Mario Benedetti,Poesie – da Tutte le poesie a cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta,  Garzanti, 2017 pp. 327 € 16, con un Commento critico di Giorgio Linguaglossa

Foto Edward Honacker

[foto Edward Honacker] Elementi. Terra,
metalli, pietre preziose, fiori, veleni.
Anima. Mente,
memoria, oblio, pape, stupefazione.
Inferno.

  Mario Benedetti nasce a Udine nel 1956, dopo i primi venti anni trascorsi nel paese di Nimis (Ud), si trasferisce nel 1976 a Padova dove si laurea in Lettere con una tesi sull’opera complessiva di Carlo Michelstaedter, diplomandosi poi in Estetica presso la Scuola di Perfezionamento della stessa Facoltà universitaria. Si dedica all’insegnamento sia a Padova che a Milano, città in cui si trasferisce e dove attualmente risiede. La sua esistenza, la sua poesia ed il suo modo di essere sono fortemente connotati dalla presenza di una malattia congenita, una particolare forma di sclerosi multipla che lo accompagna dall’infanzia. Gravi episodi dovuti a questa malattia si verificano nel ’99 e nel 2000. In seguito ad un arresto cardiaco avvenuto nel 2014 è ospite presso una struttura sanitaria milanese. Dal 1994 vive a Milano. Le opere più recenti sono: Umana gloria (Mondadori, Milano 2004), Pitture nere su carta (Mondadori, 2008), Materiali di un’identità (Transeuropa, Massa 2010), Tersa morte (Mondadori, 2013). È presente in varie antologie tra cui Poeti taliani del Secondo Novecento (Mondadori, 2004).

Scrive Stefano Dal Bianco nella nota che precede il volume:

«Della quantità di libri e plaquettes pubblicati un po’ alla macchia a partire dal 1982, e poi variamente confluiti con tagli e rimaneggiamenti acerrimi in Umana gloria nel 2004 (e non soltanto lì), il titolo che mi sembra possa rappresentare al meglio la postura fondamentale di Benedetti è Il cielo per sempre (1989), già apprezzato da Andrea Zanzotto […] La verità sta anche nella fatica dell’uscire da sé, che è enorme e nei versi si sente: ovunque compaiono forme di impossibilità della comunicazione immediata, e in qualche modo questa poesia conserva, malgrado gli sforzi in senso contrario, una potente dose di autoriflessività, di incapacità di uscita. Sibi u “groppi della scrittura, che sarebbe ingiusto considerare come l’esito di una qualche ricerca espressiva, e che sono invece degli autentici residui, dei pezzi di carne cui è difficile rinunciare… nei buchi neri della lingua, in ciò che manca, nelle giunture vertiginose e nelle ellissi, in quanto carenza o impertinenza dei nessi connettivi, e insomma nel recalcitrare alla sintassi».

Scrive Antonio Riccardi nella premessa al volume:

«La lingua di questa poesia è quella della vita quotidiana, il tono è un basso e dimesso parlato, le figure retoriche sono rare. Il suo stile cerca “uno scarto minimo” rispetto alla comunicazione ordinaria… Lo stile semplice e antiretorico di Umana gloria esprime, dunque, una fiducia nella poesia vista come strumentazione per raccontare “in chiaro” l’esperienza.

Nei libri successivi questa fiducia sembra entrare progressivamente in crisi: in Pitture nere su carta (2008) la scrittura si fa più violenta e frammentata (“erano le fiabe, l’esterno./ Bisbigli, fasce, dissolvenze.// L’esterno dell’esterno/ qualcosa ascolta.// Qui// Oh.”); e in Materiali di un’identità (2010), addirittura, Benedetti sceglie una tipologia testuale sincopata, mista tra la poesia e una forma di non fiction espressiva che rielabora di volta in volta le letture e le ascendenze… La crisi della parola in Pitture nere  e in Materiali è superata con l’ultimo libro, Tersa morte, dove il problema della rappresentazione dell’esperienza diventa soprattutto il terreno di una ricerca etica. […]

Alcune tra le esperienze più significative della nostra poesia recente sono concentrate soprattutto sulla vita privata e interiore dell’io, proposta di volta in volta come paradigma di verità, nella prospettiva confessionale ed espressivistica che fa leva sul neo-individualismo, negli anni Settanta, oppure come opzione teatrale e ironica negli anni Ottanta del postmoderno. In modo sottile e autorevole Benedetti chiede invece alla soggettività di stare in poesia senza falsificazioni, di spogliarsi, di pronunciare senza tentennamenti la verità su se stessa, pur nei comprensibili limiti della storia di un individuo. Parlare di soggettività in poesia diventa così un atto di conoscenza e di forza etica, in cui si può leggere una chance neo-umanistica».

Foto uomo verde sulla strada

la discarica delle parole di poesie che respingono.

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Mario Benedetti inizia  a scrivere a metà degli anni settanta; se consideriamo l’orizzonte della poesia italiana di quegli anni non possiamo non prendere atto della liquidazione delle poetiche in auge in quegli anni che il poeta friulano pone in essere, fa una poesia disboscata di tutti i luoghi retorici di quegli anni, va in contro tendenza, il suo parametro di riferimento è il registro basso, un metro atonico, la dismissione di ogni armamentario segmentale e sopra segmentale e l’allineamento alla struttura frastica della poesia lombarda. Negli anni ottanta Benedetti stampa una rivistina, “Scarto minimo”, che conta tra i suoi collaboratori anche Stefano Dal Bianco e Fernando Marchiori, già il titolo è una dichiarazione di intenti: «scarto minimo» rispetto alla lingua di relazione, al linguaggio di tutti i giorni, con in più una deviazione minima dal linguaggio comune. Quello sarà il suo imprinting: l’opzione-petizione per una poesia della fedeltà alle «cose» e al «quotidiano». Forse Benedetti è tra i pochissimi in Italia nei decenni ottanta e novanta a percepire che un intero universo di parole è ormai andato definitivamente alla deriva, si è usurato: «le parole hanno fatto il loro corso» scriverà in una poesia di Pitture nere su carta (2008); parole inequivoche, quasi testamentarie da cui deriva una precisa scelta etica e l’opzione per un discorso poetico che fosse il più possibile fedele alla linearità sintattica e semantica, intento che resiste fino alla raccolta richiamata più sopra del 2008 quando si faranno evidenti le tracce della raggiunta consapevolezza dell’ulteriore aggravamento della crisi della poesia; qui il dettato diventerà didascalico, conciso, preciso fino a sfiorare l’asemantico, quasi un referto medico. Leggiamo due poesie di questa raccolta:

Dal cadavere spagnolo, incisioni oli su tela tempere.
Gli oggetti i ritratti dei Narducci le vedute di una Milano

La seta le insegne dei negozi l’illuminazione.
La ruota
per la deposizione dei neonati, enorme, alla carità.

