Gianni Godi è nato a Monte Porzio (Pesaro-Urbino), è artista transmediale. Per esprimere l’arte in genere sperimenta i nuovi mezzi che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione e questo vale anche per l’arte della scrittura. Ha pubblicato il libro di poesie, Memorie di Automi, nel 1986 con “Forum Quinta Generazione”. Nel 1994 ha edito, una sola copia e in proprio, il libro Viaggio Cilindrico nella Materia (date le dimensioni da lui richieste, 160×220 cm e forse anche per altri motivi, non ha trovato un editore). Verso la fine degli anni ’90 ha costruito il modello del libro Viaggio Sferico nella Materia ed ha proseguito e prosegue con molti lavori di Videopoesia.
Commento di Giorgio Linguaglossa
La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica
La poesia-affiche, la poesia-cartellone, la poesia da schermo, la poesia grafematica… è possibile che sia la poesia del prossimo futuro, un tipo di scrittura sganciata e slegata dalla necessità del supporto cartaceo, una poesia che si libera nello spazio virtuale di un universo ologramma. Sono convinto che la ricerca iconica e poetica di Gianni Godi sia di questo tipo, l’artista romano che si dichiara «totale» si è liberato della «totalità», una categoria che anch’io usavo trenta anni fa ma che adesso è caduta nel dimenticatoio; forse oggi ha poco senso parlare di «totalità delle cose» in un universo inflazionario che, si calcola, tra ventimila anni luce sarà talmente diradato e freddo che le luci delle galassie si saranno spente del tutto e i pochi atomi rimasti galleggeranno nell’etere a distanza di milioni di chilometri l’uno dall’altro, allora, a quel punto, di tutto ciò che conoscevamo come il nostro universo non rimarrà che un immane buio e un immane freddo, e un altro universo giovane prenderà il posto del vecchio. E tutto ricomincerà di nuovo in un orribile e spettrale eterno ritorno.
Tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto
Nella grafia di Gianni Godi tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto, il non detto; qui si rende evidente che l’essere si differanza nel linguaggio, l’essere si aliena nel linguaggio e nel linguaggio diventa altro da sé, si rende presente e assente in un medesimo tempo; diventa segno, traccia, vuoto tra i segni dei grafemi; la verità si trasforma in traccia, si contamina, si incide nel linguaggio che è segno. Non c’è nessun linguaggio che possa vantare un privilegio ontologico sugli altri linguaggi tantomeno quello poetico. Pensare alla verità del linguaggio è già un porsi nella dimensione del tempo, è già un temporalizzarsi e uno spazializzarsi del tempo; ci sono solo tracce, dei grafemi, di qua e di là che però non conducono ad alcuna verità, c’è una differance e una moltiplicazione di grafemi che si insinuano tra l’essere e il linguaggio. Il grafema è tutto ciò di cui possiamo essere certi ma di una certezza che non ha nessun punto di contatto con la verità. La verità (l’essere) è differantesi-differente nel-dal linguaggio, è lei il vero errante della nostra epoca. Noi sappiamo ciò che il linguaggio dei segni ci dice ma la verità non la conosceremo mai per via della struttura aporetica di essa, l’essere è il non detto del linguaggio, sta tra gli interstizi del linguaggio.
Nella spazializzazione dei grafemi di Gianni Godi l’essere diventa visibile proprio in quanto inghiottito dai vuoti interstiziali. In queste spazializzazioni grafematiche il tempo sembra essersi volatilizzato, non c’è più, o meglio, le sue tracce sono i grafemi, simulacri di originali mai avvenuti, mai pervenuti.
Adesso possiamo dire che questo «Viaggio cilindrico nella materia» di Gianni Godi altro non è che la traccia dell’erranza della verità che si dà nella configurazione del tempo in quanto il tempo è il venire a manifestazione della struttura aporetica della verità.
La verità-essere non è nel «testo scritto» ma «tra le righe», «nell’interlinea» del testo, nel «non detto» del testo di cui esso testo è la «traccia», il grafema. Il grafema non è niente, è un non-niente, ma non è nemmeno la cosa, è una presenza che si dilegua e rimane il niente… L’IO è liquidato, scomparso tra i flutti del vuoto, e con esso la «materia». Non è un caso che l’ultimo grafema suoni «e lasciaci in pace nel morchio limaccio».
