Mariella Bettarini, Antologia di poesie – dal diario di Romilda (1968),  da  Delle nuvole (1991), con una selezione di giudizi critici

 

foto palazzo illuminato

Datemi solitudine ma non lasciatemi sola

Vivo e lavoro a Firenze (dove fino al ’92 ho insegnato nelle scuole elementari), città dove sono nata il 31 gennaio 1942.
Dopo una parentesi torinese negli anni dell’infanzia e un doloroso soggiorno di tredici anni a Roma, e dopo corroboranti esperienze nella mia città natale (la città di La Pira e di don Milani, di padre Balducci e dell’Isolotto: le mie radici), nel 1973, in un postsessantotto colmo di disperate speranze, con alcuni amici scrittori diedi vita a “Salvo imprevisti”, quadrimestrale (12/11/06), fascicoli monografici dedicati a temi come “Cultura e meridione”, “Donne e cultura”, “Dopo il sessantotto”, Pasolini, “Poesia e inconscio”, “I bambini/la poesia”, “Poesia e teatro”, “Poesia e follia”, “Del tradurre”, ecc: Ho, infatti, sempre sentito strettissimamente connessa la mia ricerca etico-estetica con il rovello, la ricerca, l’esperienza etico-culturale di altre persone (prima che poeti/scrittori), in una comunitaria, non competitiva passione insieme letteraria e sociale.

Dal 1992 “Salvo imprevisti” si chiama “L’area di Broca”, semestrale che privilegia temi scientifico/conoscitivi, oltre che letterari.
Intanto, dal 1961 scrivevo molto, soprattutto poesia (ma anche prosa creativa e critica: recensioni prefazioni, brevi saggi), leggevo moltissimo, traducevo la Weil, partecipavo attivamente, su fogli e riviste, al dibattito in corso sui sempre difficili rapporti tra letteratura e società.

Da allora ad oggi ho pubblicato ventisei titoli di poesia, sette tra libri e plaquettes di narrativa,due di saggistica (sulla condizione della donna e la sessualità nel 1978 e nell’80 una serie di interviste a 33 poeti di varie generazioni); ho partecipato a dibattiti, letture pubbliche, convegni, ecc.
Poiché credo nella cooperazione culturale (e amo profondamente la scrittura degli altri), sono sempre stata contraria ai premi letterari. Così, dal 1984, in questa linea di intensa partecipazione e collaborazione, assieme a Gabriella Maleti (che ne è stata l’ideatrice) curo la piccola Editrice Gazebo, che ha collane di scrittura creativa e critica. Nel 1996, con i genitori di Alice Sturiale, ho curato Il libro di Alice (ripubblicato da Rizzoli nel 1997).

Oggi (inizi del 2006) continuo a lavorare molto, ad amare la parola: scritta, letta, orale, creativa, saggistica, epistolare. La parola/segno. La parola/bi-sogno. La parola/intenzione di dialogo, affinità, amore. Così come amo da sempre l’archeologia, l’arte, la botanica, l’astronomia, la fotografia, il cinema e la matrice poliedrica di tutto questo: la misteriosa/”naturale” natura: dall’infinitamente grande e lontano, interstellare, invisibile, all’infinitamente piccolo e prossimo (anch’esso talora invisibile). Parola che si fa carne. Carne (minerale, vegetale, animale) che si fa parola. Misteriosamente. A specchio.

Io non so se sia poesia o oratoria o oratorio e in verità non me ne importa nulla: ma il poemetto Terra di tutti, riletto ora, arriva, fa il suo dovere, ha passi che fanno trasalire, ha verità e ritmo. (…) Sta il fatto che, dovessi far leggere a uno straniero o a un postero un testo per far capire che cosa stava nell’animo di un giovane nell’anno Settanta, quei suoi testi sarebbero fra i primi, un vero risultato oggettivo. Non so né come né quando ma non mi dimenticherò di questo suo scritto.
Franco Fortini
(da una lettera, 8 maggio 1972)

 

C’è effettivamente nella Bettarini, fin da quando comincia a comunicare in versi, la disposizione alla concitazione oracolare e allo scavalcamento del politico sul privato. Questa disposizione si sente sempre, diluita o accentrata; come a volersi impigliare, contemporaneamente estendendone le trame, in rigorose metafore di avvertimento o ricognizione sociali. Definirei questa disposizione come il proposito di parlare alto a tutti (a tutti, non per tutti); parlare alto o, meglio ancora, comunicazione alta (sentimentalmente molto commossa).

(…) Alla concitazione oracolare, che produce non lemmi autoritari per « una vita esemplare » ma indicazioni che rimandano a quel bisogno o a quella richiesta di progressione conoscitiva e sentimentale di cui ho fatto cenno; a questa concentrata concitazione si allinea come altro e concomitante momento del discorso il referto esistenziale — che è solo trascritto, dato come indicazione e mai gridato come una perorazione.

(…) Il leccio è interessante da indagare; e non credo si possa considerare semplicemente l’opera di un’esordiente intelligente; lo leggo come il registro su cui sono trascritti i dati di un discorso personale (non privato) che si va precisando con uno sforzo autentico; che si fa persuasivo mentre tende a ramazzare con la scopa ideologica i problemi «vitali» piuttosto che a selezionarli per comporsi in un ordine possibile e rappresentarli a fini egoisticamente esistenziali.

Ma dieci anni dopo, nel ‘77, nella raccolta intitolata In bocca alla balena, la Bettarini propone un discorso più sconnesso (nel senso di una faticosa lacerazione, dell’orditura anch’essa volutamente frantumata e di inquietudine molto esasperata) non avendo più i riferimenti su cui ancorare la ricerca (archetipa) di verità. L’area di questa ricerca essendosi complicata di riferimenti sovrapposti e di tensioni non previste e conturbanti.

