
Che cos’è la poesia secondo Montale?
1 – Premessa
Eugenio Montale non ha lasciato nessuna trattazione organica sulla poesia e sul fare poetico. Ha lasciato invece un considerevole numero di articoli pubblicati nel tempo su giornali e riviste, parte dei quali – i più importanti – sono stati raccolti da Giorgio Zampa in un volume che può ritenersi la summa del pensiero poetologico del più grande poeta italiano del Novecento. (Eugenio Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976).
Su questo testo abbiamo condotto la nostra indagine estrapolandone i passi utili alla trattazione dell’argomento che affrontiamo in questo nostro lavoro. Sono i passi nei quali più direttamente Montale affronta il tema della poesia e del poiein, e cioè quello del rapporto tra il poeta e il tempo storico, quello della poesia e della sua genesi e del suo farsi, quello del linguaggio. Relativamente ad ognuno di questi argomenti abbiamo selezionato, raggruppato e analizzato i vari passi.
2 – Che cos’è la poesia?
Che cos’è la poesia secondo Montale?
L’11 aprile 1954 il poeta, in una lettera – a quanto pare ancora inedita – inviata a Vittorio Masselli, che si accingeva a curare l’Antologia popolare di poeti del Novecento assieme a Gian Antonio Cibotto pubblicata l’anno seguente da Vallecchi, formulò un concetto di poesia con il quale mirava a coglierne l’essenza stessa. Ma, ahimè!, come spesso capita alle formulazioni più note e famose, il concetto non è stato compreso da tutti nel suo vero significato, tanto che ancora oggi risulta spesso travisato, distorto, maltrattato. E difatti, nella più gran parte delle citazioni, si fa passare Montale per il teorico di una poesia volutamente e programmaticamente oscura, incomunicabile, la cui funzione fondamentale sarebbe proprio quella di non essere capita.
Ebbene, a parte il fatto che una tale dichiarazione di principio risulterebbe inspiegabile e assurda, tuttavia spesso ci si è presa la libertà di banalizzare e travisare un principio poietico di grande momento. Affermava, dunque, Montale nella succitata lettera:
Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire. Il problema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano. Ciò non accade solo ai poeti reputati oscuri. Io credo che Leopardi riderebbe a crepapelle se potesse leggere ciò che di lui scrivono i commentatori.
Certo, se ci si ferma alla prima proposizione – e purtroppo molti lo hanno fatto, precludendosi la possibilità di comprendere veramente il senso delle dichiarazioni del poeta –, si potrebbe avere l’impressione che Montale veda la poesia come un’attività che si consuma nella chiusa bottega alla lucerna, e il poeta vien visto come incurante degli altri ai quali non si degnerebbe di comunicare le verità o i pensieri elaborati. Ma ad una lettura più attenta si coglie già in questa espressione un principio più profondo e serio: non è quello di “farsi capire” il problema che deve affrontare il poeta nel suo lavoro creativo, nel senso che, se questo fosse il suo scopo fondamentale farebbe ricorso ad altre forme comunicative. Il problema non riguarda la “comunicazione”, ma l’essenza stessa del fare poetico e le modalità del suo realizzarsi, come risulta dal prosieguo del discorso di Montale che non si può ignorare se si vuol penetrare a fondo e compiutamente il suo pensiero. E infatti il poeta aggiunge subito che il “problema” vero del fare poetico è di “far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano”. Che cosa significa questa seconda, importantissima, proposizione? Significa che il problema della comunicazione è ben presente al poeta, ma che viene spostato su altri aspetti ed è incentrato non sull’intenzione di comunicare le cose con i versi, ma sulla finalità del poeta di “far capire” ciò che le parole “da sole” non avranno mai il potere e la forza di trasmettere. Un esempio concreto può servire a far comprendere ancor meglio il senso delle affermazioni di Montale. Vogliamo riferirci, visto che il Montale subito dopo cita scherzosamente Leopardi, proprio al poeta di Recanati. Ebbene, se Leopardi avesse voluto esplicitare e “far capire” agli altri il suo concetto di “infinito”, non avrebbe avuto bisogno di scrivere il famosissimo idillio in quanto egli aveva formulato tale concetto in diversi luoghi dello Zibaldone, e quasi con le stesse parole usate nel componimento poetico. Ma Leopardi – come del resto tenta di fare ogni vero poeta – voleva proprio “far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano”; e quel quid egli raggiunge con la forma poetica, e quindi con l’elaboratissima struttura generale del testo, con il ritmo dell’endecasillabo, con l’armonia della versificazione, con la selezione e combinazione originali dei segni, con la struttura retorica che egli realizza, con la stessa creazione di un’atmosfera fatta di sospensione e di attesa, con la configurazione di uno spazio-tempo immaginoso e pur reale che egli riesce a creare. Sicché alla fine il poeta, con i suoi versi, dice altro rispetto al concetto di “infinito” filosoficamente espresso nello Zibaldone.
A questo serve la poesia. E perciò tutti i poeti tendono a dire l’oltranza delle parole, non ad essere oscuri. Ed allora è vero che se il “problema” della poesia fosse soltanto quello di “farsi capire”, cioè di comunicare concetti, nessuno scriverebbe versi per il semplice motivo che non sarebbe necessario né indispensabile far ricorso alla poesia: basterebbe esprimersi oralmente a parole, oppure con un articolo di giornale, con un saggio specialistico o con un’altra delle tante possibilità comunicative. La poesia è altro e serve ad altro. Ed anche se si fa con le parole essa vuole giungere a ciò che è inesprimibile con le parole. Al quid di cui si è parlato.
Con questo si risponde alla domanda sull’essenza vera della poesia. Ma ci sono altri interrogativi relativi al problema di che cosa essa sia. E infatti nell’Intervista immaginaria del 1946 (1) il poeta le riconosce innanzitutto una grande importanza per chi l’esercita: essa “è una delle tante possibili positività della vita”, un valore, un mezzo per realizzare sogni e illusioni o, più semplicemente, per dare comunque un senso alla propria esistenza. Tanto che Montale confessa di avere approfondito il rapporto vita-poesia e di essersi anche impadronito di “un’infarinatura di psicanalisi” per comprendere meglio l’essenza del problema.