Gianni Godi
Breve nota sulla Poesia Volumetrica in relazione al manufatto Volume “Viaggio Cilindrico nella Materia”.
Mi sembrava di avere esaurito tutte le parole. O perlomeno credevo di aver esaurito tutte le combinazioni del mio miserrimo bagaglio di parole adatte a far poesia. Ritenevo che la maggioranza delle parole in uso fossero irrimediabilmente logorate dalla pubblicità per finire nelle osterie e nei bar del mondo. Si era all’inizio degli anni ‘90 e la voglia di sperimentare era rimasta intatta. Per esempio non sopportavo le parole bidimensionali distese sul foglio di carta. Di 3D si parlava ancora poco, però pensavo ad una possibile fuga in altra dimensione del testo piatto…e le voci da ogni luogo che si sovrapponevano mi fecero capire che l’esposizione lineare di un concetto era indubbiamente vantaggioso per indicare le regole e le procedure costruttive di un qualsiasi manufatto seriale però inadatta all’innovazione, specialmente nell’espressione artistica in senso lato. Se hai la pretesa di fare qualche cosa di nuovo, devi cercare di conoscere, per quanto ti è possibile, “tutto” quanto hanno fatto gli altri per cercare di non rifarlo. Da qualche parte avevo letto che Claudio Monteverdi, lo ripeteva spesso ai suoi allievi.
La scrittura della prima poesia volumetrica segue una logica non lineare. Le parole e la grafica si susseguono in modo spontaneo, credo, sulla base del “mio totale sapere”. Al posto dei mezzi tradizionali (penna o matita) usai un desk top PC munito di un generico programma di scrittura tradizionale e di un potente programma di creazione e manipolazione grafica. Un anno di immersione mattutina nel caos cerebrale, forse con l’intento di dare un senso alla nebbia intellettiva. Ne uscirono poco meno di 50 paginette piatte quasi totalmente incomprensibili. Però ero io. Nessuno avrebbe comunque “letto” il mio lavoro. Non mi sembrava giusto. Al fine di rendere comunque visibile il “mio pensare”, decisi in modo stavolta razionale, di trasformare in un volume la mia fatica. La forma cilindrica mi sembrò la più adatta. Oltretutto un cilindro vuoto e di adeguate dimensioni avrebbe potuto catturare l’attenzione e “ospitare” all’interno un possibile lettore. Mentre procedevo in modo razionale con il pensiero, mi resi conto della fatica che avrebbe dovuto fare l’ipotetico lettore nel cercare di carpire il significato di una simile scrittura. Nacque così l’idea di distrarre il futuro malcapitato utente indirizzandolo verso concetti immediatamente fruibili. Stampai le pagine su fogli A3. Dopo un’accurata plastificazione le incollai fra loro ottenendo un lenzuolo lungo più di 4 metri. Preparai due piattaforme circolari di 160 cm. Sulle piattaforme furono incollati due specchi. Una piattaforma specchiata divenne il pavimento l’altra il soffitto. Arrotolai il lenzuolo attorno alla struttura, fissai una lucetta alogena al centro in alto e subito mi recai all’interno. Rimasi per un po’ senza fiato. Avevo ottenuto un “libro” che moltiplicava se stesso e il lettore verso l’infinito inferiore e superiore. Non mi passò minimante l’idea di leggere l’illeggibile da me creato. E così fecero tutte le persone che ebbero l’opportunità di entrare nel libro-cilindro.
In sintesi il manufatto si presenta come una sorta di libro tutto aperto. L’ultima chance della parola scritta pronta a migrare dal supporto cartaceo verso nuovi mezzi espressivi. Entrato all’interno del cilindro, il lettore privo di scarpe (nudo sarebbe meglio) si trova “sospeso” a mezz’aria tra gli infiniti sopra citati. Illusione dovuta ai due specchi paralleli. Il “viaggiatore” resta fermo, però s’accorge che la sua materialità resiste alla frantumazione e che frapponendo il suo corpo fra il pensiero e l’infinito gli viene preclusa la vista estrema del punto di convergenza. Per intravedere un possibile infinito deve necessariamente rimuovere il suo corpo.