I navigli. Città d’acqua.
Cavalli calessi cani anatre barche.
Donne e uomini, ragazzi, bambini.

e il cielo lombardo, smeraldo sotto la fuga dei ponti.
ingresso ridotto, Euro 4,50, ai Musei di Porta Romana.

*

Elementi. Terra,
metalli, pietre preziose, fiori, veleni.
Anima. Mente,
memoria, oblio, pape, stupefazione.
Inferno.
Nomi di diavoli, tormento, lamento, ah, disperazione.
Quantità. Misura,
forziere, valigia, in parte, spanna, scheggia, cospargere,
Particelle.
Elle, egli, ei, elleno, ello, eglino, ella.
Particelle.
O! vocante, o! dolente, o! riminiscente.

Non c’è dubbio che qui viene abbandonato il suo primo idioletto dello «scarto minimo» per una rastremazione sintattica ai limiti della sistematica assenza di semantica. Il realismo si tinge del colore del «nero», il peso della sintassi si fa sentire, la sintassi diventa franta, si spezza come davanti all’urto dei tempi nuovi. Albeggia la percezione che una intera tradizione poetica sia andata a finire nelle secche del Ticino, che l’antico linguaggio non sia più sufficiente, che le parole sono diventate buone per la « discarica »; avviene allora che si aprono delle fessure nella sintassi un tempo granitica, anche l’identità dell’io diventa incerta, sfumata: «io sono su questa fotografia»; la crisi esistenziale accompagna, rinforzandola, la crisi della poesia; le composizioni diventano sempre più brevi, sincopate, stenografiche, interrotte da astigmatismo mentale ma il verso rimane pur sempre lineare e unitemporale:

Tra il ferro arrugginito dei vagoni di treni dismessi
la discarica delle parole di poesie che respingono.
Sguardi brevi, arrovellamenti, alberi a caso, afasie.

Non c’è dubbio che qui arriviamo quasi a lambire le problematiche estetiche, esistenziali ed ontologiche che la «nuova ontologia estetica» ha messo sotto la propria lente di ingrandimento in questi ultimi anni: la definitiva crisi della poesia vista come crisi che si autoalimenta della propria crisi e la necessità di prendere atto di dover aprire una nuova pagina della poesia italiana al di fuori della linearità sintattica.
Scriveva qualche giorno fa Donatella Costantina Giancaspero: «C’è oggi una poesia che sa di essere in un sentiero interrotto, che non conduce ad alcun approdo, che “vuole” parlare tramite un linguaggio non-poetico, poroso, un linguaggio da carta assorbente, che annette i linguaggi stracci del mediatico, i robivecchi, i vintage, i rottami, i frantumi, ciò che resta del riciclo dei materiali semantici esausti e combusti. Parlare in arte con un linguaggio artistico «rotondo» oggi è una rimembranza del mondo antico». Ed io commentavo: «I linguaggi della carta assorbente sono i linguaggi disfanici, distopici, i linguaggi dei sentieri interrotti, i linguaggi delle strade di Roma piene di buche, i linguaggi da discarica… Chi non capisce che siamo giunti a questo punto non ha capito nulla di ciò che è avvenuto nella poesia e fuori della poesia di questi anni, chi continua a redigere polinomi frastici, continuerà in buona fede a scrivere polinomi frastici e frasari polinomiali, perché alla buona fede non puoi imputare nulla… A chi non capisce che un nuovo Sandro Penna oggi è impensabile (sarebbe tra l’altro un super kitsch), a chi non capisce che un nuovo sanguinetismo è oggi qualcosa di impresentabile e di irricevibile… a queste persone noi non abbiamo nulla da rimproverare…».

Mario-Benedetti-poeta-italiano

Mario Benedetti

La linea di continuità con la tradizione della poesia lombarda

Scrive Gino Rago che la poesia di Mario Benedetti «per l’uso sapiente della punteggiatura, con cui privilegia spesso il punto,e con versi compiuti e con l’impiego parsimonioso degli aggettivi, mi pare che possa essere tranquillamente annessa allo spirito della NOE».

È vero, ci sono dei punti, direi più che di vicinanza alla nuova ontologia, dei punti di consonanza e di contatto. Mario Benedetti, anche per ragioni storiche, personali e di poetica, resta all’interno della ontologia della poesia del tardo novecento, infatti la rivista che fa con i suoi amici, “Scarto minimo”, durante i primi anni ottanta, come dice il titolo, è fondata appunto sullo «scarto minimo» da un certo modo di impostare la voce e il lessico della poesia che possiamo tranquillamente chiamare «milanese o lombardo»; al contrario, la nuova ontologia che stiamo tentando di mettere in piedi si fonda, possiamo dire, sullo «scarto massimo» rispetto al modo di porre le questioni della poesia in vigore nel tardo novecento e in questi ultimi anni per quanto riguarda le sue categorie fondanti: la parola, il metro, il verso, la punteggiatura (i tratti sopra segmentali), il tempo interno degli oggetti, il tempo esterno di essi, lo spazio, il tridimensionalismo il quadri dimensionalismo, le disfanie, l’estraneazione, lo scarto massimo, lo spaesamento tematico etc… Per concludere, tutto questo terreno teorico era necessariamente estraneo alla poetica di Mario Benedetti e non poteva essere diversamente, infatti lui considerava la sua poesia nell’arco di una continuità con la tradizione della poesia lombarda o milanese che dir si voglia.

