Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010.
“Lo studio dei sogni può essere considerato come il metodo più sicuro per indagare sui processi psichici profondi.
La creatività è un tentativo di risolvere un conflitto generato da pulsioni istintive biologiche non scaricate, perciò i desideri insoddisfatti sono la forza motrice della fantasia ed alimentano i sogni notturni e quelli a occhi aperti.
I sogni molto frequentemente esprimono ricordi e conoscenze che il soggetto da sveglio è ignaro di possedere.”
(Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni)
Estendere l’uso dell’analisi del sogno – come strumento d’indagine e terapia della psiche – dalla dimensione individuale a quella socio-culturale, è il presupposto implicito di mitologie, teologie, teofanie e di tutte le utopie soteriologiche che si affidano ad una conversione interiore per concretizzare ogni auspicio di palingenesi e mutazione antropologica. Il pensiero, l’immagine poetica, la sua capacità di trasfigurazione e rammemorazione dell’elemento inconscio – con l’inerente contenuto etico-estetico – rappresenta lo strumento fondante, ineludibile in tale prospettiva di creazione di un sapere ed agire creativo autentico, olistico, integro, rigenerato.
“In ognuno di noi c’è un altro essere che non conosciamo. Egli ci parla attraverso i sogni e ci fa sapere che vede le cose in modo ben diverso da ciò che crediamo di essere.
Se non capiamo le immagini dell’inconscio, o rifiutiamo la responsabilità morale che abbiamo nei loro confronti, vivremo una vita dolorosa.” Solo un cambiamento dell’atteggiamento individuale potrà portare con sé un rinnovamento dello spirito delle nazioni. Tutto comincia con l’individuo.”
(Carl Gustav Jung)
L’elemento eterodosso introdotto da Jung riguarda la rivalutazione della dimensione mistica – creazione dell’inconscio collettivo – a cui accreditare la funzione risanatrice e liberatrice che l’illuminismo di Freud riserva alla tensione libidica dell’es.
“ L’inconscio non è soltanto male, ma è anche la sorgente del bene più alto; non è solo buio ma anche luce, non solo bestiale, semi-umano, demoniaco, ma sovrumano, spirituale e, nel senso classico del termine, “divino”.
(K.G. Jung)
Si tratta, quindi, non di riaddomesticare l’inconscio per ricondurlo nei confini della morale ( Freud ) ma, come nel “dionisiaco“ di Nietzsche, in Lacan e nei surrealisti, di scoprire nell’elemento trascendente e irrazionale che si manifesta nel sogno e nella visione del poeta la verità più autentica e insostituibile, la cui subordinazione alla “morale del gregge” – scientifica, positivista, capitalista, marxista, ecc, crea nevrosi, alienazione, conflitto e degrado sociale.
un sogno
Josef K. sognava:
Era una bella giornata e K. voleva andare a passeggio. Ma ecco, fatti due passi, era già al cimitero. Là c’erano viottole di tracciato molto artificioso, tortuose e scomode; ma sopra una di quelle lui scivolava, come fosse su di un’acqua precipitosa, in un impossibile portamento librato. Già da lontano gli veniva allo sguardo un tumulo di terra dove avrebbe voluto sostare. In quel tumulo c’era qualcosa che lo attraeva; ed era tutto teso nel desiderio di raggiungerlo. Ma a volte lo vedeva appena, il tumulo; certi stendardi glielo nascondevano, attorti e scagliati a gran forza l’uno contro l’altro. I portabandiera non si vedevano ma era come laggiù ci fosse una festa vivace.
Mentre ancora il suo sguardo era affiso a quella parte, si vide improvvisamente accanto, sulla viottola, quel medesimo tumulo, anzi già quasi alle sue spalle. Saltò svelto fra l’erba. Poi che nell’attimo del balzo la viottola continuava la sua rapida corsa, il piede gli mancò e cadde in ginocchio, proprio davanti al tumulo. Due uomini stavano dietro la tomba e fra loro levavano alta una pietra tombale. K. era appena comparso che costoro piantarono in terra la lapide. Come murata, quella vi rimase. Da un cespuglio uscì fuori tutt’a un tratto, un terzo uomo. K. capì subito che doveva essere un artista. Aveva addosso solo un paio di calzoni e una camicia male abbottonata; portava in capo una berretta di velluto. In mano teneva una comune matita; e con quella, mentre veniva avanti, tracciava figure nell’aria.
Pose la punta di quella matita sulla parte superiore della lapide. La lastra era molto alta, colui non aveva nessun bisogno di curvarsi ma piuttosto di protendersi in avanti perché il tumulo, che egli non voleva calpestare, lo separava dalla pietra. Stava quindi in punta di piedi e con la sinistra si reggeva contro la superficie della lapide.
