Lucio Mayoor Tosi: La mia massima aspirazione è fare cronaca di questo tempo
Il promemoria.
di Lucio Mayoor Tosi
La mia massima aspirazione è fare cronaca
di questo tempo. Sia pure di farla senza volontarietà.
Mettere insieme cose che neppure riesco a vedere:
l’epoca, lo svolgersi del tempo confuso nelle circostanze
di tutti gli abitanti del pianeta.
Prima scala a sinistra.
Il cielo sull’obitorio.
Da quelle parti, tutti quei nomi. Io che non so
scriverne uno in poesia. Ci siamo quasi.
L’acrobazia di non esserci più in quanto si è scritto.
Di esserci stati solo per momenti. Poesia celere.
Con la netta sensazione di appartenere a una specie
prima che a un popolo. Quindi di avere perso strada facendo
la capacità che hanno le anatre di intendersi quando volano
nello stormo. Quando migrano. Ma noi senza muoverci.
Solo con il pensiero.
Ho viaggiato in molti autobus.
Esterrefatto. Joaquin Cortes – Cordoba 1969 – venne alla ribalta
quando i fenicotteri minacciarono lo sciopero della fame.
Con questo mondo bisogna fare i conti.
Riunire qualche coccio. Deviare aspettative. Svoltare.
Si suona alla porta. Si sta lì. Senza dire niente.
Venerdì 6 aprile.
Con negli occhi quelli della marmotta
che sul sentiero ci guardò incuriosita. E noi anche più di lei.
Non sbiadisce. È scritto sulla scatola.
Anna Ventura
7 aprile 2018 alle 17:25
Caro Lucio,
“la netta sensazione di appartenere a una specie prima che a un popolo”, prima o poi, la proviamo tutti; ma anche quella di poter volare in mezzo a uno stormo, di potersi allineare a una fila di lumache, di condividere l’attivismo delle api e la tenacia delle formiche. Tutti insieme, stiamo ; Adamo avrebbe voluto essere solo:di Eva gli importava pochissimo. Ma le cose, come sempre, se ne andarono per loro conto. Adamo dovette accettare la dura realtà condominiale,imposta da Eva, che implicava la coesistenza di figli, zii, cugini ,nipoti e pronipoti; col tempo, forse, finì con l’affezionarsi.
Lucio Mayoor Tosi
7 aprile 2018 alle 18:28
Grazie, cara Anna,
per l’iniezione di fiducia. Io ancora non so se quello che provo lo provano anche i muri. Ho il sospetto di sì.
Stamattina, dopo aver letto le poesie di Mauro Pierno, anzi, prima ancora di leggerle, mi sono detto Inizia bene questa giornata! Mauro riesce a trasmettere buon umore, anche quando si affligge. Non posso commentare. Ho l’impressione piacevole che in Lui sia in atto una frantumazione, e al contempo sta bene attento all’insieme. Ho letto molto volentieri, parliamo lo stesso linguaggio.
Alfonso Cataldi
7 aprile 2018 alle 18:55
Trovo le poesie di Pierno molto compiute rispetto ai primi tempi in cui sono arrivato su questa rivista. Ora sento un punto di appoggio, mentre prima molto spaesamento. Vico lo conosco abbastanza bene. la sua scrittura è ineccepibile. Questa presa di coscienza della morte heiddegeriana è il segreto per una apparente leggerezza.
Chi sa
Il faro è sempre stato lì naturalmente
sotto il tunnel lavico più adatto all’ipotesi marziana.
Nel gruppo degli acquerellisti, l’admin ha messo in palio un premio.
Vince chi lo trova
impenitente
nella mareggiata.
Il maggiordomo ha stretto un patto di non belligeranza
con gli accadimenti delle stanze riservate.
Preserva la tenuta dai fraintendimenti della storia.
Wimbledon ‘80.
L’enorme quantità di ghiaccio non cede ai colpi di mortaio.
Le pause sono sorsi d’acqua che colmano la fine.
Game. Set. Partita.
Dispensa molecole ordinarie
di comprensione per l’attesa, un mantice
affidato
alla dipartita
dei quattro monoliti neri.

Giuseppe Talia coglie in pieno il bersaglio quando osserva che ci sono autori che scrivono: na na – na na – nananana
Giorgio Linguaglossa
8 aprile 2018 alle 19.00
Giuseppe Talia coglie in pieno il bersaglio quando osserva che ci sono autori che scrivono:
na na – na na – nananana
con il che ne viene fuori una ninnananna, un ritmo addormentato che invoglia al sonno. Permettetemi di non fare nomi altrimenti mi tiro addosso altre avversioni.
Ma il fatto è che sono ormai più di cento anni che Tynianov, Sklovskij, Jakobson e gli altri formalisti russi e di Praga ne hanno scritto. Probabilmente i “poeti” di oggi non li hanno mai letti, altrimenti non scriverebbero:
na na – na na – nananana
Scrive Roman Jakobson:
«il parallelismo ritmico viene percepito nel modo più vivo se esso è accompagnato da una simiglianza (o da una contrapposizione) delle immagini.»
Mi sembra chiarissimo, non avrei altro da aggiungere. È chiaro che per evitare che il lettore si addormenti sulla pagina scritta dobbiamo intervenire nella struttura frastica con dei tagli, delle interruzioni, delle disconnessioni, degli slogamenti, così:
na na / na na [/] nananana
ni na // né ni /-/ nu na no /-/
ne ni //-/ ni no /-/ ne na…
etcetera, etcetera…
Mi sembra elementare.
Proprio ieri sera leggevo l’ultimo libro di poesia di Enrico Testa (Cairn, Einaudi, 2018). Devo rilevare che la struttura frastica non riesce mai ad uscire dalla sua prigione frastica, tranne che in qualche momento quando la ripetizione del punto interrompe la metricità, frasticamente parlando, ineccepibile e introduce delle spezzature, delle interruzioni. Il fatto è che l’autore non arriva a percepire la monotonia ritmica della struttura frastico-immaginativa della sua poesia e, nonostante alcuni momenti espressivamente felici, non riesce mai a «bucare» le pareti della prigione dorata che si è dato. Il fatto è che l’autore non è consapevole della «prigione frastica» nella quale ha posto il suo discorso poetico, e che funge da «cornice» del suo discorso poetico. Da quella prigione non è possibile uscire se non tramite un atto di effrazione, una vera e propria evasione a mano armata. È che bisogna avere del coraggio per fare una evasione a mano armata. È un salto mentale notevolissimo che pochissimi detenuti fanno. In fin dei conti, il poeta è simile ad un detenuto: si trova segregato dentro il linguaggio che ha ereditato, e alla fine quel linguaggio diventa la sua prigione. È che prima ancora di scrivere una frase, bisognerebbe entrare con il pensiero dentro il pensiero di un altro pensiero: che la realtà, quella che chiamiamo realtà, è un atto innanzitutto immaginario; noi nominiamo sempre la realtà, la realtà la percepiamo sempre e solo attraverso il linguaggio di altri, e il linguaggio che usa Enrico Testa nomina una realtà che io conosco già da molti decenni, e che mi induce al sonno mentale; la realtà che io voglio conoscere è invece un’altra, una realtà che non conosco ancora, e che mi sorprende, mi sbalordisce, mi scuote. E questo lo può fare soltanto il linguaggio, ma il linguaggio che viene pensato da un altro pensiero, un pensiero che vuole forzare la «prigione dorata» nella quale il linguaggio della poesia ordinaria mi (ci) ha relegato.
Vorrei anche dire che nel libro di Enrico Testa c’è una poesia intitolata «Metafisica del pollaio». Ecco, quella sarebbe stata, a mio avviso, la via giusta da intraprendere: fare una poesia da «pollaio», una poesia di stracci, intraprendere la via di un’altra «metafisica», ma non con le parole della vecchia «metafisica», ma con le parole di una nuova «metafisica»… ma qui ci si imbatte in un problema insormontabile, irrisolvibile se lo consideriamo con le parole e la logica della vecchia «metafisica», se non operiamo un «salto», dalla vecchia alla nuova metafisica. Un salto mentale, culturale. Ecco la poesia riportata sulla copertina della edizione Einaudi, sarebbe dovuta essere questa la traccia da seguire per una nuova poesia, e invece questa traccia è rimasta inesplorata, la gran parte del libro è composta di poesie ancora tradizionalmente narrative, diciamo, di tematiche di «paesaggio», quando invece le cose migliori del libro vertono in una direzione, quella della utopia della parola a nominare il mondo, che è rimasta inesplorata:
dicono che vi sia una parola
che dice ancora
quando non c’è piú niente da dire,
che non dà nome
a ciò che è senza nome
ma come un abbraccio l’accoglie
e perdonandogli ogni colpa
l’invoca e – ma forse straparlo –
è pure pronta a celebrarlo
Quando Lucio Mayoor Tosi nella poesia postata poco sopra, scrive:
La mia massima aspirazione è fare cronaca
di questo tempo. Sia pure di farla senza volontarietà.