La nuova ontologia estetica che qui perseguiamo è fuori da questo orizzonte, si colloca necessariamente all’esterno di quella linea di continuità con la poesia del tardo novecento perché si fonda sulla presa d’atto della necessità di portare la poesia italiana ad un livello più alto di consapevolezza delle proprie aporie e delle proprie contraddizioni stilistiche, sulla intenzione di aprire un nuovo orizzonte degli eventi (estetici). Per la NOE la discontinuità è un elemento rilevante e centrale mentre invece per Mario Benedetti la continuità con la tradizione recente del tardo novecento era e resta un principio indefettibile…

Riconoscere comunque che il lavoro poetico di Benedetti è stato rilevante, è importante, significa collocare le questioni di poetica e di poesia all’interno di una cornice storica, ed è all’interno di quella cornice storica e stilistica che la poesia di Mario Benedetti trova la propria legittimazione estetica.
Giustamente è stato indicato il nome di un altro poeta, Guido Galdini, il quale si è mosso e si muove lungo una linea di ricerca lessicale e stilistica molto prossima a quella di Benedetti, e con risultati spesso ottimali… ma anche lui ad un certo punto della sua evoluzione stilistica ho l’impressione che si arresti dinanzi a difficoltà insormontabili se considerate entro l’ontologia stilistica del tardo novecento. Oltre quel limite (comune anche alla poesia di Benedetti) probabilmente non si può andare, se non voltando strada… Almeno, questo è il mio pensiero…

foto ombre sfuggenti

Che cos’è la solitudine.

Da Umana gloria (2004)

Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.

*

Matrimonio al rifugio Fodara Vedla

È il giorno che pare di condividere la terra con i fiori,
il fiore tenerlo vicino al cuore perché parli.
Ognuno beve in alto il suo bicchiere,
ognuno è bello e pensa che i corpi sono in mezzo ai fiori,
i prati alti sopra ogni cattiva idea del mondo.
Nessuna storia toglierà le erbe dalla roccia,
un altro cielo non sarà il nostro ma la memoria
perché altri vivano e chiedano dopo di noi
le nostre stesse cose:
com’era per loro che erano tutto
innalzati sopra la terra?
Nessuna cultura toglierà le mani alle mani,
la pelle ai vestiti.
Difendiamo anche nella disputa le nostre vite,
ci difendiamo da chi vuole altre cose,
si cerca di venire a un patto,
di non farci troppo del male.

*

Da Pitture nere su carta (2008)

Dalla notte il mattino la notte,
pantaloni verdi, pantaloni blu,
il nero, l’azzurro, il ramato, tutto.
Perché non è più qui una parola.
Sono case i mari, le strade,
e strade e mari, le case.
La pietra affonda senza corda intorno al collo.
Affiorano a cerchi le parole sulle sue labbra.
Ma non importa, non importa.
Qualche vocale, lungo il viso bianco,
e nero, di capelli, la sua luce.
Affossata su un fianco. Accucciata.
Dietro di te, e davanti, oltre, non c’è niente.

Mario Benedetti cover
Da Tersa morte (2013)

maggio 2010
Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero
prendermi i giorni, le settimane, i mesi. Il tempo
portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi.
Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco.
Adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi.
Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto.
Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’inscurisce nella forma
di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola.
Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello
o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive.

*

Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.

*

Secche e immobili nella luce sul terrazzo
le montagne appese allo stendipanni, i gualciti
accappatoi rivoltati dal vento ieri notte.

*

È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora.
ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia.

*

Guardare prima, guardare dopo.
Cadere fuori pagina, mentre un’altra penna
guarda. e non sapere come
da sogno a sogno le figure quasi si raccolgano:
la via con la casa da poter comprare
prima, la via con i terrazzi in alto
dopo: il dopoguerra, la nostra passeggiata.
Il vuoto si rigira qui e fa ombre
esili quanto esile è la pagina.

*

Come testimoniare i morti,
vivere come lo fossimo,
morire come lo siamo. Per la vita
è la scoperta
della morte e della vita.

*

da Questo inizio di noi (2015)

Se le vite si ritraggono ognuna
nel suo continuare o nel rimembrarsi
avremo sempre le parole in posa.
Vedi, il libro ti è davanti, le frasi
mozze bene assottigliate sussumono
anni di giornate con le loro ore.
Getta quel libro, è odore della carta:
e il bimbo apriva e ripiegava, apriva
e ripiegava l’odore d’inchiostro
e delle figure: la madre giovane
ma il bambino la vedeva una morta
ma anche non era una morta, davanti
quell’angolo di muro che si apriva
e ripiegava, apriva e ripiegava.

Dedica

Allora, il tempo della vita dopo. Allora.
Eri lì o una di queste sere. Ma ci vuole affetto
per parlare, dell’affetto per scrivere.
Cose fuori pagina, che si vivono e basta.
Pensieri. E comunque, stai bene? hai
studiato? Come passano gli anni,
vedi, come passano gli anni,
e i tuoi sono ancora pochi. E il volere
che non si parli più, non si scriva più
per andare a capo. Una sola voce lontana…,
quando sarò non presente a me…
Solo offuscati… e piano piano andarcene.

38 commenti

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38 risposte a “Mario Benedetti,Poesie – da Tutte le poesie a cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta,  Garzanti, 2017 pp. 327 € 16, con un Commento critico di Giorgio Linguaglossa

  1. Giuseppe Gallo

    Che densa sorpresa questa mattina leggere questi versi di Benedetti! Grazie!
    “Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco.
    Adesso è sua.”
    Questa bambina, come la morte, si impossessa di tutto, anche di ciò che è destinato a diventare ricordo…
    questa bambina, come la poesia, che cerca di chiedere aiuto “al sosia di noi stessi” per continuare a “cadere fuori pagina”.
    “Si vive ancora, sì, si vive ancora” ma dentro “un’ora assente”.
    E cosa resiste dei sogni e delle figure che si inseguono per raccogliersi nel nulla?
    “Il vuoto si rigira qui e fa ombre
    esili quanto esile è la pagina”
    Soltanto la testimonianza d’una penna!