Pervenne così ad una conclusione, “che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato”.
Si potrebbe, quindi, pensare al poeta come ad un uomo che non può o non sa vivere, un “separato”, uno che cerca di realizzare nell’arte, e quindi nella poesia, ciò che non riesce a realizzare nella vita. E qui l’influenza di Freud è palese e innegabile. Ma Montale, a scanso di equivoci, si preoccupa subito di aggiungere che “ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunciare alla vita. È la vita che si incarica di sfuggirgli” (2).
Come a dire che il poeta non abbandona mai il tentativo di vivere, né quello di vivere con/tra gli altri uomini i problemi di tutti, neanche quando egli si accorge che è la vita che continuamente si incarica di tradirlo non consentendogli di realizzare ciò che egli vorrebbe.
Nella stessa Intervista, però, Montale riconosce che la poesia stava diventando “più un mezzo di conoscenza che di rappresentazione” (3). Ma di quale conoscenza si tratta? Si tratta della
ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale. Una verità del poeta-soggetto che non rinneghi quella dell’uomo-soggetto empirico. Che canti ciò che unisce l’uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile (4).
E perciò egli sembra proiettato verso l’affermazione di un concetto di poesia che coniughi le esigenze e i problemi del poeta-soggetto con quelli degli altri. Sono esigenze e problemi reali, colti nella loro vera consistenza. E difatti Montale dichiara apertis verbis di non pensare “a una poesia filosofica” perché, come afferma in un suo Dialogo, “la poesia filosofica esprime idee che sarebbero valide anche se espresse in altra forma. In certi casi (Lucrezio) questa poesia è vera poesia. Ma lo stesso non può dirsi di tanti filosofanti in versi (5).
3 – La genesi della poesia
Prima di affrontare lo specifico argomento della genesi della poesia, è necessario chiarire preliminarmente taluni aspetti del problema.
Innanzitutto Montale, come afferma in un suo articolo (6), non crede alla figura del poeta-vate, già caduta, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, in una crisi inevitabile e meritata: i poeti “hanno da tempo rinunziato al loro «ruolo» di annunziatori e di profeti, almeno nel vecchio senso della frase, e credo sia un bene. Pensate al Pascoli «poeta civile» e ne sarete persuasi. E difatti erano cambiati i tempi, e quindi era inevitabile che cambiassero gli atteggiamenti dei poeti di fronte al reale e, di conseguenza, le modalità stesse del fare poetico:
ho seguito la via che i miei tempi m’imponevano, domani altri seguiranno vie diverse; io stesso posso mutare. Ho scritto sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale. Non posseggo l’autosufficienza intellettualistica che qualcuno potrebbe attribuirmi né mi sento investito di una missione importante.
Così si esprimerà nell’Intervista immaginaria (7). E in un’altra intervista (8), del 1962, sosterrà che, ovviamente “se mutasse il mondo muterebbe anche la poesia”, senza però mai riconoscere ad essa il potere di cambiare il mondo: “la poesia – per quel tanto che ne sopravvive – non può mutare il mondo. Neppure gli uomini d’azione oggi possono mutarlo”. D’altra parte Montale si rendeva conto della scarsa o nessuna considerazione in cui venivano tenuti i poeti. Lo afferma apertamente con certi drammatici interrogativi retorici:
E che dire della situazione del poeta nella società attuale? In genere non è una situazione allegra: c’è chi muore di fame, c’è chi vive alla meno peggio con altri mestieri, c’è chi va in esilio e c’è chi sparisce senza lasciar tracce. Dove sono andati Babel’ e Mandel’štam? Dove, se non verso il suicidio, Blok e Majakoskij? E dove, se non al manicomio, Dino Campana? (Mi limito ai moderni: l’elenco potrebbe essere assai più lungo).
Ma questi sono casi, in ogni modo, gloriosi: sono l’onore della poesia moderna. Molti altri casi rendono comprensibile il discredito in cui è caduto il moderno animale poetico (9), riconoscendo, però, che “non è solo colpa della società: è in gran parte colpa dei poeti”, ma senza specificare in che cosa consistano specificamente i loro errori e i loro torti.
Ma veniamo al problema più importante ai fini di questo nostro lavoro, e cioè quello della genesi vera e propria della poesia.
Donde nasce la poesia?
Attraverso quali meccanismi si mette in moto il processo creativo? Montale afferma: “io non vado alla ricerca della poesia, attendo di esserne visitato (10), ammettendo implicitamente che per lui è fondamentale una spinta iniziale al lavoro poetico. Lo conferma anche il fatto che egli “scrive poco, con pochi ritocchi”, quando proprio gli “pare di non poterne fare a meno”. Il prodotto poetico montaliano nasce quasi bell’e pronto, forse proprio perché il poeta ha l’abitudine di scrivere quando – e penso che il termine si possa usare ancora, anche se con la dovuta accortezza e le dovute precisazioni – l’ispirazione lo spinge a dire. E difatti, parlando proprio del momento iniziale, egli altrove (11) sostiene che
la poesia è un mostro: è musica fatta con parole e persino con idee: nasce come nasce, da un’intonazione iniziale che non si può prevedere prima che nasca il primo verso. Molto all’ingrosso: la poesia è meno prevedibile della prosa; il prosatore può forse immaginare in partenza «che cosa sarà» la sua prosa, il poeta lo può molto meno.
Sembra così sottrarre il lavoro creativo ad ogni tipo di programmazione. È il primo verso che condiziona la genesi complessiva di un testo, quello che dà il ritmo espressivo e musicale all’intero componimento. Ma esso, a sua volta, è determinato da una preistoria logico-emozionale-linguistica che, seppure sottintesa, è facilmente ipotizzabile. Del resto già Valéry aveva affermato che il primo verso lo manda Dio, ma il resto del lavoro dev’essere tutto del poeta.
Qualche anno dopo – siamo al 1962 – Montale scendeva ancor di più alle radici del problema quando ammetteva che
ogni grande poesia nasce da una crisi individuale di cui il poeta può anche non essere consapevole. Ma più che di crisi (parola ormai sospetta) parlerei di una insoddisfazione, di un vuoto interno che l’espressione raggiunta, provvisoriamente, colma. Questo è però il terreno da cui nasce ogni grande opera d’arte (12).
