
Le scrivo dal Centro dell’Impero.
Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert
Gino Rago
31 marzo 2018 alle 11:59
Ecco un intreccio poetico [Lipska-Linguaglossa-Rago] a tre, con Giorgio Linguaglossa che tenta di dare scacco matto al tedio di Dio…
Gino Rago
Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
Le scrivo dal Centro dell’Impero.
Qui cerco in ogni luogo i frammenti della Signora Schubert
[come Roland Barthes fece con sua madre].
La sua morte l’ho appresa dalla mia amica di Vienna.
La città oggi è nella tristezza dell’autunno
[la mia amica dice che piove da tre giorni].
Entro al «Blumenstrasse» [ il Buffet caro alla Signora Schubert].
I camerieri, il cassiere, i cuochi… Tutti la ricordano.
Mi dicono il menù da lei desiderato.
La sperlunga «Octoberfest» di patate in tecia e crauti.
Gnocchetti e gulash [senza cumino in polvere].
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
il mio amico-poeta di Roma ha dato scacco matto al tedio di Dio.
Ha scritto in un suo verso.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Forse per questo al Buffet della Signora Schubert
l’uomo che qui chiamavano «il-poeta-della-rivoluzione-gentile»
dice ancora alle mie spalle qualche verso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
ho saputo da una donna in fondo al «Blumenstraße»
il perché di quel nome:
«Quel poeta cambiava la poesia d’Austria senza proclami, senza manifesti.
Cantava da solo i suoi versi e in cielo danzavano le stelle.
Gli anziani col monocolo diventavano ballerini.
Il clown macrocefalo smetteva di far ridere.
li zingari lasciavano i loro accampamenti fra il bosco e la palude.
I cacciatori smontavano le tende e prendevano i violini…»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
andrò con la mia amica di Vienna
a bere acque di parole minerali alle Terme dell’Impero
[sotto il ritratto dell’Imperatore con l’Eroe di Solferino].
Laura Canciani:
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro…
Mario M. Gabriele
30 marzo 2018 alle 11:15
Caro Giorgio,
grazie per aver concesso altri giorni di dialogo sul tema della Critica e della Nuova Poesia. Meglio così,perché in questo modo si accede ad una dialettica di più ampia sfaccettatura. Mi fermo sul primo punto: quello della Critica, senza fare una retrospettiva storica, la qual cosa sarebbe noiosa e fuori tempo, ma chiamando in causa quella di mezzo secolo,più libera e autonoma, anche se poi via via, si sarebbe asservita al potere delle grandi case editrici. Intorno agli anni Sessanta la rivista Strumenti Critici aprì un ampio dibattito, portando in primo piano l’azione dello Strutturalismo, facendo riferimento ad alcuni Autori che meritavano tale studio. Ma poi, sia il tempo che la dispersione della critica verso altri mediocri orizzonti, portarono come scrisse Mario Lavagetto alla Eutanasia della Critica, intendendo dire con questo titolo del suo volume, la fine operativa di una disciplina. Ci fu un vero tracollo della critica militante e accademica, che sembrava non interessare a nessuno, dal momento che l’Editoria maggiore si autogestiva criticamente sulle opere prodotte. Se la critica muta le proprie direzioni si rimane come tuareg nel deserto. Va bene che spetta al lettore captare il bello di un verso, ma quanto alla sua decodificazione, credo che spetti al critico svelarne il senso. Non esiste libro che non abbia bisogno del critico. Se addiveniamo a questo concetto si recuperano valori e senso dello scrivere.
Oggi, per fortuna, si assiste ad un proliferare di riviste on line, di vendite e-book, con proposizioni linguistiche, e qui cito la «Nuova Ontologia Estetica», non per mero narcisismo, ma per effettiva documentazione estetica. Non vedo nel Gruppo 63 i killer della poesia. Anzi, fu una parentesi necessaria al pascolismo e al bertoluccianesimo imperanti in quegli anni. Ci fu tutto un susseguirsi di variazioni stilistiche e di affratellamento con gli esiti linguistici europei e degli angry ypung man, con festival di poesia e di importanti presenze di poeti di diverse nazioni. Attori leggevano poesie di Montale, di Caproni, ma soprattutto delle nuove leve come Saady Yussef, Ghassan Zaqta, Tadeus Rozewicz, accompagnati dai bassisti Deep Purple, Glen Hughes, ecc. Allora i poeti avevano molte ragioni per apparire, salire sui palchi, fare happening. Ma oggi? Era sì spettacolo, allora, ma anche performance della poesia, come a San Francisco con Ferlinghetti, e a Castelporziano con William Burroughs. Insomma, veramente la poesia degli anni 60 e 80 non fu mai così popolare e palcoscenica. Si proclamò la morte della lirica a tutto vantaggio di un grande spazio di libertà semantica.
Tutti ne parlavano e tutti ne discutevano. Poi si affermò la popolazione poetica a dir poco preistorica, che tornava al linguaggio autonomo dell’IO e della riconciliazione con la Tradizione. Un bell’oscuramento della poesia e del suo cammino. Nacquero le metanarrazioni, la cultura degli aedi, l’ascensione al cielo per istituzionalizzare la Metafisica.Caddero l’immaginario evolutivo, e ogni idea di riformismo verbale. Finì il successo plateale, ma anche la diffusione della poesia che stando ad un rapporto editoriale, su 2000 copie, se ne vendevano appena 500, rispetto ad una popolazione di 60 milioni di abitanti. Si può dire che la poesia è finita? In un certo senso si, con addio al piacere del testo e ad ogni proposito di rinnovamento.
Ci troviamo, come dice Zygmunt Bauman, in una sorta di vita liquida, e di relazione antisociale perché non trasmette agglutinazione del senso della cultura. Eppure in queste acque stagnanti qualcosa si muove. È l’antagonismo che come diceva Adorno è diventato ”conflitto inevitabile”. Su questa trincea e opposizione ad una guerra di Cent’anni, Giorgio Linguaglossa sembra veramente essere un Cavaliere Esistente, per rifondare la critica e la poesia. È una nuova lezione volta a ripristinare il giusto equilibrio tra Forma e Senso del suo esistere. La parola cultura ha diverse fascinazioni, ma non può essere insabbiata sulle rive dell’Assenteismo linguistico. Torno ancora a citare Adorno quando scrive che “la cultura risente danno, se abbandonata a se stessa rischiando di perdere non solo la possibilità di esercitare un’influenza, ma la stessa esistenza.
Giorgio Linguaglossa
30 marzo 2018 alle 16:36
caro Mario Gabriele,
come dice Laura Canciani, sono cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto. Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria, rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop, ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia… ma il bello è che tutti fanno finta che non sia successo niente, fingono di non avvedersene (o forse, mi chiedo, davvero sono ciechi!)… prima sul Sole 24 ore ci scriveva Franco Loi i suoi tramezzini psicopoetici, adesso ci sono dei professori, bravi senza dubbio, almeno loro hanno un aplomb più strutturato, intendo dei loro resoconti critici. Epperò nei loro articoli ben scritti ci vedo il vuoto; poi una volta c’erano i “francobolli” su La Stampa con dentro una poesiola… lo spettacolo non era edificante affatto.