Mettere insieme cose che neppure riesco a vedere…
dice una cosa sacrosanta, fa una affermazione di poetica di grande coraggio intellettuale, a Lucio interessano le «cose che neppure riesco a vedere». Più chiaro di così! Le cose che vediamo sono già state nominate, un poeta non può essere interessato alle cose che sono state già nominate, altrimenti scriverebbe su quelle «cose» con un linguaggio già impiegato. Noi vediamo le «cose» soltanto quando un nuovo linguaggio ce le fa vedere in un altro modo, sotto una luce diversa, allora veramente riconosciamo le «cose».
E che cosa sono le «cose»? Chiediamolo ad un filosofo (con il quale sono in disaccordo quasi su tutto), a Sergio Givone:
«la realtà stessa si rivela finalmente per quella che è: non uno stato di cose (che la filosofia descriverebbe secondo verità oggettiva, rispecchiandola) ma una serie di eventi (eventi della verità inoggettivabile che vuole essere interpretata e solo nell’interpretazione vive)».1]
Siamo arrivati al punto: l’atto della nominazione di una «cosa» o di «uno stato di cose» ci rivela per la prima volta, insieme alla «cosa», l’evento che quella cosa è.
Ed è questo ciò che tenta di fare la nuova ontologia estetica.
1] S. Givone Trattato teologico-poetico, il melangolo, 2017 p. 109-110
Rossana Levati
8 aprile 2018 alle 20:26
Zbigniew Herbert
Le porte
L’unica traccia visibile del soggiorno degli angeli sulla terra sono le porte, la più nobile sezione della spelonca umana chiamata casa. Non sono oggetti semplici, come il tavolo o la conduttura dell’acqua, ma esseri spirituali, alti, bianchi e alati.
Abbiamo compiuto, in accordo con la nostra natura, una serie di profanazioni chiudendole a chiave, con boncinelli, o serrandole empiamente con assi.
Ma quando spalanchiamo le porte in occasione delle grandi solennità, ha inizio il mistero dell’annunciazione.
(Zbigniew Herbert, da “Opere sparse” in L’epilogo della tempesta, Adelphi, 2017)
Giorgio Linguaglossa
Mi sono venute sotto gli occhi queste poesie di Patrizia Cavalli da Le mie poesie non cambieranno il mondo del 1974 e le ho messe a confronto con questa di Gino Rago:
Patrizia Cavalli
Stanche divinità
E se mi guardi davvero e poi mi vedi?
Io voglio che stravedi non che vedi!
*
Se i miei numeri non vincono
neanche quando non li gioco
vuol dire che per me non c’è più gioco,
nemmeno la sfortuna mi sta accanto.
*
Sono Pallade Atena
ma mio padre è romano
si chiama Giove Pluvio
e io lo chiamo lo chiamo.
Se lui arriva sto bene;
se ritarda sto male
io dipendo da lui
lui mi è Pasqua e Natale.
*
Amor che fa la rima
sta un po’ meglio di prima.
Amor che rima fa
tanto male non sta.
E le ho messe mentalmente a raffronto con la poesia di Gino Rago postata qui sopra, che qui riprendo:
Lo scintillio del bronzo appena fuso
“Lo scintillio del bronzo appena fuso o le sue patine-fuochi d’artificio.
Non più.
Né la levigatezza del marmo senza vene.
[…]
La materia grezza. La pietra.
La colata di cera rappresa.
La ruggine sul ferro.
I rottami, gli avanzi, i detriti.
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
[Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
in filiformi tralicci di gabbie].
[…]
Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
Nessuno cerca il suono che manca,
a meno che il suono non significhi niente:
ni-ente, non-ente.
Tutti vogliono un nome,
perché ogni nome è una benedizione,
ma che cos’è un nome?
Un occhio che brilla tra passato e futuro.
E invece è una maledizione,
la nostra maledizione.
Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
[La «nuova» parola sono gli stracci.
Tu apri la porta senza bussare:
un mucchio di stracci in un sacco di iuta].”

«Un occhio che brilla tra passato e futuro»
È chiaro che qui siamo in una forma mentis lontanissima miliardi di chilometri dalle filastrocche della Cavalli; in Gino Rago l’assunto secondo il quale le poesie non cambiano alcunché del «mondo» è preso per quello che è: un truismo, una battuta spiritosa. Nella sua poesia invece il mondo è ridotto in «stracci», e così gli «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.», che altro dire? Qui ci muoviamo in un orizzonte degli eventi totalmente mutato dove non sono rimaste che «Limature. Vinavil. Sagome. Legno.» Gino Rago si chiede: «che cos’è un nome?», e la risposta è presto detta: «Un occhio che brilla tra passato e futuro». Si badi, Rago dice che il «nome» è un «occhio», quindi dà una enorme responsabilità ai «nomi» i quali sono equivalenti ai nostri «occhi», sono loro che ci permettono di vedere la luce, senza di essi, semplicemente, non ci sarebbe il «mondo». Altro che il pensiero truistico e turistico della Cavalli, in Gino Rago senza il «nome» non possiamo neanche vedere il «mondo», quindi non soltanto tramite il «nome» si può cambiare il «mondo», ma addirittura senza di esso non potremmo neanche vedere il «mondo». In Gino Rago non si ha soltanto il ribaltamento del truismo cavalliano ma si tratta di qualcosa di più grande e fondante: senza il «nome» noi non possiamo neanche «vedere» il «mondo».
Ritengo questo assunto un cardine fondante della nuova ontologia estetica. Questo assunto segna un punto di svolta e di non ritorno, se non si accetta questo assunto-base si resterà a fare le poesiuole del truismario cavalliano.
Lucio Mayoor Tosi
11 aprile 2018 alle 17:21
Tu apri la porta senza bussare:
un mucchio di stracci in un sacco di iuta.
Ne farò uno strillo. A firma Rago. Faccio notare a Carlo Livia che in questi due versi non accadono cose strane, surreali o stupefacenti, e il linguaggio è quello conscio (non ha narrazione, non tenta un’imitazione). È metafora senza significante, un fatto evidente; senza una stranezza, un orpello, nemmeno un paradosso. Ma è comunque linguaggio inconscio perché unisce immagine e significato – la poesia di Tomas Tranströmer è tutta così – quindi mostra, e mostrando si-spiega.
Poesia e psicanalisi hanno poco in comune. Intanto perché la psicanalisi si occupa dei fatti salienti, quelli inerenti alle cause di un determinato disagio: l’approccio è scientifico, non emotivo; Inferno o Samsara non verrebbero in mente. Invece Poesia è viaggio ad occhi aperti, come si suol dire, quello di Orfeo.
In psicanalisi, quando la lenta decodifica dei simboli ha prodotto trasformazione, a quel punto che la terapia può dirsi terminata. A mio avviso con le moderne tecniche di psico terapia si fa prima. Ma alcune tecniche dello Zen sono ancora più efficaci. Nel produrre trasformazione.
Allo stesso modo, utilizzando la narrazione iperbolica o surreale, c’è il rischio di perdersi in poemi, quando invece basterebbe un verso lampante.
Giorgio Linguaglossa
11 aprile 2018 alle 19:30
Gino Rago scrive:
Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
Quattro «cose», quattro parole separate da un punto. È questa la nuova ontologia estetica, che la parola è il rappresentato e che essa è il questo, il che è diverso da quello; l’esser questo non è l’esser quello. Il rappresentato non coincide con il rappresentante (il significante), esso è distinto e diverso, è altro.
Nella poesia precedente la NOE invece l’esser questo ha valore soltanto come significante dell’esser quello, c’è l’onda musicale (il significante) che si incarica di pilotare l’esser questo e metterlo in relazione con l’esser quello, e c’è l’onda musicale perché si dà un soggetto che è la sede di tutti i predicati.