Per i curiosi posso aggiungere che in effetti la mia intenzione iniziale era quella di raccontare l’avventura di un individuo che via via si trasforma in coppia e che senza volerlo si ritrova ad un convegno di fisici su di un grattacielo a New York. I fisici discutono della materia e di come afferrarla e possibilmente possederla. Al convegno è presente Dio. Durante il cocktail si straparla e tutti si ubriacano. Vengono inventate le parole per spiegare l’inspiegabile. A piedi nudi i fisici cercano di frantumare la materia. I due partecipano attivamente alla sbornia collettiva e credendo di aver afferrato il senso del convegno si eccitano un po’ troppo e per una distrazione materiale sporgendosi oltre misura dal grattacielo cadono sull’asfalto di New York. Dopo vari rimbalzi finiscono nella zona Infernetto-Ostia.
Ridotti in frantumi infinitesimali, hanno la possibilità di vivere la natura biologica risalendo le radici delle piante verso le foglie e i fiori o vivere la natura inorganica dei cristalli di sabbia-silicio e ritrovarsi come parte fisica in qualche schermo televisivo o agitarsi freneticamente nel luminoso buio di componenti microelettronici o rimanere in apparente quiete in attesa di imprevedibili eventi.
Qui finisce l’avventura a noi narrata con un linguaggio fortemente influenzato/storpiato dai discorsi orecchiati durante il convegno.

Gianni Godi, Cilindro
Gianni Godi
Viaggio cilindrico nella materia
Poesia volumetrica
Tudela appare giovane. Quando Tudela entra nei pensieri i familiari preoccupati si fermano a guardare i suoi occhi; credono stia male. Di fatto, in pochissimi anni ha subito diversi trapianti di memoria perdendo quasi del tutto il senso del tempo. Ad alta voce dice di aver detto più volte nel passato, di voler andare libera da vincoli ad acquistare varie concretezze da cerimonia (fra l’altro, un paio di scarpe con tacchi a spillo). Non specifica di quale cerimonia si tratti e tutti affermano concordi di non averla mai udita fare simili affermazioni. Tudela non sa in quale anno, mese, giorno si trovi e pare aver perso anche il senso di spazio. A dire di Tudela, Fiacre, intimo suo amico, di cui fra l’altro è dubbia l’esistenza (non essendosi mai visibilmente presentato ad altri) condivide il desiderio di incamminarsi verso acquisti concreti. L’equivoco sul vero scopo del viaggio non potrà mai essere chiarito per deficienza dei mezzi di comunicazione. Così il giorno xx T&F decidono di partire entrando nel cilindro dell’arte riflessa.
Caro Giorgio,
questa video scrittura non mi è nuova.Se non avessi conosciuto la Rivista Risvolti di Giorgio Moio, promoter e poeta, vicino ad autori come Arrigo Lora.Totino, Carlo Bugli,Enzo Miglietta,Vittorio Baroni, Carlo Bettola ecc, non avrei mai conosciuto certe “texture”da Poesia Visuale, con tecniche da arti figurative innervate con il linguaggio, dove manualità e fantasia si distaccano con la pittura e la scultura allargando e proiettandosi in un orizzonte estremamente variabile:un connubio tra materiale verbale e contesto visuale.In questo caso la dimensione inventiva diventa aperta ad ogni fantasia.Bisognerebbe domandarsi invece, perché i poeti si siano indirizzati verso quest’arte, associandosi a un momento estremamente labile, e tecnicistico.Qui veramente il senso deleuziano sparisce per dare forma a cose e parole,anfratti dell’inconscio, gemellaggio di campi estetici differenti.Questo lavoro di Gianni Godi, può benissimo inserirsi in quella schiera di poeti visivi e visuali che interruppero la tradizione verbale con i loro esperimenti iniziati negli anni 60 e finiti negli 80.(“Non a caso i poeti visivi che succedono alle avanguardie storiche sono di estrazione letteraria, mentre le leve più recenti provengono per lo più dall’area delle arti figurative: due punti di vista che offrono prospettive diverse, quasi sempre inconciliabili” da: “Marjinalia – continnjentia” su Risvolti n. 9 – 2002.) Un vero interprete di questa arte è senza dubbio Giorgio Moio che ha rastrellato opere e autori di questo genere sulla sua Rivista. La tua scelta mi sorprende e devo giustificarla al fatto che sei aperto ad ogni tipo di comunicazione artistica,:cosa che dovrebbe essere accettata dai nostri lettori e poeti senza alcun pregiudizio.