E certo che i lettori normali non prestavano alcuna attenzione a quelle sciocchezze, e quindi nessuno le leggeva…
Voglio dire, e lo ripeto, che un linguaggio critico non lo si trova per strada, non lo si trova tra le dispense delle università di serie B, non lo si trova perché non c’è. Un linguaggio critico te lo devi creare con grandissimo sforzo da solo, come la poesia te la devi creare da solo, come hai fatto tu in più di trenta anni di ricerca. Del resto io ripeto sempre che non sono un «critico», e lo dico senza infingimenti né per sottrarmi alle mie responsabilità, perché quando scrivo una riflessione mi rendo conto che mi mancano le parole, le frasi, e che devo improvvisare qualcosa, qualcosa che non so, che non c’è scritta da nessuna parte.
Ma questo vuoto che io avverto nella mia scrittura critica, lo si può discernere negli scritti professionalmente ben educati delle schedine editoriali degli editori, di tutti gli editori: grandi, medi e piccoli, non bisogna prendere una lente di ingrandimento per leggere il vuoto delle schedine editoriali e delle note di lettura. Si tratta di scritti convenzionali, augurali, dei biglietti da visita il più delle volte deliziosamente risibili e superflui di vanagloria d’accatto.
Avete potuto leggere quello che ha scritto un poeta di alto livello come Petr Kral?
Alfredo de Palchi
“una linea dantesca? Il petrarchismo come malattia congenita del corpo della Tradizione?”
Indubbiamente. È dagli anni 1950 che ripeto la stessa convinzione senza punti di domanda. Il petrarchismo rimane quello del maestro. Quello che ‘poeti’ fanno da sette secoli non è altro che bella calligrafia.I professori meritevoli devono mettersi in testa che l’epoca modioevale-moderna terminò alla fine di aprile 1945.
Contemporaneo è sempre Dante, per questo meno amato di Francesco.
Giuseppe Gallo
30 marzo 2018 alle 21:29
È vero! “Ormai <> e nulla e nessuno potrà trovare una <> o un surrogato di essa che giustifichi una qualsiasi poesia! Ed è questa la condizione della poesia oggi.” Tanto da farne una poetica… Ricordo alcune affermazioni di Pasolini in Poesia in forma di rosa del 1964:
“È passato il tuo tempo di poeta…”
“Gli anni cinquanta sono finiti nel mondo!”
“Tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci
e tutto ciò che fu vita ti duole
come una ferita che si riapre e dà la morte!” (Garzanti, ed. pag. 82)
È questa la condizione della poesia oggi!
Linguaglossa ha “ragione” da vendere… entri nella mercificazione delle parole, potrebbe distribuirci qualche dividendo! Il problema è che non si può sopravvivere alle “ferite” di cui parla Pasolini perché esse sono così profonde da “darci la morte”, direttamente, senza nessun altro “surrogato”. D’altronde anche un poeta estraneo alla nostra tradizione letteraria Nazim Hikmet aveva esemplificato l’attuale nostra vacuità poetica:
Senza nessuna ragione qualcosa si rompe in me
e mi chiude la gola
senza una ragione sobbalzo a un tratto
lasciando a mezzo lo scritto
senza nessuna ragione…
e così via dicendo!
Giuseppe Talia
30 marzo 2018 alle 21:57
Caro signor Gallo, quello che lei riporta è un necrologio della poesia. Almeno della poesia che indossava la veste nera della Coefora negli ultimi anni del Novecento. La poesia che era arrivata al suo ultimo estremo, il compianto.
Era il commiato, allora. Ma dal 1950 in poi qualcosa si è mosso. Solo che è stato per troppo tempo nascosto, celato, negato per via ideologica.
E anche oggi qualcosa di buono si muove. Tra le ceneri. E non ci si piange addosso. Si cerca di andare oltre. Con fatica, verso nuove strade, magari orfani di una sistematizzazione critica del passato Novecento che lei nel suo commento porta con un senso di fine ultima.
Giuseppe Gallo
31 marzo 2018 alle 9:05
Caro signor Talìa, forse ha ragione lei… qualcosa si è mosso dagli anni cinquanta in poi… le affermazioni di Pasolini erano coeve ai tentativi “sperimentali” del gruppo ’63, ma cosa è rimasto, di poetico, di quegli anni? Niente! Il nostro purgatorio dell’inferno continua ancora… E poi
io volevo solamente suggerire, a bassa voce, che questa nostra consapevolezza di “vacuità poetica”, di “quadro” senza “cornice” e dell’assenza di una “ragion sufficiente” corre il rischio di diventare una poetica… di scuola..
Giorgio Linguaglossa
31 marzo 2018 alle 10:32
Caro Giuseppe Gallo,
forse è vero, bisogna accettare il rischio che anche la petizione della assenza di una «Ragione Sufficiente» diventi una poetica, anzi, le dirò di più: io spero che questa «linea minima» diventi una petizione «massima», ripartire dalla «linea ultima», prendere possesso e prendere cognizione da una «linea» dalla quale ripartire. Le nostre riflessioni attorno ad una impostazione ontologica dei problemi della poesia, mi creda, è il risultato minimo dal quale ripartire. Una riflessione va sempre incentrata sulla domanda su un ente: che cos’è questo ente? Quali sono le sue manifestazioni? Quale fenomenologia gli appartiene? –
Quando si scrive una poesia bisogna partire stabilmente da queste triplice impostazione categoriale. Il fatto è che in questi ultimi cinquanta anni si è scritta poesia in modo «irriflesso», cioè senza riflessione in re, mi sembra lampante. Il libro che più ha influito sulla filosofia del novecento e sulla impostazione del problema dell’ente, Essere e tempo di Heidegger (1927) è, in fin dei conti, una interpretazione ontologica del Dasein. Potrebbe sembrare un fatto del tutto ovvio, ma è bene ribadire che anche la «poesia» è un «ente» e che essa va inquadrata sia dal punto di vista ontologico che anche da quello fenomenologico, le due impostazioni non sono contraddittorie ma l’una è il presupposto dell’altra… Io ritengo che senza una severa impostazione ontologica della «poesia» si rischi di parlare alle farfalle e di porre problemucci insussistenti, cioè di fare del lirichese e di esternare sfoghi soggettivi…
Colgo con entusiasmo la testimonianza del decano della poesia italiana: Alfredo de Palchi il quale dall’alto della sua età anagrafica si può permettere di dire quanto dice:
«È dagli anni 1950 che ripeto la stessa convinzione senza punti di domanda. Il petrarchismo rimane quello del maestro. Quello che ‘poeti’ fanno da sette secoli non è altro che bella calligrafia. I professori meritevoli devono mettersi in testa che l’epoca modioevale-moderna terminò alla fine di aprile 1945.
Contemporaneo è sempre Dante».
Forse nessuno in Italia ha l’autorevolezza e il coraggio di Alfredo de Palchi il quale si può permettere di scrivere quello che scrive con la massima ragione sufficiente.
Il problema è: tornare a Dante. Tornare ad una lingua fatta di «cose». Un progetto da Grande Progetto. Ecco, se osserviamo il panorama della poesia italiana di questi cinquanta anni, il paesaggio che abbiamo sotto gli occhi non appare entusiasmante. Certo, ci sono stati dei tentativi coraggiosi di «bucare» la cortine di nebbia del «petrarchismo» della poesia italiana. Faccio solo tre nomi: Anna Ventura con Brillanti di bottiglia (1972) Helle Busacca (1915-1996) con la sua trilogia de I quanti del suicidio (1972), e Maria Rosaria Madonna (1942-2002) con un esile libretto, Stige (1992), poetesse dimenticate e sotto stimate dal consesso letterario italiano, probabilmente le tre maggiori poetesse del secondo novecento italiano. Fortunatamente, tra qualche giorno uscirà Stige (poesie 1990-2002) di Madonna con Progetto Cultura e sarà possibile leggere un’opera davvero fuori dalle righe della poesia italiana del secondo novecento.