Maneggiando quella comune matita, la sua abilità riusciva a tracciare lettere d’oro. Scrisse Qui giace. Nitida e bella risaltava ogni lettera, incisa a fondo in oro perfetto. Quando ebbe scritte quelle due parole si volse verso K. che con acuta ansia seguiva come l’iscrizione proseguisse; e quindi, fissando la pietra, poco si curava dell’uomo. L’uomo riprendeva a scrivere infatti; ma non ce la faceva, doveva esserci qualche impedimento. Abbassata la matita, tornava a volgersi verso K. Ora anche K. guardava l’artista e si avvedeva che assai perplesso era, senza tuttavia poterne dire la cagione. Tutta la sua vivacità di poco prima era scomparsa. Al che anche K. cominciò a sentirsi assai perplesso. Si scambiarono sguardi smarriti; doveva esserci un brutto malinteso che nessuno dei due aveva potere di risolvere. Ecco che, per di più, a ora indebita cominciava a suonare la piccola campana della cappella dei defunti. L’artista agitava la mano e, ecco, quella taceva. Dopo un poco riprendeva, ma questa volta pianissimo e subito dopo interrompendosi spontaneamente; era come se avesse voluto solo saggiare il proprio timbro. K. era disperato per il disagio dell’artista; cominciava a piangere e singhiozzare, col volto fra le mani. L’artista attese che K. si fosse calmato; poi, non riuscendo a trovare altra soluzione, decise di continuare a scrivere. Per K. fu un sollievo, quel primo piccolo tratto; ma l’artista non riusciva a concluderlo se non con estrema riluttanza; la scrittura non era più bella come prima, pareva soprattutto scarsa d’oro, si profilava smorta e malcerta mentre, al contrario, il carattere diventava enorme. Era già quasi finita quando l’artista, furioso, picchiò col piede sul tumulo tanto che tutt’intorno ne schizzò via il terriccio. Finalmente K. capì che cosa quello volesse; ma non c’era più tempo per farlo desistere. Quello affondava le dita nella terra; che pareva quasi non opporgli resistenza. Era come se tutto fosse stato preordinato. Era stato disposto un sottile strato di terra, ma solo per figura. Subito sotto si apriva una grande fossa, dalle pareti a picco dove, rivolto sul dorso da una blanda corrente, K. andò a fondo. Ma mentre già, riverso sulla nuca il capo, laggiù lo accoglieva la profondità impenetrabile, lassù in fregi possenti il suo nome si avventava sulla lapide.
Estasiato a quella vista si svegliò.
(Franz Kafka, “Un sogno”, in “Nella colonia penale e altri racconti”, Einaudi)
Il ponte
Ero rigido e freddo; ero un ponte gettato sopra un abisso. Da questa parte erano conficcate le punte dei piedi, dall’altra le mani: avevo i denti piantati in un’argilla friabile. Le falde della mia giacca svolazzavano ai miei fianchi. Giù nel profondo rumoreggiava il gelido torrente dove guizzavano le trote. Nessun turista veniva a smarrirsi in quelle alture impervie, il ponte non era ancora segnato sulle carte. Così giacevo e aspettavo, dovevo aspettare. Una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare. Un giorno verso sera – fosse la prima, fosse la millesima, non saprei dire – i miei pensieri erano un guazzabuglio, e facevano una ridda. Verso sera, d’estate, più cupo scrosciava il torrente, ecco che udii un passo umano! A me, a me! Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano. Egli venne, mi percosse con la punta ferrata del suo bastone, poi sollevò le falde del mio abito e me le depose in ordine sul dorso. Infilò la punta del bastone nei miei capelli folti e ve la mantenne a lungo; probabilmente egli si guardava d’intorno con aria feroce. Poi a un tratto – io stavo appunto seguendolo trasognato per monti e valli – saltò a piedi giunti nel mezzo del mio corpo. Rabbrividii per l’atroce dolore, del tutto inconscio. Chi era? Un fanciullo? Un sogno? Un grassatore? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi volsi per vederlo. Il ponte che si volta! Non ero ancora voltato e già precipitavo, precipitavo ed ero già dilaniato e infilzato dai ciottoli aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacificamente attraverso l’acqua scrosciante.
Franz Kafka, Il ponte
La maestria onirica di Kafka si manifesta nella capacità di dilatare e trasvalutare l’oggetto realistico – disadorno, rudimentale, iperdeterminato – dotandolo di inattesa luce metafisica, inestinguibile e inafferrabile, con un prodigio rappresentativo che riesce a suscitare nella sua lingua spoglia, antiletteraria, la magia e l’infinita risonanza semantica del mito.
Nel “Sogno” è rappresentata l’aporia essenziale dell’esistenza: il suo essere destinata alla morte. Il contenuto di centinaia di dense e complesse pagine di speculazione del “Sein und Zeit” di Heidegger (affascinanti e ammirevoli, senza dubbio!), sono qui riprodotte dalla folgorante capacità sintetica e trasfigurativa di Kafka, in poche righe, che mettono in luce – in folgoranti icone oniriche – l’incapacità del nostro pensiero di coniugare essere e non-essere, che dai tempi di Parmenide costituisce il nucleo indecifrabile della riflessione sull’esistenza.