Nella nuova ontologia estetica non si dà più un soggetto sede di tutte le predicazioni, o meglio, il soggetto è un soggetto eventuale, accadimentale, è un soggetto de-localizzato.
La differenza non potrebbe essere più netta: se non c’è più un soggetto sede dei predicati (come avviene nella nuova ontologia estetica) non ci saranno neanche più i semantogrammi, i significanti che poi altro non sono che i veicoli delle predicazioni del soggetto. Nella nuova ontologia estetica il soggetto non è la sede privilegiata dei significanti (al massimo, può accadere che esso ne sia la sede ma in via accidentale e sporadica), e questi ultimi avvengono al di fuori del soggetto, i nomi indicano le cose nella loro nudità perché i significanti sono stati denudati e destituiti (del significato). Le quattro parole del verso di Gino Rago «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.» delimitano una questità o attualità, esistono soltanto nella attualità, nel presente, e in esso dileguano, non sono parole unite dal fluido del significante, anzi, sono parole destituite del significante. Questo fatto produce la paradossalità della poesia della nuova ontologia estetica, in quanto in essa accade la nominazione delle cose come luogo della massima contraddittorietà del reale e, al tempo stesso, come luogo della incontraddittorietà del reale che è la compresenza del contraddittorio con l’incontraddittorio, del finito con l’infinito, del condizionato con l’incondizionato. Come acutamente dice Lucio Mayoor Tosi, l’immagine coincide con il significato e, mostrandosi, si dà senza alcuna predicazione musicale, ovvero, senza l’intervento del significante. Del resto non è questo il modo con il quale si dà il sogno per Freud?, cioè mediante lo spostamento [Verschiebung] (la catena metonimica) e la condensazione (la catena metaforica) che trasformano le parole in altre parole?
Gino Rago
11 aprile 2018 alle 20:02
Giorgio, Anna, Lucio, ho, come voi, ereditato il sole, la luna, il mare, le donne contadine, gli uomini artigiani, il Colosseo, la Cappella Sistina, il Mosè, la Gioconda, l’Annunziata di Antonello da Messina, la Scuola di Atene di Raffaello, tutto il Caravaggio…
Cosa io, quando sarà, lascerò in eredità a voi, Giorgio, Anna, Lucio? Vi lascerò le scorie, i cenci, gli scarti, gli scampoli…; il courtain wall, l’edificio come stele, ecc. Perciò, pensando anche alle mie figlie, ma ora penso precisamente e con gratitudine a voi tre, Giorgio Linguaglossa, Anna Ventura, Lucio Mayoor Tosi perché magnificamente presenti su questa pagina odierna dei commenti, dichiaro a Voi tre il mio piccolo testamento:
Vi lascio le parole senza suono.
“Vi lascio le schegge.
Vi lascio il sole.
Vi lascio la grandine, la pioggia, il vento.
Vi lascio i cascami radioattivi.
La ricchezza del mondo in poche mani.
Le macromolecole dei veleni.
Vi lascio la plastica. Le segature. Le vernici
e il grafene.
Le parole senza suono. Le vie del dolore,
le vie della mano sinistra,
il catrame.
Le maschere. L’alluminio a lamine sottili.
Le segature. I trucioli. Le colle.
Vi lascio.
Vi lascio le stelle che brilleranno.
Vi lascio quest’uomo nel fango.
Vi lascio il fango.”
Caro Gino, in questa tua poesia ci lasci il bene e il male, e ,poichè il male è sempre un po’ più forte,ci lasci anche l’ascia per combatterlo,
la parola.Tu hai avuto il privilegio di saperla piegare al tuo pensiero, saperla comunicare:non è un dono di tutti; più ascolto parlare alcuni politici, alcuni padroni del mondo, alcuni poeti laureati,più mi convinco che stanno perdendo la parola,dopo che hanno perduto la carità e il pudore.
Peccato che lo splendore della poesia di Rago abbia completamente eclissato i testi di Kafka, Rimbaud, Breton, ecc che avevo proposto, avrei accolto con interesse qualche riflessione sulla loro risultanza psico-estetica per una rifondazione ontologica e metafisica del linguaggio poetico.
Se ho interpretato correttamente i commenti di Tosi e Linguaglossa, con l’implicita critica della strategia surrealista, il metodo auspicato pretende di abolire ogni elemento di connessione segno-significato, ogni trasfigurazione o sublimazione emozionale, musicale, tensione anagogica o scenario mitico -favolistico, profumo d’incanto, sogno, visione.
Mi permetto di esprimere qualche perplessità, si rischia di spogliare del tutto il contesto linguistico di quell’eccedenza di senso, risonanza simbolica e di ogni strumento espressivo che riesca a proiettarsi oltre la semplice denotazione, cogliendo le aporie e prospettive irrazionali dell’essere (Kafka), il senso di liberazione e pacificazione del sogno ( Breton), il riscatto dall’alienazione individuale e sociale.
Ogni vero poeta inventa un nuovo ordine estetico ed assiologico, spinto da motivazioni inconoscibili e inesplorabili, condividerle o meno – da parte del lettore – è gesto altrettanto inspiegabile e involontario, ma non credo possibile eliminare ogni elemento di fascino e suggestione e ridurre la scrittura ad un elenco di parole e sintagmi inerti e dissociati, un catalogo di robivecchi.
In Rimbaud, ad esempio, si trova questo verso: ” les fleurs qui sont coeurs et soeurs ” ( I fiori che sono cuori e sorelle ) in cui l’allitterazione diventa l’elemento di significazione che sostituisce, sovverte, e dilata misteriosamente la logica convenzionale.
Potrei portare migliaia di esempi analoghi; la dilatazione-amplificazione semantica delle metafore usata da quasi tutti i più rivoluzionari poeti non può prescindere da uno strumento che opera come un atto di magia per decontestualizzare ed estraniare, ognuno deve scoprire il più idoneo al suo scopo, e non abusarne, modificandolo e adattandolo ad ogni esperienza.
Propongo alla vostra attenzione un testo in cui ho tentato di realizzare tali propositi .
USCITA DI SCENA ( CON UNA MASCHERA TRISTE )
Ero nel teatro vuoto, e aspettavo.
All’improvviso il tetto si spalancò ed entrò una luce, profumata di primavera, che disse: “ Dio accade “. Tutto rideva e danzava, il cielo era una ragazza in fregola!
Ma una maschera triste, in un angolo di minuscole bambine di pianto, spandeva un triste sentore d’esilio. Diceva: “ Cosa può fare un nome? Può risollevare un cielo caduto, tramutare un foglio in un oceano, un muro in un bacio? No, un nome è la presunzione della pietra e dell’incenso, crede che un’ombra che si muove sia un corpo nudo e palpitante, e il silenzio della statua un covo di desidéri di fanciulle. E’ la via sbagliata, il sogno crocifisso, il vento ferito che sanguina morte e menzogna. Un nome vuol dire solo addio, non alzare più il capo, l’altro è una lama di sogno, il destino è nei ruoli vaghi delle bestie, nel mobile scrigno del vento. “
Uscii da me, infransi l’istante-precipizio, il nodo degli spiriti, fiorivo in lampi senza luce, attimi immobili, sogni spinosi, baci accecanti, ultima curva, stella che annienta, nel grembo.
caro Carlo Livia,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/12/poesie-di-zbigniew-herbert-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-alfonso-cataldi-patrizia-cavalli-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-sul-libro-di-poesia-di-enrico-testa-cairn-einaudi-2018-con-commenti/comment-page-1/#comment-33809
tu citi Kafka, Rimbaud, Breton… ma questi sono classici del novecento che sono stati ampiamente storicizzati, e a noi non interessa storicizzare ciò che è un dato acquisito, il nostro intento (nostro ma ciascuno può parlare per se stesso) è quello di muoverci in un territorio che non è stato battuto né da Kafka, né da Rimbaud, né da Breton, con tutto il rispetto che si deve ad autori di tale portata. La nuova ontologia estetica si muove in una direzione nuova che non può essere afferrata con le categorie letterarie e logiche del passato recente e remoto… a mio avviso con quelle categorie non si può avanzare di un millimetro.