Mario M. Gabriele
31 marzo 2018 alle 12:48
La tua ricerca linguistica, caro Gino, ti sta portando dove gli altri non osano avvicinarsi. È un testo che ha in sè tutta l’energia linguistica soprattutto se badiamo al concetto di base che deve armonizzarsi con gli esiti strutturali della Nuova Ontologia Estetica. Sono orizzonti espressivi fatti di tagli e di ricuciture del verso, così come impone la disciplina del frammento in un panorama che ci obbliga a riorganizzarci con la solitudine operativa che ciascuno di noi si porta dietro.

Si spostano con centinaia di slitte
cariche di cibo, bevande e legna,
perché là il suolo è coperto di ghiaccio
Giorgio Linguaglossa
31 marzo 2018 alle 12:47
caro Gino,
questa è una nuova poesia alla maniera della nuova ontologia estetica, un nuovo sotto genere dove metti in comunicazione personaggi inesistenti (la Signora Schubert) con personaggi vivi (Ewa Lipska e Giorgio Linguaglossa) e li fai interagire con un «lutto», il lutto della Signora Schubert creando un fuoco d’artificio di metabolismi verbali come solo tu sai fare; questi metabolismi sono una metapoesia che va ad interloquire con la poesia (che semplicemente non c’è, noi sappiamo che essa è scomparsa da mezzo secolo o poco più), ed entrambi: poesia e metapoesia collidono generando nuovi tratti segmentali della significazione. C’è poi la metafora dell’«Impero» e del «Centro» dell’Impero austroungarico, con la sua capitale «Vienna» dalla quale il personaggio-autore della poesia, un tale Gino Rago, spedisce missive ad interlocutori senza indirizzo (altra potente meta-metafora della assenza della poesia). Tutta questa complessa rete di metafore e di personaggi (vivi, morti e immaginari) crea una complessa rete di significazioni recondite e sotterranee che formano la vera archistruttura del testo. Ed infine, l’accenno al «Buffet caro alla Signora Schubert», con «i camerieri, il cassiere, i cuochi», è davvero esilarante, come è esilarante l’indicazione alla «Blumenstrasse», la via dei fiori, che sarebbe, antifrasticamente, con suprema ironia, il luogo, o meglio, la via della poesia (che è scomparsa). Davvero, una poesia di grande originalità.
Rossana Levati
31 marzo 2018 alle 16:27
Propongo di seguito le mie riflessioni, scaturite dal testo di Rago oggi postato:
La Prima lettera da Vienna a Ewa Lipska di Gino Rago sembra partire con una domanda- sfida: alla notizia della morte dell’amica, opportunamente accompagnata da un clima di tristezza autunnale, se ne cercano i ricordi-frammenti, ma “Dove risiedono le persone?”: si può forse dire che un menù le rappresenti, che lascino traccia di se’ in un insieme di gusti, in una ricetta con aggiunte o privazioni di condimenti (cumino, gulasch)?
La domanda, considerata la natura metaletteraria del testo, non è che un modo indiretto di chiedere “dove risiede la poesia?” e qual è la ricetta che la rappresenta? Ricetta che si può raggiungere solo faticosamente, come Roland Barthes che deve mettere a fuoco l’essenza della madre e la trova infine rappresentata, condensata, in un sorriso della sua giovinezza, in quello sguardo di attesa e di innocenza faticosamente inseguito nelle pagine de La camera chiara… (trad. it. Einaudi)
Apprendere la morte dell’amica sarà allora come apprendere la morte della poesia: ma se essa muore in un luogo (il suo centro apparente), potrà anche, decentrata, ripresentarsi altrove: la partita a scacchi si è spostata, ma ancora si tratta di proseguire, fino a raggiungere la vittoria di quello scacco matto che impegna il poeta di fronte al Il tedio di Dio.
La poesia rimane scandalo del mondo, sovvertimento dell’essere: non lascia nulla come lo ha trovato, se è vero che i cacciatori dimenticano la violenza, che è anche scopo e giustificazione del loro esistere e diventano capaci di suonare i violini, e ciò che è costituzionalmente ridicolo, come il clown deforme dalla testa spropositata, perde senso e funzione, e ancora ciò che è rigido e sclerotizzato come gli anziani col monocolo, vano rimedio alla loro vista corta, può riprendere un movimento armonioso, un ballo terrestre che è parallelo a quella danza celeste delle stelle che accompagna i versi del poeta.
Non c’è nessun lirismo “vecchia maniera” in tutte queste immagini ma una sapiente provocazione al lettore, sollecitato a comprendere quale legame spinga le immagini da una strofa all’altra, quale scommessa faccia concludere ogni strofa in forma di paragrafo o tappa provvisoria di una lettera che si prolunga nel tempo e che riparte improvvisamente nella strofa successiva: per definire la sfida della nuova poesia che nasce non basta una strofa sola; così la prima parte della lettera annuncia la morte della vecchia poesia, la seconda strofa il sopravvivere di qualche verso, la terza la sua rinascita sovvertitrice di ogni certezza e la quarta, con quelle strepitose “acque di parole minerali” che sgorgano alle Terme dell’Impero, ne sembra indicare l’effetto vitale e la capacità di rinnovare continuamente il mondo: l’imperatore è finito immobile in un quadro, dopo una vita fitta di proclami ma sconfitta dalla storia che ha fatto comunque a meno di lui. Purché la poesia rinnovi se stessa e non si sclerotizzi in un ritratto con pose eroiche, e sappia fare a meno del cassiere e di tutti coloro che mercanteggiano con il nulla, uomini inconsistenti “disposti a vendere la propria ombra” (cassiere e venditori sono rimasti indietro, alla seconda strofa; e speriamo respinti per sempre).
Anna Ventura
31 marzo 2018 alle 16:53
Per Giuseppe Gallo: ogni poetica condivisa da un gruppo di persone diventa “di scuola”; ma non c’è niente di male, anzi. Bisogna considerarsi fortunati ,se si riesce a condividere certi indirizzi etici ed estetici con serenità e misura,fornendo il proprio apporto individuale,che può essere accettato da tutti, ma può anche essere esaminato e rivisto, se opportuno, per suggerimento degli stessi compagni di viaggio
Gino Rago
31 marzo 2018 alle 18:02
[cara Rossana Levati, caro Mario Gabriele, caro Giorgio Linguaglossa]
Leggendo tanta poesia degli ultimi anni mi sono sentito non di rado come il tenente Drogo pietrificato nella Fortezza Bastiani situata davanti al deserto dei Tartari. Né ho voluto fare la fine del Sottoprefetto dell’Impero austroungarico ormai sulla strada dell’annientamento.
Avvertivo la necessità di un linguaggio nuovo di poesia ed è stato dichiarato ostinatamente e con chiarezza estrema dalla e sulla nostra Rivista l’ombra delle Parole, fondata e coordinata come meglio non si può fare dal nostro Giorgio Linguaglossa, ben sostenuto in questa autentica battaglia verso il nuovo da una redazione combattiva, generosa, competente.
Anche in questa recentissima mia prova poetica Prima lettera da Vienna a Ewa Lipska mi sono guardato intorno, procedendo per sottrazioni [sarebbe più giusto e vero dire “per esclusioni” ma non mi pare di buon gusto perché il garbo non guasta] e per accoglimento: l’epistolario di prose poetiche di Ewa Lipska, certi racconti di pura magia in yiddish di Isaac B. Singer, qualche brandello di Dino Buzzati del Deserto dei tartari, tanta letteratura mitteleuropea, con Arthur Schnitzler in testa. E ho guardato con occhio puramente infantile ai ‘violinisti’ di Marc Chagall.