  2. Per il Signor Gino Rago,

    rispondo qui a una provocazione di Ewa Lipska.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32780
    Nel Butan hanno deciso di misurare la felicità.
    È un esame semplice: una provetta con un liquido reagente. Lo hanno chiamato PIF, l’Indice Interno della Felicità, che misura il prodotto interno della felicità; ed hanno scoperto che gli uomini e le donne sono felici perché non conoscono l’onda d’urto dell’oscurità.
    Purtroppo, caro Gino Rago, noi che non abbiamo in dote questa fortuna, però ne conosciamo bene gli effetti dirompenti. Invece, proporrei un nuovo campione di indagine: il PII, ovvero, il Prodotto Interno Interiore, la capienza dell’involucro interno che contiene i pensieri, le emozioni, la dignità, la vita interiore, tutti elementi che sfuggono alla normale amministrazione calcolistica del nostro tempo. Il problema è che non è una cosa agevole da misurare, non basta una provetta con del liquido reagente…

  3. gino rago

    Caro Signor Giorgio Linguaglossa,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32782
    [non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
    un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso.
    La signora Schubert è morta all’improvviso. Povera e sola.
    Non più di cinque persone al suo funerale senza pianti né fiori]

    «Lei parla con saggezza del Prodotto Interno della Felicità.
    Forse nel Butan era un sogno
    e il rompicapo di misurare il PIF non finiva con la luna piena.
    Caro Signor Linguaglossa,
    anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle scarpe
    che si toccano sotto il tavolo.
    Il motore della sofferenza dei poeti ulula sempre alla stessa ora.
    […]
    Questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
    perché se ne infischia delle nostre domande».

    Gino Rago

  4. Il pensiero nichilista vola a ridosso della materia, è inevitabile – lo dimostra anche l’importanza che su questa rivista viene assegnata alle “cose”– ma è un altro modo per guardare alla verità, dopo secoli di cristianesimo. A ben vedere le cose che abbiamo attorno non sono altro che il passato, non com’era ma come è diventato – notare la polvere sugli oggetti, la stessa che dipinse Giorgio Morandi.
    Scrive Mario Benedetti:

    “Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
    un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota”.

    Quella panchina è una voragine temporale, non solo per Benedetti che la nota, lo è per tutti; anche se poi ognuno crederà alle proprie interpretazioni esistenziali, quella panchina mostra il fatto evidente dell’origine, dove la verità scaturisce, in anticipo sul linguaggio. Ma la descrizione di Benedetti è “unitemporale”, come fa notare Linguaglossa, forse qui sta la differenza, l’unica che sento, ma non è di poco conto, tra queste poesie di Benedetti e quelle della nuova ontologia estetica. Lo “scarto minimo” ci accomuna ma solo formalmente. Va ricordato che Milano è la città dove maggiormente si vive la discrepanza tra essere e fare: città di invisibile sofferenza e, direi, di muto esistenzialismo; città comprimente, quindi a mio avviso dotata di una forza potenziale deflagrante, enorme se confrontata con le altre regioni d’Italia.

    “Dietro di te, e davanti, oltre, non c’è niente”.

    Manca quel che diventa. Sicché la poesia ne resta ingabbiata, e non è la mancanza di figure retoriche, quel lavorare sul linguaggio che, da solo, può fare la differenza.
    Ciò nonostante e malgrado il tono basso e parlato, questa mi sembra poesia ontologicamente agguerrita. Molto più che in altri poeti del minimalismo lombardo.

  5. caro Signor Gino Rago,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32793
    non avevo avuto contezza del decesso della Signora Ewa Lipska, la cosa mi addolora alquanto, peccato, mediante la sua assenza, si era dimostrata una fedele interlocutrice della nostra rivista. Però, per tornare al Fatto, mi spiace deluderla, nessuno qui da noi si è mai occupato della questione del PIF (il Prodotto Interno della Felicità) e più che mai del PII (Prodotto Interno Interiore) le quali cose costituiscono Fatti non declarabili e non calcolabili. Però, qui in Occidente abbiamo contezza del Liquido Reagente, quello che si mette nelle provette e che permette la lettura degli eventi. Il che non è affatto elemento da sottovalutare, non crede?

  6. https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32797
    E se, per una volta, ignorassimo “le cene cifrate, i segreti delle scarpe che si toccano sotto il tavolo”? Lo so, non andremmo più da nessuna parte, verso nessun luogo che ci premi o ci distingua, verso nessuna visibilità che ci sollevi dalla massa informe degli sconosciuti. Potremmo, tuttavia, andare verso un discorso poetico autentico, come quello che faceva Campana quando esponeva i suoi libretti su di una cassetta appesa al collo, verso una stella che era la sua “piaga rossa languente”.

  7. gentile Signor Lucio Mayoor Tosi,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32799
    purtroppo ho saputo che è venuto a mancare anche il Signor Zbigniew Herbert, e le questioni letterarie nel frattempo sono diventate scottanti, non avremo più a disposizione le disquisizioni del Signor Cogito e i suoi pensieri. Dovremo farcene una ragione. Però, non crede? Anche il Signor Filippo, mio padre, è venuto a mancare tanto tempo fa, sa, lui batteva sulle suole il martello da calzolaio. Un bel martello con la testa tonda. Tuttavia, del minimalismo non me ne ha mai parlato, forse perché ai suoi tempi non esisteva? No, caro Signor Lucio, perché ai suoi tempi non era ben visibile… era in nuce… ma adesso le questioni sono sul tappeto, non crede?

  8. Sei eterno? L’odore
    della stagione morta lo nega.
    La menzogna a volte ha ragione.
    (Ewa Lipska)

  9. gino rago

    Caro Signor Giorgio Linguaglossa,

    [la mia amica di Vienna mi ha consolato.
    Non più di cinque persone al funerale della Signora Schubert
    ma la Bahnhofstrasse si fermò al passaggio del carro senza fiori
    e nessuno ha bevuto vin brûlé o cioccolata calda.
    Ma la Signora Ewa Lipska gode di ottima salute.
    Scrive poesia come impronte digitali.]

    Lei da poeta sa che i nostri versi sono cani randagi
    che ululano alla poesia come i lupi alla luna.

    Caro Signor Giorgio Linguaglossa,
    possediamo il Liquido Reagente
    ma chi davvero svela in Occidente l’enigma del mare
    e il messaggio di aiuto nella bottiglia?

  10. In un centro di addestramento buddista.
    Orizzonte senza terra all’infinito.
    Cieli per solitudine.
    Pane, cucina e un indirizzo.
    Tutte le cose del mondo
    mi vogliono.
    Qui.