(…) È tutto un buttare uncini per arpionare i fragili e scontornati elementi di una realtà che si è già consumata (non che si sta consumando, concedendo qualche punto di riferimento). Ne consegue che in questi editi nel ‘77 (ma composti in precedenza), presi come campionatura di confronto per qualche definizione, si privilegia un parlato argomentante e descrittivo, a tutto tondo, di situazioni ideologiche; e il sociale come rap-presentativo dei sentimenti — o, meglio, come rappresentato dai sentimenti, resi infidi e inquieti dalla situazione emergente. In due parole: dalla prima alla seconda opera indicata si passa da una tensione positiva, che si alimentava dei problemi del tempo, all’inquietudine riflessa, a volte opaca a volte terribile, di un momento storico che propone solo contraccolpi, i quali sfuggono e non si lasciano definire.
Roberto Roversi
Introduzione al «Trittico per Pasolini»
Almanacco dello Specchio, n. 8 (Mondadori, Milano, 1979)

Situazione e tono da poesia-documento, poesia ‘arrabbiata’ angloamericana. Si va dagli eccessi di sconforto-disperazione personale (una voglia di «buttarsi via» e insieme di essere nelle cose) alla denuncia sarcastica nel linguaggio dell’intervento incazzato e della protesta. Nel linguaggio, cioè, da studente-operaio sempre un po’ sull’orlo della «devianza» (il fantasma, dietro le spalle, dell’ospedale psichiatrico)… A volte si ha l’impressione di una specie di ritomo del primo Ungaretti e Jahier (o un Ginsberg o un Leroi Jones).
Franco Cordelli
II pubblico della poesia (Lerici, Cosenza, 1975)

Più vicina alla Weil che a Marcuse e più che a un’ipotesi di poesia rinnovabile solo entro schemi semiologico-linguistici, a un’idea di poesia fecondata da una cultura alternativa, di classe, la Bettarini lavora tutte le occasioni, i pretesti, le provocazioni della cronaca-tragedia in una sorta di confessione disinibita, di flusso ininterrotto, caotico, della coscienza dove la esteticità, il decoro, il diritto della forma cedono il passo a una ragion pratica d’ordine globale: provocare, per disincantare, per trasformare, possibilmente in meglio, l’uomo.
Alberto Frattini
AA.VV., Inchiesta sulla poesia (Bastogi, Foggia, 1978)

Esemplare (…) è la posizione di Mariella Bettarini. Le sue radici sono in una tradizione di neorealismo fiorentino (per esempio «Quartiere»), che si combina con un più generale espressionismo toscano (per esempio Marcello Landi) e con un fondo di volontarismo cattolico. Fin dall’inizio (II leccio) interessa il suo aggrapparsi al fantasma di un centro, che non potendo essere sociale sarà psicologico (…) La sua asprezza è pazienza, fedeltà alla propria imbarazzante natura. Anche nelle cose più recenti (Diario fiorentino) ritorna l’immagine di un corpo vivo, inopportuno (…). In un libro di più complessa struttura come Dal vero, questa esigenza psicologica (l’esigenza del centro è consapevolmente legata al trauma del difficile rapporto col padre) si fa descrizione di un paesaggio degradato.
Walter Siti
II neorealismo nella poesia italiana (Einaudi, Torino, 1980)

 

A ripercorrere l’intero itinerario in versi di Mariella Bettarini si ha una sensazione di stordimento, sia per la vastità dell’opera che per la sua complessità, tanto che una nota come questa risulta ardua (non per nulla sulla produzione della Bettarini sono state realizzate più tesi di laurea), anche perché sulla poesia dell’Autrice si sono espressi, in tempi diversi, intellettuali, critici e poeti di gran valore e notorietà, da Luzi a Fortini, da Roversi a Ramat, da Cucchi a Manacorda. Già Luzi ne mise in evidenza “il tenero e ispido furore” e Silvana Folliero le “visioni un alto valore semantico, durevolmente attraversato da ritmi interiori”. (…) Credo che la Bettarini sia stata uno dei pochissimi scrittori di poesia a portare avanti pervicacemente il rapporto poesia/altro (soprattutto la fotografia), poesia/mondo, poesia/occasioni e a darne conto lucidamente: sì, credo che la critica della Bettarini sull’epifania della propria scrittura, sul sorgere improvviso nella coscienza della “necessità” di intraprendere – di dar vita ad una silloge specifica – sia anch’essa poesia: vedi “Nursia”, “La disertata” e la splendida raccolta “Zia Vera” dove l’Autrice costruisce una struttura di 68 testi – quanti gli anni della vita di zia Vera – sospesa fra il dato biografico e quello storico. (…) Concludo questa breve nota accennando alla sapienza del discorso poetico di Mariella Bettarini: il gioco degli spazi, l’uso costante dei trattini, l’ostracismo alla virgola, le rime quasi involontarie, l’iterazione (“passare per la testa”, ad esempio), l’utilizzo di lessemi da lingue straniere o di voci dialettali sono soltanto alcuni degli “strumenti” letterari della nostra autrice, che percorre da così tanti anni un suo originale, personalissimo sentiero poetico che mostra come – nella poesia autentica – mente e passione, etica e biografia si tengano mirabilmente, sino a dar vita a qualcosa di tenero, di lieve, di miracoloso.