caro Mario,
tu scrivi: «Questo lavoro di Gianni Godi, può benissimo inserirsi in quella schiera di poeti visivi e visuali che interruppero la tradizione verbale con i loro esperimenti iniziati negli anni 60 e finiti negli 80.(“Non a caso i poeti visivi che succedono alle avanguardie storiche sono di estrazione letteraria, mentre le leve più recenti provengono per lo più dall’area delle arti figurative: due punti di vista che offrono prospettive diverse, quasi sempre inconciliabili” da: “Marjinalia – continnjentia” su Risvolti n. 9 – 2002.)».
E fai una premessa che condivido e che trovo interessante:
«Bisognerebbe domandarsi invece, perché i poeti si siano indirizzati verso quest’arte, associandosi a un momento estremamente labile, e tecnicistico».
Penso, caro Mario, che la crisi della poesia e della forma-poesia in Italia sia iniziata negli anni sessanta ed è proseguita, frastagliandosi, negli anni settanta e ottanta… uno di questi frastagliamenti, uno di questi rivoli è stata senza dubbio la videopoesia degli autori che tu indichi con molta precisione. Io inserirei la video poesia degli anni settanta e ottanta e seguenti all’interno di quella implosione che ha attecchito alla poesia italiana del secondo novecento che ha ragioni storicho-sociali e strettamente endogene, cioè legate alla emergenza e alla prevalenza di una poesia maggioritaria sempre più asfittica e autoreferenziale.
Il punto di differenza tra la videopoesia, anche di questa ultimissima di Gianni Godi, e la nuova ontologia estetica è che quest’ultima si muove su un terreno di rifondazione della forma-poesia, rifondazione alla radice delle sue categorie estetiche e ontologiche, la videopoesia di Gianni Godi invece percorre una via di mezzo della Crisi situandosi tra la forma-poesia e l’arte figurativa vera e propria.
Non è un caso che noi, della generazione degli anni ’40 e ’50 (io e te e noi della NOE) che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la Crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della CRISI, dicevo, noi possiamo pensare ad una via di uscita da quella CRISI… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella CRISI, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che non sono i possessori-detentori di quella memoria storica. Presto pubblicheremo un autore «nuovo» nato nel 1974, bravo, che però a mio avviso nuota ancora nel guado, nel guado della stagnazione delle forme estetiche del secondo novecento e di queste ultime decadi…
Trovo giusto e opportuno che, in un discorso poetico rivolto a tutti, si inseriscano, talvolta, anche moduli espressivi nuovi e inusuali.Con Godi, tuttavia, forse si chiede troppo al lettore.Uno sperimentalismo così spericolato ha certamente un suo fascino,ma per apprezzarlo ci vuole un capacità interpretativa specializzata.A meno che non vogliamo entrare nella serie:”Quanto mi piace! Non ci ho capito niente”!
le parole non bastano mai.
hai rivolto indietro un dolore.
lo spasmo vedi è nel trotto. ognuno si aggiusta l’esistenza nel verso.
amati Alfredo!
ti prego, a gocciole esatte.
di sangue incrociato. oppure scopando.
-fulminazione sotto la casa e alberi fertili
di pioggia sorvegliati da varietà
di uccelli stupendi
quanto il mio uccello-.
un verso che attrae,
quello perduto.
Grazie, Ombra,
ed ai versi senza eguali da -Le viziosi avversioni- di Alfredo de Palchi.
-PARADIGMA- Mimesis
Mi rifaccio a quanto detto da Giorgio Linguaglossa: – … tra il grafema e l’immagine si insinua il vuoto, il non detto…-.
Per una sorta di interdisciplinarietà, sempre a mio avviso interessante, mi chiedo, forse non solo in architettura è il vuoto che disegna il pieno, come io sono convinta avvenga?