Ma per «quella» poesia che inseguo senza risparmio di energie ho guardato in profondità, con un’autentica operazione di scavo, quasi verso per verso, alle forme di In viaggio con Godot di Mario Gabriele e marcatamente a Il tedio di Dio, a Il Cimitero dei morti assiderati, a “Il poeta morto” di Giorgio Linguaglossa, autentiche novità sul piano della forma-poesia…
Ecco perché ancora una volta sono proprio Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa, con la fedelissima Rossana Levati, a entrare per sapienza letteraria e cultura poetica nei miei versi con padronanza, pertinenza, competenza. E di ciò ringrazio Rossana, Mario e Giorgio, in maniera speciale;
e dico ‘grazie’ anche ai frequentatori e alle frequentatrici dell’ Ombra delle Parole per avere semplicemente posato lo sguardo su questa mia “Prima lettera da Vienna a Ewa Lipska” perché già questo semplice sguardo da solo per me è un privilegio.
Merci et
joyeuses Pâques
Giorgio Linguaglossa
31 marzo 2018 alle 21:26
propongo ai lettori questa poesia del poeta e scrittore svedese Lars Gustafsson (Västerås, 17 maggio 1936 – 3 aprile 2016)). Si tratta di una potente parabola della vicenda dell’uomo sulla terra, sul suo destino. Ci sono i quattro elementi: acqua, terra, fuoco e aria; in più c’è l’altezza smisurata: il Nord, e la profondità degli uomini che abitano quella plaga: il Paese della Tenebra, un popolo di sapienti che non vogliono commerciare con gli uomini del sud con i quali non condividono nulla se non le merci strettamente necessarie alla loro sussistenza. La poesia è stata pubblicata su questa rivista nel 2014 ma non sembra aver riscosso molto credito tra i lettori. Adesso la ripropongo perché la rivista e i suoi lettori sono più maturi e hanno percorso un lungo cammino di avvicinamento al cuore di ciò che deve essere una poesia.

Ibn Batutta, viaggiatore arabo non giunse mai più a/ Nord di Bulgar./ Il racconto/
sulla Tenebra e i viaggi per raggiungerla lo affascinarono.
Lars Gustafsson
Ibn Batutta
Quando, Ibn Batutta, viaggiatore arabo, medico
e acuto osservatore del mondo,
nato nel Maghreb nel quattordicesimo secolo,
giunto alla città di Bulgar, venne a conoscenza della Tenebra.
La Tenebra era un paese a quaranta giorni di viaggio verso Nord.
Fu alla fine del mese di Ramadan,
e quand’egli ruppe il digiuno al calare del sole
ebbe appena il tempo di pronunciare la preghiera della notte
prima che il nuovo giorno albeggiasse. Le betulle s’ergevano bianche.
Ibn Batutta, viaggiatore arabo non giunse mai più a Nord
di Bulgar. Il racconto
sulla Tenebra e i viaggi per raggiungerla lo affascinarono.
Il viaggio venne intrapreso solo da ricchi mercanti.
Si spostano con centinaia di slitte
cariche di cibo, bevande e legna,
perché là il suolo è coperto di ghiaccio
e nessuno può camminarci sopra senza scivolare
tranne i cani, le cui unghie riescono a far presa
nel ghiaccio eterno. Non ci sono alberi né pietre,
e tanto meno case, per orientarsi durante il viaggio.
Le guide al Paese della Tenebra sono i vecchi cani
che già hanno fatto il viaggio molte volte.
Simili cani hanno un prezzo che può arrivare
a mille dinari o più, perché le loro conoscenze
sono insostituibili. Al momento di un pasto
si servono i cani prima degli uomini
perché altrimenti il capo della muta s’infuria
e se ne va, abbandonando il padrone al suo destino.
Nella grande tenebra. Dopo quaranta giorni di viaggio
i mercanti si fermano nella Tenebra. Dopo quaranta giorni di viaggio
i mercanti si fermano nella Tenebra. Depongono
a terra le merci e fanno ritorno al campo.
Il giorno successivo tornano e trovano
mucchi di zibellini, ermellini e scoiattoli
un po’ discosti dalle merci accatastate.
Se il mercante è soddisfatto dello scambio prende le pelli.
Altrimenti le lascia lì. Allora gli abitanti
della Tenebra aumentano la loro offerta con altre pelli
oppure si portano via tutto quello che avevano messo lì
e sdegnano le merci dello straniero.
È il loro modo di commerciare.
Ibn Batutta ritornò nel Maghreb
e morì in età avanzata. Ma quei cani
che, muti ma sapienti
privi di parola ma con cieca sicurezza
correvano sul ghiaccio levigato dal vento addentrandosi nella Tenebra.
ancora non ci danno pace.
Noi parliamo, e le parole sono più sapienti di noi.
Noi pensiamo, e il pensato ci precede
come se sapesse qualcosa
che noi ignoravamo. Messaggi corrono
attraverso la storia, un codice che si traveste da idee,
rivolgendosi ad altri e non a noi.
La storia delle idee non è una scienza della psiche.
e i cani, con passi rapidi e sicuri.
sempre più nella tenebra.
(da Pozzi artesiani sogni cartesiani, 1980
traduzione di Fulvio Ferrari)
Lucio Mayoor Tosi
1 aprile 2018 alle 0:13
Spero che di questa poesia di Lars Gustafsson torneremo a parlare presto. Milosz e Tranströmer insieme, il secondo velatamente nel finale. Questi i sapori. Ma quel passo lungo nella scrittura Gustafsson non ha precedenti. Non l’avevo letta o chissà, forse ero tra i lettori che non ci fecero caso. Ma no, non l’avevo letta. Narrazione agilissima, stile che autorizza anche i migliori talenti a osare. Grazie davvero.
L’ontologia dell’opera e l’interpretazione della poesia
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/01/gino-rago-una-poesia-prima-lettera-da-vienna-a-ewa-lipska-lars-gustafsson-1936-2016-una-poesia-ibn-batutta-commenti-di-alfredo-de-palchi-laura-canciani-anna-ventura-rossana-levati-mario-m/comment-page-1/#comment-33458
Interpretare un testo è leggerlo in trasparenza. Significa porsi davanti ad esso come di fronte a un francobollo o a una banconota per verificarne l’autenticità osservandone la filigrana. Ciò che rende “autentico” un testo è il valore che esso riceve dai significati nascosti, che ne costituiscono la vera essenza, il fondamento. Un’opera che non lascia spazio all’interpretazione; che si mostra in superficie e in piena luce senza lasciare intravedere una profondità, dice tutto di sé, e ciò è sufficiente per ritenerla un’opera chiusa e “falsa”. La sua “falsità” è di servire solo alla lettura, ad ingannare il tempo, o anche di esistere per il semplice diletto, ma senza un cuore da donare al lettore, senza un volto del quale egli possa innamorarsi e, conseguentemente, desiderare di parteciparne la bellezza, di condividerla con altri possibili amanti. L’autenticità di un’opera è nella sua apparente oscurità.
Conviene, a tale proposito, ricordare ciò che Ernst Cassirer, il filosofo delle forme simboliche, asserì a riguardo del discorso metaforico, dell’aforisma, della parabola. L’oscurità di Eraclito (io aggiungo, di Hölderlin e di Heidegger), l’aforistica riflessione di Bacone e di Schopenhauer sembrarono al Cassirer il più adatto modo di rendere all’uomo la “verità” che la lucida stringatezza del discorso argomentativo logico non è in grado di adeguatamente penetrare e rappresentare. Dunque, autentica è quell’opera che ha una verità da rivelare, così come è falsa quella che manca di questo fondamento, di questo valore di verità. L’oscurità è la profondità e il senso dell’opera, la quale se-duce il lettore e lo persuade ad amarla, ad avere cura del suo discorso, del suo linguaggio, di ciò che questo dice tra le righe e lascia affiorare in trasparenza.