Tu scrivi che non si può: « ridurre la scrittura ad un elenco di parole e sintagmi inerti e dissociati, un catalogo di robivecchi», ma mi viene da pensare che finora non hai letto con attenzione le poesie di Steven Greico Rathgeb, mie, di Mario Gabriele, di Gino Rago, di Donatella Costantina Giancaspero, tanto per citare il reparto più avanzato della NOE… Anche in quest’ultimo post io mi sono speso nel commentare gli elementi di vera novità di una poesia di Gino Rago mettendola a confronto con delle poesie di Patrizia Cavalli, credo di essere stato molto chiaro: a noi non interessa affatto il gioco musical fonematico delle filastrocche della Cavalli, il nostro obiettivo è fare una poesia di tipo nuovo che in Europa si fa da almeno un cinquantennio, noi pensiamo che la direzione della nostra ricerca sia quella giusta, poi è chiaro che ciascun autore può parlare di se stesso, io nella mia veste di critico aggiunto tento semplicemente di esplorare la nostra poesia per mettere in evidenza gli aspetti nuovi… ma non per amore del nuovo per il nuovo ma per la correttezza intellettuale di una poesia che è talmente nuova in Italia da aver bisogno di essere affiancata da una riflessione critica e filosofica.
Tu giustamente ci metti in guardia di fronte ai pericoli di spogliare in questo modo il testo poetico «di quell’eccedenza di senso, risonanza simbolica e di ogni strumento espressivo che riesca a proiettarsi oltre la semplice denotazione» (ci aveva già messo in guardia il buon Claudio Borghi il quale ci invitava alla prudenza e alla misura), ed io ti faccio i miei complimenti, hai compreso perfettamente qual è l’indirizzo della nostra proposta poetica, a noi non interessa affatto quella «eccedenza di senso», che fa parte di un bagaglio categoriale tutto novecentesco ormai ai nostri occhi privo di credibilità normativa. È finita una stagione la stagione della poesia connotativa che si fondava sulla «eccedenza di senso», perché quel tipo di poesia è stata ampiamente irrigata e sfruttata nel corso del novecento e adesso non ha nulla da dirci, la nostra direzione di ricerca è ben altra. E poi, se vogliamo, non è del tutto vero quello che dici perché se prendiamo la poesia di Gino Rago che io ho commentato potrai verificare l’esistenza al suo interno di ben quattro rime in «ie» consecutive a metà e a fine verso:
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
Ma nel testo in esame la percussione timbrica su una rima ha l’effetto di spogliare e svuotare la rima del suo valore eufonico, vuole mettere a nudo il gioco fonico per quello che è: un gioco fonico e null’altro, privo di alone, privo di magia, privo di musica e di musicalità, in questo senso il lavoro svolto da Gino Rago è encomiabile, è riuscito a svuotare di ogni connotazione il gioco fonico della quadruplice rima in «ie», cosa, dal mio (nostro) punto di vista, apprezzabilissima.
“Perché vieni dal soffio nel fango
non estratta da costola umana.”
Così, in una sua opera precedente, Gino Rago ha descritto la creazione di Lilith; a questi versi fanno da contraltare i seguenti di “Vi lascio”: “vi lascio quest’uomo nel fango”.
Alle “parole senza suono” di “Vi lascio le parole” rispondono e rimandano le parole “senza significato” de “Lo scintillio del bronzo”, parole il cui suono non “significa” più niente, che sembrano abbandonare il vecchio mondo, con i suoi significati distorti, e rifiutare quel suono che non significa niente, che anzi rimanda al “non-ente”. Non credo che il rifiuto del nesso significante-significato potesse essere più completo e ribadito con maggior chiarezza: è davvero il rifiuto di una poesia che del connubio significante-significato faceva la sua base, il suo contenuto.
A me sembra di ravvisare però in quel fango, l’unica “ricchezza” a disposizione del poeta e anche la sua preziosa “eredità” lasciata agli amici, un passaggio (anche simbolico) verso una nuova creazione: ricordando che “dal fango e dall’acqua” sono plasmati secondo molti miti, greci e non solo, gli esseri umani, compresa Pandora (oppure, come dicono Esiodo ed altri mitografi, dalle “ceneri” dei Titani bruciati da Zeus), e ricordando che una donna plasmata col fango, pronta ad accogliere gli uomini nel suo ventre “soffice e umido” è descritta dalla Atwood nel suo poemetto “Circe”, io ravviso nel “fango” e nelle ceneri non solo una immagine di scarto, di residuo di un mondo che non ha più significato, ma anche una possibilità feconda, quasi una nuova origine, come se da quel “fango” che è la prima forma di ricchezza e vitalità potessero rinascere contemporaneamente vita e poesia.
Dal truismo-turistico di certo minimalismo alla parola che destituisce il significante; ovvero dal filastrocchismo minimalista alla frantumazione d’ogni gioco fonico-musicale vuoto, senza significato, nella poesia
“ Lo scintillio del bronzo appena fuso” – Un tentativo di sintesi dei commenti
di Giorgio Linguaglossa che scrive anche questa volta un’altra pagina di alta, originale critica letteraria, percorrendo un linguaggio tanto personale quanto efficace a un modo penso del tutto nuovo di fare poesia.
Così chiosa Giorgio Linguaglossa su e intorno ai versi di “Lo scintillio del bronzo appena fuso [di Gino Rago]
“[…]È chiaro che qui siamo in una forma mentis lontanissima miliardi di chilometri dalle filastrocche di Patrizia Cavalli; in Gino Rago l’assunto secondo il quale le poesie non cambiano alcunché del «mondo» è preso per quello che è: un truismo, una battuta spiritosa. Nella poesia di Gino Rago invece il mondo è ridotto in «stracci», e così gli «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.», che altro dire? Qui ci muoviamo in un orizzonte degli eventi totalmente mutato dove non sono rimaste che «Limature. Vinavil. Sagome. Legno.»
[…]
Gino Rago si chiede: «che cos’è un nome?», e la risposta è presto detta: «Un occhio che brilla tra passato e futuro». Si badi, Rago dice che il «nome» è un «occhio», quindi dà una enorme responsabilità ai «nomi» i quali sono equivalenti ai nostri «occhi», sono loro che ci permettono di vedere la luce, senza di essi, semplicemente, non ci sarebbe il «mondo». Altro che il pensiero truistico e turistico della Cavalli, in Gino Rago senza il «nome» non possiamo neanche vedere il «mondo», quindi non soltanto tramite il «nome» si può cambiare il «mondo», ma addirittura senza di esso non potremmo neanche vedere il «mondo». In Gino Rago non si ha soltanto il ribaltamento del truismo cavalliano ma si tratta di qualcosa di più grande e fondante: senza il «nome» noi non possiamo neanche «vedere» il «mondo».
Ritengo questo assunto un cardine fondante della nuova ontologia estetica. Questo assunto segna un punto di svolta e di non ritorno, se non si accetta questo assunto-base si resterà a fare le poesiuole del truismario cavalliano.
[…]
Gino Rago scrive:
«Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.»
[…] i nomi indicano le cose nella loro nudità perché i significanti sono stati denudati e destituiti (del significato). Le quattro parole del verso di Gino Rago «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.» delimitano una questità o attualità, esistono soltanto nella attualità, nel presente, e in esso dileguano, non sono parole unite dal fluido del significante, anzi, sono parole destituite del significante. Questo fatto produce la paradossalità della poesia della nuova ontologia estetica, in quanto in essa accade la nominazione delle cose come luogo della massima contraddittorietà del reale e, al tempo stesso, come luogo della incontraddittorietà del reale che è la compresenza del contraddittorio con l’incontraddittorio, del finito con l’infinito, del condizionato con l’incondizionato
[…]
se prendiamo la poesia di Gino Rago che io ho commentato potrai verificare l’esistenza al suo interno di ben quattro rime in «ie» consecutive a metà e a fine verso:
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
Ma nel testo in esame la percussione timbrica su una rima ha l’effetto di spogliare e svuotare la rima del suo valore eufonico, vuole mettere a nudo il gioco fonico per quello che è: un gioco fonico e null’altro, privo di alone, privo di magia, privo di musica e di musicalità, in questo senso il lavoro svolto da Gino Rago è encomiabile, è riuscito a svuotare di ogni connotazione il gioco fonico della quadruplice rima in «ie», cosa, dal mio (nostro) punto di vista, apprezzabilissima.”
Dire, ancorché sentitissimo, un ‘semplice’ grazie a Giorgio Linguaglossa per l’intelligenza e la cultura poetica con cui ha letto e interpretato questi miei versi recentissimi appare come piccola cosa. Invece, mi sembra ben più importante, nel grido di dolore che in sé ingloba, dichiarare questo mio timore[già in altri momenti, in altre occasioni, in altre sedi espresso: quanti e quali sono i critici militanti contemporanei opportunamente attrezzati di strumenti e armamentario di linguaggio in grado di accostarsi a versi come questi commentati con padronanza di linguaggio dal nostro Giorgio Linguaglossa?