IL VUOTO di Luciana Vasile
E’ il vuoto, è lo stimolo della mancanza che ci fa mettere alla ricerca, spesso inconsapevolmente.
Il pieno è dato ed è immutabile. Il vuoto è in divenire e dipende da noi la sua vita futura.
Per un architetto la misura dello stupore è il vuoto. E’ lì che trova l’impulso, autentico e creativo come quello che può provare un bambino e la sua verginità.
Dentro di me devo essere vuota, o essere disposta a svuotarmi, per riempirmi, per accettare.
Fuori da noi non è così diverso.
I luoghi hanno un’anima. Basta saperla ascoltare.
La sua magia sembra legata anche dal rapporto fra pieno e vuoto, là dove è il vuoto che disegna il pieno. E’ lui a dare al pieno il suo significato, ne diventa l’aldilà.
Ecco qui il ‘minimalismo’ in architettura, come estetica della forma dalla quale trae la sua espressività.
Non mi sono mai sentita attratta dal Barocco, ma invece, vengo letteralmente rapita dalla semplice preziosa purezza delle forme geometriche e dalla plasticità della nuda materia quando mi immergo in una Abbazia Romanica. Lì mi sento affascinata, conquistata dal vuoto quando diventa singolare presenza. Un vuoto progettato di grande spiritualità senza solitudine. Non mi sento mai persa o smarrita, ma insieme.
Quel vuoto si trasforma in tutto, basta che lo voglia, perché io stessa, seguendo quella sottile traccia, posso riempirlo a mio piacimento soprattutto di significati. Da me ridisegnato, diventa il mio vuoto, la mia partecipazione al tutto, la mia invenzione. Nulla mi è imposto, mai ubriaca fra concavità e convessità, linee sagome colori che vorrebbero imprigionarmi nelle loro contraddizioni e nel loro prevaricarsi, dove non posso ribellarmi. Tutto è, non c’è più posto.
Una verità obbligata che soffoca.
Il pieno deve salvaguardare la sua perfezione, preservarla intatta.
Il vuoto non si deve difendere può solo accogliere, è disarmato.
Il pieno è completezza ma anche impossibilità.
Il vuoto è mancanza ma anche possibilità.
Il pieno costringe. Il vuoto è libero.
Il pieno si può solo distruggere. Il vuoto si può solo costruire.
Il pieno è guerra. Il vuoto è pace.
Tutto ciò sembra incredibilmente coinvolgere le nostre emozioni e sensazioni, trascinate ormai nell’energia che si sprigiona da quei vuoti magici. E’ pregna di tutta quella che altri esseri umani, nei secoli, hanno lasciato, lì, per noi, per comunicare nello spazio e nel tempo. Mentre ci immergiamo, di quella energia inavvertitamente ci nutriamo. In essa penetriamo e ci completiamo in una perfetta armonia.
Miracolosamente il tutto vuoto ci avvolge e ci seduce.
Lì, allora, avresti solo voglia di cantare. Perché, come dice il Celano parlando di Francesco d’Assisi, che intonava melodie a voce spiegata anche di sola musica senza parole “…la forma di espressione, il canto, unica può tradurre e diffondere i muti messaggi che salgono dalle cose”… e dalle anime.
Mi fa molto piacere questo Commento di Luciana Vasile perché mette il punto alla situazione di impasse della poesia (e non solo della poesia) italiana degli ultimi cinquanta anni. Lo ha fatto Luciana Vasile perché lei è un architetto, e quindi ha una formazione culturale aperta, aperta ai problemi costruttivi, aperta a considerare il problema della costruzione come un problema di pieni e di vuoti che si bilanciano a vicenda, come un polittico di forze convergenti e divergenti.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/02/23/gianni-godi-viaggio-cilindrico-nella-materia-poesia-volumetrica-in-15-tavole-videopoesia-la-poesia-affiche-la-poesia-cartellone-la-poesia-da-schermo-la-poesia-grafematica-commento-critico/comment-page-1/#comment-31688
Non ho mai letto da parte di nessun poeta e di nessun critico della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni un tentativo di approfondimento della questione del «vuoto» in poesia (se c’è stato qualcuno ditemelo e faccio ammenda). In questi decenni abbiamo sentito di tutto: della «parola innamorata», della «poesia civile», della «poesia corporale», della poesia minimal», della «poesia plurale», della «poesia della contraddizione», della «poesia orfica», della «poesia mitopoietica», della «poesia mitica» della «poesia degli oggetti» etc. Ciascuno fabbricava una etichetta e la attaccava ad una scatola che conteneva alcuni autori, per lo più e sempre i compagni di strada e gli amici. Si trattava di operazioni, come abbiamo imparato a nostre spese, pubblicitarie e autoreferenziali, ma nessuno mai è partito dall’inizio dei problemi, dal «vuoto» che dà forma alla parola. Nessuno. Poi siamo arrivati noi della «nuova ontologia della forma-poesia e della forma-romanzo» e abbiamo cominciato ad impostare il problema del «vuoto».