Il discorso, come appare evidente, sembra tornare al concetto freudiano di poesia di cui si è parlato in precedenza.
4 – Il fare poetico
Entriamo ora nel cuore del problema e affrontiamo l’aspetto più importante delle teorie montaliane, quelle propriamente poetologiche, cioè le modalità del fare poetico, precisando subito che, in realtà, sulle problematiche poietiche Montale non intende dispensare consigli o suggerimenti o precetti ai poeti o agli aspiranti tali, ma si limita a presentare sue riflessioni per lo più riguardanti il suo stesso lavoro creativo.
Il fare poetico come impegno serio
Cominciamo col dire che egli, pur non prestando fede al “verso facile e prestabilito” (e come potrebbe?), tuttavia crede “in alcuni alti potenziali del sentimento e della fantasia (13) che comunque rappresentano due delle vie più normali e suggestive al fare poetico. Si vuol dire che Montale ritiene senz’altro importante che alla base della poiesis vi sia una componente emozionale e che il poeta produca anche abbandonandosi ai flussi fantasmatici che sempre accompagnano la nostra vita.
Anzi, in un articolo del 1945 (14), arriverà anche a riconoscere, parlando di Gide, che ha ragione lo scrittore francese “quando dice che senza incantesimo (charme) potrebbero esistere dei versi, non della poesia”. Quindi Montale riconosce i diritti di sentimento e fantasia e riconosce altresì che la poesia deve presentare un suo fascino particolare. Ma ci tiene a chiarire subito che non si può lasciarsi trasportare dalle onde dell’emozione e dalle sirene dell’incantesimo fascinoso e affascinante. La ragione, in poesia, accampa i suoi diritti che non possono essere misconosciuti. Sicché, a proposito dello charme predicato da Gide, egli afferma che “l’equilibrio tra ragione e charme… sta alla base di ogni poesia”. E difatti non si deve dimenticare mai che “l’accordo, o se volete, il compromesso tra suono e significato non consente soluzioni parziali a favore dell’uno o dell’altro dei due termini”.
Certo, la poesia gioca tutta se stessa sull’ “accordo”, o compromesso, tra significante e significato. Ed è questo accordo che costituisce la cifra di originalità di un fare poetico. Disconoscere – o misconoscere – i diritti e le prerogative dell’uno o dell’altro, porta dritto ad un prodotto che non ha ragione di essere nel campo della poesia. Che importanza può avere un prodotto che si pretende sia artistico se si dà importanza soltanto al significante, giocando su una sorta di capriccioso non-sense prescindendo dal significato che le parole dovrebbero veicolare? E quale importanza, quale consistenza potrebbe mai pretendere di avere un prodotto che vuole essere poetico se il significato che si vuole che esso abbia venga elaborato senza tener conto dei diritti della parola che lo dice? Sembra che Montale voglia sottrarre il fare poetico ad ogni rischio di faciloneria, di semplicismo, di dilettantismo richiamando l’attenzione sull’essenza della parola poetica che risiede nell’unione – stretta, imprescindibile, armonica – tra significante e significato, unione testimoniata proprio dalla sua produzione poetica.
E perciò Montale, più che parlare di charme, di incantesimo, ritiene “ben più sicura la definizione che della poesia dette Tommaso Ceva: un sogno fatto alla presenza della ragione” e che
l’aver dimenticato tale verità ha progressivamente isterilito la poesia francese post-baudelairiana; ci ha dato esemplari meravigliosi di una poesia che è spesso un’altra cosa e che sfugge ad ogni valutazione critica perché ha tagliato tutti i ponti con l’intelletto.
Un altro rischio – abbastanza pericoloso anch’esso – si corre se si “interpreta parzialmente” la teoria pascoliana del “fanciullino”. Ebbene, fa notare Montale: “che in ogni poesia esista un fanciullino è certo; ma accanto al fanciullo dev’esserci l’uomo”. Ancora una volta Montale vuol mettere in guardia da eccessivi semplicismi e da possibili interpretazioni superficiali: la sensibilità è necessaria al fare poetico, ma essa deve essere rigorosamente tenuta nelle briglie dalla vigile razionalità che le impedisca di abbandonarsi alle sue spericolate avventure. E difatti,
quando la simbiosi o la fusione avviene tra un bimbo molto piccolo e un uomo molto grande siamo di fronte al miracolo dei poeti supremi. Dante, Shakespeare, o se volete Keats, Puškin. Altrimenti si ha il solo fanciullo (Verlaine, Pascoli) o il solo uomo (qui i nomi sarebbero troppi, e del resto non conviene materializzare quella che è una semplice immagine).
Noi, in verità, non avremmo neanche “materializzato” il “fanciullo”, perché riteniamo che Verlaine e Pascoli non siano solo “fanciulli” che abbiano dimenticato che cosa sia il rigoroso controllo della sorveglianza della ragione.
Comunque, come si vede, Montale richiede ai poeti una grande serietà. E qui il discorso diventa oltremodo delicato. L’argomento viene affrontato in uno scritto del 1949 (15) nel quale i poeti e gli aspiranti tali, innanzitutto, vengono invitati a considerare il lavoro poietico in tutta la sua complessa problematicità e nelle immancabili difficoltà che esso presenta:
Molti lettori di questi libri (dei libri di poesia) si crederanno poeti e si illuderanno che la poesia sia veramente una scoperta dei nostri tempi; prenderanno sul serio l’ormai annosa scoperta dell’illuminazione lirica e saranno convinti che quattro parole isolate nel vuoto pneumatico – purché siano assistite da non si sa quale ineffabile sensibilità – siano davvero l’alfa e l’omega di ogni possibile poesia.
Sembra di capire, leggendo in profondità queste parole, che Montale voglia richiamare il poeta (o l’aspirante tale) sul rischio di cadere nell’insulsaggine se si pretende di far poesia in modo semplicistico. Anzi il suo richiamo ad evitare di credere di far poesia sistemando “quattro parole isolate nel vuoto pneumatico” sembra un esplicito riferimento alle modalità del fare poetico ungarettiano. Soprattutto quell’isolate può spingere a tale ipotesi che, se è fondata, dimostra che Montale è preoccupato del fatto che ognuno possa ritenersi poeta imitando in modo semplicistico e superficiale quella tipologia compositiva senza neanche averne compreso il senso, la portata, la finalità. Non che Montale non apprezzi la poesia di Ungaretti, del quale anzi afferma che “ha davvero portato una nuova libertà nella lirica d’oggi” e che la poesia italiana, dopo di lui, “ha mutato strada” (16). Ma è un fatto che molti non hanno ben interpretato quella strada e l’hanno percorsa senza neanche rendersi conto del loro stesso cammino.