Analogamente, nel “Ponte”, la vertiginosa profondità e ampiezza delle risonanze simboliche messe in atto, riproduce in poche frasi la lunga e drammatica riflessione sulla natura del pensiero e del linguaggio, che dal “Cratilo” di Platone porta fino al Nietzsche di “Su verità e menzogna in senso extramorale” e “La gaia scienza”, in cui è denunciata l’illusione e mistificazione noetica del pensiero fondato e materiato di parole, semplici invenzioni umane, ontologicamente eteronome alla realtà che vogliono esprimere, “esercito di vaganti metafore”, con cui l’uomo non fa altro che dominare e asservire ai suoi scopi la realtà, ma non può acquisirne l’essenza veritativa: “Voi, saggi fra i saggi, non siete mai stati mossi da sete di verità, ma da volontà di potenza!” Anche il ponte di Kafka, il logos, la parola, la relazione illusoria fra due realtà psichiche (metafisiche) sospese sull’abisso, rivela la sua originaria hybris umana, precipitando inesorabilmente quando tenta di svolgere il compito per cui è stato creato, volgendosi indietro con il gesto di Orfeo, che perde così la vita di Euridice.
“ Gruppi di torri cantano le idee del popolo. Da castelli costruiti in osso esce la musica sconosciuta. Tutte le leggende si aggirano e gli alci si avventano nei borghi. Crolla il paradiso delle tempeste. I selvaggi danzano senza posa la festa della notte. E per un’ora sono sceso nel traffico di un viale di Bagdad dove delle compagnie hanno inneggiato alla gioia del lavoro nuovo, sotto una brezza densa, circolando senza poter eludere i favolosi fantasmi dei monti dove abbiamo dovuto ritrovarci. Quali buone braccia, quale ora bella mi renderanno la regione donde vengono i miei sonni e i miei moti più lievi? “
Arthur Rimbaud, Le illuminazioni
Rimbaud conduce Il pensiero e la poesia su territori onirici e visionari mai esplorati prima, in un “nuova dimensione spirituale” (Croce) decomponendo e dislocando strutture e norme morfosintattiche con un gesto trasgressivo e rivoluzionario definitivo e irreparabile: dopo di lui niente sarà più come prima, schiere di sacrileghi visionari e mistici satanici lo seguiranno nel “bosco di simboli” che, perdute le armonie architettoniche di Baudelaire, diverrà sempre più la giungla rigogliosa, caotica, dionisiaca dell’inconscio, che molti, sull’esempio di Freud e dei surrealisti, saranno tentati di esplorare.
“ I carboni del cielo erano così vicini, che provai angoscia al loro odore. Due animali diversi si accoppiavano e i germogli dei roseti divennero pergole di viti, gravidi dei fasci della luna. Dalla gola della scimmia scoccarono fiamme e abbellirono il mondo dei gigli.
I monarchi si rasserenarono. Vennero venti sarti ciechi. Verso sera gli alberi volarono via e io mi centuplicai. Il gregge che io ero si pose sul mare. La spada estinse la mia sete. Cento marinai mi uccisero novantanove volte. Un intero popolo premuto nel torchio sanguinò cantando. Ombre diverse oscurarono amando lo scarlatto della vela, mentre i miei occhi si moltiplicavano nei fiumi, nelle città e sulla neve dei monti. “
In questo frammento di ”Onirocritique“ di Guillame Apollinaire – immediato precursore del surrealismo – l’atteggiamento e gli strumenti espressivi coniati da Rimbaud vengono radicalizzati ed esasperati, soprattutto ampliando l’incompatibilità dei campi semantici degli elementi che formano le metafore, accostando forzatamente parole e sintagmi logicamente incompatibili allo scopo di farne scaturire una sorta di deflagrazione espressiva ed emotiva.
Ed ecco un frammento dell’opera che sancisce la nascita del surrealismo francese: Le champs magnetiques a firma di André Breton e Philippe Saupoult; la discrasia semantica, la violenta e ricercata dissociazione dei nessi logici, che spesso assume funzione di trasgressione etico-idelogica, sono gli stessi già osservati in Rimbaud, il nitore della luce onirica promana dalla prosa di Kafka (tutti modelli esplicitamente citati da Breton) a cui si aggiunge un proposito di rivoluzione antropologica accreditata dalla visione scientifica della psicanalisi di Freud, che il surrealismo adotta come strumento per riunificare la lacerazione fra realtà e sogno, io ed Es, nella unificazione dialettica della surrealtà, proscenio in cui porre la nuova umanità liberata dalla schiavitù della moralistica e alienante cultura borghese ( Karl Marx ).
“Il colore dei saluti favolosi oscura fino al minimo rantolo: calma dei sospiri relativi.