N.B.Benissimo ha fatto infine Giorgio Linguaglossa a evidenziare nella risposta a Carlo Livia le quattro rime in ‘ie’ [fonderie,vie, sartorie, poesie], ma se anziché i soli quattro versi prendiamo in considerazione i 6 versi della strofa mi piace far notare che anche l’ultima parola del sesto verso ‘gabbie’ termina in ‘ie’ ma è stata volutamente inserire per spezzare d’un tratto, vorrei persino inaspettatamente, la musicalità fonderie-vie-sartorie-poesie pascolian-minimalista che rischiava di farsi prevedibile e stucchevole: un gioco fonico da frantumare con l’artificio “fonderie-vie-sartorie-poesie…-gabbie”, come
i versi qui sotto riproposti stanno a confermare:
“I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
[Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
in filiformi tralicci di gabbie].”
[E’ un’altra pagina, questa odierna de L’Ombra delle Parole, per i valori poetici della composizione di Lucio Mayoor Tosi e della prosa d’arte di Herbert,scovata e a hoc proposta da Rossana Levati, per le vette delle interpretazioni critiche di Giorgio Linguaglossa e delle meditazioni estetiche di Carlo Livia e per la densa e raffinata nota di Anna Ventura, da incorniciare…]
Gino Rago
Così magnificamente sui miei versi [da Lilith a Vi lascio la parola senza suono fino a Lo scintillio del bronzo appena fuso] si esprime Rossana Levati nella parte per me decisiva del suo commento:
“[…]Non credo che il rifiuto del nesso significante-significato potesse essere più completo e ribadito con maggior chiarezza: è davvero il rifiuto di una poesia che del connubio significante-significato faceva la sua base, il suo contenuto.”
Meglio non poteva esser colto e rivelato, con la icasticità luminosa cui ci ha abituati in tutti i suoi interventi critici, questo punto irrinunciabile del mio recente modo di far poesia e con Giorgio Linguaglossa oggi Rossana Levati si conferma interprete raffinata e dotta della mia ricerca poetica, vorrei dire già a partire dall’ormai “remoto” ciclo di Troia-Ecuba.
Ringrazio Rossana Levati per quest’altra testimonianza di fine cultura poetica
rivolta alla mia ricerca.
Gino Rago
A proposito del na na – na na – nananana, dico che senza questo “dettato” ritmico non ci sarebbe orecchio né musica. È il verso che vi si racchiude e si distende a comporre un’intera “ninnananna”. La poesia, che così nasce, è un bambino che sogna nella sua culla. Quando la ninnananna cessa, il poeta è l’adulto, invaso dal sonno del risveglio. Tutta la Divina Commedia è una “nenia” e, non a caso, sono dette “cantiche” le tre parti che la compongono. Resto del parere che il na na – na na – nananana non nuoce alla poesia, anzi, le è necessario e non invita al sonno che, come ho già detto, è un brusco risveglio. La NOE può esistere anche senza mettere al bando il nananana. Non sono tra di loro inconciliabili.
Io il na na- na na- nananana lo assomiglio alle “addormentasuocere”, mandorle pralinate facili da realizzare a casa e perfette come idea regalo.
XIII COME SI GONFIA UNA CIAMBELLA
…soffiate le parole nella rima
e contemporaneamente con le dita
premete l’accento tonico
per sbloccare il suo ritmo…
(Nanni Balestrini)
da – LE AVVENTURE COMPLETE DELLA SIGNORINA RICHMON
Quarto libro: Il pubblico del labirinto 1985/1989
1
Folte si sfaldano le opportune frasi
e somiglianze inspiegabili frantumano le sintonie.
Assapori fragranti e sfogliati duplicati pensieri
che del superfluo confezionato sistema
sono l’estasi, la cialda stratiforme, l’esaltante,
pregnante pietanza, friabile pietà, che è sfranta.
2
E cosa nascondono le nostre parole,
profumi intensi e illegittime dolosità.
Lo vedi, lo senti che non è più tempo!
Sgomitare davanti alla sostanza in vitro
aspettando solo il momento opportuno
per montare, diplomatici in un calco(lo).
3
Si amalgamano si assorbono si addensano,
i sentimenti nei nostri strati
si appallottolano. Eppure un calcolo fortuito,
quello si, che trasborderebbe, abbonderebbe in senso.
Senti come la rotondità del verso
ha una sola e unica ingordigia di ascolto: bon-bon!
4
Ammettilo pure il tuo fallimento
e l’ondeggiare assorto tra gli ormoni
sarà perifrasi indecisa, rimpasto soffice,
lo spostarsi attonito dello sguardo fobico,
il vorticare ondoso su un sonetto colmo,
un croissant ironico, che lo sguardo allieta.
5
Eppure sederti accanto è una mistica comprensione
il rimirare assorto quell’infinito che danza.
La stessa – Giacomo sorreggimi – fluttuante immagine lunare.
Mi porto dove il cuore ondeggia la mente
e le tue braccia afferrate hanno alito di autunno,
quei sospiri* quei sussulti di foglie spazzate, ubriache.
6
Come affondano le certezze, sedimentano carezze
ed i cieli bui delle parole esplodono inascoltate;
dovrai pur dirlo, ammetterlo, che la nostra superficialità
è patina superiore, una leggera incomprensione, una deflagrazione!
Tanti, tutti, strati esfoliati di ingordigia emancipata,
lo scricchiolare contorto del tempo, un antico antico tremore.
7
Cosi inestricabile, la fuga sottesa nel tempo
implora il randagio rimescolare notturno.
Dovremo comunque attendere, concludere il giorno,
spolverizzare la notte dalle feritoie del cielo,
nero su nero, discernere il fronte dall’orizzonte ammalato,
raffinare la linea del buio e pazientemente incorporarla.
8
Tutto lo squallore delle parole mostrate,
la rigida dimenticanza che nel pallore muto
fa la curva di un sorriso, anch’esso pieghettato.
Stupido nell’incarto avvolto lo stesso sguardo,
–pirottino! che riflette nudo,-
diafano, il volto tuo, caramellato.
9
Una morbida mousse dall’orizzonte ondoso
nel grembo molle di questa riva informe
accoglie umida e rigonfia e impinza
l’enunciato atteso della obesa rima, che’**
schiumose labbra, tue, mia Musa Ansante,
mordono e schiudono acuminate sponde.
10
E cosa sono i fremiti della sostanza
l’adulterare foniche parole,
l’edulcorare viscidi discorsi
nella mattanza della pietanza assolta,
che vive assorta nella distesa piatta,
di un vassoietto amorevolmente offerto.
*sospiri: – la poesia ha le sue regole, ma leggi pure babà dolce più indicato ad essere inzuppato.
**che: – aggettivo qualificativo!, di decurtisiana memoria.
…”lei mi significa ciò?”
Grazie, OMBRA.
Per essere
la fiamma che arde
accompagno la legna del bosco.
Nell’accenno profondo dell’aria respira una rima. (Telepatia)
“-Dovevi scendere?
-No.
-E perché hai aperto la porta?
-Mi credevo che tu avevi tuzzuliato.
-No, io non ho tuzzuliato. Perchè hai aperto la porta?
-Aggio pensato che stive arrivando e aggio aperto ‘a porta.
-Hai pensato che io arrivavo e hai aperto la porta.E io so’ arrivato veramente.
-Eh!
-Telepatia.
-Già…
-Sai che cos’è la telepatia?
-No.
-Quando io non busso e tu apri la porta.”
( dialogo di EDUARDO)
Grazie Ombra.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/12/poesie-di-zbigniew-herbert-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-alfonso-cataldi-patrizia-cavalli-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-sul-libro-di-poesia-di-enrico-testa-cairn-einaudi-2018-con-commenti/comment-page-1/#comment-33890
Dal truismo-[turistico] di certo minimalismo alla parola che destituisce il significante;
ovvero, dal filastrocchismo minimalista alla frantumazione d’ogni gioco fonico-musicale vuoto, privo di significato, nella poesia “ Lo scintillio del bronzo appena fuso”
“[…]È chiaro che qui siamo in una forma mentis lontanissima miliardi di chilometri dalle filastrocche di Patrizia Cavalli; in Gino Rago l’assunto secondo il quale le poesie non cambiano alcunché del «mondo» è preso per quello che è: un truismo, una battuta spiritosa. Nella poesia di Gino Rago invece il mondo è ridotto in «stracci», e così gli «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.». Che altro dire? Qui ci muoviamo in un orizzonte degli eventi totalmente mutato dove non sono rimaste che «Limature. Vinavil. Sagome. Legno.»