Difatti Montale, nello scritto di cui in precedenza stavamo parlando (17), afferma che la conseguenza di un atteggiamento improntato all’imitazione servile e passiva di un modello è aperta a rischi gravissimi:
Si formerà, si sta già formando, anche in questo campo una specializzazione tanto più assurda quanto più gratuita. Certo, mentre si diffonde in Italia e all’estero il gusto della lirica, non ci (si) sottrae facilmente all’impressione che in questo campo i veri competenti siano pochi, e i migliori di essi siano tali senza saperlo e senza volerlo.
Ecco. È questo un ulteriore esplicito richiamo alla serietà del lavoro poetico che richiede un impegno profondo, accurato, duraturo:
Non ci sono scorciatoie, né per la produzione né per l’appercezione dell’arte; non possono esistere né manuali né cattedre né corsi accelerati che permettano di apprendere ciò che si può imparare solo con la fatica di anni e col sussidio di una sicura vocazione…
… il nostro tempo cerca un’arte che faccia a meno del processo formativo dell’arte stessa; cerca il frutto ignorando l’albero.
Più chiaro di così Montale non poteva essere. Se si cerca soltanto il frutto, ignorando l’albero, se si vuole avere la pretesa di inventarsi poeti senza “la fatica di anni” e senza “una sicura vocazione”, non si può mai essere in grado di produrre arte vera. In che cosa consista tale faticosa ricerca, e come la si realizzi, Montale lo spiega con la solita chiarezza:
non nego che un poeta possa o debba esercitarsi nel suo mestiere, in quanto tale. Ma i migliori esercizi sono quelli interni, fatti di meditazione e di lettura. Letture d’ogni genere, non letture di poesie: non occorre che il poeta passi il tempo a legger versi altrui, ma neppure si concepirebbe una sua ignoranza di quanto s’è fatto dal punto di vista tecnico, nell’arte sua (18).
Metodo compositivo
Anche per quanto riguarda questo aspetto della creazione poetica, Montale parla di sé. Lo fa nell’intervista, già qui richiamata, del 1962, precisamente in due passi importanti per la conoscenza della sua tecnica poietica, e in altri passi che esamineremo subito dopo.
Nel primo passo dell’intervista egli afferma:
Io scrivevo su foglietti di carta che mettevo nel taschino del gilè. A volte li ritrovavo, altre volte la cameriera li gettava via, come spazzatura. Questo, anche perché non ho mai avuto fogli di carta. Anche oggi, quando devo scrivere una lettera, prendo quella carta che dà il giornale ed è la peggiore carta italiana, la più economica, falsamente patinata. Poi non si può cancellare nemmeno con la gomma, perché fa delle macchie orribili. Allora divido in due parti il foglio e scrivo lì, sempre scusandomi per la carta. Una volta il direttore di Brera, il professor Molaioli, impietosito al mio caso, mi mandò un pacco di carta bellissima. Ma quella è troppo bella. Dev’essere ancora lì. Bisognerebbe scrivervi sopra degli autografi immortali. Allora, dunque, scrivevo su questi foglietti di carta, a volte perfino su biglietti del tram. Ma appunti no. Nascevano già delle parti intere (19).
È chiaro che questo passo non interessa per la confessione del poeta circa la penuria di carta che pure doveva essere, nei tempi penosi e desolanti cui Montale si riferisce, un problema di non facile soluzione, quanto per le affermazioni relative alla genesi dei suoi componimenti. Egli scriveva su “foglietti di carta, a volte perfino su biglietti del tram”, ma non si trattava di “appunti” da annotare o di spunti da sviluppare, quanto di “parti intere” di testi poetici da completare in un secondo momento. Non penso a delle folgorazioni improvvise, quanto a momenti di piena del pensiero o emozioni o fantasie da afferrare a volo per non lasciarli fuggir via.
Tanto è vero che, nel secondo passo della stessa intervista Montale rivela alcuni di quegli aspetti più caratterizzanti del lavoro creazionale di un poeta:
No, non ho mai fatto molte correzioni. Anzi c’è un mio amico che sta preparando la riedizione dei miei libri e vuol mettere anche le varianti. E allora abbiamo trovato queste varianti, ma tutto si esaurirà in cinque, sei pagine. Perché si vede che cominciavo a scrivere ad un punto già avanzato di maturazione. Una tecnica diversa da altri. Leopardi pare scrivesse prima una cosa in prosa e poi la rimettesse in versi. Io non dico che non si possa fare, ma il mio metodo di lavoro è stato diverso. A volte ho scritto in prosa, ma era una falsa prosa. Mancavano gli «a capo» e la ricostruivo immediatamente. In fondo, basta andare a capo all’undicesima sillaba (20).
Il primo aspetto importante di questo passo riguarda il lavoro di limatura dei versi, in relazione al quale ogni poeta si comporta secondo abitudini sue proprie. Montale non apportava molte correzioni ai suoi testi. E in effetti le varianti risultano essere scarse, segno che egli davvero cominciava “a scrivere ad un punto già avanzato di maturazione”. Si vede che la fase di incubazione di un testo era già piuttosto lunga e quando esso veniva sviluppato sulla carta era già bell’e definito. O press’a poco. E comunque la revisione non richiedeva a Montale molta fatica e molti cambiamenti. Si trattava – come riconosce lo stesso poeta e come è facile intuire – di “una tecnica diversa da altri”. Vi sono quelli che prima scrivono un testo in prosa e poi lo rimettono in versi. E Montale porta l’esempio di Leopardi (ma questa tecnica venne adottata dal Recanatese in modo particolare per l’Infinito, ma non sempre, anche se risulta che annotava a volte spunti poetici o versi che poi riprendeva, sviluppava e completava). Si tratta di una tecnica ammissibile, ma non era quella di Montale: il suo “metodo di lavoro è stato diverso”, sicché, quando ha composto un testo poetico in prosa, esso era già un testo poetico pressoché definito, con il suo ritmo, le sue pause, le sue riprese, tanto è vero che egli afferma che si trattava soltanto di ricostruirlo con gli “a capo” che scandivano anche visibilmente quel ritmo, quelle pause, quelle riprese che erano già interne al testo. Anzi, già interne a quel ritmo tradizionale che è costituito dall’endecasillabo, anche se per Montale, concretamente, non è stato sempre così, e lo testimonia la varietà di ritmi e metri.