Il circo dei salti, malgrado l’odore di latte e di sangue rappreso, è pieno di malinconici secondi. C’è comunque poco lontano un buco della profondità sconosciuta che attira tutti i nostri sguardi, è un organo di gioie ripetute. Semplicità delle lune d’un tempo, siete sapienti misteri per i nostri occhi iniettati di luoghi comuni.
A queste città del nord-est appartiene senza dubbio il privilegio delizioso di cogliere su queste montagne di sabbia e di fossili queste angosce serpentine. Non si sa mai quello che le ragazze di questi paesi senza oro ci portano come liquore condensato.
I pirati di Lalla Romano
Sono il capo dei pirati su una vecchia nave a vela: i pirati sono i miei compagni di scuola. Siamo vestiti come straccioni. Abbiamo paura perché siamo inseguiti da un pesce. La nave fila a grande velocità, ma il pesce ci insegue sempre da vicino. Arriviamo davanti a una città tutta bianca, dominata da una fortezza. Gli abitanti vestono di azzurro. Sono i nemici. Il pesce è a bordo e dice: – Finalmente vi ho presi –. Siamo imbarazzati davanti a lui, ma non abbiamo più paura. Parlamentiamo con quelli della città. – Se non vi arrendete spariamo il pesce –. Il pesce è d’accordo; in verità il suggerimento è stato suo. Si fa più piccolo perché possiamo infilarlo nel cannone. Lo spariamo contro la fortezza che viene colpita in pieno e sprofonda: è scomparsa. Scendiamo nella città, armati. Meniamo sciabolate, e gli abitanti, sempre illesi, saltellano qua e là, piegandosi in due per il gran ridere. Non riusciamo a ucciderne nemmeno uno. Torniamo a bordo e ci consultiamo col pesce che è di nuovo lì. Gli abitanti, con carri e carrette, si sono rifugiati in una foresta fuori della città. Là il pesce ci consiglia di assalirli: così facciamo. Essi si arrampicano sugli alberi e non la smettono di ridere. Allora decidiamo di ritornare a bordo. La nave se n’è andata senza di noi; la vediamo lontana sul mare. Fuma: è diventata una nave a vapore. “
Questo racconto delle Metamorfosi di Lalla Romano, di chiara ispirazione onirica, è uno dei rari contributi italiani all’evoluzione del realismo narrativo in senso sperimentale, in prospettiva anti-mimetica e anti- ideologica, in cui gli elementi psicologici trovano espressione in una dimensione mitologica individuale, polisemantica, ricca di suggestioni poetiche e favolistiche.
Amelia Rosselli
Io giocavo le mie ultime mille lire su d’un
tram che non partiva all’alba ma partiva molto
calmamente verso le sette di sera con una vaga
promessa d’esser lui il primo ad arrivare. Ma se
io volevo assolutamente fare a meno di me stessa
e di quel mio bisogno d’arrivare fra i primi alle
sette della sera, allora mi recapitava un tal
mal di testa da far morire le formiche, da far
morire i prezzi della sera. E non seppi continuare.
Nella scrittura della Rosselli la tensione eversiva, la disconnessione logica degli elementi verbali e frastici violentemente accostati e deformati, denunciano l’incapacità dell’universo psichico di adeguarsi ad una realtà sociale inaccettabile, a prospettive metafisiche incomprensibili ma irrinunciabili.
Concludo con due testi in cui ho tentato una diversa grammatica nell’articolazione del messaggio dell’inconscio, più mimetico- allegorico-oggettivo nel primo, e decomposto in trasposizioni, torsioni e defibrillazioni verbali di maggiore risultanza simbolico-metaforica nel secondo.

Roma, Aleph, Presentazione di “Capricci” di Antonio Sagredo, Carlo Livia
Carlo Livia
Il pescatore
Corro nuda, di notte, per strade deserte. Un uomo mi insegue, ha addosso una bomba che sta per esplodere. Mi infilo in un cancello e mi trovo nel parco di un palazzo monumentale. Dopo poco giunge l’uomo, e dietro di lui un altro, anch’egli con addosso un ordigno esplosivo pronto a deflagrare, poi un altro ancora e così via finché l’immenso parco è affollato, l’aria tenebrosa è uno spasimo di terrore.
Si sentono suonare le campane della chiesa e subito dopo la terribile esplosione. Poi l’aria e completamente invasa di fumo.
Quando riesco di nuovo a vedere, mi trovo in una barca in mezzo al mare. Il cielo è completamente buio, l’acqua è soffusa d’un chiarore crepuscolare. Accanto a me è seduto un pescatore, che osserva immobile lo spazio di mare dove ha buttato la rete. D’un tratto qualcosa affiora dalle profondità, nella rete è impigliato un corpo umano. L’uomo lo tira a bordo: è un bambino avvolto in una candida veste che risplende di luce lunare; ha in mano una candela e l’uomo l’accende alla torcia che illumina la barca. Il bambino lo ringrazia inchinandosi e si allontana, librandosi sulle acque.