[…]
Gino Rago si chiede: «che cos’è un nome?», e la risposta è presto detta: «Un occhio che brilla tra passato e futuro». Si badi, Rago dice che il «nome» è un «occhio», quindi dà una enorme responsabilità ai «nomi» i quali sono equivalenti ai nostri «occhi», sono loro che ci permettono di vedere la luce, senza di essi, semplicemente, non ci sarebbe il «mondo». Altro che il pensiero truistico e turistico della Cavalli, in Gino Rago senza il «nome» non possiamo neanche vedere il «mondo», quindi non soltanto tramite il «nome» si può cambiare il «mondo», ma addirittura senza di esso non potremmo neanche vedere il «mondo». In Gino Rago non si ha soltanto il ribaltamento del truismo cavalliano ma si tratta di qualcosa di più grande e fondante: senza il «nome» noi non possiamo neanche «vedere» il «mondo».
Ritengo questo assunto un cardine fondante della nuova ontologia estetica. Questo assunto segna un punto di svolta e di non ritorno, se non si accetta questo assunto-base si resterà a fare le poesiuole del truismario cavalliano.
[…]
Gino Rago scrive:
«Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.»
[…] i nomi indicano le cose nella loro nudità perché i significanti sono stati denudati e destituiti (del significato). Le quattro parole del verso di Gino Rago «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.» delimitano una questità o attualità, esistono soltanto nella attualità, nel presente, e in esso dileguano, non sono parole unite dal fluido del significante, anzi, sono parole destituite del significante. Questo fatto produce la paradossalità della poesia della Nuova Ontologia Estetica, in quanto in essa accade la nominazione delle cose come luogo della massima contraddittorietà del reale e, al tempo stesso, come luogo della incontraddittorietà del reale che è la compresenza del contraddittorio con l’incontraddittorio, del finito con l’infinito, del condizionato con l’incondizionato
[…]
Se [ora] prendiamo la poesia di Gino Rago che io ho commentato potremo verificare l’esistenza al suo interno di ben quattro rime in «ie» consecutive a metà e a fine verso:
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
Ma nel testo in esame la percussione timbrica su una rima ha l’effetto di spogliare e svuotare la rima del suo valore eufonico, vuole mettere a nudo il gioco fonico per quello che è: un gioco fonico e null’altro, privo di alone, privo di magia, privo di musica e di musicalità, in questo senso il lavoro svolto da Gino Rago è encomiabile, è riuscito a svuotare di ogni connotazione il gioco fonico della quadruplice rima in «ie», cosa, dal mio (nostro) punto di vista, apprezzabilissima.
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
[Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
in filiformi tralicci di gabbie].
Limitarmi a dire, ancorché sentitissimo, un ‘semplice’ grazie a Giorgio Linguaglossa per l’intelligenza e la cultura poetiche con cui ha letto e interpretato questi miei versi recentissimi appare come troppo piccola cosa. Invece, mi sembra ben più importante nel grido di dolore che in sé ingloba dichiarare questo mio timore[già in altri momenti, in altre occasioni, in altre sedi espresso]: quanti e quali sono i critici militanti contemporanei opportunamente attrezzati di strumenti e armamentario ermeneutici in grado di accostarsi a versi come questi commentati con la padronanza di linguaggio [che anche qui mostra pienamente di possedere] del nostro Giorgio Linguaglossa?
Come non di rado faccio anche nella mia poesia, mi limito a sollevare questioni, a pormi e a porre domande possibilmente non peregrine, più che a pretendere di arrangiare risposte.
N.B. Benissimo ha fatto infine Giorgio Linguaglossa a evidenziare nella risposta a Carlo Livia le quattro rime in ‘ie’ [fonderie,vie, sartorie, poesie], ma se anziché i soli quattro versi prendiamo in considerazione i 6 versi della strofa mi piace far notare che anche l’ultima parola del sesto verso ‘gabbie’ termina in ‘ie’ ma è stata volutamente inserita per spezzare d’un tratto, vorrei dire persino inaspettatamente per il mio lettore immaginario, la musicalità cantilenante «fonderie-vie-sartorie-poesie» pascolian-minimalista che rischiava di farsi prevedibile e stucchevole: un gioco fonico da frantumare con l’artificio «fonderie-vie-sartorie-poesie…-gabbie», come i versi qui sotto riproposti stanno a confermare:
“I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
[Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
in filiformi tralicci di gabbie].”
[E’ un’altra pagina, questa odierna de L’Ombra delle Parole, per i valori poetici delle composizioni di Lucio Mayoor Tosi e di Alfonso Cataldi e della prosa d’arte di Herbert,scovata e a hoc proposta da Rossana Levati, per le vette delle interpretazioni critiche di Giorgio Linguaglossa e delle meditazioni estetiche di Carlo Livia e per la densa e raffinata nota di Anna Ventura, da incorniciare, senza sottovalutare, aggiungo persuaso, l’idea eduardiana di telepatia che Mauro Pierno ci ricorda. ]
Gino Rago
cari amici,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/12/poesie-di-zbigniew-herbert-lucio-mayoor-tosi-gino-rago-alfonso-cataldi-patrizia-cavalli-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-sul-libro-di-poesia-di-enrico-testa-cairn-einaudi-2018-con-commenti/comment-page-1/#comment-33892
nella mia pagina facebook c’è scritto: «Giorgio Linguaglossa, calzolaio della poesia». – Non mi ritengo Nè un critico Né un poeta, sono semplicemente uno che tenta di scrivere una poesia nuova che certo non potrà piacere a chi è abituato ai pasticcini alla crema della vecchia poesia. Inoltre, quando leggo certe recensioni, rimango sbalordito e ammirato per la maestria di chi le scrive (io non ne sarei mai capace) per la indubbia capacità di agitare le acque con concetti comuni, tanto comuni da essere facilmente digeribili da tutti i palati.
E poi io non mi ritengo un «critico». Diciamo che sono un calzolaio addetto alla tomaia della poesia. E in questa veste vorrei commentare i primi versi della poesia di Lucio Mayoor Tosi che si trova nel post:
La mia massima aspirazione è fare cronaca
di questo tempo. Sia pure di farla senza volontarietà.
Mettere insieme cose che neppure riesco a vedere:
l’epoca, lo svolgersi del tempo confuso nelle circostanze
di tutti gli abitanti del pianeta.
Prima scala a sinistra.
Il cielo sull’obitorio.
Da quelle parti, tutti quei nomi. Io che non so
scriverne uno in poesia. Ci siamo quasi.
È una dichiarazione di intenti molto chiara. La «cronaca» di cui ci parla Lucio è quella cosa che si trova nel «presente», solo nel «presente» perché se fosse rinvenibile nel «passato» non sarebbe più «cronaca» ma sarebbe «storia». Poi Lucio ci dice che vuole fare «cronaca» «senza volontarietà», «mettere insieme cose che neppure riesco a vedere». Vedete come Lucio ami scrivere come parla, senza alcuna dedizione al linguaggio del significante, lui preferisce la massima esattezza della dizione denotativa, preferisce la proposizione dichiarativa, non illocutoria, non performativa. Ma è proprio grazie a questo tipo di impostazione, diciamo così, programmatica che Lucio Mayoor Tosi riesce a fare poesia del presente, il cui luogo deputato non può che essere la ‘questità’ di quel che è qui ed ora, che è per l’appunto il presente. La poesia di Lucio ci dice che questa cosa qui è la «cosa» che sta qui e adesso, che è il «presente», ma si tratta soltanto di un istante, passato l’istante, la «cosa» di cui si parlava è già uscita fuori dal nostro angolo visuale, è tramontata, e al posto del suo «luogo» è apparsa un’altra «cosa» che non è più la «cosa» di un istante prima ma è un’«altra» cosa. Questo tipo di poesia è l’anti elegia al massimo grado, perché si dà elegia se c’è il passato, ma la dove non c’è passato non ci può essere elegia. Nella poesia di Lucio Mayoor Tosi ad ogni frase si apre la dicotomia del «presente», una divaricazione tra la «cosa» del presente di prima e la «cosa» del presente di dopo. La poesia di Lucio ha a che fare con questa problematica, con l’assurdo della nostra condizione esistenziale, l’assurdità del presente, l’assurdità dell’ente che abita il presente, l’assurdità del ni-ente che abita il medesimo presente. Ecco spiegate le numerosissime fraseologie stranianti che seguono ogni volta le fraseologie nominali dichiarative come: «Prima scala a sinistra» e «Il cielo sull’obitorio». Fraseologie che chiudono come una cappa di piombo gli asserti precedenti. Da questa impostazione categoriale si capisce molto bene come il poeta si esprime riguardo alla questione dei «nomi», egli non sa che farsene di «tutti quei nomi» che non servono a nulla: «tutti quei nomi. Io che non so/ scriverne uno in poesia». Il senso è chiaro, di tutti quei «nomi» non è rimasto niente, tutto quel vocabolario con i loro significanti sono caduti in disuso, sono scomparsi e sono del tutto inutilizzabili in poesia.