Daniele Giancane
“La Vallisa” (n. 81, dicembre 2008)

POESIA:
Il pudore e l’effondersi (Città di Vita, Firenze, 1966)
Il leccio (I Centauri, Firenze, 1968)
La rivoluzione copernicana (Trevi, Roma, 1970)
Terra di tutti e altre poesie (Sciascia, Caltanissetta Roma, 1972)
Dal vero (ib., 1974)
In bocca alla balena (Salvo imprevisti, Firenze, 1977)
Diario fiorentino (Sciascia, Caltanissetta Roma, 1979)
– “Trittico per Pasolini”, in Almanacco dello Specchio n. 8 (Mondadori, Milano, 1979)
Ossessi oggetti/spiritate materie (Quaderni di Barbablù, Siena, 1981)
Il viaggio/il corpo (L’Arzanà, Torino, 1982)
La nostra gioventù (Sciascia, 1982)
Poesie vegetali (con fotografie di G. Maleti, Quaderni di Barbablù, Siena, 1982)
Vegetali figure (Guida, Napoli, 1983)
– “Il gregge”, in AA. VV., Etrusca-mente (Gazebo, Firenze, 1984)
– “Trentadue in viaggio – romaniche”, in Il viaggio (in collaborazione con G. Maleti, Gazebo, Firenze, 1985)
Tre lustri ed oltre (antologia poetica 1963-1981, Sciascia, 1986)
Delle nuvole (con fotografie di G. Maleti, Gazebo, Firenze, 1991)
Diciotto acrostici (Gazebo verde, Firenze, 1992)
Familiari parvenze (enigmi?) (Quaderni della Valle, S. Marco in Lamis, 1993)
Asimmetria (Gazebo, Firenze, 1994)
– “La disertata”, in AA.VV., Il fotografo (I quaderni di Gazebo, Firenze, 1994)
Il silenzio scritto (con opere pittoriche di Kiki Franceschi, Gazebo, Firenze, 1995)
Zia Vera infanzia (Gazebo, Firenze, 1996)
Case – luoghi – la parola (Fermenti Ed., Roma, 1998)
Per mano d’un Guillotin qualunque (Ed. Orizzonti Meridionali, Cosenza, 1998)
L’amoroso dissenso (con una tavola di Albino Palma, Luna e Gufo, Scandicci, 1998)
Haiku di maggio (Gazebo verde, Firenze, 1999)
Nursia (in collaborazione con G. Maleti, Gazebo, Firenze, 2000)
La scelta – la sorte (Gazebo, Firenze, 2001)
Trialogo – G. Maleti, G: S. Savino, M. Bettarini, (Gazebo, Firenze, 2006)
– Balestrucci (Gazebo, Firenze, 2006)
A parole – in immagini (antologia poetica 1963-2007) (Gazebo, Firenze, 2008)
Avvenga che canti (a cura di Rosaria Lo Russo e Massimo Liverani), con allegato cd audio

NARRATIVA:
Storie d’Ortensia (Edizioni delle Donne, Roma, 1978)
Psycographia (Gammalibri, Milano, 1982)
Amorosa persona (Gazebo, Firenze, 1989)
Lettera agli alberi (Lietocolle, Faloppio, 1997)
– “Caro Mistero”, in AA.VV., Lettera a un fagiano mai nato (Gazebonatura, Firenze, 1999)
L’albero che faceva l’uva (Gazebo, Firenze, 2000)
La testa invasa (Gazebo, Firenze 2003)
Il libro degli avverbi (piccole storie per bambini) (Gazebo, Firenze 2005)

SAGGISTICA:
– “I poeti sono uomini”, in Materiale per gli anni Ottanta, 1 vol. (D’Anna, Messina-Firenze, 1975)
– “Pasolini tra la cultura e le culture”, in AA.VV., Dedicato a Pasolini (Gammalibri, Milano, 1976)
– “Pasolini, le culture e noi”, in AA.VV., Perché Pasolini (Guaraldi, Firenze, 1978)
– “Donne e poesia” in AA.VV., Poesia femminista italiana (Savelli, Roma, 1978)
Felice di essere (scritti sulla condizione della donna e la sessualità) (Gammalibri, Milano, 1978)
Chi è il poeta? (in collaborazione con Silvia Batisti, Gammalibri, 1980)

Mariella_Bettarini foto Dino Ignani

Mariella Bettarini, foto di Dino Ignani

Mariella Bettarini

dal diario di Romilda (1968)

Sono le cose che fanno compagnia, caldo. Le cose che mi guardano e stanno intorno al mio freddo, alla mia acqua sconsolata.

Datemi solitudine ma non lasciatemi sola.

Accetto la versione che gli altri danno di me o prendo la mia?

C’è chi sta tranquillo ad osservare il futuro. Il mio futuro è una pietra piccola, un asparago nel piatto, una settimana nemmeno luce.

“Insegna chi dà e impara chi riceve” (Ralph W. Emerson).

Presso l’albero gli uccelli lavorano con colpi di coda, che sono lingua, messaggi, richiami, grida disperate o sguardi.

Penso alle rondini come a pesci alati.

“E sentivo che strideva piano piano, a un certo punto smise e io dissi: È morto e andai in piazza per prendere tre o quattro margherite e lo seppellii”.

Rileggersi freddamente. Poi abituarsi a considerare freddamente gli elogi, calorosamente – invece – critiche più penetranti: solo così si avanza.

Sfogliamo rose, facciamo il lavoro del vento.

Ho preso a marciare e ho conosciuto qual è la mia libertà, il mio destino. Non possono fermare la mia coscienza ebbra.

Il mio regno di carta e vento. Ma la carta può prendere fuoco e i1 vento dare inizio a un tifone.

Nessuno conta gli insetti che finiscono in bocca alla rondine, né i fumi che si levano dalla terra e le linee della terra surriscaldate tremano, mentre già prende corpo in alto il metallo del falcetto alzato sulle erbe.

“Siena mi fe’, disfecemi Maremma”. La lingua degli alberi.

Ci sono tempi per dichiarare aperti certi problemi e altri per risolverli.

Addento lo stelo della menta.

“Colui che dice: ‘io non so’ ha detto la metà di tutta la sapienza” (Ibn Zabara).

La poesia è soltanto la sua confusionaria fantesca.

Ho avuto bisogno di allegria, ma quando di questo mio sentimento si è abusato, ho avuto paura e mi sono ritirata dal patto sciocco.