Guardo il pescatore e gli chiedo quando verrà il mio turno. Lui mi mette in mano una perla, luminosa dei colori dell’arcobaleno, dicendomi: “Deve ancora riposare.”
Capisco che è la mia anima e il senso della nostalgia che mi ha accompagnato fino a quell’istante.
Forme del sacrilegio
Nel sogno del lunatico, donne di brezza entravano nude nel santuario.
Dal cespuglio degli spiriti nascevano macchine scarlatte.
Urlando come un pazzo furioso, il cielo si rinchiuse nel ripostiglio.
I santi uscirono dalle nicchie, trascinando pesanti catene.
In quella luce di postribolo, il respiro cadde in un istante rovesciato.
Solo la stella del cinema sorrideva.
era compiuto l’amore?
sempre più in fondo al pozzo
uscii dalle parole di sabbia
confuso alle statue singhiozzanti
Dall’odore del lunario nascevano tristi corridoi mentali, dove svernavano grandi peccati mortali.
Non si parlava più, né si respirava, ma si toccava il cielo indossando diafani guanti di musica.
Se il sogno cambiava, si sentiva un fruscio di fanciulle sorridere attraverso un cielo da prima comunione, e la Dea allontanarsi fra sospiri di salici.
Se l’Autore rubava la preghiera della sorella – più trasparente della sua – il fotogramma si fermava, distanziando nuvole – e destini.
entro nel rubino dalle sette notti
spoglio di forme ma senza voglie
nel tramonto ubriaco degli animali
ma non riesco a trovare il corpo
vero sigillo divino
Ricevo, alla mia email, questa Petizione di Arrigo Colombo circa la «non- esistenza dell’Inferno».
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/11/carlo-livia-une-vague-de-reves-testi-sul-sogno-di-kafka-amelia-rosselli-arthur-rimbaud-lalla-romano-e-carlo-livia/comment-page-1/#comment-33752
Vorrei eccepire al Signor Arrigo Colombo che l’Inferno è soltanto un «sogno», un sogno forse maldestro, ma nient’altro che un sogno, forse più fortunato degli altri sogni innocenti che facciamo ogni volta che prendiamo sonno. Un «sogno» che però quando viene adottato per duemila anni e innalzato sulle picche di un pensiero teologico e politico diventa qualcosa di tremendamente reale.
Ma oggi, vorrei chiedere ad Arrigo Colombo, chi chiede più nulla ai sogni?
Movimento per la società di giustizia
Cari amici,
vi unisco il documento, che il Movimento ha preparato e inviato – sulla non-esistenza dell’Inferno – affinché possa essere da voi inviato ai destinatari e ulteriormente diffuso.
Il documento può anche essere fatto proprio e modificato.
Gl’indirizzi:
Vescovo di Roma Jorge Mario Bergoglio – dsm@org.va
Segretario di Stato Card. Pietro Parolin – secretariusstatus@sds.va
Cardinale Arcivescovo Gualtiero Bassetti – presidente@chiesacattolica.it
Vescovo Nunzio Galantino – segrgen@chiesacattolica.it
Giornalista Eugenio Scalfari- repubblica@repubblica.it – Per Eugenio Scalfari
Movimento per la Società di Giustizia e per la Speranza
Università del Salento – Lecce
Al Vescovo di Roma Francesco
al Segretario Card. Pietro Parolin
al Cardinale Arcivescovo Gualtiero Bassetti
al Vescovo Nunzio Galantino
al giornalista Eugenio Scalfari
Dopo l’incontro di Scalfari con papa Francesco: l’inferno non esiste
L’Inferno è l’idea più atroce che sia comparsa nella storia umana: che una persona per i suoi peccati (anche per un solo peccato, secondo i teologi), debba bruciare nel fuoco eternamente.
Un’idea di una tale atrocità che la ragione, se la pensa seriamente, la rifiuta.
Che, nella sua atrocità estrema, si nega da se stessa.
Che contrasta col Dio amore, il quale ama di un amore infinito tutti i suoi piccoli figli gli uomini; amore infinito rispetto al quale ogni peccato, ogni delitto, anche il più crudele, nella sua finitudine, non ha consistenza, è meno che una pagliuzza nell’oceano di fuoco del sole. Tra infinito e finito non c’è proporzione.
Inferno la cui prima genesi sta nel mito della caduta degli angeli attratti dalla bellezza delle donne, e che ad esse si uniscono e generano dei giganti; ma così si pervertono e diventano principio di male per l’uomo, diventano demòni; e per essi Dio avrebbe creato l’inferno, una punizione materiale per degli esseri spirituali; che però, sempre nella visione mitica antica, avrebbero un corpo sottile fatto d’aria.