Quanto, poi, agli schemi compositivi dei testi poetici, Montale distingueva i poeti tradizionali dai cosiddetti “liberisti”.
I primi erano legati a precise forme metriche, alla rima e alle altre tecniche prestabilite del fare poetico. Tutta questa “architettura” aprioristica rispetto al poiein ha avuto “un significato più profondo di quanto non credano i poeti liberisti” i quali, rinunziando
agli schemi tradizionali, alle rime, ecc., non sfuggono alla necessità di trovare qualche cosa che sostituisca quanto essi hanno perduto. Qualcuno trova, e sono i veri poeti; gli altri continuano a effondersi e non approdano a nulla: letterati almeno quanto i vecchi parnassiani (21).
Il fatto è che le cosiddette “forme chiuse” e “forme aperte”
della poesia costituiscono “un problema di scarso interesse” perché le forme della poesia tradizionale, quelle “chiuse”, erano nient’altro che “ostacoli e artifizi”, e tuttavia “non si dà poesia senza artifizio” in quanto “il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma deve altresì lavorare una sua materia, verbale” e “dare della propria intuizione quello che Eliot chiama un «correlativo oggettivo»” (22). Insomma la poesia è comunque “artifizio”. Possono cambiare gli strumenti, le forme, le parole per realizzarlo. Ma resta un artifizio. E senza l’artifizio la poesia non c’è.
Un altro argomento che riguarda il metodo compositivo è quello dell’oggetto del fare poetico sul quale Montale dà un suggerimento di grande attualità:
Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologica determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento del Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai (23).
Il rispetto di tale suggerimento evita di cadere in una ripetitività che risulterebbe fortemente fastidiosa. E sempre a proposito del soggetto da trattare in poesia, il poeta, nel 1964 (24), aggiungerà altre sue considerazioni di grande momento.
La prima riguarda la cosiddetta “poesia inclusiva”, quella nella quale i poeti trasportano “nell’ambito del verso o del quasi verso tutto il carrozzone dei contenuti che da qualche secolo n’erano stati esclusi”. Si trattava di una moda che, nata in America, stava ormai diffondendosi in Italia e altrove. Montale mette in guardia su tale tipologia del fare poetico perché i “poeti inclusivi” erano “capaci, come fu detto di Rossini, di mettere in musica anche i conti della lavandaia. La loro musica, però, quasi non si distingue più da quella della prosa … la poesia si fa prosa” (25).
Ecco: era quello il torto di questi poeti: ispirandosi alla realtà generale, e adottando moduli espressivi vicini a quelli della scrittura in prosa, finivano per cadere in una sorta di confusa omogeneità, di mancanza di originalità, in un territorio in cui era impossibile distinguere un poeta dall’altro semplicemente perché non c’era in essi nulla che li distinguesse. È la rivendicazione, dunque, di un terreno proprio della poesia, e si vede che Montale qui parla della poesia lirica, che è quella che lo interessa come poeta e come critico.
L’altra considerazione montaliana richiama i poeti a non cadere nel soggettivismo esasperato che non è, né può essere, contenuto della poesia. Ed è un richiamo categorico, avanzato con toni lievemente ironici, col sorriso sornione sulle labbra, ma in modo aperto ed efficace. Lo scopo della poesia – scrive il poeta genovese – non può essere “la descrizione dell’angoscia del signor X, abitante in via Y, numero di telefono Z, alle ore 16,45 del 18 luglio dell’anno 19…” (26).
Questo contenuto può essere adatto per un lamento, non per far poesia, che per sua natura trascende ciò che è soggettivo e individualistico. Certo, anche il soggettivo e l’indivualistico sono territorio della poesia, ma se tali contenuti sono fini a se stessi e non adombrano anche situazioni di carattere generale – ma sarebbe meglio dire: universali –, essi non hanno alcuna possibilità di entrare a pieno titolo nel territorio del poetico.
L’ultimo argomento relativo al metodo di composizione riguarda in effetti il modo di raggruppare insieme i testi per formarne una pubblicazione. I modi sono diversi, e ciascun poeta segue un suo personale orientamento. Montale, per parte sua, dichiara che
ogni tredici-quattordici anni esce un mio libro di poesie. Non si tratta di intervalli programmati. Io pubblico quando si è prodotta in me una certa accumulazione, cioè quando mi accorgo che un certo numero di poesie “fanno” un possibile libro (27).
Si tratta, anche in questo caso, di serietà, di scrupolo forte, e quindi, di indicazioni di grande importanza.
Il linguaggio poetico
Come dev’essere il linguaggio poetico? e quali caratteristiche dovrebbe avere? ma esiste un linguaggio poetico cui i poeti possano o debbano uniformarsi?
Montale avverte con estrema chiarezza che “non esistono problemi di linguaggio, sperimentalismi, innesti e derivazioni da altre letterature che abbiano un valore normativo” e che “ogni poeta si crea lo strumento che crede essergli necessario” (28).
E come si potrebbe sostenere il contrario? Ogni poeta è il creatore del suo linguaggio che costituisce, perciò, la cifra dell’originalità di un dato prodotto. Tuttavia alcuni suggerimenti di Montale non possono essere trascurati. Poiché, sostiene il poeta, la poesia “si serve di parole”, queste “non possono prescindere da un colore storico e da una risonanza che mutano con grande rapidità” (29): il poeta è libero di crearsi il proprio linguaggio, ma non deve dimenticare di essere figlio di un determinato momento storico e quindi di una determinata realtà linguistica. E poiché “il linguaggio di un poeta è un linguaggio storicizzato, un rapporto”, esso “vale in quanto si oppone o si differenzia da altri linguaggi” (30).