La mia vita si dolcifica, prende piegature e ombre.

“I benefici sono graditi quando possono essere contraccambiati: quando sono troppo grandi, invece di riconoscenza generano odio” (Tacito).

 

da La scelta – la sorte (1994-1997) (Edizioni Gazebo, Firenze, 2001)

L’OBBEDIENZA

è (l’obbedienza) una disobbedienza al suo
contrario – il tuo becco di gru – il lungo
sottile collo obbediscono solo ai connotati delle gru –
non a quelli delle cutrettole: obbedisci a te solo
sei congruo a te – come l’ornitorinco fa propria
la propria indole (il lupo la sua peculiare)

ma se l’indole è un demone – meglio vale
la disobbedienza – la divergenza – la disparità: dunque
obbedisci (talvolta) al tuo contrario: disobbedendo obbedirai
e mentre compirai l’obbedienza ti scoprirai alfine
contraddittorio – disobbediente

*

LA PAROLA

si scioglie come neve – ti riempie un cuore
un muscolo
                    una mattina da una parte sei pieno di lei
(te ne svuoti) – dall’altra ancora ti riempi
(lei ti svuota)
trabeazione – si scioglie da sé – dorica
                                                                    da sé
scanalata superstite
                                         da sé portante un portamento
che la dilunga – la divarica – la dilata – la dilaziona –
la spezza – portante spezzata
                                                     disseminata in frammenti
di semi stellari – di stelle semoventi
semicieche

                              oh – stella stellante che pulsi e ruoti –
pulviscolo – polveriera di Cenerentole
e lupi mannari
                          mansuetudine e ghiozzo:
incolonnare addendi è la tua sfiducia
infilare coralli – pietre
                                        sbadigliare per un sonno
che non c’è – provare la voce e sognarla
                                                                      alzar polvere
e rifare fiori dove le fiorite son perse – ingioiellare la collina
di stoppie fiammanti – affossarsi dentro un’onda cremisi – un’onda
pece
       rovistare cassetti di tempi lenti – tempi morti –
luoghi sparati
                        arricciolare il lisciato
lisciare lo scannellato – il pieghevole
                                                                 rocciare
sulla montagna – slittare nel pack – ormeggiare
il pannicello candido al largo del sé

                                                   attinger aria
acqua spegnere
                           terra a morsi mangiare
fuoco darsi (farsi)
                               poggiare la viva melodia
dov’essa dorme – ninnare il senno – il suono
                                                                               scandagliare
le pareti calanti
                            intingervi pane
                                                       salare il molto salato
suono – il salto
                        impelagarsi e ammararvi sirene –
decimare – decimare la fiaccola
                                                       guardare (senz’esser visti)
vedere (non guardati)
                                      percepire moti – maremoti
                                                                                     smottando
spalare armenti – unguenti spalmati
spalmando restare nel guado (asciutti) – asciuttamente
inumidirsi – dirsi beati di sé – mai di sé – mai del mondo
bearsi (bennati nel mondo) – darsi al mondo mai nato
al bendato stendardo delle murene – delle maree
avendone scheletriche madri – lische – striscianti deità
di cui s’incinse la mèta – la colpa – la voce dei bambini –
la favella – la fragola – la fola – la folaga claudicante
e una capanna di frasche

                                           poi (di nuovo)
dribblare e sprangarsene – infangarsi con tutto il camaceo
col vegetante (e vegetale)
                                            prostrarsi sino a terra
(sino alle terre) – interrarsi (bulbo) – fiondarsi (colomba) –
dilungarsi (lancia) – nereggiare (cornacchia) – nereggiare –
apprendere appreso – disimparato sparo – sparente
scoppio

              di là – di là
di là dai reami
di là dai regni – entro l’impervio – entro il fogliame
di là dalle Comovaglie – dalle sovrane
comici
          entro il permutabile – entro il fresco – entro
il fresco bambino – di là dai soppiatti – dagli assalti assopiti
e affondi fini
                       nel tumido – nel purissimo osceno
                                                                                   nella vertigine –
nella verticale di sé – nell’obliqua e ambigua ubiquità
del non-più-uno (non-più-due non-più-tre)
                                                                           nella selva
splendente – nella selva e nel rovo – entro il roveto
(ardendo)
                al buio – al buio
                                          camicia sventolante
svolazzante crepuscolo – tiranna treccia e tremenda
usura
          tirata corda – spina affastellata
                                                                squadrato nucleo
e tremebondo ossame – treno che insegue la sua corsa
freccia ferma e turpitudine
                                                (più in là – più in là)
balenare di fari e più in là
                                              più in là – oltre il sé
nelPinoltre – rosario di dilette sfere – triangolare comice
ruvido sotto i denti – spalare – spalare la neve

sotto di loro – spellarle (sino al sangue) a sangue – spenderle
                                                             [e spendersi
sino al carnascialesco martirio

da Delle nuvole (Gazebo, Firenze, 1991)

 

cirrostrati

I
quali pallidi luminari voi
portano?

dove(andando)
guidate la contemplazione di menti
svagate o estatiche? trasognate
trasecolanti?
quali méssi messaggi trascinate?

le èstasi le stasi e le estatiche estati
sono le vostre monadi sorelle
e ciò che raggia
ciò che passa (ne dico)
di cui non ho rivelazione
è la contemplazione che non passa
la muta intransigente
filiazione

II
la vocazione era
lo stato da man bassa della
non materiale materia
e tutto ciò che squassa
la stasi

la mentale miseria

cirri

veleggiava un giorno una famiglia di cirri
narrava che la prosàpia della sapienza
riposa a capo basso su pianure
e solo per vive fantasie
altissima sé proietta
in freddi cieli nei quali
troppo goffi volatili
argomentano si salga per ambizione
per dura volontà
per sgarro
ignorando esse (le gallinette)
che si è cirri per grazia
sapienti ove non lo si vuole
eccelsi solo quando – sbranati –
s’ignora affatto d’esser salvi

II
così papiglionacee con acqua
le più beate nella libertà
candida la loro levità
cirri

bianche farfalle
la cui velocità pare lentezza
la cui corsa si mostra moto immobile

*

Mariella Bettarini
da Asimmetria

(Gazebo, Firenze, 1994)

(Voce-treno)

avvenga che canti
venite avanti voi
voci mischiate ad alba neve
impastate di zuccheri
ma da terrori – da azzanni
avete fame – sete?