    La verità è luce.

    Tutte le cose del mondo.
    Impossibile morire soli. Impossibile anche morire.
    La fine non verrà.
    Impossibile togliersi dal mondo.
    Finisce una vicenda soltanto.
    E nemmeno quella.

    Mayoor – marzo 2018

  11. Siete tutti troppo pessimisti; come mai? Fino a poco tempo fa, si parlava alla buona, come amici seduti su poltrone paffute,in salotto, oppure compagni intorno a un tavolino di fortuna,in qualche sgan- gherata trattoria.Ve lo debbo dire io, che ormai sono vecchia e fragile,che siete fortunati, se c’è chi vi ascolta ,vi segue e vi stima,ancora crede nella parola, nella vostra parola?

  12. carissima Anna Ventura,

    il mio (nostro) pessimismo nasce da una analisi molto severa di come va il mondo, e le cose della poesia non fanno eccezione. In ciò penso di essere molto ottimista, con l’ottimismo della volontà se non della ragione, a continuare ad occuparmi di una cosa così impalpabile e forse inesistente come la poesia. Del resto, occorre una ragione appena sufficiente… cionondimeno, anche se rimanesse un miliardesimo di miliardesimo di massa di un atomo, ciò sarebbe una ragione sufficiente per continuare ad occuparsi di quella cosa costituita da un miliardesimo di miliardesimo…

  13. Rossana Levati

    Propongo una poesia di Manuel Alegre, nella convinzione che la poesia sia ancora l’unico elemento splendente in mezzo alla cenere del nostro tempo, anche se può accadere che l’universo collassi su se stesso e che le stelle si spengano, esaurendo il proprio percorso vitale: proprio lì, in un mondo ridotto al silenzio o, come dice l’autore in altri testi, alla legge di mercato, “la mano che scrive” porta con sè il suo splendore mentre non abbiamo certezze sul senso di una vita- ingranaggio dove insensatamente qualcuno (qualche dio?) ci sta masticando. La mano però, pervicacemente, continua a scrivere e a portare la sua scia di splendore tra gli scarti e lo strame.

    Manuel Alegre, La mano che scrive
    (da “Nada está escrito” Dom Quixote 2012)

    Giunge il grido di Dio nel centro del silenzio
    tra l’astro invisibile e le stelle cadute
    e giunge il cane della notte dentro la parola
    e il suo latrato è la lingua dell’indicibile
    nulla più si sente oltre questo terribile
    suono di sillabe e magma che Dio sbava.
    E giunge Giotto col suo Dio che genera i figli
    e la grande bocca di Saturno a masticare
    un dio ci divora un altro ci caga
    resta una scia di merda e cenere e strame
    resta un’eco nella notte e un dio senza nome
    e una mano che scrive e che arde ed è solo splendore.

    (traduzione di Chiara De Luca)

    • Ringrazio Rossana Levati per aver postato questa bellissima poesia di Manuel Alegre. E’ la poesia che scriverei, se mai un giorno decidessi di farmi sentimentale: con forza e chiarezza liberatorie.

  14. gino rago

    Per quanto riguarda Mario Benedetti osservo che, a parte taluni cedimenti alle lusinghe da ‘ore rotundo’, la sua poesia per l’uso sapiente della punteggiatura, con cui privilegia spesso il punto,e con versi compiuti e con l’impiego parsimonioso degli aggettivi, mi pare che possa essere tranquillamente annessa allo spirito della NOE, anche per l’ironia sottile con cui questo poeta tratta temi contemporanei scabrosi.

  15. gino rago

    Ultima Lettera da Varsavia

    Caro Signor Giorgio Linguaglossa,
    (e p.c. Caro Signor Mayoor Tosi, e Care Signore Anna Ventura e Rossana Levati)
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32813
    [non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
    un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso.
    La signora Schubert è morta all’improvviso. Povera e sola.
    Non più di cinque persone al suo funerale,
    senza pianti né fiori.]
    […]
    [La mia amica di Vienna mi ha consolato.
    Non più di cinque persone al funerale della Signora Schubert,
    ma la Bahnhofstrasse si fermò al passaggio del carro senza fiori.
    Nessuno ha bevuto vin brûlé o cioccolata calda.
    La Signora Ewa Lipska gode di ottima salute.
    Scrive poesie come impronte digitali e sintetiche
    come fuochi d’artificio.
    Con poche amiche passeggia intorno al lago artificiale]
    Lei da poeta sa che i nostri versi sono cani randagi,
    ululano alla poesia come i lupi alla luna.
    […]
    Caro Signor Giorgio Linguaglossa,
    (e p.c. Cari Signor Lucio Mayoor Tosi, e care Signora Anna Ventura e Rossana Levati)
    Lei dice che possediamo il Liquido Reagente.
    Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma dell’Occidente?
    E il messaggio di aiuto nella bottiglia?
    Lei parla con saggezza del Prodotto Interno della Felicità
    del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
    Forse nel Butan era un sogno
    e il rompicapo di misurare il PIF non finiva con la luna piena.
    Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle scarpe
    che si toccano sotto il tavolo.
    Lei sa meglio d’altri
    che il motore della sofferenza dei poeti gracchia sempre
    alla stessa ora del mondo.
    […]
    Questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
    perché se ne infischia delle nostre domande.
    […]
    Caro Signor Giorgio Linguaglossa,
    (e p.c. Caro Signor Mayoor Tosi, e care Cara Signore Anna Ventura e Rossana Levati)
    portiamo in giro il nostro passato in una busta di plastica del supermercato.
    […]
    Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore.
    I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.
    Il nostro amico di Varsavia si spoglia in un pied-à-terre
    con la sua donna.
    Aprono una bottiglia di Coca-Cola,
    si guardano negli occhi.
    Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso.
    […]
    Caro Signor Giorgio Linguaglossa,
    (e p.c. Caro Signor Mayoor Tosi, Care Signore Anna Ventura e RossanaLevati)
    un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
    è già luce-vita dello sperma siderale […]

    • Bellissima poesia, caro Gino.
      Giorni fa sognai un pauroso incidente stradale. Un uomo si trovò ad essere decapitato. Ma con mia grande sorpresa vidi che la testa si stava riformando. Sembrava fatta di gommapiuma. Prima che il volto si ricomponesse, sentii la sua voce dire: “Uff, la morte…”.
      Con voi, per un breve periodo, ho potuto sperimentare anche l’ossessione di voler scrivere. Davvero, c’è qualcosa di malato nel fare poesia. Ma ogni verso che arriva ci raddrizza dalle storture. Ora non ho dubbi: scrivere poesia è fare esercizio di saggezza.

  16. donatellacostantina

    Ricevo da una persona che vuole rimanere in incognito questa lettera:

    “cari Signori Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa,
    care signore Anna Ventura, Rossana Levati, e le altre assenti dal dibattito,
    Vi informo che oggi è giorno di equinozio, la notte non gioca più a pari e dispari con il giorno, il polo nord si trova sempre a nord, al solito posto anche se l’inclinazione dell’asse terrestre si è aggravata di un grado… cmq niente paura, il mondo è ancora in piedi, il signor Putin ha ottenuto il 76, decimali di consenso alle elezioni e anche il leggendario Trump corre verso il traguardo della rielezione o dell’inpeachment, il che, per l’eternità, è lo stesso. Penso che dovremo ricorrere presto al Liquido Reagente dell’ottimismo per coprire un saggio pessimismo per come vanno le cose di questo rispettabile teatro, del resto chi può assennatamente asserire che dietro la finestra ci sia qualcosa che assomiglia a qualcosa e non il nulla che assomiglia a se stesso? In entrambi i casi Vi informo del mio plauso per le poesie qui postate del signor Mario Benedetti al quale invio i miei più cordiali saluti…”

  17. gino rago

    Il Giudice dell’Occidente volle sentire i testimoni
    sui poteri del Liquido Reagente.
    Caro Signore Anonimo,
    soltanto uno di loro testimoniò al Giudice dell’Occidente
    che il Liquido non è né pessimista né ottimista.

    Tutti gli altri testimoni erano morti.

    E, Caro Signore Anonimo, di certo Lei saprà
    che i morti [anche nell’equinozio]
    si avvalgono della facoltà di non rispondere.

    Nel ragionevole dubbio il Giudice ha assolto tutti.

    GR

  18. griecorathgeb

    Una poesia molto interessante, scritta con mano magistrale, controllata. In questo ultimo senso, vagamente simile al Galdini che abbiamo letto in un post qui sull’Ombra alcuni giorni fa.
    La poesia,

    Secche e immobili nella luce sul terrazzo
    le montagne appese allo stendipanni, i gualciti
    accappatoi rivoltati dal vento ieri notte.

    mi ha ricordato simili composizioni di John Berger (Collected Poems, Smokestack Books, 2014): il suo stile terso, forte, asciuttissimo. Berger, a proposito, aveva in qualche modo imparato bene la lezione di Beckett, ma ha sempre usato un tono appena un po’ più gentile. Bisognerebbe farne un post, perché alcune sue poesie sono il meglio che il tardo Novecento ha saputo dare nella lingua inglese.
    In Benedetti, vediamo fortemente al lavoro la invincibile concatenazione sintattica e grammaticale di un certo modo di fare poesia. Quasi tutto è al suo consueto posto. Pur ammettendo lo scarto surreale (si veda il pezzo che ho citato sopra), questa poesia non ammette pienamente l’irruzione dell’aleatorio – cosa d’altronde molto difficile, ma forse una delle cifre di una nuova poesia, e infatti vediamo tale irruzione in un numero crescente di poesie oggi.
    Osare, inoltre, contemplare la distruzione del proprio bellissimo lavoro. La rovina di ciò che si è fatto. E’ questo che ho sentito fare a un musicista Dhrupad a Delhi nel 2005, Mi si aprirono gli occhi sulle potenzialità ubriache di un simile agire: l’opera può rischiare di rimanere ecrasée dalla propria forza d’urto. Solo così, in certi casi, mostrerà la sua intrinseca bellezza.
    Le poesie che in genere leggiamo sono spesso anche troppo timide. La timidezza risale alla volontà di “porsi al riparo”; porsi al riparo significa situarsi in un territorio sicuro. Il territorio sicuro è una gabbia invisibile.
    Questo, solo questo mi fa pensare di avere già letto qualcuna delle poesie di questo pur eccellente post da qualche altra parte. Ma forse sono io che me lo immagino. Perché rimango sempre sorpreso da quanto aleggi ovunque, ormai, una possibilità, una potenzialità nuova di poesia.
    Benedetti scava. Secondo me può scavare ancora di più.

  19. MARIO BENEDETTI LA LINEA DI CONTINUITA’ CON LA TRADIZIONE DELLA POESIA LOMBARDA
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32833
    Scrive Gino Rago
    che la poesia di Mario Benedetti «per l’uso sapiente della punteggiatura, con cui privilegia spesso il punto,e con versi compiuti e con l’impiego parsimonioso degli aggettivi, mi pare che possa essere tranquillamente annessa allo spirito della NOE».

    È vero, ci sono dei punti, direi più che di vicinanza alla nuova ontologia, dei punti di consonanza e di contatto. Mario Benedetti, anche per ragioni storiche, personali e di poetica, resta all’interno della ontologia della poesia del tardo novecento, infatti la rivista che fa con i suoi amici, “Scarto minimo”, durante i primi anni ottanta, come dice il titolo, è fondata appunto sullo «scarto minimo» da un certo modo di impostare la voce e il lessico della poesia che possiamo tranquillamente chiamare «milanese o lombardo»; al contrario, la nuova ontologia che stiamo tentando di mettere in piedi si fonda, possiamo dire, sullo «scarto massimo» rispetto al modo di porre le questioni della poesia in vigore nel tardo novecento e in questi ultimi anni per quanto riguarda le sue categorie fondanti: la parola, il metro, il verso, la punteggiatura (i tratti sopra segmentali), il tempo interno degli oggetti, il tempo esterno di essi, lo spazio, il tridimensionalismo il quadri dimensionalismo, le disfanie, l’estraneazione, lo scarto massimo, lo spaesamento tematico etc… Per concludere, tutto questo terreno teorico era necessariamente estraneo alla poetica di Mario Benedetti e non poteva essere diversamente, infatti lui considerava la sua poesia nell’arco di una continuità con la tradizione della poesia lombarda o milanese che dir si voglia.

    La nuova ontologia estetica che qui perseguiamo è fuori da questo orizzonte, si colloca necessariamente all’esterno di quella linea di continuità con la poesia del tardo novecento perché si fonda sulla presa d’atto della necessità di portare la poesia italiana ad un livello più alto di consapevolezza delle proprie aporie e delle proprie contraddizioni stilistiche, sulla intenzione di aprire un nuovo orizzonte degli eventi (estetici). Per la NOE la discontinuità è un elemento rilevante e centrale mentre invece per Mario Benedetti la continuità con la tradizione recente del tardo novecento era e resta un principio indefettibile…

    Riconoscere comunque che il lavoro poetico di Benedetti è stato rilevante, è importante, significa collocare le questioni di poetica e di poesia all’interno di una cornice storica, ed è all’interno di quella cornice storica e stilistica che la poesia di Mario Benedetti trova la propria legittimazione estetica.
    Giustamente è stato indicato il nome di un altro poeta, Guido Galdini, il quale si è mosso e si muove lungo una linea di ricerca lessicale e stilistica molto prossima a quella di Benedetti, e con risultati spesso ottimali… ma anche lui ad un certo punto della sua evoluzione stilistica ho l’impressione che si arresti dinanzi a difficoltà insormontabili se considerate entro l’ontologia stilistica del tardo novecento. Oltre quel limite (comune anche alla poesia di Benedetti) probabilmente non si può andare, se non voltando strada… Almeno, questo è il mio pensiero…

    • Donatella Bisutti mi ha posto una Domanda: che cosa intendiamo per «nuova ontologia estetica»?
      https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32837

      Premesso che nella rivista ci sono almeno un centinaio di post sull’argomento, provo a rispondere brevemente e nei limiti del possibile e dello spazio contingentato. A mio avviso la domanda fondamentale è: Che cos’è l’essere e che cos’è il linguaggio? E qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio? Tutte le altre domande sono questioni secondarie, di contorno, e possiamo metterle da parte.

      Perché la «nuova ontologia estetica»? Perché ogni nuova poesia è tale se riformula le categorie estetiche pregresse all’interno di una nuova visione.
      Parlare di «ontologia estetica» è parlare delle parole e del metro; nel linguaggio poetico la prima non si dà senza la seconda, ma è anche vero che ogni nuova poesia rinnova il modo di concettualizzare la «parola» all’interno del «metro».

      Il «metro» secondo la nostra idea è una unità di misura di grandezza variabile, dobbiamo uscire fuori da un concetto di «metro» quale unità di misura fissa, statica ma entrare in sintonia con un pensiero che pensa il «metro» come una entità variabile, dinamica che varia con il variare delle grandezze (anch’esse variabili) che intervengono al suo «interno».
      La «parola» quindi è una entità per sua essenza variabile (può essere rappresentata come una entità corpuscolare e come entità di frequenza sonora). Dirò, per semplificare, che non v’è un peso specifico costante di una «parola» ma vi sono tanti pesi della «parola» quanti sono i modi del suo manifestarsi all’interno di un «metro». Il «metro» sarebbe quindi una sorta di «onda pilota», o «onda di Bohm», come si dice nella fisica delle particelle subatomiche, un’onda che convoglia al suo interno le particelle che vagano nell’universo.

      Vi possono essere modi molto diversi di intendere questa «onda pilota», in questo concetto ci sta il «tonosimbolismo» della poesia di Roberto Bertoldo, una poesia intersemica e fonosimbolica, ci può stare anche la poesia di Donatella Costantina Giancaspero, ci può stare il discorso poetico citazionista di un Mario M. Gabriele, il discorso poetico «caleidoscopico» e «disfanico» di Steven Grieco Rathgeb e il mio frammentismo metafisico, ci può stare la ricerca iconica e simbolica di Letizia Leone in Viola Norimberga (2018), Ci possono stare le sestine di Giuseppe Talia del libro La Musa Last Minute (Progetto Cultura, 2018), una sorta di elenco telefonico di poesie fatte al telefono, poesie discrasiche più che disfaniche, ci può stare il frammentismo peristaltico dei poeti nuovi come Francesca Dono con il libro Fondamenta per lo specchio (Progetto Cultura, 2017), ci sta la poesia di Anna Ventura fin dal suo primo libro, Brillanti di bottiglia (1972), fino a quest’ultimo, Streghe (2018). Ciascun poeta porta a questo salvadanaio una piccola monetina, un piccolo mattone. È la consapevolezza di un modo diverso di fare poesia che albeggia, un modo inaugurato da Tomas Tranströmer nel 1954 con il suo libro di esordio 17 poesie.

      Questo nuovo concetto cambia radicalmente la forza gravitazionale della sintassi, il modo di porre l’una accanto all’altra le «parole», le quali obbediranno ad un diverso metronomo, non più quello fonetico e sonoro dell’endecasillabo che abbiamo conosciuto nella tradizione metrica italiana, ma ad un metronomo sostanzialmente ametrico. Non c’è più un metronomo perché non c’è più una unità metrica. Di qui la importanza degli elementi non fonetici della lingua (i punti, le virgole, i punti esclamativi e interrogativi, gli spazi, le interlinee etc.) ma che influiscono in maniera determinante a modellizzare la «parola» all’interno del nuovo «metro» ametrico. Di qui l’importanza di una sintassi franta. Ecco spiegato il valore fondamentale che svolge il punto in questo nuovo tipo di poesia, spesso in sostituzione della virgola o dei due punti. All’interno di questo nuovo modo di modellizzare le parole all’interno dei polinomi frastici si situa l’importanza fondamentale che rivestono le «immagini»; infatti le parole preferiscono abitare una immagine che non una proposizione articolata, perché nella immagine è immediatamente evidente la funzione simbolica del linguaggio poetico.

      Ed ecco la parola chiave: il verbo «abitare». Le parole abitano un luogo che è fatto di spazio-tempo e di memoria. Le parole abitano la Memoria. Le parole sono entità temporali.

      Lettura di una poesia di Maria Rosaria Madonna (1942-2002)

      È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
      Il silenzio nuota come una stella
      e il mare è un aquilone che un bambino
      tiene per una cordicella.
      Un antico vento solfeggia per il bosco
      e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
      che rimbalza contro il muro
      e torna indietro.

      Commento analitico di Giorgio Linguaglossa

      «È un nuovo inizio». Così inizia la poesia. Ma che significa? Inizio di che cosa? Di che cosa si parla? – Il secondo emistichio complica la questione perché non risponde al primo emistichio ma si limita a prolungarne l’eco di dubbio travestito in una forma assertiva: «Freddo feldspato di silenzio». Il tono assertivo contrasta singolarmente con il dubbio e l’ambiguità che promana da quelle due prime proposizioni assertorie.
      Il secondo verso aggiunge ambiguità e dubbio. Il terzo e il quarto verso sciolgono ogni dubbio, qui siamo nel mondo onirico-surreale, illogico e irrazionale perché si dice che il «mare è un aquilone che un bambino tiene per una cordicella». Un non-sense.

      Il quinto verso cambia spartito, c’è un «vento» (che è detto «antico») che «solfeggia» «per il bosco». Stiamo attenti alla dizione «solfeggia», una scelta verbale che serve ad introdurre un mondo di suoni determinato dal vento che attraversa il «bosco». Si parla forse qui del bosco inteso come mero paesaggio? O si tratta di un «altro» bosco? Io ritengo che qui si tratti di un «altro» bosco, e precisamente il «bosco» quale metafora e simbolo dell’Essere. È dell’Essere che qui si parla, non certo del bosco come paesaggio.

      Il sesto verso. Qui il poeta si rivolge direttamente al lettore e gli dice: «lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma». Anche qui la scelta della immagine corriva induce il lettore in imbarazzo. dice il poeta: «lo puoi afferrare». Che cosa il lettore può «afferrare»? Il bosco del paesaggio? No di certo, qui ad essere in questione è l’Essere. Allora, l’Essere è come una «palla di gomma che rimbalza contro il muro»? «e torna indietro»?
      Che cos’è che «torna indietro»? – Ma è chiaro: è l’Essere che qui «torna indietro», scrive con un raffinatissimo tocco meta ironico il poeta. È l’essere che «torna indietro». Enunciato ambiguo e sibillino, travestito sub specie di frasario assertorio.

      • Cito Adorno, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, 1970:
        https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32906
        «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

        Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana degli anni sessanta-settanta si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…

        Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

        Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

        A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

        Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

        Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

  20. Sulla poesia di Mario Benedetti scrive Gino Rago: “lui considerava la sua poesia nell’arco di una continuità con la tradizione della poesia lombarda o milanese”. Ci vuole una rottura, proposta dalla Nuova Ontologia Estetica, altrimenti non si va
    oltre. Vari poeti non sono daccordo tuttavia senza quel cambiamento non andremo da nessuna parte. Questo il mio pensiero.

  21. Risposta a Gino Rago,per i versi del 20 marzo.Mi colpiscono queste parole.”Nessuno saprà che una volta fummo nella fabbrica dell’amore”. Certamente ci saremo impegolati in qualche sabbia mobile,con tutto il corredo di sciocchezze che accompagna qualunque innamoramento.Ma è un prezzo che vale sempre la pena di pagare.San Giovanni della Croce ci ammonisce: “Tutti saremo interrogati sull’amore”.

  22. P.S. Qualche amico più filologo di me potrà obiettare che sto confondendo innamoramento e amore.E’ un errore che facciamo tutti, una volta o l’altra. Forse non basta una vita per fare certi distinguo.Se un pellerossa viene rinchiuso in una gabbia anche solo per qualche minuto, muore di dolore, perchè crede che non si libererà mai.Fu quello che provai dopo la prima delusione d’amore .Invece, dopo, ne uscii fuori alla grande.Tanto da non avere più paura delle gabbie,fidandomi invece delle affinità elettive, della fiducia reciproca e altri surrogati utili per sopravvivere.

  23. Giuseppe Talia

    Mario Benedetti è un poeta dark. La sua poesia mi pare si collochi nella zona intermedia tra vita e morte. Come diceva Baudelaire: “Assai più che la Vita è la Morte a tenerci sovente con lacci sottili. Però, nella poesia di Benedetti la zona intermedia tra vita e morte si risolve, o almeno si tenta una risoluzione, attraverso la parola: “Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro.”
    Anche la copertina del libro racconta che il pensiero della morte, in fine, aiuta a vivere (Saba) con “le parole in posa.”

    Vedi, il libro ti è davanti, le frasi
    mozze bene assottigliate sussumono
    anni di giornate con le loro ore.

    Un minimalismo atipico, questo di Benedetti, avvalorato anche dalla presentazione di Riccardi e Villalta, due autori che vengono dalla tradizione e che lavorano con la metafora.

  24. Una poesia di Luigina Bigon
    ………………….per Mario Benedetti
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/20/mario-benedettipoesie-da-tutte-le-poesie-a-cura-di-stefano-dal-bianco-antonio-riccardi-gian-mario-villalta-garzanti-2017-pp-327-e-16-con-un-commento-critico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-32867
    Assenzio

    Microbiologi fanno mostruosi esperimenti sull’uomo.
    Orrori incontenibili.
    L’inconscio esplode dentro la placenta,
    artiglia piramidi.

    Non più madre divora-figlio, ma figlio divora-madre,
    la fa a pezzi.
    Spacca la testa: ne schizza fuori il cervello.
    Lo mastica, poi lo sputa…
    Corpo astrale randagio negli eoni e maelström galattici,
    in cerca di un luogo.
    Inarrestabili, senza respiro, vanno corvi neri.
    Nel pentolone partoriscono cervi e uccelli di vetro.
    Sangue di bambina dentro il bicchiere dello sposo.
    Letto di catrame, strada chiodata.

    Il vecchio arranca con il cane al guinzaglio.

    ©Luigina Bigon
    20 marzo 2018

    • Luigina bigon

      Ringrazio Giorgio per aver dato voce a questo mio testo piuttosto terribile.
      Mi chiedo come lo accoglierà Mario Benedetti ?

  25. Pingback: Una Domanda di Donatella Bisutti: Che cosa intendiamo con la dizione nuova ontologia estetica? Poesie di Mario M. Gabriele, Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa | L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

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