In effetti l’originalità di un linguaggio si misura proprio nel modo in cui esso si differenzia dalla “norma”, cioè dal linguaggio “storico”, dal linguaggio comune, e, nel contempo, dal linguaggio degli altri.
Vero è che le parole, essendo organismi viventi, sono soggette ad invecchiare, e con esse la poesia che di esse si sostanzia, ma questa sarà capace di sopravvivere “se si presta ad essere ricostruita e interpretata in modo diverso, a essere fonte di altissimi equivoci” (31).
Vien quasi voglia di dire: qui si parrà la tua nobilitate.
E per quanto riguarda l’essenza vera e propria del linguaggio della poesia, Montale, sempre basandosi sulle modalità del suo stesso poiein, afferma un principio di notevole interesse che non so come possa essere trascurato dai poeti e aspiranti tali: “La poesia (in versi) chiede un linguaggio sintetico, musicalmente non riducibile al tono della comune prosa” (32).
Linguaggio sintetico, sia nel senso che può essere percepito come frutto di un principio economico (dire il massimo delle cose con il minor numero possibile di parole), in virtù del quale il verso deve essere liberato da tutto ciò che è inutile e superfluo, sia nel senso che deve essere linguaggio musicale, cioè verlainianamente fondato su armonia di suoni e ritmi, ma ancor di più – come si verifica nello stesso Montale – fondato su una rispondenza fonico-semantica, in virtù della quale le sonorità e i ritmi del verso sono date anche dalla rispondenza del suono delle parole al loro significato. Tanto è vero che il poeta, parlando dei suoi Ossi di seppia ebbe a dire:
scrivendo il mio primo libro (un libro che si scrisse da sé) […] ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza (33).
La dimensione musicale del verso,
l’unione inscindibile tra la componente fonica e quella semantica della parola, la sostanza ritmica del verso che ora si modula in andamento armonioso ora in zoppicante o frantumato movimento (a seconda dell’armonia o della disarmonia del verso) sono le grandi caratteristiche della poesia montaliana.
Tuttavia, lamenta il poeta, “il linguaggio poetico tende a farsi sempre più prosastico” (34). Ma
se le differenze non debbono essere semplicemente ottiche (la poesia si scrive a righe corte, la prosa a righe intere) una differenza deve pur sussistere. Quando non c’è più differenza è inutile mantenere l’apparenza del verso. È la situazione di molta pseudo poesia attuale. Poiché la poesia (in versi) ha bisogno di un suo linguaggio si spera di sostituire i tradizionali «fiori» dello stile poetico coi fiori di una inaudita prosasticità. In tal caso la vera poesia sarebbe la prosa: e oggi in effetti ci son più poeti in prosa che poeti in versi (35).
Montale vuol reclamare i diritti del fare poetico come specificità inconfondibile con altre tipologie della scrittura artistica. Tanto più che, ritornando sull’argomento, prenderà atto – e siamo nel 1962 – che “i confini tra verso e prosa si sono molto ravvicinati”, ma che comunque la differenza è pur sempre “questione di tono e di concentrazione espressiva” che, è chiaro, sono di livello più alto nel verso (36). Nessun commento.
NOTE
- Intervista immaginaria, in «La Rassegna d’Italia», a. I, n. 1, Milano, gennaio 1946, pp. 84-89.
- Ivi, pag. 562.
- Ivi, pag. 564.
- Dialogo con Montale sulla poesia («Quaderni milanesi», 1, autunno 1960, pp. 9-20), pp.582-583.
- Della poesia oggi («La Gazzetta del Popolo», Torino, 4 nov. 1931).
- , pag. 569.
- 7 domande sulla poesia a E.M. («Nuovi Argomenti», n. 55-56, Roma, marzo-giugno 1962, pp. 42-46), pag. 590.
- Ibidem, pag. 592.
- Ibidem, pag. 568.
- Dialogo con Montale sulla poesia («Quaderni milanesi», 1, autunno 1960, pp. 9-20), pag. 584.
- 7 domande sulla poesia, cit., p. 587.
- «La Gazzetta del Popolo», Torino, del 4 novembre 1931, pag. 557.
- Variazioni, in «Il Mondo», n.2, Firenze, 21 aprile 1945, pagg. 105-106.
- La poesia si vende, in «Corriere della Sera» dell11 novembre 1949, pag. 121.
- Ungaretti, in «Letteratura», a. V, nn. 35-36, Firenze, settembre-dicembre 1958, pag. 306.
- La poesia si vende, cit.
- Intervista immaginaria, cit.
- Queste le ragioni del mio lungo silenzio. Dialogo con Eugenio Montale, a cura di Bruno Rossi («Settimo giorno», Milano, 5 giugno 1962, pag. 595.
- Ibidem, pagg. 595-596
- Della poesia oggi, cit., pag. 558.
- «L’unico mezzo di esprimere un’emozione in forma d’arte – sostiene Eliot – è di trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che diverranno la formula di quella particolare emozione; cosicché una volta dati i fatti esterni che devono concludersi in un’esperienza sensibile, l’emozione viene immediatamente evocata».
- Intervista immaginaria, cit., pag. 563.
- Poesia inclusiva, in «Corriere della Sera», 21 giugno 1964, pagg. 146-148.
- Ibidem, pag. 147.
- Ibidem, pag. 148.
- Autointervista, in «Corriere della Sera» del 7 febbraio 1971, pag. 599. Questa numerazione è esatta..
- 7 domande sulle poesia, cit., pag. 589.
- La poesia come arte in «Oggi», a. III, n. 49, Milano, 6 dicembre 1942, pag. 103.
- Intervista immaginaria, cit., pag. 564.
- La poesia come arte, cit., pag. 103.
- Dialogo con Montale sulla poesia, cit., pag. 583.
- Intervista immaginaria, cit., pag. 565.
- Dialogo con Montale sulla poesia, cit., pag. 583.
- 7 domande sulla poesia, cit., pagg. 591-592.