                                      la Voce
che voi presiede e voi mesce
parla basso

                    non parla: gridate a perdifiato voi
sino a una vòlta di silenzi
giù (capifitti): tra stupori e ragli
ne esce un treno che vedemmo (a Vemazza?)
che ci squassò – che corse
che eventi ventilò (conigli – volpi
di pelle bianca):
la vicenda – la nera sibillina – sibilava
vociarne zibellina
(perigliose innocenze)
treno soffoca Voce (o viceversa)
mare dinanzi – un suo moltiplicarsi – mare
de-cedenza (treno – soffoco – voce)
quieta deduco: tra un prima e un poi
non adesso e non più
tra un pre-vocale e un post-vocale
viva vuole la Voce revocarmi
benché larvale il prima
benché mortale il poi
squassi

                            (fulmineo immoto)
d’un non mio tempo-treno
il bip-bip

                 il clop-clop

(viola)

m’accorsi una mattina delle viole
                                                           Viola a me
venne incontro con ditate d’anelli e
dei dolori dentro la testa
che tanto si legavano ai miei dolori
che n’ebbi sino in fondo penuria
o fretta
            frettolosa d’andarmene
cercando la sua testa di piume gialle
di per certo sparita
con quella voce che tremolava
                                                      Viola vidi poi
venirmi accanto entro giorni d’una giacitura
speciale
             giorni di stoppa e neve e pietrisco
allegante
               alberese scheggiato e molto cigolante
basilisco
              giotteschi giorni aguzzi
pei denti rossi dello scoiattolo il quale
ti coglieva a motivo delle foglie rotonde
ed io per l’erba che ne veniva con odore
allevando nelle gengive il sapore che sai
che ne mangi una sera mentre scrivi
e balzellante vivi

(anemone)

avevi manducato un pipistrello
forse

          e avendone noi paura
venimmo cogliendoti nel sonno
io e il monaco che porto a mio danno
o misura

               il monaco allevante ortaglie
e anemoni che però di spontanea gamba
crescono

                di spontanea fonte
zampillano

                  di spontanea benignità
dilettissimi frutti della mia prevostura
o tu gran petalo di quella madre che ti teneva
nel trepido pomeriggio che ti sfogliai
e ti vidi cadere mandando in polvere
senza volere io la tua natura
di astemio fiore che non sa più che fare
che giocarne che volerne di trottole
o di fronde perché gli vengano ridati
gli azzurri baci i bianchissimi abbracci
le lacrime la pelle

                                i capelli le braci
e tutte intere le illusioni belle

*

come ridandoti la caccia (o cacciata?)
come ridendo
come la poesia che sa
quello che il soggetto non sa
come spolverando Fiatone dalle grotte
come mangiando anguria e poi
melone
come rime ad incastro
come neve ch’è bianca lieve
come astrali accidenti
come chi sa che non dormiva
e chi sa che non dorme
come gli stambecchi nei boschi
e le genziane
come l’anello che allega i denti
come la foto di chi scarta o avanza
come la doppietta che invecchia
come un come
ecco
alzo lancio stringo
costruisco distruggo il mio aquilone

Appunto di Giorgio Linguaglossa

da Terra di tutti e altre poesie (1969-1970)

Il pesce

Non mi piegai, caddi di schianto
e mi trasportava l’autobus col quale
di solito torno a casa, aggredita
dagli acidi e dal deserto nel quale non c’è nulla
per misurarsi tranne l’altezza spropositata
dei fiori gialli e il naso
della luna. “Hai messo un po’ d’ordine
anche dentro di me”. Ma il mio filo dorsale
punge, è la lisca di un pesce: la mia misura
è stare sulla battigia,
pesce espulso e pietrificato
tra un deserto e una massa d’acqua
che chiamano da parti opposte.

Sto leggendo l’antologia A parole – in immagini (1963-2007), Gazebo, 2008, un volume di 850 pagine che raccoglie tutta la sua produzione compresi alcuni stralci di giudizi critici. Penso che per dare un giudizio ponderato su un poeta si debba avere sotto mano l’opera completa, poterla leggere in diagonale e in lungo e in largo, in modo sistematico e asimmetrico, valutando le interconnessioni e le conflittualità con le esperienze poetiche coeve e con il quadro storico e sociale di riferimento. Quello che ne esce ad una prima lettura è l’attraversamento da parte della Bettarini del deserto di ghiaccio della seconda metà del novecento, il secolo sperimentale, fino agli ultimi componimenti del 2007 quando quella stagione si era definitivamente chiusa. Una esperienza poetica più che quarantennale la si può considerare con qualche attendibilità di giudizio soltanto quando si conclude anche la civiltà che la ha prodotta.  Se si dovesse leggere un libro di poesia avendo in mente i contenuti o i riflessi su di esso della società italiana si sbaglierebbe e si renderebbe un pessimo servizio alla poesia, quella della Bettarini è una poesia che ha nella ossatura nervosa e nella instabilità metrica la sua base permanente, la sua struttura permanente, stavo quasi per dire il suo centro di gravità. La poesia della Bettarini, a considerarla nel suo complesso e nel suo sviluppo tumultuoso, è simile ad una stratificazione tettonica di vari stili emulsionati e messi come in frigorifero, ripescati e riattualizzati ma senza alcuna intenzione di volerli rimembrare e indicare in quanto citazioni, in quanto spezzoni di scritture di cartelloni pubblicitari, fraseologie di un io depotenziato e in via di affievolimento. Poesia non oscura, si direbbe questa della Bettarini. Quel «parlato» che ha dominato la poesia italiana dagli anni settanta fino ai giorni nostri, la poetessa fiorentina lo mette in relazione con le immagini, con i lapsus, con gli shifter del discorso.