Essere interpreti significa intra-vedere nell’opera l’«ombra» che ne costituisce la filigrana; è porsi in ascolto del canto al di là della scrittura, dove risuona come un’eco, e godere dell’armonia, della corrispondenza tra il suono delle parole e il significato che vi si cela. Un testo è autentico, è vero, ha valore, se il suo linguaggio non è un flatus vocis, un discorso vuoto di senso, un dire privo di logos.
La verità dell’opera è la presenza dell’essere che la fa esistere. In virtù della sua natura ontologica, un’opera è sempre fondamentale ed è un “capolavoro” se, e in quanto, rimanda all’essere, al principio che la determina. L’interpretazione deve, perciò, tenere conto di questa sua natura, che ne costituisce il tessuto pregiato, la filigrana dei significati.
Leggere è andare al di là di ciò che «appare», per com-prendere ciò che «è» l’opera; significa scendere nella sua profondità, entrare nell’ ombra delle parole per chiarire la “ragione” della loro nascita, fuori della luce accecante. Leggere, come suggerisce la radice «leg», rimanda al lògos, alla parola che custodisce l’essere, il quale, a sua volta, la genera.
L’essere e la parola, dunque, « abitano» l’uno nel grembo dell’altra, e viceversa, e questo grembo è l’ombra, che trattiene in sé la migliore luce. Leggere è rac-cogliere, adunare i suoni nel tentativo di penetrare la musica; è porsi in sintonia con l’anima dell’autore per cor-rispondere insieme, con amore e devozione, alla verità, per grazia ricevuta.
Perché l’opera è una visita e una vocazione, alla quale si è chiamati. All’ombra si volge lo s-guardo dell’autore e sulla scena del sogno, che si apre dietro le quinte dell’occhio, assiste allo spettacolo delle rivelazioni. Nulla si mostra in filigrana nell’opera che non sia colto e rappresentato nel teatro dell’interiorità, dove si realizza la corrispondenza tra ciò che si legge e ciò che in quest’intima dimora si “rappresenta”. In un testo che vale, le parole sono il suono, la voce, l’eco dell’essere, il quale nasconde il suo volto tra le costellazioni dei significati e incanta con le sirene del suo linguaggio.
La poesia è il linguaggio dell’essere, ed è la Bellezza, il canto assoluto che non si concede mai interamente all’ascolto e ammalia senza annientare chi naviga in sua prossimità. La sua presenza nascosta rende ogni opera aperta e incompiuta e così garantisce l’inesauribilità della creazione umana preservandola dall’estinzione. Allora, interpretare non è dare compiutezza all’opera cogliendone il canto infinito, ma accostarsi a questo attraverso la risonanza dei suoi significati, modulando la propria vibrazione interiore sulle vibrazioni semantiche dell’invisibile canto. Interpretare un testo è porsi in cammino nel solco dell’ombra, sulle orme della sua luce; è entrare in sintonia con lo s-guardo dell’autore per vedere i suoi sogni in filigrana, per ricevere con il dono della sua poesia la visita dell’angelo.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/01/gino-rago-una-poesia-prima-lettera-da-vienna-a-ewa-lipska-lars-gustafsson-1936-2016-una-poesia-ibn-batutta-commenti-di-alfredo-de-palchi-laura-canciani-anna-ventura-rossana-levati-mario-m/comment-page-1/#comment-33459
Nell’apprezzare la poesia di Lars Gustafsson avrei anche dovuto dire della splendida poesia di Gino Rago. Lo faccio ora.
In questa “Prima Lettera da Vienna a Ewa Lipska”, Gino Rago mi ha trasmesso silenzio tombale, quel brusio che a volte immaginiamo di sentire nelle vicinanze di un cimitero; oppure come oggi, giorno di Pasqua: i morti adorano le feste in famiglia. Ma qui si parla di morte della poesia – Signora Schubert – il clima non può essere quello di un funerale.
Le parole di Gino Rago sopravanzano le immagini, ma lo fanno per beltà di contenuto. Hanno peso e precisione. Forse Gino è poeta “omerico”. Se così, è una gran fortuna averlo tra di noi.
Caro Giorgio,
mi sembra che il traguardo del tuo percorso, ossia l’invisibilità delle metafore indicibili, “non articolabili in parole”, al pari di paesaggi che traboccano dal quadro e si sparpagliano in libertà, uscendo dalla loro visibilità e dunque dalla nostra capacità di afferrarli, dovrebbe raggiungere, per coerenza e quasi obbligatoriamente , le spiagge sconfinate del silenzio, un linguaggio non formulato, muto, inaudibile, appena pensato, in contraddizione e contrasto con il flusso di parole che accompagna quel cammino.
“Andiamo verso la catastrofe per un eccesso di parole”, scrivi tu.
Amore e odio per le parole. Temerle e esserne avvinghiati. Girare intorno ad un pozzo pieno di cose “lise”, vaghe o sconosciute, di schegge incoerenti, forse di nulla. Non è, questo rivangare, diventato il fulcro e il nodo centrale di tale ricerca? La strada da percorrere con i suoi bivi, ostacoli, divieti, dubbi, quasi più interessante della meta da raggiungere?
Ma superata questa fase – se lo sarà -, ubbidire interamente al nuovo “vangelo” non rischia di zittire la poesia, ogni poesia? A furia di parlarne, di
ucciderla?! Quella del passato forse, ma anche quella a venire, che ha bisogno di sentirsi libera per potersi esprimere sotto le forme disparate che corrispondono alla mente e all’anima di ognuno?
cara Edith,
lo sai la stima che ho per la tua poesia e il tuo tragitto, però devo dirti che noi non abbiamo nessun “vangelo” da diffondere, non siamo degli apostoli di un nuovo vangelo, noi
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parliamo dei problemi giganteschi del nostro tempo, parliamo della poesia che non può essere la chiacchiera indiscriminata che si trova in giro in Italia e in Europa. Come vedi, in questo post, abbiamo pubblicato e commentato due poesie di livello altissimo, una di Gino Rago e l’altra di Lars Gustafsson, altre volte abbiamo commentato a lungo le tue poesie… La discussione è libera, chi ha idee le può e le deve esporre… ma certo non crediamo di essere degli apostoli né di voler diffondere un nuovo vangelo, ci basta quello che c’è…
Il ritardo storico della poesia italiana. Gli anni dieci.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/01/gino-rago-una-poesia-prima-lettera-da-vienna-a-ewa-lipska-lars-gustafsson-1936-2016-una-poesia-ibn-batutta-commenti-di-alfredo-de-palchi-laura-canciani-anna-ventura-rossana-levati-mario-m/comment-page-1/#comment-33464
Ecco un brano di un mio libro, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013. In anticipo (o in posticipo) sull’auspicabile discussione, a proposito della tesi di un ritardo storico della poesia italiana del Novecento a causa della sua «impalcatura piccolo-borghese» e della primogenitura della linea maggioritaria del minimalismo romano-milanese:
Nella poesia degli Anni Dieci e di questi ultimi anni è evidente che il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa», più vicina alla «vita», e quest’ultima si scopre irrimediabilmente lontana dal «quotidiano»; sembra come per magia, allontanarsi dalla «vita» per via, direi, di un eccesso di intensità e di velocità. La polivalenza polifunzionale degli stili emulsionati raggiunge qui il suo ultimo esito: una sorta di fantasmagoria dialettica della realtà e della fantasia: una dialettica dell’immobilità dove scorrono le parole come fotogrammi sulla liquida superficie del monitor globale-immaginario caratterizzate dalla impermanenza e dalla instabilità. È la forma-poesia che qui né implode né esplode ma si disintegra come sotto l’urto di forze soverchianti e disgregatrici. E la forma-poesia assume in sé gli elementi dell’impermanenza e della instabilità stilistiche quali colonne portanti del proprio essere nel mondo. La rivendicazione della «bellezza» rischia così di diventare una parola d’ordine utile agli altoparlanti del cerchio informativo mediatico. Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato).