Raffaele Urraro è nato il 1940 a San Giuseppe Vesuviano dove tuttora vive e opera. Dopo aver insegnato italiano e latino nei Licei, ora si dedica esclusivamente al lavoro letterario. Collabora come redattore alla rivista di letteratura e arte «Secondo Tempo» diretta da Alessandro Carandente. Suoi interventi critici, con saggi e recensioni, sono presenti anche su altre riviste, come «La Clessidra», «L’Immaginazione», «Capoverso», «Sìlarus», ecc. Ha pubblicato molte raccolte di versi e opere di saggistica tra cui Giacomo Leopardi: le donne, gli amori, Olschki, Firenze 2008; La fabbrica della parola – Studi di poetologia, Manni Editore, San Cesario di Lecce 2011; “Questa maledetta vita” – Il “romanzo autobiografico” di Giacomo Leopardi (Olschki editore, Firenze 2015), e Le forme della poesia – Saggi critici (La Vita Felice, Milano 2015).
Ammiro la serietà e la tenacia con cui Raffaele Urraro indirizza i suoi onestissimi studi critici verso la musa oscura di Montale; dico “oscura” perchè Montale, questo vero mago della parola,dubitò, forse, della parola stessa; e tuttavia riuscì a resistere, a cercare sempre nuovi sentieri,lui che aveva individuato subito, e con tanto acume, la strada maestra.Con lo stesso spirito, forse, Michelangelo plasmò la Pietà Rondanini,una via diversa ,oltre la grandiosa espressione del Mosè.
“La poesia è un’infinita incertezza fra senso e musica” (Valery).
Montale, come Mallarmè e Valery, rappresenta la “destra baudelariana”, in opposizione alla violenta disintegrazione prosodica e incoerenza logica voluta dalla “sinistra” delle avanguardie; ha cercato un difficile equilibrio fra queste due strategie espressive, che riflettono divergenze spirituali e filosofiche che l’atto creativo tende a ricomporre, guidato da un’estetica autenticamente individuale, dinamica, metamorfica, capace di sottrarsi a dogmi obsoleti e interdizioni illegittime.
Le ierofanie montaliane sono intuizioni mistiche, anagogiche, che non smarriscono mai la radice razionale, ma portano la parola fino al limite invalicabile in cui proiettarsi solo in echi e risonanze armoniche.
Il grande metafisico dei primi due libri è un mistico nichilista, rifiuta la scrittura automatica, la deliberata sconcretizzazione semantica e trasgressione logica, ma attende sul confine del dicibile una verità assoluta, un’illuminazione definitiva, che sembra imminente, ma sfugge ineluttabile, fino al cinismo e alla rassegnazione della vecchiaia, in cui scrive una prosa pausata, ironica, priva di prospettive soteriologiche e neo-estetiche.
Ha avuto, fra l’altro, il merito di aver tracciato un netto confine ideologico intorno all’estetismo dannunziano, di aver ridimensionato l’elegismo claustrale di Pascoli e l’irrilevante virulenza del futurismo.
Ecco un testo in cui ho tentato una più decisa immersione nell’inconscio, sul modello Rimbaud-surrealismo.
GOCCE DEL SUPPLIZIO
mutava in cenere
la bambina strappata
uscì dal gioco nei meandri celesti
l’arte di uccidere desideri
gridava dai marmi del Paradiso
era un teatro d’ombra
la Signora ci abbracciava
con un pugnale nella memoria
uscii dall’orda
ora trascino un corpo sconosciuto
in un sogno di nevi rossastre
terribili fiori risorti
crescono dai miei peccati
in una stanza il cielo ribelle
un incesto di lacrime e precipizi
la preghiera si spoglia nuda
per ricevere la pietà
delle macchine osannanti
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/09/raffaele-urraroeugenio-montale-la-poesia-che-cose-la-poesia-secondo-montale-la-genesi-della-poesia-il-fare-poetico-metodo-compositivo-forme-chiuse/comment-page-1/#comment-33718
Nel bene e nel male, pur tra equivoci e ambiguità, tra avanzamenti e arretramenti Montale è il poeta italiano che ha attraversato il novecento e che costituisce ancora oggi lo spartiacque della poesia italiana dell’Italia unita. Non si giunge ad un tale risultato tramite una via regia, né a caso, e neanche oserei dire per virtù di un talento in sé, quanto per una serie di motivi: stilistici, sociali, letterari e politici insieme. Montale è stato il poeta che, pur se sprovvisto di cultura filosofica, ha saputo meglio intercettare le problematiche che stavano dentro e fuori della forma-poesia del novecento; sì, credo che «intercettare» sia la parola giusta, Montale era consapevole di avere a che fare con una lingua aulica, dotta e retorica e che avrebbe dovuto fare i conti con i retori e con i retorismi… Con le sue parole:
«All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza».
Come ho detto e ripetuto dozzine di volte, Montale non poteva da solo risolvere tutti i problemi della forma-poesia italiana, e infatti non ci è riuscito, anche se ci è andato molto vicino… ma verso la fine della sua vita le forze non gli bastarono più, e si lasciò andare, lasciò andare la barca dove la barca voleva. Questo lo considero il suo più grande errore, da stigmatizzare, ma non troppo, in fin dei conti quando cominciò a profilarsi la gravissima crisi della poesia italiana (correvano gli anni settanta), lui era già molto anziano con ancora poche forze e non molte frecce nella faretra… e le cose andarono come andarono.
Io resto convinto (forse mi sbaglierò, come qualcuno mi ha detto, ed io in cuor mio lo spero) che a tutt’oggi la poesia italiana resta ancora post-montaliana.
Qualche giorno fa Donatella Costantina Giancaspero mi ha chiesto: tu mi consideri post-montaliana?, ed io le ho risposto: «mia cara, siamo tutti, volente o nolente post-montaliani, ma io penso che forse la nuova ontologia estetica abbia definitivamente voltato pagina, non usa più la grammatica né la sintassi della poesia post-montaliana, forse noi ne siamo fuori…».