Il parlato parla attraverso le immagini, ma anche qui, di quale immagini si tratta? Se è vero che La Dolce Vita di Fellini, come scrive Milosz, «sembra tratta dal Canto d’amore di J. Alfred Prufrock (In the room the women come and go/ Talking of Michelangelo) e poco importa che autore o regista abbiano preso in prestito il tema direttamente o indirettamente. In tal modo, anche le persone più digiune di poesia finiscono per riceverla, in forma facilitata, dal teatro o dal cinema».1] Quel «parlato» (che è stato pur sempre una grande conquista della poesia italiana), dicevo, si è andato configurando in Italia come il parlato dell’io, mentre i coevi film di Antonioni andavano verso il silenzio e il non-dialogo, in poesia l’impiego del parlato veniva spesso equivocato a dismisura in un discorso pronominale della prima persona singolare, configurandosi come discorso asseverativo incentrato sull’io. La poesia della Bettarini si impegnerà in tutti gli anni settanta, ottanta e novanta nella messa a punto di un suo personalissimo parlato, e lo ha saputo fare con indubbia acribia tenendo sempre in mente l’idea di una poesia che si ponesse anche come comunicazione (salvo imprevisti) di messaggi non altrimenti comunicabili, senza mai lasciarsi corteggiare dai fautori del pessimismo e del disfattismo circa una presunta afasia del discorso poetico, senza mai retrocedere ad una poesia orficheggiante. Ad un tempo razionalista e progressista la poesia della Bettarini può essere letta come il tracciato di una linea di resistenza al debordare della poesia italiana in zone di  misticismo e di oscurantismo non del tutto attendibili.

1] Pensieri su T.S. Eliot di Czeslaw Milosz, La terra desolata, Feltrinelli, 1995 p. 11

12 commenti

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12 risposte a “Mariella Bettarini, Antologia di poesie – dal diario di Romilda (1968),  da  Delle nuvole (1991), con una selezione di giudizi critici

  1. Sempre incantata dalla poesia di Mariella, e da Mariella stessa,una bandiera che sventola nel grande cielo della libertà.Poteva andare dove voleva,ma è rimasta a Firenze,come “il monaco allevante ortaglie/ e anemoni che però di spontanea gamba crescono”.Nessuno è più tosto dei Fiorentini e degli Abruzzesi; eppure, qualcuno deve pure fronteggiarli. Qualcuno deve restare.

    • Carissimo Giorgio, carissima Anna, amiche e amici carissime/carissimi, non ho davvero parole per ringraziarvi di questa straordinaria vostra attenzione al mio lavoro. Negli ultimi anni ho scritto molto meno (parlo dei versi), e quindi mi sono quasi “scordata” di tutto questo mio “avere scritto”… La vostra attenzione per me è davvero meravigliosa. Grazie, grazie!

  2. gino rago

    Considero “Balestrucci” l’acme poetico della Bettarini ma tutto il lavoro di poesia precedente, dal Romilda del 1968, in fondo è a quel poemetto come preparatorio, pur nella autonomia di ciascuna raccolta. Una cifra mi preme di rimarcare: l’intuizione da parte della fondatrice de L’area di Broca di dover lavorare sulla forma-poesia e sulla prosodia dei versi, più che su altri versanti – temi, lessico, ecc. – come possibilità reale di rinnovamento poetico. Nella produzione degli esordi a volte la Bettarini ci fa ricordare delle poesie politiche di Ferlinghetti.
    GR

  3. da Terra di tutti e altre poesie (1969-1970)

    Il pesce

    Non mi piegai, caddi di schianto
    e mi trasportava l’autobus col quale
    di solito torno a casa, aggredita
    dagli acidi e dal deserto nel quale non c’è nulla
    per misurarsi tranne l’altezza spropositata
    dei fiori gialli e il naso
    della luna. “Hai messo un po’ d’ordine
    anche dentro di me”. Ma il mio filo dorsale
    punge, è la lisca di un pesce: la mia misura
    è stare sulla battigia,
    pesce espulso e pietrificato
    tra un deserto e una massa d’acqua
    che chiamano da parti opposte.