Così pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio. Possiamo dire che nelle nuove condizioni della poesia degli Anni Dieci il nuovo si confonde con l’antico, il patetico con l’apatico, l’incipit con l’explicit ed entrambi risultano indistinguibili in quanto scintillio di una fantasmagoria, alchimia di chimismi elettrici, brillantinismi di un apparato fotovoltaico.A questo punto, dobbiamo chiederci: la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità» che ha attraversato il Novecento europeo, ha avuto una qualche influenza o ricaduta sulla poesia italiana contemporanea? È stata in qualche modo recepita dalla poesia del secondo Novecento? Ha avuto ripercussioni sull’impianto stilistico e sull’impiego delle retorizzazioni? E adesso proviamo a spostare il problema. Era l’impalcatura piccolo-borghese della poesia del secondo Novecento una griglia adatta ad ospitare una problematica «complessa» come quella dell’«autenticità», della «identità», della crisi del «soggetto»? Nella situazione della poesia italiana del secondo Novecento, occupata dal duopolio a) post-sperimentalismo, b) poesia degli oggetti, c’era spazio sufficiente per la ricezione di una tale problematica? C’erano i presupposti stilistici? Malauguratamente, sia il post-sperimentalismo che la poesia degli oggetti non erano in grado di fornire alcun supporto filosofico, culturale, stilistico alla assunzione delle problematiche dell’«autenticità» in poesia. Di fatto e nei fatti, quelle problematiche sono rimaste una nobile e affabile petizione di principio nel corpo della tradizione poetica del tardo Novecento.
Personalmente, nutro il sospetto che il ritardo storico accumulato dalla poesia italiana del Novecento nell’apprestamento di una area post-modernistica e/o post-contemporanea, si sia rivelato un fattore molto negativo che ha influito negativamente sullo sviluppo della poesia italiana ritardando, nei fatti, la visibilità di un’area poetica che poneva al centro dei propri interessi la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità». Relegata ai margini, l’area modernistica è uscita fuori del quadro di riferimento della poesia maggioritaria. Poeti che hanno fatto dell’«autenticità» e dell’«identità» il nucleo centrale della loro ricerca appartengono alla generazione invisibile del Novecento, i defenestrati dall’arco costituzionale della poesia italiana. È tutta la corrente sotterranea del modernismo e del post-modernismo che risulta espunta dalla poesia italiana del secondo Novecento, la parte culturalmente più vitale e originale.
Si spalanca in questo modo la strada all’egemonia della poesia piccolo-borghese del minimalismo romano e dell’esistenzialismo milanese degli anni Ottanta e Novanta, che giunge fino ai giorni nostri, e così si pacifica la storia della poesia italiana del secondo Novecento vista come una pianura o una radura di autori peraltro sprovveduti dinanzi alle problematiche che stavano al di là del loro angusto campo visivo e orizzonte di attesa.
Si stabilisce una affiliazione stilistica, un certo impiego degli «interni» e degli «esterni» urbani e suburbani, certe riprese «dal basso», certe inquadrature «di scorcio», una certa «velocità», un certo zoom paesaggistico, un certo modo di accostare le parole e una certa interpunzione dei testi, un certo impiego della procedura «iperrealistica» di avvicinamento all’oggetto; viene insomma stabilita una determinata gerarchia dei criteri di impiego delle retorizzazioni e della iconologia degli «oggetti». L’iconologia diventa un’iconodulia. In una parola, viene posto un sistema di scrittura dei testi poetici e solo quello. In un sistema letterario come quello italiano in cui viene rimossa una intera generazione di poeti ed una stagione letteraria come quella del tardo modernismo, non c’è nemmeno bisogno di imporre ad alta voce un certo omologismo stilistico e tematico, è sufficiente indicarlo nei fatti, nelle scelte concrete degli autori pubblicati nelle collane a maggiore diffusione nazionale.
Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione), semmai conosce tempi di stasi e di latenza. In tempi di stagnazione stilistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie? Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande fondamentali. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del mercato, analogamente, ogni crisi stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia?
Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è oggi in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione? Io direi che la stagnazione stilistica è oggi ben visibile in Italia e si manifesta con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Ed i lettori fuggono, preferiscono passeggiare o guardare la TV.
Uno stile nasce nel momento in cui sorge una nuova autenticità da esprimere: è l’autenticità che spezza il tegumento delle incrostazioni stilistiche pregresse. Non c’è stile senza una nuova poetica. Uno «stile derivato» è uno stile che sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica. Gran parte della poesia contemporanea eredita e adotta uno «stile derivato», un mistilinguismo (alla Jolanda Insana) composito, aproblematico e apocritico che può perimetrare, come una muraglia cinese, qualsiasi discorso, qualsiasi chatpoetry. Che cos’è la chatpoetry? È lo stile, attiguo a quello dei pettegolezzi delle rubriche di informazione e intrattenimento dei rotocalchi, del genere dei colloqui da salotto piccolo borghese televisivo intessuto di istrionismi, quotidianismi e cabaret. Vogliamo dirlo con franchezza? Quanti libri di poesia adottano, senza arrossire, il modello televisivo del reality-show? Quanti autori adottano un modello di mistilinguismo, di idioletto di marca pseudo sperimentale acritico e gratuito? Quanta poesia contemporanea agisce in base al concetto di realpolitik del modello poetico maggioritario? Quanta poesia reagisce adattando il modello idiolettico (che oscilla tra chatpolitic e realityshow) di diffusione della cultura massmediatizzata? Vogliamo dirlo? Quanta poesia in dialetto è scritta in un idioletto incomprensibile e arbitrario? E dove lo mettiamo il mito della lingua dell’immediatezza? Il mito della lingua dell’infanzia? Come se la lingua dell’infanzia avesse un diritto divino di primogenitura quale lingua «matria» particolarmente adatta alla custodia dell’autenticità!
Oggi dovremmo chiederci: quanta poesia neodialettale del tardo Novecento fuoriesce dalla forbice costituita dalla retorica oleografica e dal folklore applicato al dialetto? Quali sono (in pieno post-moderno) le basi filosofiche che giustificano l’applicazione dello sperimentalismo al dialetto? Che senso ha, dopo la fine della cultura dello sperimentalismo, applicare la procedura sperimentale al dialetto come hanno fatto Franco Loi e Cesare Ruffato? Ha ancora un senso il mistilinguismo di Jolanda Insana? Ha senso adoperare la categoria della «Bellezza» avulsa da ogni contesto? E l’«autenticità»? Ha ancora senso parlare di «Bellezza» in mezzo alla «chiacchiera» del mondo del «si»? Si può ancora parlare della «Bellezza» in mezzo alla estraniazione del mondo delle merci e dei rapporti umani espropriati dell’ipermoderno?