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/09/raffaele-urraroeugenio-montale-la-poesia-che-cose-la-poesia-secondo-montale-la-genesi-della-poesia-il-fare-poetico-metodo-compositivo-forme-chiuse/comment-page-1/#comment-33719
La sensazione che ho, caro Giorgio, è che ormai siamo fuori da tutto;avere costituito un gruppo ,come la NOE, è già un traguardo notevole; bisogna mantenerlo in vita, non abbassare la guardia,nemmeno nei passaggi più pericolosi, guardare sempre con attenzione ai grandi maestri che ci hanno preceduti,che hanno sofferto prima di noi il tormento e l’esaltazione del confronto con la parola.
cara Anna Ventura,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/09/raffaele-urraroeugenio-montale-la-poesia-che-cose-la-poesia-secondo-montale-la-genesi-della-poesia-il-fare-poetico-metodo-compositivo-forme-chiuse/comment-page-1/#comment-33732
Ho scritto poco sopra che verso la fine della sua vita Montale era stanco, sfiduciato e lasciò andare la barca della poesia alla deriva… c’era in lui un disegno quasi diabolico di voler prendere in giro tutto e tutti, e c’è riuscito, confezionando finta-poesia di altissimo livello, kitsch di alto livello ma kitsch… Chi è venuto dopo di lui, non avendo la sua intelligenza e il suo talento e la sua diabolica ironia, ha preso da quel «via libera» il peggio, ha creduto che fare poesia fosse cosa facile, che se l’aveva fatto il vecchio Montale tanto più lo potevano fare i giovani e forti e di belle speranze che si erano auto definiti «poeti». Poi quei giovani e forti si sono impadroniti delle collane di poesia e dei posti importanti e hanno iniziato la loro campagna abbonamenti… il resto è cosa di oggi.
Ormai la nuova ontologia estetica è un fatto reale, macroscopico, è sotto gli occhi di chi ha occhi… noi abbiamo tirato le conseguenze dalla poesia post-montaliana e siamo approdati all’altra sponda del fiume. Il più è stato fatto.
«Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti.»
Se lo ha detto un Newton verso i Maestri della Fisica che lo avevano preceduto, a maggior ragione deve dichiararlo ogni poeta militante verso i Maestri di poesia come Eugenio Montale, pur scegliendo di percorrere altre strade, segnatamente sul terreno d’altre forme-poesia e della estetica. Condivido pienamente questo passaggio del pensiero linguaglossiano
“Montale è stato il poeta che, pur se sprovvisto di cultura filosofica, ha saputo meglio intercettare le problematiche che stavano dentro e fuori della forma-poesia del Novecento[…]”
e faccio mio, pur avendolo espresso scomodando Newton,
il pacato invito di Anna Ventura a guardare con rispetto i Maestri e le predenti esperienze poetiche espresse dai Maestri.
Esprimo ammirazione per la serietà del lavoro di Raffaele Urraro e per come egli ha inteso articolarlo, avvalendosi per giunta d’un icastico armamentario linguistico-espressivo
[certo, il linguaggio critico d’un Linguaglossa che seguo e metabolizzo da anni, attraversandone le varie raccolte di saggi avidamente, mi suona ben più familiare nella sua indiscutibile originalità].
Ma Urraro sul campo si è guadagnato il rispetto che merita, ripudiando dal suo saggio ogni scoria di dilettantismo e di improvvisazione.
Gino Rago
Montale non correggeva. Può voler dire che i versi gli si formavano in mente prima di scrivere. Esistono ancora poeti che scrivono in questo modo, oggi?
Questo spiegherebbe anche perché non amava i poeti inclusivi .
Mi chiedo cosa sia passato nella mente di chi lo ha seguito, ho seri dubbi che qualcuno lo abbia fatto veramente. Forse si è trattato solo di stile. Devo rileggermi Satura.
Caro Giorgio, è vero, forse siamo arrivati all’altra sponda del fiume;abbiamo davanti una prateria sterminata; ma bisogna percorrerla,individuarne i sentieri che portano da qualche parte; è un delta vasto, che, comunque, ha davanti la promessa del mare,
Si chiede Raffaele Urraro, e prima di lui, forse, lo stesso Montale: “Che importanza può avere un prodotto che si pretende sia artistico se si dà importanza soltanto al significante, giocando su una sorta di capriccioso non-sense prescindendo dal significato che le parole dovrebbero veicolare?” E viceversa! Per questo si è un po’ tutti post-montaliani.
È qui tutta la forza e tutta la debolezza della sua poesia! Egli ha portato a compimento il secolare connubio tra la linea fonica dei significanti e la linea semantica dei significati testimoniando che era ancora possibile fondare la sinteticità della poesia e la sua sostanza sul diagramma di De Saussurre ( S su s). Ora la libertà, all’interno, di questo diagramma riguardava le periferie: la retorica, la versificazione, il tono, la disarmonia, l’equilibrio, i rapporti tra i due poli, ma sempre all’interno del codice di riferimento. Quando abbiamo capito che tra la catena dei significanti e quella dei significati c’è sempre un vuoto e che non c’è mai piena corrispondenza tra la parola lasciata sulla pagina e quella mentale, o inconscia, allora il gioco si è spostato molto più avanti; allora la tensione montaliana di ricostruire quella equivalenza si è sfarinata… Giorgio Linguaglossa afferma che ormai, data l’età si era indebolito, ma la capacità di intervenire e di deridere la critica contemporanea non era svanita… non è che si era reso conto anche lui che quel “quid poetico” era ormai da considerarsi inafferrabile?
Satura è un libro cattivissimo, un libro di invettive, mascherate, nascoste, come spesso Montale amava nascondere forme, editti, rivelazioni. In Satura Montale dismette l’abito borghese, esce allo scoperto, non le manda a dire ma le dice, le canta con un canto canzonatorio, spiazzante, spiazza tutta la piazza del cantericcio. Disarmante: “I critici ripetono/da me depositati…
Montale con Satura ha fatto esplodere un mondo, “Caro piccolo insetto”, ha messo a nudo il re stesso, che era già nudo anche se nessuno prima se ne era accorto, intuendo che il privatismo da rotocalco aveva ormai preso piede sempre di più nella società del tempo. L’insetto si ripete costantemente nei testi di Satura, chi è? Cosa è? Un semplice rimando a Kafka, oppure, considerato la grande ironia (mediata e nascosta nelle pieghe) che ha sempre caratterizzato la personalità poetica di Montale , Satura altro non è che un calembour o un trompe-l’oeil? “Eppure non mi dà riposo/sapere che in uno o in due noi siamo una cosa sola.”