Questo mito, che compare già nel cap. 6 della Genesi, è ripreso e sviluppato definitivamente nel Libro di Enoc, il capostipite dell’Apocalittica, la letteratura e mentalità che domina l’ebraismo dal secondo secolo avanti Cristo al secondo dopo Cristo, e penetra anche nel dettato evangelico e neotestamentale; e spiega il comparirvi di certe espressioni.
L’inferno diventa poi il grande strumento della religione del timore, che domina la Chiesa e la sua storia. Forse papa Francesco può liberarcene? Lo speriamo.
Lecce, Aprile 2018
Per il Movimento il Responsabile
Prof. Arrigo Colombo
Arrigo Colombo, Centro interuniversitario di ricerca sull’Utopia, Università del Salento-Lecce
Via Monte S.Michele 49, 73100 Lecce, tel. 0832-314160
E-mail arribo@libero.it/ Pag web http://digilander.libero.it/ColomboUtopia
Gino Rago – Poesia tratta dal “Ciclo degli scarti, dei cenci, degli stracci” di prossima pubblicazione.
Lo scintillio del bronzo appena fuso
“Lo scintillio del bronzo appena fuso o le sue patine-fuochi d’artificio.
Non più.
Né la levigatezza del marmo senza vene.
[…]
La materia grezza. La pietra.
La colata di cera rappresa.
La ruggine sul ferro.
I rottami, gli avanzi, i detriti.
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
[Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
In filiformi tralicci di gabbie].
[…]
Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
Nessuno cerca il suono che manca,
a meno che il suono non significhi niente:
ni-ente, non-ente.
Tutti vogliono un nome,
perché ogni nome è una benedizione,
ma che cos’è un nome?
Un occhio che brilla tra passato e futuro.
E invece è una maledizione,
la nostra maledizione.
Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
[La «nuova» parola sono gli stracci.
Tu apri la porta senza bussare:
un mucchio di stracci in un sacco di iuta].”
Gino Rago
Caro Gino, questa tua poesia(“Lo scintillio del bronzo appena fuso) mi fa pensare a un film di Bunuel, dove il protagonista (uomo/simbolo della Borghesia) si trascina dietro un enorme sacco il cui voluminoso contenuto allude, probabilmente, a tutti i suoi pregiudizi borghesi, ai molti vizi e alle poche virtù che li accompagnano.Eppure, l’uomo appare sereno:la sua realtà è quella, e lui,forse,non vuole modificarla.
Nel 2015 in un post dedicato alle poesie di Anna Ventura, scrivevo:
“Per Anna Ventura la poesia è quella cosa che non è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione. Per la Ventura la poesia è un messaggio interrotto. La poesia che raggiunge la destinazione cessa di essere poesia. Per la Ventura l’ufficio della poesia resta il «dissenso» verso ogni ipotesi di poesia logocentrica, verso ogni logos fondante, centrale e originario. Non si dà nessuna origine, la poesia può solo attraversare la «distanza» tra le «cose».”
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/11/carlo-livia-une-vague-de-reves-testi-sul-sogno-di-kafka-amelia-rosselli-arthur-rimbaud-lalla-romano-e-carlo-livia/comment-page-1/#comment-33768
Se scopo della poesia fosse quello di recapitare un messaggio all’indirizzo di un destinatario, cesserebbe di essere poesia e diventerebbe «comunicazione». Se una poesia si comprende subito, possiamo gettare il libro alle ortiche: non è poesia; se resta un quantum di non comunicabile, allora si accende una spia che ci dice che quella è poesia.
Il «sogno» di cui ci parla Carlo Livia in queste due davvero interessanti composizioni è, per eccellenza, ciò che non può essere in alcun modo «padroneggiato» né «padroneggiabile»; il «sogno» non è una lettera, non ha un destinatario, tantomeno il «sogno» si rivolge all’io, il «sogno» si rivolge a se stesso, è un discorso che una zona della nostra mente rivolge a se stessa per parlarci di «altro»; il «sogno» è un indizio, un rinvio (lacaniano), rimanda ad altro da sé, non è mai comprensibile in se stesso (come ci ha insegnato Freud), la sua significazione è molto complessa perché rimanda ad un sotterraneo «mondo di retroscena» fatto di simboli e di icone, e di parole, fatto di pulsioni cieche, di significanti… per un «mondo di avanscena» come ci mostrano le poesie di Tomas Tranströmer… Sono d’accordo sulla valenza rivoluzionaria del «sogno» per la poesia italiana e per la Nuova Poesia, tutto sta nel comprendere la valenza di questo immenso bacino di utenza liquida, liquida perché si tratta di tracce mnestiche, pulsioni che sono state spostate e in via di ulteriori spostamenti in altre tracce mnestiche e, di qui, verso il «mondo di avanscena» quello abitato dalle parole, e dai «resti» di fonemi in un processo complesso e variegato che alla fine condurrà alle immagini del sogno e del sogno parlato. Tutto questo giacimento minerario è suscettibile di materializzazione in parole, in sogni fatti di parole come avviene nella Nuova Poesia della nuova ontologia estetica.
