scrittura, l’intrinseca fragilità del controllo allucinatorio, l’inefficienza degli dèi nel caos degli sconvolgimenti storici, l’osservazione delle differenze che potrebbe essere l’origine dello spazio analogale della coscienza (concetto che mi piace moltissimo: le differenze, e non l’omologazione, hanno creato l’uomo moderno); l’epica che, raccontando relazioni tra eventi passati, porta alla narratizzazione; la necessità di tradimenti o inganni a lungo termine, che richiedono l’invenzione di un sé analogale; la selezione naturale.

    E l’uomo si accorge che gli dèi se ne sono andati. Le religioni ne prendono atto. Gli déi diventano celesti, creature del cielo, che parlano poco, e solo attraverso i loro rappresentanti ufficiali. Le strutture architettoniche dei templi cambiano, diventando quasi delle piattaforme di atterraggio per gli dèi, dei quali si attende, invano, il ritorno. Iniziano i tentativi di indovinare la voce degli dèi attraverso l’interpretazione dei presagi, l’ascolto degli oracoli, le predizioni tratte dai sogni, la cleromanzia, la divinazione augurale. La scrittura cambia: l’Iliade viene seguita dall’Odissea, dove l’arte dell’inganno di Ulisse dimostra come la coscienza sia ormai un fatto acquisito; le parti del corpo (il thumos, il nous, le phrenes) si smaterializzano e diventano metafore della mente e della sua complessità. Il corpo viene rappresentato come un tutt’uno. Ma rimane la nostalgia delle voci. Gli inni delle nazioni sono spesso invocazioni divine. I nostri re, presidenti, giudici e funzionari assumono le loro cariche e iniziano le loro funzioni con giuramenti agli dèi oggi muti, fatti sugli scritti di coloro che per ultimi ne hanno udito la voce.

    Jaynes affronta il ruolo dell’emisfero destro nella poesia, nella musica, nell’ipnosi, e aggiunge pagine particolarmente interessanti alla sua teoria. La domanda è: possiamo credere a tutto quello che ci racconta? Le cose sono andate proprio così? Non so se sia importante, o necessario, dare una risposta a queste domande. Questo libro è un cammino lungo il quale si aprono di decine di porte, attraverso le quali Jaynes ci fa intravedere mondi che non avevamo mai immaginato; il cambio di paradigma può essere accolto o rifiutato, ma rimane l’esperienza grandiosa che si vive di fronte a un’intelligenza incredibilmente vasta e acuta.

    Il residuo più manifesto e importante della forma mentale di un tempo consiste nella nostra eredità religiosa, in tutta la sua labirintica bellezza e varietà di forme. L’importanza enorme della religione sia nella storia universale del mondo sia nella storia dell’individuo comune è naturalmente chiarissima da ogni punto di vista oggettivo, anche se una visione scientifica dell’uomo spesso sembra trovarsi in imbarazzo di fronte all’ammissione di questo fatto evidente. Perché nonostante tutto ciò che la scienza razionalistica e materialistica ha comportato dalla Rivoluzione scientifica in poi, l’umanità nel suo insieme non potrà mai abbandonare l’affascinata convinzione che esista una qualche relazione umana con un’entità più vasta e totalmente altra, un mysterium tremendum dotato di poteri e di intelligenze che vanno al di là di tutte le categorie dell’emisfero sinistro: qualcosa di necessariamente indefinito e oscuro, cui ci si deve accostare con timore reverenziale e meraviglia e quasi muta adorazione, anziché con una concezione chiara; qualcosa che per le persone religiose oggi si manifesta attraverso verità del sentimento, anziché ciò che può essere verbalizzato dall’emisfero sinistro; e quindi qualcosa che nel nostro tempo può essere percepito in modo più autentico quanto meno lo si nomina, una configurazione del sé e del numinoso altro a cui, nei periodi della nostra angoscia più scura, nessuno di noi può sottrarsi. [..]