Nel qui e ora si dà l’infinito, l’in-finito. Ogni qui e ora è un Inizio. Nel frammento si danno convegno l’in-finito e il finito.
Un esperimento di frammentismo estremo, non ermetico e nemmeno linguistico; forse soltanto un esercizio di stile. Scritto in questi giorni e ancora da perfezionare. Io solitamente li chiamo “Titoli”.
In amichevole contrasto con le tesi di Carlo Livia e a proposito di fango e tracci :
L’iceberg capovolto (frammenti minimi).
Essere è tempo
(morto sul pavimento).
I superpoteri del silenzio.
Orizzonti e paraventi.
Toccare il suolo con la fronte.
Ma l’affitto di casa, come lo pagheremo?
Dai, vattene via
(vattene via. Vattene via).
Tre punti. Due punti.
La mascotte.
Il pane in testa.
Un sacco di vento.
Rosa, guscio di mare.
In compagnia con l’inverno.
Sul Transatlantico.
Le scale dei morti.
Mettiti la giacca.
Andiamo-ci. Fermiamo-ci.
(Mayoor apr 2018)
Nel qui e ora si dà l’infinito, l’in-finito. Ogni qui e ora è un Inizio. Nel frammento si danno convegno l’in-finito e il finito.
Caro Lucio, la tua violenta fratturazione-decomposizione logico-sintattica non mi trova in contrasto, ma in perfetta sintonia, l’unica cosa che ci divide è l’ostinazione a negare che l’inevitabile scaturire d’un sussulto emotivo, retroscena onirico emotivo, implicato nella sovversione logica del pensiero messo in atto, sia qualcosa che arricchisce e qualifica la poesia:” Le scale dei morti.” é già una visione che turba ed emoziona.
Usare consapevolmente il fascino emozionale delle metafore, anche come sola possibilità di trovare un’alternativa al nichilismo ideologico con un pensiero alternativo, dionisiaco, reintegrato della sfera affettiva, dionisiaca, è secondo me l’unica prospettiva possibile, e arricchirebbe ulteriormente la tua poesia e quella di Rago.
Un testo per te, in amichevole sfida.
IPOGEO
– Rostri di terrore sul calesse del sogno…E si uccide
– Pensieri inerpicati sui margini dell’assenza
– La donna ammaestrata scardina l’azzurro
– Illibata follia del Regno alle carezze vegetali
– Frantumato l’amore del nulla vacilla sull’argine tempestato
– Domani eclissato nel tiepido tumulto
-Scagionando l’ombra dell’essere
l’Ultradio verga il peccato…O si destina
– Ma quale specchio resiste sul sentiero del Nirvana
– Illividita bellezza premio dell’addio
– Nostalgia distillata nelle prigioni del Paradiso
– Profumo d’infinito o persuasione delle piogge ferite
– Apocalissi bionde occhieggiano sullo spartiacque
– Affamando le stelle il silenzio che recide mari
– Vento solare in attesa nell’estasi dei campanili
– Terribile perfezione delle felci dell’attesa
-Lacrima del dissenso quando ci eternerai?
Tre pacchi di
orizzonti e papaveri
-via posta ordinaria-
quella che ormai non lascia traccia
ne viscere e semenze,
ne abbiamo fin troppo colta.
Capito l’intuizione,
ben presto abbandoneremo tutto.
La carta straccia strugge il continente a fondo
tra i picchi di una ilare commozione.
Orizzonti e papaveri
li riconosceremo entrambi.
Chapeau!
Prendo il cappello ed esco
ne ordino una risma.
Grazie, Ombra.
(Abraccio Tosi)
Caro Lucio, ti rubo un verso:”il pane in testa”. Anche su questo tuo verso si potrebbe scrivere un romanzo,Peccato che io non abbia più né forze,né tempo;ma non lo dimenticherò.
Grazie, Anna. I poeti di lungo corso non si scandalizzano, nemmeno per questo scrivere per segnaletiche, utile nei lavori nei corso, quasi definizioni enigmistiche, tracce di senso del discorso. Stracci, appunto. Quel che rimane sottomano.
… infatti sono titoli. Scritti ognuno per un romanzo, o una storia.
Nota.
Il mio commento precedente è un tentativo di sintesi dei commenti di Giorgio Linguaglossa che scrive anche questa volta un’altra pagina di alta, originale critica letteraria, percorrendo e percotendo la sua tastiera preziosa di un linguaggio critico, tanto personale quanto efficace, su un modo penso del tutto ‘nuovo’ di fare poesia.. ai nostri giorni.
Le chiose di Giorgio Linguaglossa, su e intorno ai miei versi di “Lo scintillio del bronzo appena fuso”, sono tutte precedute dal simbolo […] nel mio commento [delle ore 8.16 del 13 aprile 2018], chiose e commenti che nelle mie intenzioni, lo ribadisco, rappresentano un tentativo di sintesi di tutte le note critiche ben più ricche e articolate che Giorgio Linguaglossa ha pubblicato sia sulla Pagina de L’Ombra delle Parole di ieri, sia fra i commenti.
GR
In tema di pollai, ecco un mio piccolo contributo scherzoso (dagli Appunti Precolombiani).
c’è puzza di pollaio
nel cortile al centro
del quadrilatero delle monache a Uxmal;
nel centro sublime
della sublime architettura Puuc,
gli uccelli si son fatti i loro nidi:
il sublime sempre rivela
modi inattesi di manifestazione.
Uxmal è una delle più splendide città Maya nella regione del Puuc, e il Quadrilatero delle Monache è un gruppo di edifici
Guido, che bella questa tua composizione, piena di fascino; e le considerazioni, così asciutte, essenziali…
(Via quei trattini).
Libera interpretazione del testo di Carlo Livia, una delle tante possibili. IPOGEO:
Rostri di terrore
sul calesse del sogno…E si uccide
Pensieri inerpicati
(sui margini).
La donna ammaestrata
scardina l’azzurro.
Follia di Regno, carezze vegetali.
Frantumato amore vacilla
sull’argine.
Domani eclissato nel tumulto.
l’Ultradio, verga il peccato…O destina.
Ma quale specchio resiste sul sentiero del Nirvana.
Illividita bellezza premio dell’addio.
Nostalgia del Paradiso.
Profumo d’infinito o persuasione. Piogge ferite
Apocalissi e spartiacque.
Affamando le stelle
il silenzio che recide mari.
Vento solare in attesa nell’estasi
dei campanili.
Terribile perfezione delle felci in attesa.
Lacrima del dissenso.
(Quando ci eternerai?)
Caro Livia,
a me sembra che tu tendi via via ad accelerare, forse per molta componente emotiva. A mio parere, questa emotività la dovresti poter controllare, e osservare.
Certo, nella mia versione avrò stravolto qualche significato… però – guarda che questa è terapia psicanalitica – il frammento raffredda. E’ l’antidoto per l’ejaculatio praecox.
“Vento solare in attesa nell’estasi
dei campanili”.
Ecco, questo per me è un bello strillo. L’avrei voluto scrivere io.
Effettivamente la tua versione è più incisiva stilisticamente, anche se altera un po’ il contenuto.