Ad esempio, che cosa ci dicono questi due versi della poesia di chiusura di Gino Rago postata qui sopra?
Tu apri la porta senza bussare:
un mucchio di stracci in un sacco di iuta.
Ci parlano di una visione di sogno. Che è la nostra realtà più vera.
Mi sono venute sotto gli occhi queste poesie di Patrizia Cavalli da Le mie poesie non cambieranno il mondo del 1974 e le ho messe a confronto con questa di Gino Rago:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/11/carlo-livia-une-vague-de-reves-testi-sul-sogno-di-kafka-amelia-rosselli-arthur-rimbaud-lalla-romano-e-carlo-livia/comment-page-1/#comment-33773
Stanche divinità
.
E se mi guardi davvero e poi mi vedi?
Io voglio che stravedi non che vedi!
*
Se i miei numeri non vincono
neanche quando non li gioco
vuol dire che per me non c’è più gioco,
nemmeno la sfortuna mi sta accanto.
*
Sono Pallade Atena
ma mio padre è romano
si chiama Giove Pluvio
e io lo chiamo lo chiamo.
Se lui arriva sto bene;
se ritarda sto male
io dipendo da lui
lui mi è Pasqua e Natale.
*
Amor che fa la rima
sta un po’ meglio di prima.
Amor che rima fa
tanto male non sta.
E le ho messe mentalmente a raffronto con la poesia di Gino Rago postata qui sopra, che riprendo:
Lo scintillio del bronzo appena fuso
“Lo scintillio del bronzo appena fuso o le sue patine-fuochi d’artificio.
Non più.
Né la levigatezza del marmo senza vene.
[…]
La materia grezza. La pietra.
La colata di cera rappresa.
La ruggine sul ferro.
I rottami, gli avanzi, i detriti.
I rimasugli di fonderie. Gli scarti.
I vetri rotti negli angoli delle vie.
Gli scampoli nelle sartorie.
Le parole delle «nuove» poesie…
[Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
in filiformi tralicci di gabbie].
[…]
Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
Nessuno cerca il suono che manca,
a meno che il suono non significhi niente:
ni-ente, non-ente.
Tutti vogliono un nome,
perché ogni nome è una benedizione,
ma che cos’è un nome?
Un occhio che brilla tra passato e futuro.
E invece è una maledizione,
la nostra maledizione.
Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
[La «nuova» parola sono gli stracci.
Tu apri la porta senza bussare:
un mucchio di stracci in un sacco di iuta].”
È chiaro che qui siamo in una forma mentis lontanissima miliardi di chilometri dalle filastrocche della Cavalli, in Gino Rago l’assunto secondo il quale le poesie non cambiano alcunché del «mondo» è preso per quello che è: un truismo, una battuta spiritosa. Nella sua poesia invece il mondo è stato ridotto in «stracci», e così gli «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.», che altro dire? Qui ci muoviamo in un orizzonte degli eventi totalmente mutato dove non è rimasto che «Limature. Vinavil. Sagome. Legno.» Gino Rago si chiede: «che cos’è un nome?», e la risposta è presto detta: «Un occhio che brilla tra passato e futuro». Si badi, Rago dice che il «nome» è un «occhio», quindi dà una enorme responsabilità ai «nomi» i quali sono equivalenti ai nostri «occhi», sono loro che ci permettono di vedere la luce, senza di essi, semplicemente, non ci sarebbe il «mondo». Altro che il pensiero truistico e turistico della Cavalli, in Gino Rago senza il «nome» non possiamo neanche vedere il «mondo», quindi non soltanto tramite il «nome» si può cambiare il «mondo», ma addirittura senza di esso non potremmo neanche vedere il «mondo». In Gino Rago non si ha soltanto il ribaltamento del truismo cavalliano ma si tratta di qualcosa di più grande e fondante: senza il «nome» noi non possiamo neanche «vedere» il «mondo».
Ritengo questo assunto un cardine fondante della nuova ontologia estetica. Questo assunto segna un punto di svolta e di non ritorno, se non si accetta questo assunto-base si resterà a fare le poesiuole del truismario cavalliano.
Tu apri la porta senza bussare:
un mucchio di stracci in un sacco di iuta.
Ne farò uno strillo. A firma Rago. Faccio notare a Livia che in questi due versi non accadono cose strane, surreali o stupefacenti, e il linguaggio è quello conscio ( non ha narrazione, non tenta un’imitazione). E’ metafora senza significante, un fatto evidente; senza una stranezza, un orpello, nemmeno un paradosso. Ma è comunque linguaggio inconscio perché unisce immagine e significato – la poesia di Tomas Tranströmer è tutta così – quindi mostra, e mostrando si-spiega.
Poesia e psicanalisi hanno poco in comune. Intanto perché la psicanalisi si occupa dei fatti salienti, quelli inerenti alle cause di un determinato disagio: l’approccio è scientifico, non emotivo; Inferno o Samsara non verrebbero in mente. Invece Poesia è viaggio ad occhi aperti, come si suol dire, quello di Orfeo.