Dalla «Nascita delle Grazie» fino al «mitomodernismo» c’è una incapacità di fondo a costruire una piattaforma critica. La poesia mitomodernista segue, e non potrebbe non farlo, il piano inclinato delle poetiche epigoniche del tardo Novecento, decorativa e funzionale agli equilibri della stabilizzazione stilistica. Il «recupero di concetti come Anima, Visione, Ispirazione, Destino, Avventura»; «La proposta della Bellezza come valore universale» (dizioni di Roberto Mussapi), sono concetti tardo novecenteschi, maneggiati in modo ingenuo-acritico, inscritti nel codice genetico del modello letterario mitopoietico.
Ma chi non è d’accordo sullo scrivere una poesia «bella»? È un proposito senz’altro condivisibile, ma non basta una semplice aspirazione per scrivere una poesia «bella». L’assenza peraltro di una struttura critica, di un pensiero filosofico in grado di affiancare quella proposta di poetica, ha finito per pesare negativamente sullo sviluppo del mitomodernismo come poetica propulsiva. Perorare, come fa Mussapi, che «come esiste l’Homo Religiosus esistano anche l’Homo Tradens e l’Homo Poeticus», è, come dire, un atto di inconfessabile ingenuità filosofica.
Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di «identità», di «soggetto», di «irriconoscibilità» della scrittura poetica implica porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione». Il discorso poetico del prossimo futuro dovrà passare necessariamente attraverso la cruna dell’ago della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento.
Il commento di Gugliemo Peralta,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/01/gino-rago-una-poesia-prima-lettera-da-vienna-a-ewa-lipska-lars-gustafsson-1936-2016-una-poesia-ibn-batutta-commenti-di-alfredo-de-palchi-laura-canciani-anna-ventura-rossana-levati-mario-m/comment-page-1/#comment-33462
mette il dito sul punto centrale: che cos’è la poesia? Qual è il legame che coinvolge la poiesis e l’essere? Qui abbiamo la fortuna di leggere e ammirare due splendide poesie, una di Gino Rago e l’altra di Lars Gustafsson. Non mi dilungo in parole, lo ha già fatto Guglielmo, solo vorrei dire che in queste due poesie ciò che ci rimane a lettura ultimata è il silenzio, un grande silenzio assordante. entrambe le poesie puntano al diapason più alto con un linguaggio triviale con incastonate alcune pietre preziose, ma come se noi avessimo perduto per sempre la capacità di distinguere il triviale dal prezioso, entrambe le due poesie, come ha dichiarato Lucio Mayoor Tosi, ci narrano di un «vuoto», il Nord nella poesia di Gustafsson è il luogo della autenticità, della poesia, la «Tenebra» del poeta svedese indica qualcosa di assai diverso dalla tenebra che conoscono i popoli del Sud, è la tenebra che squilla di un’altra luce. Potentissima metafora e allegoria della condizione umana. Nella poesia di Gino Rago abbiamo il de profundis di un «lutto», è morta la Signora Schubert (la poesia), cioè il luogo della autenticità e il poeta è costretto a cercare quel luogo scomparso interrogando i superstiti: Ewa Lipska e Giorgio Linguaglossa, interrogando alcune loro locuzioni, è una ricerca che va a caccia delle tracce di un delitto: chi l’ha compiuto? Chi sono i responsabili? Dove ci troviamo? – Che poi sono gli interrogativi che tutti gli uomini di buona volontà, prima o poi, devono porsi. E questa è precisamente la forza della nuova ontologia estetica, la capacità dei suoi poeti di sollevare le Grandi Domande…
Caro Giorgio,
come splendidamente dice Edith Dzieduszycka alludendo al dialogo sul tema della Critica e della Nuova Poesia che tu ci stimoli a fare:
– …l’invisibilità delle metafore indicibili, “non articolabili in parole”, al pari di paesaggi che traboccano dal quadro e si sparpagliano in libertà, uscendo dalla loro visibilità e dunque dalla nostra capacità di afferrarli, dovrebbe raggiungere, per coerenza e quasi obbligatoriamente , le spiagge sconfinate del silenzio, un linguaggio non formulato, muto, inaudibile, appena pensato, in contraddizione e contrasto con il flusso di parole che accompagna quel cammino.
“Andiamo verso la catastrofe per un eccesso di parole”… -.
Forse non è un caso che stanotte: aleggiavano già le energie del post di questa mattina? dall’uovo di Pasqua della poesia è uscita a sorpresa questa lirica “Non detto”.
Nessuno l’aveva chiamata, si è fatta all’improvviso immagine di qualcosa che solo apparentemente non c’è. Forse seguiva – le riflessioni continuano, meno male! – il discorso fatto con te nei giorni precedenti sul “vuoto”. O meglio accanto a lui, d’incanto, mi si è presentato il “non detto”. Ne è nata un’equazione.
Il vuoto : al pieno = il non detto : al silenzio.
Il prodotto dei medi e’ uguale al prodotto degli estremi.
Non detto
Urla il non detto
nelle pieghe del silenzio
Compagnia ineludibile
Pensiero dietro
Ombra di luce
abbraccia calda
il movimento della vita
Tutto avvolge
seguendone il respiro
Ora, qui
aggrappato alla carta
prima che il ricordo consumato
lo condanni a morte
Luciana Vasile
Care Luciana Vasile e Edith Dzieduszycka,
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innanzitutto, complimenti a Luciana Vasile per la tua poesia sul «silenzio» e sull’«Ombra», però vorrei correggere la interpretazione sostenuta da Edith Dzieduszycka secondo la quale ci sarebbe un nesso di equivalenza tra la «invisibilità» e la «indicibilità» e quindi il «silenzio» quale conseguenza ineludibile di questa triplice equivalenza ontologica, il cui esito sarebbe la ricaduta in un «silenzio» ontologico di prima del linguaggio. Io, veramente, ho tentato di veicolare un diverso concetto che non presuppone nessuna equivalenza ontologica ma anzi una differenza ontologica (come ci insegna Heidegger e l’ermeneutica più avvertita) tra l’essere, la «invisibilità» e la «indicibilità». La poesia si situerebbe a mio avviso nella differenza ontologica tra la «indicibilità» dell’essere e la «dicibilità» del linguaggio. Mi è lontanissima la concezione mistica del «silenzio» guaritore del «rumore delle parole», anzi, le mie idee in proposito si situano in un diverso demanio concettuale.
La cosiddetta «metafora silenziosa», secondo la mia lettura di una poesia di Donatella Costantina Giancaspero è quel punto, quel nodo della lingua, quel gorgo della lingua che resiste a qualsiasi codificazione metaforica; questa resistenza che il linguaggio oppone a se stesso, resistenza che fa fallire tutte le metafore che vorrebbero portarci al di là del linguaggio (cosa impossibile!). In quei momenti il linguaggio manifesta i suoi limiti intrinseci: tutte le metafore sono ordinate in cerchi concentrici attorno ad una metafora CHE MANCA, è questo che rende avvertibili e comunicabili le metafore le quali si rivelano insufficienti come è insufficiente il linguaggio ad uscire fuori di sé, fuori di sé perché l’essere è fuori dal linguaggio che non può indicare l’essere a dito. Raggiungere l’essere è, dal punto di vista del linguaggio, impossibile, lì si entra in una zona d’ombra del linguaggio, una zona dove muore la semantica, essendo la semantica nient’altro che una mantica, un atto linguistico che ricorda quello numinoso e magico, una magia antropomorfizzata, secolarizzata e impoverita: ciò che resta della potenza vocabologica del mondo magico nel mondo feticizzato.