    Sto leggendo l’antologia A parole – in immagini (1963-2007), Gazebo, 2008, un volume di 850 pagine che raccoglie tutta la sua produzione compresi alcuni stralci di giudizi critici. Penso che per dare un giudizio ponderato su un poeta si debba avere sotto mano l’opera completa, poterla leggere in diagonale e in lungo e in largo, in modo sistematico e asimmetrico, valutando le interconnessioni e le conflittualità con le esperienze poetiche coeve e con il quadro storico e sociale di riferimento. Quello che ne esce ad una prima lettura è l’attraversamento da parte della Bettarini del deserto di ghiaccio della seconda metà del novecento, il secolo sperimentale, fino agli ultimi componimenti del 2007 quando quella stagione si era definitivamente chiusa. Una esperienza poetica più che quarantennale la si può considerare con qualche attendibilità di giudizio soltanto quando si conclude anche la civiltà che la ha prodotta.  Se si dovesse leggere un libro di poesia avendo in mente i contenuti o i riflessi su di esso della società italiana si sbaglierebbe e si renderebbe un pessimo servizio alla poesia, quella della Bettarini è una poesia che ha nella ossatura nervosa e nella instabilità metrica la sua base permanente, la sua struttura permanente, stavo quasi per dire il suo centro di gravità. La poesia della Bettarini, a considerarla nel suo complesso e nel suo sviluppo tumultuoso, è simile ad una stratificazione tettonica di vari stili emulsionati e messi come in frigorifero, ripescati e riattualizzati ma senza alcuna intenzione di volerli rimembrare e indicare in quanto citazioni, in quanto spezzoni di scritture di cartelloni pubblicitari, fraseologie di un io depotenziato e in via di affievolimento. Poesia non oscura, si direbbe questa della Bettarini. Quel «parlato» che ha dominato la poesia italiana dagli anni settanta fino ai giorni nostri, la poetessa fiorentina lo mette in relazione con le immagini, con i lapsus, con gli shifter del discorso. Il parlato parla attraverso le immagini, ma anche qui, di quale immagini si tratta? Se è vero che La Dolce Vita di Fellini, come scrive Milosz, «sembra tratta dal Canto d’amore di J. Alfred Prufrock (In the room the women come and go/ Talking of Michelangelo) e poco importa che autore o regista abbiano preso in prestito il tema direttamente o indirettamente. In tal modo, anche le persone più digiune di poesia finiscono per riceverla, in forma facilitata, dal teatro o dal cinema».1] Quel «parlato» (che è stato pur sempre una grande conquista della poesia italiana), dicevo, si è andato configurando in Italia come il parlato dell’io, mentre i coevi film di Antonioni andavano verso il silenzio e il non-dialogo, in poesia l’impiego del parlato veniva spesso equivocato a dismisura in un discorso pronominale della prima persona singolare, configurandosi come discorso asseverativo incentrato sull’io. La poesia della Bettarini si impegnerà in tutti gli anni settanta, ottanta e novanta nella messa a punto di un suo personalissimo parlato, e lo ha saputo fare con indubbia acribia tenendo sempre in mente l’idea di una poesia che si ponesse anche come comunicazione (salvo imprevisti) di messaggi non altrimenti comunicabili, senza mai lasciarsi corteggiare dai fautori del pessimismo e del disfattismo circa una presunta afasia del discorso poetico, senza mai retrocedere ad una poesia orficheggiante. Ad un tempo razionalista e progressista la poesia della Bettarini può essere letta come il tracciato di una linea di resistenza al debordare della poesia italiana in zone di  misticismo e di oscurantismo non del tutto attendibili.1] Pensieri su T.S. Eliot di Czeslaw Milosz, La terra desolata, Feltrinelli, 1995 p. 11

  4. Che cosa rispondere? Come commentare? Ci vorrebbero pagine e pagine, Leggo tutto questo come un “recupero” del mio lavoro in versi: recupero che mi aiuta moltissimo anche nella solitudine nella quale sono caduta dopo la morte – due anni fa – dell’amata, straordinaria Gabriella Maleti, poeta, narratrice, fotografa, videomaker, di una umiltà e di una grandezza davvero esemplari.
    Grazie anche per tutto questo, prezioso amico Giorgio!

  5. gino rago

    Elias Canetti e Auto da fé come lontano tentativo di frammentismo in Lettertura

    […] Permaloso come era, ma consapevole della verità della sua scrittura, Elias Canetti non ebbe difficoltà a rompere i rapporti con Thomas Mann, per non avere dedicato al manoscritto di Auto da fè nemmeno uno sguardo, [salvo poi dedicare a questo capolavoro canettiano un memorabile saggio indicandolo come il libro più importante di quell’anno]; con Hermann Hesse,
    per la recensione considerata ‘troppo tiepida’ del suo unico romanzo; e anche con Claudio Magris per avere definito Auto da fè l’unica vera opera di Canetti degna di un Nobel per la Letteratura…

    Ma Canetti, anche perché forse era un grande chimico e come tale formato ai processi di analisi e di sintesi delle sostanze, fu il primo a riconoscere, e a riprodurre nella sua scrittura, una scrittura quasi inventata a hoc, quello stato di “frammentazione” dato da un mondo che già ai tuoi tempi non esisteva più. E che dunque non poteva più essere adeguatamente rappresentato. Così, su suggerimento di Hermann Broch, suo amico ai tempi del soggiorno a Berlino, Canetti impose al protagonista di Auto da fè il nome di Kien che significa “legno resinoso” e dunque adatto al fuoco, all’incendio della biblioteca, all’estremo sacrificio del rogo finale…
    Così finisce Peter Kien-l’uomo-dei libri nel suo auto da fé.
    Ma ciò che desidero segnalare è la presa di coscienza da parte di Elias Canetti della ‘frammentazione’ del suo mondo, frammentazione di cui tutti gli altri non eran consapevoli. E per un mondo ‘frammentato’ bisognava dotarsi di una scrittura a esso adeguata, come qui di seguito lo stesso Canetti chiosa:

    “Un giorno mi venne in mente che il mondo non si può più raffigurare come nei romanzi di un tempo, per così dire dal punto di vista di un unico scrittore, il mondo era andato in pezzi, e solo se si aveva il coraggio di mostrarlo nella sua frammentazione era ancora possibile dare ad esso un’immagine veritiera […] bisognava escogitare con grandissimo rigore dei personaggi estremi, come quelli di cui in effetti il mondo era fatto, e questi individui bisognava rappresentarli in tutti i loro eccessi, uno accanto all’altro e ognuno separato dall’altro[…]”

    Dunque, “uno accanto all’altro e ognuno separato dall’altro”, dice Canetti,

    Sicché, ogni individuo-personaggio raffigura l’esito di una sorta di parcellizzazione della realtà, realtà che di per sé non esiste più. Allora alla fine che rimane?
    Ciò che rimane sono solamente frammenti, soltanto brandelli, quasi esclusivamente scarti che tentano di imporre la propria “parzialità” come assoluta, come addirittura totalizzante.