In psicanalisi, quando la lenta decodifica dei simboli ha prodotto trasformazione, a quel punto che la terapia può dirsi terminata. A mio avviso con le moderne tecniche di psico terapia si fa prima. Ma alcune tecniche dello Zen sono ancora più efficaci. Nel produrre trasformazione.
Allo stesso modo, utilizzando la narrazione iperbolica o surreale, c’è il rischio di perdersi in poemi, quando invece basterebbe un verso lampante.
Gino Rago scrive:
Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/11/carlo-livia-une-vague-de-reves-testi-sul-sogno-di-kafka-amelia-rosselli-arthur-rimbaud-lalla-romano-e-carlo-livia/comment-page-1/#comment-33781
Quattro cose, quattro parole separate da un punto. È questa la nuova ontologia estetica, che la parola è il rappresentato e che essa è il questo, il che è diverso da quello; l’esser questo non è l’esser quello. Il rappresentato non coincide con il rappresentante (il significante), esso è distinto e diverso, è altro.
Nella poesia precedente la NOE invece l’esser questo ha valore soltanto come significante dell’esser quello, c’è l’onda musicale (il significante) che si incarica di pilotare l’esser questo e metterlo in relazione con l’esser quello, e c’è l’onda musicale perché si dà un soggetto che è la sede di tutti i predicati.
Nella nuova ontologia estetica non si dà più un soggetto sede di tutte le predicazioni, o meglio, il soggetto è un soggetto eventuale, accadimentale.
La differenza non potrebbe essere più netta: se non c’è più un soggetto sede dei predicati (come avviene nella nuova ontologia estetica) non ci saranno neanche più i semantogrammi, i significanti che poi altro non sono che i veicoli delle predicazioni del soggetto. Nella nuova ontologia estetica il soggetto non è la sede privilegiata dei significanti (al massimo, può accadere che esso ne sia la sede ma in via accidentale e sporadica), e questi ultimi avvengono al di fuori del soggetto, i nomi indicano le cose nella loro nudità perché i significanti sono stati denudati e destituiti (del significato). Le quattro parole del verso di Gino Rago «Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.» delimitano una questità o attualità, esistono soltanto nella attualità, nel presente, e in esso dileguano, non sono parole unite dal significante, anzi, sono parole destituite del significante. Questo fatto produce la paradossalità della poesia della nuova ontologia estetica, in quanto in essa accade la nominazione delle cose come luogo della massima contraddittorietà del reale e, al tempo stesso, come luogo della incontraddittorietà del reale che è la compresenza del contraddittorio con l’incontraddittorio, del finito con l’infinito, del condizionato con l’incondizionato. Come acutamente dice Lucio Mayoor Tosi l’immagine coincide con il significato e, mostrandosi, si dà senza alcuna predicazione musicale, ovvero, senza l’intervento del significante. Del resto non è questo il modo con il quale si dà il sogno per Freud?, cioè mediante lo spostamento [Verschiebung] (la catena metonimica) e la condensazione (la catena metaforica) che trasformano le parole in altre parole?
Giorgio, Anna, Lucio, ho, come voi, ereditato il sole, la luna, il mare, le donne contadine, gli uomini artigiani, il Colosseo, la Cappella Sistina, il Mosè, la Gioconda, l’Annunziata di Antonello da Messina, la Scuola di Atene di Raffaello, tutto il Caravaggio…
Cosa io, quando sarà, lascerò in eredità a voi, Giorgio, Anna, Lucio? Vi lascerò le scorie, i cenci, gli scarti, gli scampoli…; il courtain wall, l’edificio come stele, ecc. Perciò, pensando anche alle mie figlie, ma ora penso precisamente e con gratitudine a voi tre, Giorgio Linguaglossa, Anna Ventura, Lucio Mayoor Tosi perché magnificamente presenti su questa pagina odierna dei commenti, dichiaro a Voi tre il mio piccolo testamento:
Vi lascio le parole senza suono.
“Vi lascio le schegge.
Vi lascio il sole.
Vi lascio la grandine, la pioggia, il vento.
Vi lascio i cascami radioattivi.
La ricchezza del mondo in poche mani.
Le macromolecole dei veleni.
Vi lascio la plastica. Le segature. Le vernici
e il grafene.
Le parole senza suono. Le vie del dolore,
le vie della mano sinistra,
il catrame.
Le maschere. L’alluminio a lamine sottili.
Le segature. I trucioli. Le colle.
Vi lascio.
Vi lascio le stelle che brilleranno.
Vi lascio quest’uomo nel fango.
Vi lascio il fango.”
Gino Rago
L’esercito di Xian fu fatto col fango; mattoni e fango per la Grande Muraglia Cinese; quante cose grandi, si possono fare col fango!
E poi, sul fango, incidiamo la parola.