Leggendo la poesia Ibn Batutta di Lars Gustafsson sono stata colpita da quel Paese della Tenebra, che mi ha fatto pensare inizialmente alla Terra dei Cimmeri – regno dei morti di Omero ed anche, per altri versi, a quel regno di ghiaccio ai confini del mondo, l’Ultima Thule di cui parlano alcuni storici greci, Virgilio e che recentemente ha cantato anche Guccini.
Tuttavia il Paese della Tenebra si è per me sovrapposto alla “notte cimmeria” di cui parla Manganelli: una “notte costante, totale, che nessuna alba rimuove, nessun tramonto, che si sappia, ha mai preannunciato” (“Nottambuli”, in “La notte, 1996, Adelphi); una “sostanza notte” persistente, inalterabile, in cui risiede il significato profondo della terra cimmeria, e del tutto opposta alla notte di cui noi abbiamo esperienza, notte che è solo “accidente”, provvisoria, effimera. La notte cimmeria, la sostanza-notte contiene alberi, erbe, animali e uomini che in essa vivono: invisibili ai nostri occhi, percepibili solo tramite fruscii, brividi, suoni sommessi.
Inconoscibile e inquietante per gli uomini, la notte cimmeria al tempo stesso attrae, affascina ma si presenta come totalmente estranea nella sua alterità e suscita pertanto il desiderio di essere inglobata dal mondo normale che la vorrebbe abolire e che a tal fine mette in campo un perfetto repertorio di ipocrisie, ispirate dal mito del progresso e della tecnica: “per molto tempo si è sostenuto, e ancora si sostiene, essere nostro dovere intervenire con quei mezzi che la nostra tecnica ci offre, per carità e per amore di coloro che stanno nella notte, giacchè essi non possono essere che infelici, e solo apparentemente sani perchè avvezzi a quel loro quotidiano orrore di una interminabile notte”.
Ma ogni tentativo di “spiegare” la notte o di assimilarla fallisce: “Fu allora che sorse in taluni la speranza di poter modificare la notte parlandole, come a cosa sensata; ritenendo infatti taluni che la notte, come sostanza, fosse viva, e non ignara di intendimento. Ma voi sapete quel che accadde; che coloro che si rivolgevano alla notte sembravano sì trarne qualche attenzione; ma in realtà essi stessi venivano a se’ chiamati dalla notte, e in qualche modo se ne infettavano, o forse se ne invaghivano, come taluno disse, e se ne illuminavano; e infine essi divenivano dei notturni periferici, inetti a vivere all’interno di quella notte compatta, e repugnanti a perdurare nel nostro mondo della notte accidentale”.
Tra i vari studiosi della notte, non manca chi la interpreta come “sopranatura” e conclude che la notte “non sarebbe incapace di recare un messaggio, ma lo farebbe in modo guasto; ad esempio, un enigma che ignora di essere tale, un simbolo decomposto, una allegoria le cui figure dicono parole sciocche, o solo frammenti di parole”; altri ancora ritiene che la notte non rappresenti “balbuzie, ma discorso capovolto: come se la sopranatura si fosse per un attimo incontrata con uno specchio, arrovesciandosi”
(Manganelli, “Addenda alle note sulla notte sostanziale”, ibidem)
Gentilissima Anna Ventura, la ringrazio: mi considero fortunato di aver incontrato un gruppo di persone che discutono di poesia con impegno e profondità di pensiero. E ringrazio Giorgio Linguaglossa per le affermazioni che spazzano gli orizzonti decrepiti e ancora “petrarcheschi” delle nostre età… Prima o poi avverrà anche la resurrezione! Siamo a Pasqua! Ecco allora un suggerimento di David Maria Turoldo che ritengo di qualche utilità.
No, credere a Pasqua non è giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!
Fede vera è al venerdì santo
quando tu non c’eri lassù!
Quando non una eco risponde
al suo alto grido
e a stento il Nulla dà forma
alla tua assenza.
Colloquio immaginario a tre [Guglielmo Peralta-Giorgio Linguaglossa- Gino Rago] sulla questione delle Grandi Domande in poesia [questione che Giorgio Linguaglossa pone al centro della sua recentissima opera psicofilosofica Critica della Ragione Sufficiente]
Guglielmo Peralta
“[…]In un testo che vale, le parole sono il suono, la voce, l’eco dell’essere, il quale nasconde il suo volto tra le costellazioni dei significati e incanta con le sirene del suo linguaggio[…]
La poesia è il linguaggio dell’essere, ed è la Bellezza, il canto assoluto che non si concede mai interamente all’ascolto[…]
Allora, Interpretare un testo è porsi in cammino nel solco dell’ombra, sulle orme della sua luce; è entrare in sintonia con lo s-guardo dell’autore per vedere i suoi sogni in filigrana, per ricevere con il dono della sua poesia la visita dell’angelo.”
Giorgio Linguaglossa
“[…] Nella poesia di Gino Rago abbiamo il de profundis di un «lutto», è morta la Signora Schubert (la poesia), cioè il luogo della autenticità e il poeta è costretto a cercare quel luogo scomparso interrogando i superstiti: Ewa Lipska e Giorgio Linguaglossa, interrogando alcune loro locuzioni, è una ricerca che va a caccia delle tracce di un delitto: chi l’ha compiuto? Chi sono i responsabili? Dove ci troviamo? […]
Sono gli interrogativi che tutti gli uomini di buona volontà, prima o poi, devono porsi. E questa è precisamente la forza della nuova ontologia estetica:
la capacità dei suoi poeti di sollevare le Grandi Domande…”
Gino Rago
[Brano dalla “Seconda Lettera da Vienna a Ewa Lipska”]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa),
A chi confidare se non a Lei
che la flanella dell’infanzia era morbida
perché il Tempo assoluto di Newton non ci disturbava?
In sogno una voce mi ha detto:
«La Poesia è l’eco che si ascolta quando la vita è muta».
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
Da quel sibilo caduto nel mio dormiveglia
è Lei per me ogni notte quell’eco.
Il mio amico-poeta di Roma in un verso ha scritto:
«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
La cicatrice del dolore nel verso del mio amico
è la stessa di quella che Lei vede nel Suo specchio?
«Quale specchio?» [ Lei giustamente chiede]
«Lo specchio dove il tempo di Newton s’incrina
e su cui Greta Garbo assomiglia a Socrate…»
Non importa che Lei mi dia la risposta.
Importante è che io mi ponga la domanda[…]
GR
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La Poesia è morta? Essa ha il suo sepolcro nell’opera, la quale, quando giunge col suo poeta al “calvario”, dopo il lungo e faticoso cammino dei segni, rimane “crocifissa” e “muore” senza resurrezione. Perché, pure se le è concesso più di un respiro in altre opere e nelle interpretazioni, essa non si ricongiunge con la Poesia, della quale è fatta a immagine e somiglianza e della quale è solo il solenne cenotafio.
Condivido il giudizio di Guglielmo Peralta:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/01/gino-rago-una-poesia-prima-lettera-da-vienna-a-ewa-lipska-lars-gustafsson-1936-2016-una-poesia-ibn-batutta-commenti-di-alfredo-de-palchi-laura-canciani-anna-ventura-rossana-levati-mario-m/comment-page-1/#comment-33511
«La Poesia è morta? Essa ha il suo sepolcro nell’opera», scrive Guglielmo Peralta. Oggi un’opera di poesia degna di questo nome non può parlare d’altro tema che della propria morte. «Senza resurrezione». «Il solenne cenotafio» di se stessa.
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro