
Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione (Roberto Bertoldo)
Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria ha lavorato nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte “Il disordine delle stanze” (PuntoaCapo, 2012) e “Gli altri” (LietoColle, 2017). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. È attualmente impegnato nella stesura di un testo di informatica aziendale.
Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti.
Il guardare verso e attraverso finestre che non c’erano
ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle
con proprietà terapeutiche improbabili.
L’uomo deve quindi badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.
[…]
Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.
(Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura, 2011)
[Guido Galdini]
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Mi scrive Guido Galdini:
«I temi di questa raccolta sono molto lontani da quelli dagli Appunti Precolombiani: nel suo piccolo è il tentativo di dare un’idea dello sgretolamento del mondo contemporaneo a partire da modesti fatti quotidiani. Ho cercato, come autore, di acquisire la massima invisibilità e, nel contempo, di operare con la massima precisione. Non posso permettermi sbavature. Mi sembra di camminare in equilibrio sul filo per non cadere nell’abisso del minimalismo (o forse ci sono dentro da sempre senza rendermene conto e senza riuscire a risollevarmi). Il punto di partenza deve comunque essere concreto: vi sono parecchi riferimenti specifici al paese dove abito, con nomi di luoghi e riscontri immediatamente verificabili.
Lei aveva, molto acutamente, nel commentare gli estratti degli Appunti Precolombiani, fatto riferimento ad una pittura realistica (Delvaux) però prosciugata dallo spaesamento surrealista. Io mi sento affascinato in modo totale dall’informale e dall’astrazione (Afro, Santomaso, Morlotti, Veronesi, Licini), ma il mio pennello ha le setole di Antonio Donghi».
In apertura del libro di Guido Galdini c’è una citazione di René Daumal: «La porta dell’invisibile deve essere visibile» e, conseguentemente con questo assunto, l’attenzione dell’autore è incentrata sul «visibile», sugli oggetti del quotidiano, sui personaggi di tutti i giorni; una vita grigia, sbiadita, piccole cose neanche di cattivo gusto: l’ordinario, il routinario, il normale: «i venditori di ombrelli sui marciapiedi», la fornaia, le persone, i piccioni alle finestre, i colombi sul tetto, le vetrine dei negozi, la corriera, il lavandino, i marciapiedi, le automobili, una lucertola cui «si è staccata la coda», il «ponte dell’autostrada», «la cassetta per le lettere», «i portici verso piazza della Repubblica», la «cassiera»; e poi ci sono gli oggetti consueti: l’ombrello, il cellulare, la bicicletta, il televisore, le ciabatte, «le bandierine di plastica… sopra le vie di San Rocco», «i tacchi a spillo», «il gregge di pecore / che stamattina ci ha bloccato sulla circonvallazione», «il furgoncino della raccolta della carta», la «cabina telefonica», il «parcheggio del supermercato», «olio, patate, insaccati e birra… pasta e passato di pomodoro», «due panini, un cartone di latte, qualche pesca, una scatoletta di cibo per gatti», «l’edicola di fronte al castello Quistini», «le tecniche di attraversamento di una rotonda europea / sono una prova che la vita ci impone», «c’è sempre un incidente, sulla strada o al lavoro», «i libri usati», «un segnalibro», «le poesie di Raboni, / farcite di biglietti di cinema, di mostre e di filovie», «scrivono con lo spray / le banali frasi d’amore copiate da qualche foglio», «una zanzara si posa sulle pagine», «il cane che si era perso», «un tailleur grigio con il colletto di velluto», «la felicità dello schermo», «il gratta e vinci», «un batuffolo di cotone», «i riccioli biondo rosa ben curati», «bambini ammucchiati in stazione», «un mappamondo che s’illumina con la spina», «i pendolari di luglio».
salve è il saluto
che salva dall’imbarazzo di scegliere
tra il tu ed il lei, tra la
complicità e la distanza,
rimanendo sospesi
nella stessa indecenza del grigio
Come ho scritto in altre occasioni, il processo di narrativizzazione che ha investito in queste ultime decadi la poesia italiana trova qui una perfetta esemplificazione: fare una poesia della «indecenza del grigio», dei «modesti fatti quotidiani» in cui si sveli lo «sgretolamento del mondo contemporaneo», come scrive l’autore, «sul filo per non cadere nell’abisso del minimalismo» è un progetto che è stato già perseguito nel secondo novecento dalla poesia di adozione milanese e lombarda, Guido Galdini è tra i più bravi in assoluto in questo tipo di poesia, ma mi chiedo se ci sia ancora spazio per uno sviluppo ulteriore in questa direzione; quella narrativizzazione, quel pedale basso, quel lessico «grigio» una volta pigiato a tutto tondo non può essere schiacciato oltre, e i nodi estetici vengono al pettine. Questo stare ossessivamente qui e ora che la poesia dei lombardi si ostina a percorrere, rischia di rivelarsi un vicolo cieco.
Quella narrativizzazione della poesia contemporanea, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio, suasorio e minimal del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» del discorso poetico ad inseguire il narrativo.
E allora occorrerà fare un passo indietro: la riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica, politica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto (e dell’oggetto). L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante; avrei qualche dubbio sulla scelta di porre una poesia intorno al «soggetto» perché dovremmo chiederci: quale «soggetto»?, quello che non esiste più da tempo? Quello che è stato de-fondamentalizato? Il soggetto come luogo retorico? Il soggetto come luogo dell’esperienza?
Ritengo che la poesia che si fa oggi non possa essere esentata dalla investigazione sulla crisi del «soggetto», che una «nuova ontologia estetica» non può non prendere a proprio parametro.
Però, però c’è anche un’altra forma di pensiero: il pensiero mitico.
In questa forma di pensiero noi possiamo stare, contemporaneamente, qui e là, nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. Il nocciolo della «nuova ontologia estetica» è questo, credo, in consonanza con il pensiero espresso dalla filosofia recente, da Vincenzo Vitiello nelle due domande postate qualche tempo fa e in accordo con il pensiero di Massimo Donà secondo il quale la «libertà» mette a soqquadro il Logos, la «libertà» infrange la «necessità» (Ananke).
Allora, sarà chiaro quanto andiamo dicendo e facendo: che la poesia deve ritornare ad essere MITO; si badi non racconto mitopoietico o applicazione e uso strumentale della mitologia, ma «mito». Innalzare a «mito» il racconto del «reale», un po’ quello che ha fatto Kafka nei suoi romanzi e racconti, quello che ha fatto Mandel’stam nelle sue poesie della maturità, quello che fa la poesia svedese di oggi, ad esempio, alcuni nomi per tutti: Werner Aspenström, Tomas Traströmer, Kjell Espmark, Katarina Frostenson e anche: Petr Kral, Michal Ajvaz, Reznicek, Ewa Lipska.
È finito un concetto di «reale» – Inizia un nuovo realismo
Il limite della poesia italiana di questi ultimi cinquanta anni è che è restata ingabbiata all’interno di un concetto di «reale linguistico» asfittico, chiuso (vedi l’egemonia di un certo lombardismo stilistico molto affine alla prosa), un concetto di reale che seguiva pedantemente la struttura della sintassi in uso nella narrativa media italiana, un positivismo sintattico che alla fine si è dimostrato una ghigliottina per la poesia italiana, un collo di bottiglia sempre più stretto… Ad un certo punto, i poeti italiani più avvertiti e sensibili si sono accorti che in quella direzione non c’era alcuna via di uscita, e hanno cercato di cambiare strada… La «nuova ontologia estetica» altro non è che la presa di consapevolezza che una direzione e una tradizione di pensiero poetico si erano definitivamente chiuse e non restava altro da fare che cercare qualcosa di diverso…

l’altra notte che era umida e inquieta
mia cugina mi ha telefonato in un sogno
Guido Galdini
GLI ALTRI (persone, animali, cose)
quando gli altri siamo invece noi stessi,
e ci accorgiamo di avere indosso la stessa maschera
dal talloncino che penzola sulle spalle,
e dallo stesso finto sorriso
che spunta immobile su tutte le labbra
sotto, resta sempre qualcosa
che non si fida ad essere un volto.
*
attende, con una messa in piega da vedova,
che qualcuno la incontri, ne raccolga il fruscio,
il soprabito è troppo giallo, troppo vuoto il sorriso,
troppo spente le insenature degli occhi
quante volte ha confuso
una coincidenza con un’occasione,
un’occasione con un equivoco,
quante volte ha aspettato che finisse di piovere
per ricominciare a nascondersi tra le pozzanghere.
*
scendi leggero questi sentieri,
e arrivi in tutti i luoghi che si rifugiano
raggiungi anche un orto nascosto tra i rovi
dove sta per pranzare una coppia di anziani,
lui le versa dell’acqua,
lei gli ha appena condito
la più fresca insalata del mondo:
c’è qualcun altro
a cui chiedere l’indirizzo del paradiso?
*
la tristezza delle commesse al lavoro
nel pomeriggio di festa
scivola indifferente dentro gli occhi:
dal loro vuoto
fissano il vuoto della corsia centrale,
lo sguardo dondola sulle vetrine
zeppe dell’allegria che oggi
nessuno vuol regalare
la penombra le assale,
la gioventù le fraintende,
e un altro primo passo hanno compiuto
verso la grandine della rinuncia.
*
sotto il bersò il pensionato sonnecchia
mentre si perde tra le parole crociate,
i gelsomini gli offrono un’occasione
per scomparire in un angolo di splendore
una vecchia, più in là, scopa l’ingresso dai petali
che l’ingombravano dopo la notte di vento
la mattina di giugno incontri tutti i confini,
il mondo si raggiunge camminando.
*
e alla fine, a settant’anni, ha incominciato
a prendere lezioni di greco antico
insieme con altri anziani, clandestini
in una terra di briciole e paludi
hanno in sé la certezza che sia un modo adeguato
per prepararsi al discorso che dovremo tutti tenere
da entrambe le pareti dello specchio.
*
l’altra notte che era umida e inquieta
mia cugina mi ha telefonato in un sogno,
non ci sarebbe quasi niente di strano,
se non fosse che lei
sono due anni che è morta,
ma mi è mancato, nel sogno, il coraggio di dirglielo.
*
in treno osserva allarmato
i passi del controllore, appena gli si avvicina
si rifugia in un altro scompartimento,
approfitta della carrozza a due piani
per un’inattesa e protetta via di fuga
questa è la vita di chi viaggia senza biglietto,
senza un minuto per guardar fuori il paesaggio,
o passeggiare un poco dentro di sé
appollaiati sul nostro sedile,
lo sbirciamo con disattenzione e fastidio,
diversa la nostra sorte, che abbiamo nel portafoglio
tutti i previsti permessi di viaggio,
compreso quello, gratuito, del disprezzo.
*
li incontri tutti la mattina presto,
arrancano in bicicletta sul ponte dell’autostrada,
pedalano a fatica verso la fatica del giorno
nella salita che soffoca la gola
per loro l’alba verrà così tardi
che non se ne faranno più niente della luce.
*
l’ombrello che è rimasto infilzato
dentro il cestino della spazzatura:
forse non era di protezione adeguata,
forse ha deciso, chi l’ha abbandonato,
che miglior scelta era rinunciare a proteggersi
il televisore, lasciato da solo,
quieto a disfarsi sopra il marciapiede,
dove ora andrà in onda,
senz’altra replica, la sua ultima trasmissione
la bicicletta l’hanno legata ad un palo,
senza ruote né sella, arrugginita e intoccabile,
pronta all’uso di allontanarsi e svanire
il sonno delle cose tralasciate,
immenso e lieve come la polvere sull’autunno.
*
i pensionati invecchiano, seduti nella noia
sotto i tigli di piazza della verdura
è domenica e aspettano un’altra domenica,
ma finiscono sempre
col farsi intrappolare dai lunedì.
*
a piccoli passi, anziana e cauta,
cammina per i marciapiedi di luglio,
magri i polpacci, abbronzati
da un mare economico di bassa stagione
luglio è il calore della città, la mattina
presto dall’ortolano,
poi tutto il giorno nella penombra della cucina,
con in mano una mela che non ha voglia di sbucciare.
*

sono rimaste le bandierine di plastica,
appese a un filo, sopra le vie di San Rocco
sono rimaste le bandierine di plastica,
appese a un filo, sopra le vie di San Rocco;
la festa è finita, ma nessuno
le ha finora avvisate, così loro
continuano a tremare al piccolo vento,
per la piccola felicità
di chi prova a tenere gli occhi alzati da terra.
*
quando chiude un’attività, svuotano la vetrina
e capovolgono, in alto, l’insegna,
che a malapena si può ancora leggere,
come se fosse avvolta da una nuvola di foschia
e il commercio avesse cambiato
il genere di prodotti e di clientela
ad esempio, la Gastronomia Eugenio e Rosy,
all’inizio della salita dell’oratorio,
dopo aver sgomberato la mobilia
e sparsa tutta la segatura sul pavimento,
adesso vende il fantasma dei suoi antipasti
a quegli spettri che non hanno tempo per cucinare.
*
quando, in colonna, all’incrocio per l’autostrada,
una Punto decrepita ha tentato
all’improvviso un taglio di corsia,
e tu le ha fatto spazio, rallentando la fretta,
un braccio nero si è sporto dal finestrino,
e una mano, stringendo l’aria, ti ha ringraziato
hai risposto con un cenno, e per un istante
il traffico ha interrotto la sua ingordigia:
i ponti più coraggiosi non hanno bisogno di parapetti.
*
il furgoncino della raccolta della carta
scodinzola lungo le curve verso Iseo,
perde un foglio di giornale, un petalo rosa
vola via sull’asfalto, stritolato
dalla ferocia delle automobili in coda
gli attuali eroi hanno un breve destino, le loro imprese
sono cantate per l’ebbrezza di un giorno,
restano solo nei cuori spezzati
di chi non si arrende alla disgregazione dell’epica.
*
per la loro festa hanno radunato i disabili
nel parcheggio del supermercato,
i volontari li accompagnano a ricevere un palloncino;
alcuni lo stringono in mano con attenzione,
altri, delusi, se lo sono lasciato scappare
ci sono varie metafore a disposizione di noi autori,
e forse questa non è nemmeno delle più ardite.
*
chiara innocente e ingenua la benzina
disseta il serbatoio della cippatrice,
e ti domandi, mentre la vedi scorrere,
da che abissi d’Arabia, da che gorghi
è risalita fino a questa luce,
e da quali foreste del pliocene
ha ereditato il carbonio,
per scomparire nella tranquillità dell’estate
sbriciolando le ramaglie della siepe.
*
sfida la figlia che sta sbocciando:
più attillati i calzoni, più spietate le ciglia,
più indiscreta l’abbronzatura del volto
ma lo sguardo si approssima troppo in fretta,
malgrado l’indulgenza dei cosmetici,
a una foglia che novembre ha deciso
di non dare il permesso agli altri mesi di cogliere.
*
hanno trovato il cane che si era perso
nella campagna dalle parti del cimitero,
lo tengono legato
a un guinzaglio di corde di tapparella;
ora aspettano l’arrivo del padrone,
e intanto provano a farselo un po’ amico
è soltanto da azioni come questa,
contate a minuzie, a miriadi, a infinità,
che alla fine di tutte le rincorse
forse anche il mondo potrà essere salvato.
*
strofina con pazienza il gratta e vinci
che le regala una nuova attesa da sorseggiare,
poi lo sminuzza, sollevata
d’aver sepolto questa minima delusione
la speranza non si lascia sconfiggere
senza una cerimonia che ne lusinghi la cecità.
*
con l’altra mano tengono premuto
contro il braccio un batuffolo di cotone,
escono dal cancello di via Màcina
con lo sguardo circospetto e impaurito
hanno appena confessato ad un ago
le più estreme verità su se stessi.
*
le strade del mio paese hanno l’abitudine
di riservare varie accoglienze a chi le percorre;
lungo la polvere dei marciapiedi
spesso incontro due tranquilli alienati,
il primo con lo sguardo vuoto davanti a sé
e un’eterna sigaretta che penzola dalle labbra,
l’altro altissimo, scheletrico e curvo,
che pare sempre stia quasi per correre
e mentre i giorni provano a farsi tenebra
loro proseguono ad evitare ogni direzione:
non hanno alcuna fretta di arrivare,
la loro meta è il cammino,
solo per loro la strada
rinuncia a mettere ostacoli, false occasioni, voragini.
*
bianca come il grembiule, sfiorita e spenta,
la fornaia, di spalle alla vetrina,
guarda i cassetti vuoti, gli ultimi filoncini
persi in mezzo alle briciole, le frittelle rimaste
pronte per l’allegria di qualche ritardatario
fuori è già quasi sera, ha appena smesso di nevicare,
le strade sono dovute venire a patti con il fango,
e i pochi lampioni accesi non hanno niente da illuminare.
*
la zucchina, sul tavolo, sta aspettando
d’essere sminuzzata a cubetti
per invadere la pentola del soffritto;
provi ad usare il marchingegno miracoloso
che hai comprato a una fiera, anni fa,
ma smette subito di funzionare,
forse non ha mai funzionato
dopo le capriole dell’imbonitore
cerchi di mascherare la delusione
ma non si lascia restringere tanto in fretta:
ampia è l’abilità degli oggetti
di riempire i cassetti lascandoli vuoti.
*
la sigaretta, in equilibrio sull’orlo
del tavolino appena fuori dal bar,
l’hanno lasciata dopo due boccate
per noia, disattenzione, o per un colpo di tosse
più tenebroso del consentito,
o forse per una telefonata improvvisa,
insulsa allegra o fatale,
o forse ancora per inseguire all’istante
l’amore atteso lungo tutta la vita
cosa mai ci confessa, quella sigaretta ormai spenta,
che non possiamo esimerci dall’ascoltare,
non dà tregua il suo grido
né percorsi di fuga, da ogni lato
ci avvolge, si fa cenere in gola,
e soltanto i nostri sensi assopiti
ci permettono di allentare la presa
della realtà che ci abbraccia e ci stritola.
Per Guido Galdini: Sono irresistibilmente attratta dalla poesia che attesta la realtà, specialmente se una realtà minore; ergo, sono sempre in bilico sul baratro del minimalismo;Ma sfido audacemente il pericolo, per cui dico che le poesie di Guido Galdini appena postate, mi convincono pienamente; vi ritrovo l’occhio attento alla realtà,comunque e dovunque si riveli ,poichè, si sa, “la fantasia non è inventare le cose, ma dare importanza alle cose:”
Perché il “Dire originario”, che per Heidegger si offre all’ascolto del poeta, è composto da un intreccio di pensiero e canto (logos e melos)? Perché il gesto ermeneutico dell’emozione musicale, il pathos che vi è implicito, trasfigura e ricontestualizza l’oggetto realistico nel suo originario e ineludibile scenario metafisico, dilata e accredita l’espressione mimetica arricchendola di “risonanze armoniche”, implicazioni e risultanze semantiche imprevedibili e insostituibili, che costituiscono il vero tessuto connettivo con cui il pensiero poetico ricostruisce fondamenti e prospettive ontologiche.
E’ quello che avviene, ad esempio, nella scrittura di Renè Char, un continuo trascendere e riaffiorare, dall’elemento mimetico, del “nostos” d’una tradita sacralità, un tracimare del pensiero che rappresenta nel sogno che raffigura infrangendo le “resistenze” del super-io moralista della concettualizzazione razionalistica.
E’ questo anche l’elemento connotativo più qualificante dei testi di Gualdini, che nei momenti più intensi transitano inavvertibilmente – ma suggestivamente – da uno scontato elegismo tardo-crepuscolare ad un iperrealismo espressionista in cui risuonano implicite denunce e parenesi
( ottimo coincidere di etica ed estetica ) :
la tristezza delle commesse al lavoro
nel pomeriggio di festa
scivola indifferente dentro gli occhi:
dal loro vuoto
fissano il vuoto della corsia centrale,
lo sguardo dondola sulle vetrine
zeppe dell’allegria che oggi
nessuno vuol regalare…
Spero voglia gradire un testo che gli dedico, in cui l’atmosfera del sogno domina in modi più espliciti.
ADAGIO RELIGIOSO
Affacciandosi alla finestra sentì le risate delle divinità assurde che affollavano i sobborghi del pensiero, le loro vesti erano tristi come il colore delle vele.
Tutta la notte cospira con la disperazione dei coralli, e alla fine si arrende alle cattedrali insistenti.
Nell’antica prigione la Dea sedeva sull’orlo del fossato, tentando di velarsi di gemiti di liuto.
Da millenni nuota nel sottoscala, tentando di afferrare il rossore della vicina: un vento decorato di bambini.
Datemi un motivo per esistere, gridava nel frastuono dei militari, e un terrore di prateria vinceva i sacramenti.
Il giallo dei baci nelle sagrestie è fonte di musica o prostituzione – dipende dal vento che spira dalle bambine blu.
La sfera verde-destino è piena di giorni spaventati
dal lume di candela in cui vacilla l’assoluzione.
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Posto qui uno stralcio significativo di una nota critica di Donatella Costantina Giancaspero in margine a una poesia di Maria Rosaria Madonna:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/13/guido-galdini-poesie-scelte-da-gli-altri-lietocolle-2017-con-un-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-e-finito-un-concetto-di-reale-inizia-un-nuovo-realismo-ce-anche/comment-page-1/#comment-32582
“Un eccesso di alti picchi, oltre ad essere difficili da eseguire, alla fine rende
vacua e pleonastica la stessa intensificazione; infatti, allo scopo di introdurre dei rallentamenti metrici Madonna adotta spesso i virgolettati per il parlato anche per dirimere il parlato dalla descrizione; i dialoghi in poesia risultano utilissimi per mettere movimento lo scacchiere dei singoli «pezzi» musicali;
per esempio, nei pezzi per pianoforte di Morton Feldman il musicista statunitense parla di «asimmetrie» e di «crippled simmetry» e della «memoria» «crippled»; e che cosa sono queste cose se non quello che noi della nuova ontologia estetica chiamiamo «frammenti»? La grande musica del Novecento ha saputo fare tesoro di questi inciampi, di questi
azzoppamenti della simmetria, della dismetria, la poesia italiana del secondo novecento invece è rimasta prigioniera di una visione pacificatrice e unilineare del verso, il verso lineare di matrice «zdanoviano-pretesca» secondo la pittoresca espressione di Maria Rosaria Madonna.
Feldman diceva che quando si fa una musica della memoria bisogna introdurre una «disorientation of memory»”.
L’osservazione del musicista statunitense Morton Feldman coglie in pieno il centro del bersaglio concettuale: la «crippled simmetry» e la «memoria» «crippled». Che cosa significa? Significa che in un’opera d’arte moderna che si fa oggi nel Dopo il Moderno, l’invariante stilistica è data dalla «memoria azzoppata», interrotta, deviata, intermessa, lateralizzata… o come altro vogliamo denominarla… il punto centrale è inserire tra le cerniere della sintassi (i verbi) e tra gli elementi connotativi (gli aggettivi) delle interruzioni, degli azzoppamenti, degli squilibri… pena la ricaduta in un linguaggio del realismo mimetico… ed è questa la strada che dovrà percorrere, a mio avviso, la poesia del futuro di Guido Galdini, poeta strutturato e ben formato, che dovrà lavorare sulla dismetria e sulla distassia della metricità.
La «disorientation of memory» di Feldman qui diventa una strada percorribile…
Grazie, Donatella, che bellissimo regalo oggi! Una mappa feldmaniana per il poeta. Mi vado subito ad ascoltare il Piano and String Quartet.
Così anche Galdini è perfettamente maturo e pronto a intraprendere un nuovo segmento di strada. Noi tutti, dal primo all’ultimo poeta, ci siamo trovati a doverci costantemente rinnovare. Abbiamo tutti cercato duramente nei risvolti della realtà, delle cose, del tempo, vivendo ogni giorno l’enorme difficoltà di scrollarci di dosso le abitudini inveterate di una scrittura tramontata da tempo.
Ho letto queste poesie attentamente. Galdini inizia un suo componimento per farlo andare in un luogo preciso, e come se fosse il poeta che dovesse non solo imprimere la strada e fissarne la meta, ma il destino. Ma il poeta non puo’ controllare il destino della sua poesia. Talvolta questo gioco gli sfugge di mano, ma in genere la tremenda serietà con cui si accinge a questo compito indurisce il verso eccessivamente, lo porta come costretto al suo termine ineludibile. Non è che non vi sia efficacia in tutto questo, ma la poesia ha l’odore di tempi andati, quando eravamo ancora padroni del dettato poetico.
Dice Galdini: “Ho cercato, come autore, di acquisire la massima invisibilità e, nel contempo, di operare con la massima precisione. Non posso permettermi sbavature.” Già questo ci dice tantissimo.
Guardiamo queste poesie di Galdini e questo brano di una poesia di Gino Rago postata nei commenti appena due giorni fa
L’atto poetico nel vuoto
di Gino Rago
«Ci interessa la forma del limone
non il limone».*
*[Questo scrissero sul manifesto formalista quegli artisti
Nell’ammutinamento sui battelli del figurativismo
E del narrativismo.
Ma fu sera e mattina sulla Forma].
[…]
Un reziario nell’arena
Con un altro reziario un po’ più antico
Ma nella stessa arena, verso chi tridenti e reti?
Chi o cosa vogliono irretire, senza corazza ed elmo?
Il Vuoto? Vogliono imprigionare il Vuoto
con un balzo estetico.
Perché la bellezza è nel vuoto?
[…]
I due reziari all’unisono: «Perché se sei nel vuoto,
se davvero ti senti nel vuoto, devi agire prima che il vuoto ti risucchi…
È il gesto che salva. È l’urto tra l’atto poetico e il vuoto
che genera lo spazio e il tempo,
perché il vuoto e il nulla non coincidono affatto.
La forma-poesia non è l’inizio
ma il risultato dell’urto dell’atto nel vuoto che fluttua.
Perché il vuoto si può costruire, come al silenzio si può insegnare a parlare,
ma occorrono le parole-stringhe a cinque dimensioni».
[…]
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/11/steven-grieco-rathgeb-disfanie-poesie-e-prose-selezione-e-introduzione-di-chiara-catapano-un-nuovo-modo-di-intendere-lagire-poetico/
Immediatamente notiamo due concezioni diversissime della spazializzazione all’interno della poesia. Nel caso di Rago c’è uno spazio aperto, in cui si respira, in cui si avvertono le tre dimensioni che il tempo rende manifeste. In questo modo appare un “reale”, il nostro reale, quello che viviamo oggi, non uno passato e ormai solo ricordato o onirico. Insomma, è tutto molto semplice. Difficilissimo acchiappare.
Dice Gorgio Linguaglossa nella sua nota “…un concetto di reale che seguiva pedantemente la struttura della sintassi in uso nella narrativa media italiana, un positivismo sintattico che alla fine si è dimostrato una ghigliottina per la poesia italiana, un collo di bottiglia sempre più stretto…” E infatti, proprio in queste poesie sentiamo l’ansia di raggiungere un luogo, un locus davvero soltanto sintattico, come se fosse necessario confermare una bravura nel raggiungere quel luogo, quando esistono luoghi ben più ineffabili, ma anche più semplici, più aperti. E’ in fin dei conti questa una precisione di cui nessuno ha bisogno e che invece di convincere lascia un senso di fatica. Alla fine, tutte queste poesie hanno il sapore di un tour de force.
Più ci allontaniamo dal secolo passato, più uno stile poetico novecentesco si deve di conseguenza fare duro, preciso, perfetto, inflessibile, quasi spietato, per rimanere a galla, per non perdere la bussola. E questo si vede. Secondo me, un poeta di valore notevole come Galdini, non ha che da fare una cosa: cambiare astronave.
Galdini non scrive poesia al presente, ma per parlare del presente. Dunque d’un millimetro soltanto, si lascia scappare l’attimo. E quell’attimo, scivolato nel “è stato”, si declina in morale, suo malgrado.
Due esempi:
sfida la figlia che sta sbocciando:
più attillati i calzoni, più spietate le ciglia,
più indiscreta l’abbronzatura del volto
ma lo sguardo si approssima troppo in fretta,
malgrado l’indulgenza dei cosmetici,
a una foglia che novembre ha deciso
di non dare il permesso agli altri mesi di cogliere.
*
hanno trovato il cane che si era perso
nella campagna dalle parti del cimitero,
lo tengono legato
a un guinzaglio di corde di tapparella;
ora aspettano l’arrivo del padrone,
e intanto provano a farselo un po’ amico
è soltanto da azioni come questa,
contate a minuzie, a miriadi, a infinità,
che alla fine di tutte le rincorse
forse anche il mondo potrà essere salvato.
In entrambi i componimenti, la chiusa cerca una via di fuga nel senso ultimo, nel riappropriarsi dell’eterno fuggente. Questo chiudere il discorso che sbocciava, ripiega di quel tanto che basta le poesie perché il lettore senta che qualcosa gli è stato tolto: e dunque la possibile astrazione nella descrizione del reale, diviene narrazione e la tensione cade.
Questa a far una critica, ad una poesia che sboccia e sta quasi ritagliando via i contorni alla realtà.
Una lettura interessante, che ci pone ancora ed ancora dinnanzi al problema del poeta/artista, e del mezzo/parola, con cui si trova a lavorare duramente per stillare anche una sola goccia della sua poesia.
I miei complimenti a Galdini, poesia con i muscoli per camminare nel nostro tempo.
“il mondo si raggiunge camminando”.
Guido Galdini dimostra di avere mente logica, amore per la storia (esse minuscola) e mi arriva autentica la sua voglia costante di capire. Non mi sorprenderebbe se nel tempo il suo stile di scrittura si facesse sempre più asciutto, documentaristico, da crudo reportage.
Non tutte le poesie qui pubblicate hanno incontrato il mio gusto, ma nell’insieme sì. Ha un passo costante, da esploratore del mondo; solleva domande, si interroga sulle ragioni del dolore – oggi cosa rara, mi sembra – tanto più che Galdini non va per vie religiose o filosofiche, ma nemmeno piattamente politiche. Complimenti.
L’ha ribloggato su Alessandria today.