    Questa vicenda, questo immenso dramma recitato dall’umanità nel corso degli ultimi 4000 anni, è chiaro quando adottiamo la grande prospettiva della tendenza intellettuale centrale della storia del mondo. Nel II millennio a.C. abbiamo smesso di sentire le voci degli dèi. Nel I millennio a.C. si sono estinti anche quelli di noi che ancora udivano le voci, i nostri oracoli e profeti. Nel I millennio d.C. è attraverso i loro detti e le parole divine da loro udite e preservate nei testi sacri che noi continuiamo a obbedire agli dèi perduti. E nel II millennio d.C. questi scritti perdono la loro autorità. La Rivoluzione scientifica ci distoglie dagli antichi detti per andare alla scoperta dell’autorizzazione perduta. Ciò che abbiamo vissuto in questi quattro millenni è la lenta, inesorabile profanazione della nostra specie. E nell’ultima parte del II millennio d.C. questo processo sta, a quanto pare, completandosi. E’ la grande ironia umana della nostra impresa più nobile e più elevata che nella ricerca dell’autorizzazione, nella nostra lettura del linguaggio di Dio nella Natura, leggiamo così chiaramente che a tal punto ci siamo sbagliati.

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  8. gino rago

    “[…] Ora, se Lorenzo Pompeo scrive

    “Il filo di sabbia
    nella clessidra ha danzato
    tutta la notte…”

    non è da escludere che questo poeta abbia pensato all’idea della brocca di Heidegger e alla estetica del vuoto di Lacan, altrimenti a che servirebbe una clessidra senza quel filo di sabbia che in essa danza?
    Il coseggiare della brocca è nel versamento del liquido che la brocca accoglie e contiene e il coseggiare della clessidra è nella sabbia in essa contenuta, brocca e clessidra con al centro il concetto di vuoto, quel vuoto che dalla sua nota critica Giorgio Linguaglossa propone al lettore come “[…] il vuoto che si nasconde dentro lo specchio, il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose, che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso, che dialoga con se stesso[…]” .
    Precisazione che va a collegarsi con la mia poesia “Il Vuoto non è il Nulla”.
    Il Vuoto, [il tema dei temi, a mio giudizio, della poesia da considerare come nuova] cui ci si può accostare per le vie o dell’arte o della religione o della scienza[…]”

    Gino Rago

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  9. Ci siamo occupati della questione del mito di Odisseo nel post qui sotto indicato:

    Il ritorno di Odisseo – L’oblio della memoria – Odisseo è un cialtrone, un disertore della guerra di Troia – Una poesia inedita di Giorgio Linguaglossa. La rilettura del mito dal punto di vista della nuova ontologia estetica – Interventi di Gino Rago e Carlo Livia con una poesia di Marina Cvetaeva e Paul Celan

    Però io vorrei attirare l’attenzione dei lettori tutti sul perché il mito di Odisseo sia così centrale nella sensibilità della «nuova poesia» italiana. Cercherò di spiegarlo. Nel mito di Odisseo vengono alla luce i principali problemi, le antinomie e le aporie di una nuova figura umana. Odisseo rappresenta la prima e più autorevole esemplificazione del nuovo modello di homo sapiens, l’uomo della «mente bicamerale» di Jaynes, il nuovo uomo abitato dalla scissione tra l’immediatezza della percezione immediata e il primo albeggiare della «coscienza», una scissione che contrassegnerà la vicenda trimillenaria dell’uomo sulla terra. Ma, accanto al primo albeggiare della «coscienza» (e quindi delle risorse della menzogna, dell’inganno, del raggiro, della finzione), c’è un indizio fondamentale, di grandissima importanza per lo sviluppo delle facoltà dell’homo sapiens: l’apparizione della «autocoscienza», cioè la capacità che ha l’homo sapiens dell’età matura di distinguersi, e di percepire questa stessa distinzione, tra «coscienza» e «autocoscienza». Si tratta di una complessificazione della vita psichica e metafisica dell’homo sapiens che non ha precedenti nella sua storia. Nel mito e nel personaggio di Odisseo è chiarissimo quanta parte ha il raggiro, la menzogna, la finzione in Odisseo e di come queste «facoltà» e risorse conferiscano a questo personaggio un immenso vantaggio sugli altri esseri umani.

    Non è per caso che i poeti della «nuova ontologia estetica» percepiscano in modo così chiaro la attualità e la novità del mito di Odisseo e del personaggio Odisseo e che vadano a scoprire in lui i primissimi indizi, i primissimi sintomi di una nuova malattia dell’homo sapiens: quella malattia che condurrà l’homo sapiens ad una complessificazione della vita psichica ed emozionale inimmaginabile e impensabile rispetto alla vita psichica dell’uomo dei primordi della civilizzazione.

    Anch’io ho scritto una poesia su Odisseo, attirato dalla nuova complessità psichica di questo eroe della mitologia greca. Odisseo siamo noi, Odisseo è vicinissimo alla nostra sensibilità, in lui convivono le nuove armi armi segrete che condurranno l’umanità verso catastrofi a non finire, una storia di conflitti e di contraddizioni, quei conflitti e contraddizioni che abitano la sua psiche fin dal tempo di Odisseo omerico. Quindi, Odisseo non solo visto come il nuovo modello di eroe borghese come ho hanno considerato Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo (1944), ma come un modello di una nuova tipologia umana nella quale si può notare come in vitro e in trasparenza, quello che l’homo sapiens è diventato oggi a distanza di tremila anni dall’età nella quale è vissuto l’Odisseo omerico. Odisseo siamo noi, ecco il perché questa figura di eroe mitico ci interessa tanto da vicino, perché indagando sulla sua vicenda mitica possiamo mettere in luce e leggere con chiarezza quello che noi siamo diventati oggi alle soglie della nuova rivoluzione cibernetica che si annuncia…

    Vorrei aggiungere che un elemento di distinguibilità della poesia della «nuova ontologia estetica» da quella, diciamo così, storicamente novecentesca (italiana) è ben visibile a chi legga i testi della «nuova ontologia estetica» con la mente sgombra da pregiudizi: la grande complessificazione della prima rispetto alla seconda, salta agli occhi in modo immediato. La complessificazione della nuova poesia italiana (intendo della sua struttura polifrastica, basti dare un’occhiata alla poesia di un Mario Gabriele, di Gino Rago, di Steven Grieco Rathgeb, di Lucio Mayoor Tosi, di Donatella Costantina Giancaspero e, soprattutto, della madrina della nuova poesia: di Anna Ventura… ma anche di altri autori) è una conseguenza inevitabile della complessificazione delle forme estetiche derivante dalla complessificazione dell’esistenza degli uomini nella nuova società video-cibernetica. Una complessificazione delle forme estetiche e dei generi poetici non avviene mai a caso ma avviene sempre in parallelo e in conseguenza del sorgere di una complessificazione della vita sociale ed emozionale, psichica, degli uomini e delle donne di un determinato stadio della civilizzazione.

    *

    Secondo Horkheimer e Adorno, l’itinerario di Odisseo è lo stesso itinerario del soggetto (del Sé) moderno-borghese, il quale, prima di prendere coscienza della sua razionalità, deve emanciparsi faticosamente da uno stadio di civiltà ancora legato a culti, forme di dominio e di vita mitiche. L’emancipazione dal mito, tuttavia, non annulla il mito in quanto tale, che anzi, proprio nell’Odissea, diventa metafora della struttura borghese della società e dell’individuo come tale.

    2- L’astuzia di Odisseo rappresenta il ‘lume’ della ragione, contrapposto a una brutalità tutta naturale e mitica, comunque originaria, nella quale l’uomo si trova a dover combattere con forze ed istinti caratterizzati negativamente nell’epos omerico (Polifemo, la maga Circe, le Sirene, etc.). “L’organo con cui il Sé sostiene le avventure, e fa getto di sé per conservarsi, è l’astuzia.”

    L’astuzia di Odisseo rappresenta un ‘ordine’ (la patria, la famiglia a cui l’eroe tenta di ritornare attraverso il suo lungo viaggio); quell’ordine borghese che permette la riproduzione e l’autoconservazione dell’uomo entro schemi e rapporti da lui dominati e regolati. “Ecco il segreto del processo tra epos e mito: il Sé non costituisce la rigida antitesi all’avventura, ma si costituisce, nella sua rigidezza, solo in questa antitesi, unità solo nella molteplicità di ciò che quell’unità nega.” Il distacco dal mito, che nell’epos omerico viene descritto, porta l’uomo a irrigidirsi. Assistiamo, in altri termini, a una sorta di razionalizzazione (come irrigidimento) della vita e della coscienza umana, che si presenta come una conquista di civiltà, raggiunta attraverso un’avventura epico-mitica. Una conquista descritta mitologicamente e che al contempo emancipa (o crede di emancipare) definitivamente l’uomo dal mito. L’irrigidimento costitutivo del Sé (della coscienza umana moderno-borghese) sta proprio nella contraddittoria convinzione di essersi per sempre liberato del mito e nel credere che questa liberazione sia anche la realizzazione stessa del progresso.