Commento definitivo
Dal truismo-[turistico] di certo minimalismo alla parola che destituisce il significante; ovvero, dal filastrocchismo minimalista alla frantumazione d’ogni gioco fonico-musicale vuoto, senza significato, nella poesia di Gino Rago «Lo scintillio del bronzo appena fuso»
Un tentativo di sintesi dei commenti di Giorgio Linguaglossa che scrive anche questa volta un’altra pagina di alta, originale critica letteraria, percorrendo e percotendo la tastiera di un linguaggio critico, tanto personale quanto efficace, a un modo penso del tutto nuovo di fare poesia nel nostro tempo.
1 – Giorgio Linguaglossa
[Su e intorno ai versi della poesia «Lo scintillio del bronzo appena fuso» di Gino Rago]
Chiosa Giorgio Linguaglossa
“[…]È chiaro che qui siamo in una forma mentis lontanissima miliardi di chilometri dalle filastrocche di Patrizia Cavalli; in Gino Rago l’assunto secondo il quale le poesie non cambiano alcunché del «mondo» è preso per quello che è: un truismo, una battuta spiritosa. Nella poesia di Gino Rago invece il mondo è ridotto in «stracci», e così gli «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.». Che altro dire? Qui ci muoviamo in un orizzonte degli eventi totalmente mutato dove non sono rimaste che «Limature. Vinavil. Sagome. Legno.»
[…]
Gino Rago si chiede: «che cos’è un nome?», e la risposta è presto detta: «Un occhio che brilla tra passato e futuro». Si badi, Rago dice che il «nome» è un «occhio», quindi dà una enorme responsabilità ai «nomi» i quali sono equivalenti ai nostri «occhi», sono loro che ci permettono di vedere la luce, senza di essi, semplicemente, non ci sarebbe il «mondo». Altro che il pensiero truistico e turistico della Cavalli, in Gino Rago senza il «nome» non possiamo neanche vedere il «mondo», quindi non soltanto tramite il «nome» si può cambiare il «mondo», ma addirittura senza di esso non potremmo neanche vedere il «mondo». In Gino Rago non si ha soltanto il ribaltamento del truismo cavalliano ma si tratta di qualcosa di più grande e fondante: senza il «nome» noi non possiamo neanche «vedere» il «mondo».
Ritengo questo assunto un cardine fondante della nuova ontologia estetica. Questo assunto segna un punto di svolta e di non ritorno, se non si accetta questo assunto-base si resterà a fare le poesiuole del truismario cavalliano.
[…]
Gino Rago scrive:
«Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.»
[…] i nomi indicano le cose nella loro nudità perché i significanti sono stati denudati e destituiti (del significato). Le quattro parole del verso di Gino Rago «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.» delimitano una questità o attualità, esistono soltanto nella attualità, nel presente, e in esso dileguano, non sono parole unite dal fluido del significante, anzi, sono parole destituite del significante. Questo fatto produce la paradossalità della poesia della Nuova Ontologia Estetica, in quanto in essa accade la nominazione delle cose come luogo della massima contraddittorietà del reale e, al tempo stesso, come luogo della incontraddittorietà del reale che è la compresenza del contraddittorio con l’incontraddittorio, del finito con l’infinito, del condizionato con l’incondizionato
[…]
Se [ora] prendiamo la poesia di Gino Rago che io ho commentato potremo verificare l’esistenza al suo interno di ben quattro rime in «ie» consecutive a metà e a fine verso:
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
Ma nel testo in esame la percussione timbrica su una rima ha l’effetto di spogliare e svuotare la rima del suo valore eufonico, vuole mettere a nudo il gioco fonico per quello che è: un gioco fonico e null’altro, privo di alone, privo di magia, privo di musica e di musicalità, in questo senso il lavoro svolto da Gino Rago è encomiabile, è riuscito a svuotare di ogni connotazione il gioco fonico della quadruplice rima in «ie», cosa, dal mio (nostro) punto di vista, apprezzabilissima.”
Risponde Gino Rago
“Limitarmi a dire, ancorché sentitissimo, un ‘semplice’ grazie a Giorgio Linguaglossa per l’intelligenza e la cultura poetiche con cui ha letto e interpretato questi miei versi recentissimi appare come troppo piccola cosa. Invece, mi sembra ben più importante nel grido di dolore che in sé ingloba dichiarare questo mio timore [già in altri momenti, in altre occasioni, in altre sedi espresso]: quanti e quali sono i critici militanti contemporanei opportunamente attrezzati di strumenti e armamentario ermeneutici in grado di accostarsi a versi come questi commentati con la padronanza di linguaggio [che anche qui mostra pienamente di possedere] del nostro Giorgio Linguaglossa?
Come non di rado faccio, anche nella mia poesia, mi limito a sollevare questioni, a pormi e a porre domande, possibilmente non peregrine, più che a pretendere di arrangiare risposte.
Benissimo ha fatto infine Giorgio Linguaglossa a evidenziare nella risposta a Carlo Livia le quattro rime in ‘ie’ [fonderie,vie, sartorie, poesie], ma se anziché i soli quattro versi prendiamo in considerazione i 6 versi della strofa mi piace far notare che anche l’ultima parola del sesto verso ‘gabbie’ termina in ‘ie’ ma è stata volutamente inserita per spezzare d’un tratto, vorrei dire persino inaspettatamente per il mio lettore immaginario, la musicalità cantilenante «fonderie-vie-sartorie-poesie» pascolian-minimalista che rischiava di farsi prevedibile e stucchevole: un gioco fonico da frantumare con l’artificio «fonderie-vie-sartorie-poesie…-gabbie», come i versi qui sotto riproposti stanno a confermare:
“I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
[Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
in filiformi tralicci di gabbie].”
2 – Rossana Levati
[ Il ripudio del nesso significante/significato nella poesia di Gino Rago, dal «ciclo di Lilith» a «Vi lascio le parole senza suono», passando per «Lo scintillio del bronzo appena fuso»]
Precisa Rossana Levati
“«Perché vieni dal soffio nel fango
non estratta da costola umana»
Così, in una sua opera precedente, Gino Rago ha descritto la creazione di Lilith; a questi versi fanno da contraltare i seguenti di «Vi lascio [le parole senza suono»]:
«Vi lascio quest’uomo nel fango».
Alle “parole senza suono” di «Vi lascio le parole…» rispondono e rimandano le parole «senza significato» de Lo scintillio del bronzo [appena fuso], parole il cui suono non “significa” più niente, che sembrano abbandonare il vecchio mondo, con i suoi significati distorti, e rifiutare quel suono che non significa niente, che anzi rimanda al “non-ente”.
Non credo che il rifiuto del nesso significante/significato potesse essere più completo e ribadito con maggior chiarezza: è davvero il rifiuto di una poesia che del connubio significante-significato faceva la sua base, il suo contenuto.”
Conclude Rossana Levati
“A me sembra di ravvisare però in quel fango, l’unica “ricchezza” a disposizione del poeta e anche la sua preziosa “eredità” lasciata agli amici, un passaggio (anche simbolico) verso una nuova creazione: ricordando che “dal fango e dall’acqua” sono plasmati secondo molti miti, greci e non solo, gli esseri umani, compresa Pandora [oppure, come dicono Esiodo ed altri mitografi, dalle “ceneri” dei Titani bruciati da Zeus], e ricordando che una donna plasmata col fango, pronta ad accogliere gli uomini nel suo ventre “soffice e umido” è descritta dalla Atwood nel suo poemetto «Circe», io ravviso nel “fango” e nelle ceneri non solo una immagine di scarto, di residuo di un mondo che non ha più significato, ma anche una possibilità feconda, quasi una nuova origine, come se da quel “fango” che è la prima forma di ricchezza e vitalità potessero rinascere contemporaneamente vita e poesia[…]”
Risponde Gino Rago
Raramente la musa della poesia ha parlato ai poeti del mio tempo con la chiarezza con cui ha parlato a noi della Nuova Ontologia Estetica [così mi sento liberamente di dire].
Con me lo ha fatto come “Musa degli Stracci.”
Le sue parole ti entrano dentro piano piano. È una voce dall’angolo della devastazione di un secolo oscuro, una voce intima e cosmopolita nello stesso tempo.
«Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.» ho desiderato che convivessero in un’unica scena, in una unica tessitura poetica.
Ma questo mio mondo, in un certo senso e in una certa misura ricreato nell’arte del linguaggio [ci sono riuscito] non è affatto un luogo di fuga,come ha ben colto Giorgio Linguaglossa, ma al contrario è in relazione con la cruda realtà di «fango» del secolo scorso e di questo secolo, come ha mostrato di intendere Rossana Levati.
Il resto è fatto di parole morte.
Gino Rago