    I tentativi di scrittura poetica per frammenti, per scampoli, per stracci e scarti
    da parte di alcuni di noi della Nuova Ontologia Estetica dunque non sono peregrini né inadeguati se già ai tempi di Elias Canetti e di Auto da fé rivendicavano un pieno diritto di accoglienza e di cittadinanza in Letteratura.

    Desiderando di integrare l’ottima ricognizione che Giorgio Linguaglossa fa nel suo precedente commento sulla corposa Antologia poetica di Mariella Bettarini, se insieme ci soffermiamo sulla produzione poetica diciamo ‘giovanile’ della Bettarini di cui sono esemplari i versi che riporto sarei tentato di dire che già nel 1968 in questo poeta di Firenze si registravano i segni di un ‘frammentismo poetico’ modernissimo e ad alta sensibilità linguistica;
    ma poi Mariella Bettarini ha intrapreso e percorso altre strade…

    [la poesia frammentata, la poetica della frammentazione nei primi versi di Mariella Bettarini, versi “uno accanto all’altro e ognuno separato dall’altro”,secondo Elias Canetti]

    al diario di Romilda (1968)

    “Sono le cose che fanno compagnia, caldo. Le cose che mi guardano e stanno intorno al mio freddo, alla mia acqua sconsolata.

    Datemi solitudine ma non lasciatemi sola.

    Accetto la versione che gli altri danno di me o prendo la mia?

    C’è chi sta tranquillo ad osservare il futuro. Il mio futuro è una pietra piccola, un asparago nel piatto, una settimana nemmeno luce[…]”

    Gino Rago

    • Un intervento, questo, davvero straordinario. Mi ci riconosco davvero, e la ringrazio vivamente, anche perché – passati tanti anni da questi miei testi – ho avuto così l’ “occasione” di ritrovarmi… Grazie!
      Un saluto caro

      • gino rago

        Gentile Mariella Bettarini,
        va da sé che il ‘frammentismo poetico’ che coglievo nei versi del Suo esordio poetico [intorno al 1968] non ha nulla a che vedere con quello vociano, il frammentismo storico, degli anni ’10 e dintorni del Novecento italiano, agglutinato intorno a ‘La Voce’ di Prezzolini…
        Del resto mi pare che Lei lo abbia ben colto; e poi tutto il mio commento ruota intorno a Elias Canetti di “Auto da fé”…
        La ringrazio, Mariella, del Suo apprezzamento.
        Gino Rago

  6. Rossana Levati

    “Il mio regno di carta e vento”: questa frase di Mariella Bettarini ha catturato oggi la mia attenzione, ho subito pensato che in un regno di carta (concreta, tangibile) e di vento (aereo, intangibile), le leggi che lo governano possono essere quelle della libertà e della leggerezza che possono dare peso alle parole, fissandole sulla carta, ma anche sollevarle in direzioni inaspettate e imprevedibili; mentre leggevo le poesie della Bettarini proposte su l’Ombra sono stata particolarmente colpita non tanto dalle diverse fasi accuratamente presentate della sua produzione, quanto dalla componente tecnica, retorica delle parole, concatenate spesso in modo giocoso, per via di associazioni di suoni, per propagazioni di sillabe, all’inseguimento di contaminazioni tra un significante e l’altro ma svincolate da una logica stringente dei significati.
    La paronomasia (che è alla base della “obbedienza-disobbedienza”) mi è sembrata la principale ossatura intorno a cui sono stati articolati e costruiti i versi, a mio avviso con lo spirito di un bambino che gioca con la sabbia e da’ vita a fantastiche architetture che nella realtà non si sono mai viste né potrebbero stare in piedi, ma nell’universo del gioco assumono un senso, non tanto nella sfida ma nell’attingere, con la provocazione dell’impossibile e impensabile, una più profonda verità.
    In fondo è come “rovistare cassetti di tempi lenti – tempi morti” da cui può uscire ogni dono segreto e riposto, sparso in disordine ma ricollegato dal poeta che unisce frammenti con la stessa accuratezza con cui si possono “infilare coralli-pietre”.
    “La parola” è quindi, oltre che il titolo di una composizione poetica, il centro dell’arte della Bettarini, quasi una sfida al lettore, ma giocosa e funambolesca, al punto da farsi sempre immagine viva, con un dettaglio che la distingue dalla pura definizione: la “favella” si propaga in una catena dove passando per la “fragola” e la “fola” diventa “folaga”, ma “claudicante” (questa è la sua particolarità – la folaga claudicante – che la distingue nel mondo delle parole).
    E poi un altro gioco: la parola è “disimparato sparo- sparente scoppio”, uno sparo che spara e al tempo stesso sparisce, forse lasciando la sua polvere sulle nostre dita; e che dire del “bearsi (bennati nel mondo) – darsi al mondo mai nato/ al bendato stendardo delle murene”, con la nuova catena “bearsi-bennati-bendato”?
    E in “Cirrostrati” i cirri sospingono la Bettarini a questa straordinaria nuova associazione: “le èstasi le stasi e le estatiche estati/ sono le vostre monadi sorelle”, forse perché la loro stasi è apparente, perché seguire i cirri porta a sognare un’èstasi, un sogno ad occhi aperti, e perchè i cirri, con i loro netti contorni, si distinguono nei cieli estivi.
    E poi ancora quel treno che “ventila eventi”, la “vicenda” che “sibillina” “sibilava”, la Voce che vuole “revocare” tra un “pre-vocale” e un “post-vocale”: siamo nel terreno delle libere associazioni, sostenute da un grande controllo della frase e della parola ma svincolate da un messaggio logico o articolato razionalmente, come se la Parola fosse in qualche modo liberata da una gabbia costrittiva e resa duttile, pronta a lanciarsi in nuovi viaggi.
    Per me è stato un esempio di poesia nuova, inattesa, apprezzabilissima.

  7. Grazie di cuore per questo straordinario commento. Grazie per la vivissima “attenzione”.

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