    L’astuzia di Odisseo si manifesta anche come superamento del “sacrificio” (sacrificio dell’uomo al dio) e come consapevolezza da parte dell’eroe nell’usare il linguaggio. Ma vediamo in che senso.

    Notano gli autori che nell’epos omerico non vi sono descritti veri e propri sacrifici umani; vi è piuttosto la presa di coscienza, da parte di Odisseo, dell’inganno che il sacrificio in quanto tale rappresenta. Rendere, da parte dell’uomo, un sacrificio al dio vuol dire non solo ingraziarselo (e attraverso di lui ingraziarsi la natura), ma in qualche modo dominarlo, comunque controllarlo, sebbene da una posizione di inferiorità, e limitarne il potere. Ma l’uomo, in cuor suo, dicono Horkheimer e Adorno, non può non sapere che la divinità a cui ci si sacrifica in realtà viene in questo modo a far parte di uno scambio tutto umano, il cui valore ultimo certo non va al dio. “Se lo scambio è la secolarizzazione del sacrificio, il sacrificio stesso appare già come il modello magico dello scambio razionale, un espediente degli uomini per dominare gli dèi, che vengono rovesciati proprio dal sistema degli onori che loro si rendono.”

    Che cosa fa allora Odisseo di diverso dal sacrificio-scambio? Che cosa aggiunge a questa forma magico-mitica di inganno reso agli dèi? La vicenda a cui gli autori si riferiscono è quella descritta nell’Odissea a proposito del ‘falso’ sacrificio reso a Posidone; mentre il dio viene accontentato da ingenti sacrifici nella terra degli Etiopi, Odisseo può fuggire indisturbato e mettersi in salvo. L’uso ‘astuto’ e indiretto del sacrificio lo trasfigura e ne rovescia il senso originario; porta alla coscienza dell’uomo la possibilità di falsificare e dissimulare il rapporto con gli dèi, esclusivamente per il suo vantaggio personale. “Ma inganno, astuzia e razionalità non sono semplicemente opposti all’arcaismo del sacrificio. Odisseo non fa che elevare ad autocoscienza il momento dell’inganno nel sacrificio, che è forse la ragione più intima del carattere illusorio del mito.”

    Ecco allora che questa presa di coscienza è un passo oltre la magia del sacrificio, il quale, in questo modo, viene realizzato dall’uomo come consapevole inganno, come scambio moderno-borghese ante litteram, come dominio cosciente sulla natura divinizzata, come rovesciamento infine del rapporto di dominio del dio sull’uomo.

    Questo stacco illuministico dal mito è rappresentato bene anche dal modo in cui Odisseo usa il linguaggio e precisamente il suo nome. Udeis in greco vuol dire nessuno; con questo significato del proprio nome Odisseo si presentò a Polifemo il quale, reso cieco dall’eroe, pur chiedendo aiuto ai Ciclopi venne frainteso quando questi gli chiesero chi l’avesse ridotto a quel modo: “Nessuno!” rispose. “Nasce così la coscienza del significato: nelle sue angustie Odisseo si accorge del dualismo, in quanto apprende che la stessa parola può significare cose diverse.”

    Secondo gli autori, questa ulteriore presa di coscienza, da parte dell’eroe mitico, lo solleva dall’immediatezza del rapporto con le cose, con gli oggetti e la natura. L’immediatezza con cui le parole vengono attribuite alla realtà viene definitivamente rotta e mediata, da quel momento in poi, dal pensiero. La coscienza di Odisseo comincia appositamente a separare le parole dalle cose, a rendere problematico il riconoscimento dell’uomo nel proprio nome. Assistiamo, dicono gli autori, a un duplice sdoppiamento; da una parte il linguaggio si separa dalla cosa designata, potendo di per sé assumere significati anche opposti, che indicano opposte realtà, dall’altra è l’uomo stesso a sdoppiarsi nel proprio nome, ingannando la realtà al fine di autoconservarsi come individuo dotato di ragione e capace di dominare astutamente le circostanze esterne.

    Dall’astuzia di Odisseo “[…] emerge il nominalismo, il prototipo del pensiero borghese. L’astuzia dell’autoconservazione vive di questo processo in atto fra parola e cosa.[…] L’astuto pellegrino è già l’homo oeconomicus a cui somigliano tutti gli uomini dotati di ragione.”*

    http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil/fabiani3.htm

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  10. gino rago

    Wislawa Szymborska [«Letture facoltative», Adelphi]

    (“Il quadrato costruito sovra l’ipotenusa
    è la somma dei quadrati fatti sui due cateti
    in ogni triangolo rettangolo”)

    «Non ho difficoltà a immaginare un’antologia dei più bei frammenti della poesia mondiale in cui trovasse posto anche il teorema di Pitagora perché li c’è quella folgorazione che è connaturata alla grande poesia, e una forma sapientemente ridotta ai termini più indispensabili, e una grazia che non a tutti i poeti è stata concessa».

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  11. Ho lavorato in questi ultimi tempi ad una mia poesia, di nuovo conio. Chi parla è il diavolo nelle vesti del Signor K. il quale si rivolge con accenti derisori ai poeti della «nuova ontologia estetica».

    Il saluto del Signor K.
    (alla maniera di Ewa Lipska)

    Poesie di Gino Rago, Chiara Catapano, Mauro Pierno, Lorenzo Pompeo con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa


    «Cari Signori Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,
    Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi e compagnia varia…
    Vi porgo i miei saluti dal Labirinto, quel luogo che non è un luogo,
    dal quale non è più
    possibile trovarsi, o ritrovarsi, dove non c’è neanche bisogno
    di cercare le scaturigini di alcunché.
    Le parole, egregio Signor Linguaglossa,
    in questo luogo sono del tutto fuori posto.
    Mi perdoni questa ovvietà, ma lei, mi dicono, è un poeta!
    Vede? Ragion per cui si dà una ragione sufficiente,
    una ragione minima… cado anch’io a volte dalle nuvole.
    La trappola della geometria euclidea?
    Che vuole, ho un debole per i triangoli scaleni,
    per gli eptaedri, i vertici acuti, i numeri primi, i numeri periodici.
    Tutto ciò che ci ha amato,
    cari Rago e Linguaglossa, cari Gabriele e Tosi,
    e quanti altri della nuova ontologia estetica,
    non ha più ragion d’essere…».

    Il lestofante aprì la confezione di pasticcini ripieni di crema e bignè al cognac. Arietta di Offenbach. Sorrise. La bocca zeppa di denti d’oro che brillavano. «Professione?», «Sì, metta intagliatore di diamanti», rispose… poi si chinò per arraffare qualcosa dalla tasca interna della giacca di velluto. Cravatta blu a pallini gialli. Farfugliò qualcosa sul pianoforte a coda. «Non siamo parenti – mi disse – però, in un certo qual modo, siamo prossimi… no, no, non parlo di voi, caro amico… parlo d’altro… tutti i predicati nel corso del tempo, convengono, convergono… e che occhi penetranti, come quelli di Dio, potrebbero leggere tutto lo svolgimento delle cose dell’universo… il suo accadere è infatti, in se stesso, perfettamente possibile, sebbene sia impossibile che ciò accada… ma, suvvia, ciò potrebbe accadere, ma in un altro mondo… perché tutto cospira con tutto… verso il tutto… ma in un altro mondo».

    «La realtà è il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.
    Auto-negarsi nel suo stesso porsi, un porsi
    nel suo stesso negarsi.
    Che volete, nient’altro che un gioco di prestigio!
    Sì, mi attendo da Voi una risposta.
    Una sola, però,
    intorno alla de-coincisione dell’essere dal nulla.
    E sì…
    Ed anche intorno all’Assoluto, che diamine, Signori della
    «nuova ontologia estetica»!.
    Per questo Vi dò il mio indirizzo:
    Quartier Generale dell’Aldilà
    dove scorre il fiume dell’aldiquà
    al numero civico 777 piano terzo scala D,
    attigua alla abitazione di Dio, perbacco!».

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  12. Parliamo di un doppio
    la parte di noi che dal vuoto sovviene, la palpebra trema, l’altra è guardinga.
    questo è il vuoto.
    Quando pro creiamo abbandoniamo un destino.
    Partiamo o Dissei!

    Non toccarmi i versi della Catapano!

    (Con lei si muove un mare di poesia, le sue sono onde che raccolgono il tempo. Sono ampi per questo.)
    …e poi la versificazione è un vezzo, dipende dalla casualità del supporto, Olivetti, manuale,
    o tinove!

    Signori,
    Odisseo è partito.
    Einstein lo ha duplicato.
    O parliamo di lui o del suo gemello.

    Grazie, Ombra
    Lusingato di sifatta compagnia.
    Abbraccio tutti.

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