Sono innumerevoli i luoghi in cui ci siamo soffermati su questo problema, innumerevoli sono i tag dei nostri post. Chi fosse curioso non ha altro da fare che cercare i post digitando la parola «vuoto». Non ho altro da aggiungere.
Anzi, no, una cosa la voglio dire. Sicuramente, per la «videopoesia» di Gianni Godi oggi sento l’esigenza di cambiarne il nome, secondo me si tratta di arte grafematica, sono i grafemi i protagonisti di questa sorta di arte grafica. Si tratta di un genere a metà tra arte figurativa e arte grafica in quanto la «poesia», ovvero, il testo letterario occupa un posto assolutamente secondario, di supporto alle esigenze del tratto e del grafema.
Caro Giorgio dici: – Non ho mai letto da parte di nessun poeta e di nessun critico della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni un tentativo di approfondimento della questione del «vuoto» in poesia (se c’è stato qualcuno ditemelo e faccio ammenda).-. Allora fai ammenda.
ANGELO SAGNELLI per le sue pubblicazioni sul tema è detto “il poeta del vuoto”. Forse ci sono anche altri testi suoi, ma nel 2013 Lieto Colle ha pubblicato “LA METRICA DEL VUOTO”. Può essere che non sia il tipo di vuoto che vai ricercando tu, ma pur sempre esso si prende in esame, e ognuno lo affronta in modo diverso, interessante il confronto.
Ultimamente è stato presentato al Tempio di Adriano il suo nuovo libro “Il TEMPO E’ L’ENERGIA DELLA MATERIA”. Dalla mia postfazione dal titolo HO BALLATO NEL VUOTO:
… Mi chiedo, allora, sarà il Caso, al quale ossessivamente vado dicendo di non credere, ad aver messo al centro, nel cuore del libro, la poesia “Il vuoto”?
Già, perché la ricerca dell’autore, il suo continuo tendere e scoprire si rivolge a:
“Il vuoto mi riempie di ogni cosa,
quando randagio cerco di capire
a cosa serve vivere e morire
per diventare poco più che vento.
……………
E allora vada, vada questo sguardo
a contemplare ciò che non si vede,
dove il mistero, privo del suo volto,
è il vuoto di un silenzio senza fine.”
…
Hai ragione Luciana,
ho letto il volume di Angelo Sagnelli anni fa… lui ha avuto una intuizione eccellente, peccato però che la sua poesia sia un po’ attardata ad una metrica tradizionale con endecasillabi perfetti e rotondi di ottima fattura … ma sarebbe occorso un nuovo metro con dentro il «vuoto» magari… il «vuoto» è rimasto fuori del suo metro… Peccato.
A mio avviso trattasi di Opera d’Arte nelle varie espressioni (o “stanze” come le chiama il grande Ferrarotti) quando affrontando temi nuovi e profondi di ricerca e di studio, con capacità di sintesi, si riesce a renderli comprensibili, comunicabili, inattaccabili dal tempo.
Sgorgano come acqua chiara.
E’ per questo che considero ANGELO SAGNELLI un vero Poeta. Nel panorama della poesia contemporanea ce ne sono molto molto pochi degni di tale nome.
Cara Luciana Vasile, una domanda secca. la domanda di
Zbigniew Herbert:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/02/23/gianni-godi-viaggio-cilindrico-nella-materia-poesia-volumetrica-in-15-tavole-videopoesia-la-poesia-affiche-la-poesia-cartellone-la-poesia-da-schermo-la-poesia-grafematica-commento-critico/comment-page-1/#comment-31702
“Dove passerai l’eternità?
Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose.”
Intanto ecco alle tue meditazioni questo
“Botta e risposta tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa
su Ulisse in vestaglia”
Gino Rago
Ulisse in vestaglia
Ulisse è in vestaglia, spiccia tra le stoviglie
della reggia.
[…]
“Spio la vita dalle fenditure
a distanza neutra dagli eventi.
Estraneo a me stesso annuso il giorno
con le certezze d’un rabdomante
taglio il percorso della luce quando rimbalza
dalle bottiglie al cuore.”
[…]
“Chi davvero sei?”
[…]
“Sono in vestaglia,
navigo da libro a libro,
sbaglio i vettori della rosa dei venti,
sa, non sempre indovino la stella polare,
schivo a fatica scogli,
fingo naufragi,
mi invento qualche approdo di fortuna,
lo vedi anche tu…
L’Odissea?, è una grande bugia”
Risponde
Giorgio Linguaglossa:
“caro Gino,
questa composizione così scabra, ridotta all’essenziale rivela le tue doti di interprete e di demiurgo. Troviamo un Ulisse «in vestaglia», in desabbigliè, ormai stanco e sfiduciato che non ricorda nemmeno di aver partecipato ad una guerra… ma forse non ci ha mai partecipato, ha solo fatto finta di andare in guerra… la grandezza del tuo Ulisse è in quella notazione: «estraneo a me stesso»; l’estraneazione dall’esterno è penetrata nell’anima del tuo personaggio e ne ha fatto un mostro di egoismo e di viltà, Ulisse non sa più nemmeno chi è, naviga «da libro a libro», un pezzente intellettuale che non ha nulla da dire (sembra l’autoritratto degli intellettuali di oggi), che si inventa «qualche approdo di fortuna», che tira a campare sperando nella dea bendata. Ma l’ultimo verso è veramente sconcertante nella sua essenzialità: «L’Odissea?, è una grande bugia». Ecco il cialtrone di Ulisse che viene fuori e accusa nientemeno anche Omero di essere un suo pari, un bugiardo che ha inventato tutto per passare ai posteri, proprio come i poetini di oggidì che inventerebbero di aver pranzzato con i marziani pur di apparire in qualche notiziuola di cronaca…”
GR
a questo punto perché no la asemic poetry?
https://leserpent.wordpress.com/2018/02/18/winter-dance/
grazie,Ombra.
Ricevo alla mia email e pubblico questo messaggio di Alfredo de Palchi:
ll direttore de L’Ombra delle Parole, se si è onesti a sconsiderare la solita pasta e fagioli scodellata come poesia dal grande paiolo della editoria italiana, almeno di tanto in tanto pubblica del nuovo. La mia mente ricorda di aver apprezzato poesia visiva e poesia concreta di rari autori degli anni 1960–70, e di aver cestinato autori e lavori abbastanza grezzi che di artistico non contenevano neanche la voglia. A parte che ripeto scusandomi di non farcela a leggere in minuti caratteri articoli e commenti, gli esemplari qui in visone di Gianni Godi, dalla poesia affiche alla poesia grafematica, indubbiamente sono artistici. Il loro linguaggio lo sento, senza poterlo leggere, poetico e ben integrato in ciascun esemplare. Personalmente, e non sono un critico, apprezzo moltissimo l’idea della completa opera, e all’autore poeta-artista auguro di poter sloggiare dalle riviste e dai blogs letterari la consueta banalità in versi. . . Un grazie onesto a Giorgio Linguaglossa e a Gianni Godi.
tutto è stato risolto nella grafica dell’ IO.
e delle somiglianze non farne parole.
pubblicità in frattali.
A me sembra che queste composizioni di Gianni Godi siano tutte giocate coi frattali, parola e segno. Il disegno frattale si ottiene grazie alla ripetizione meccanica e modulabile, programmata, di un elemento costante. Nelle parti scritte, Gianni Godi si avvale dello stesso principio , ad esempio quando scrive “sonosietesei”, “poi nel prepoi”, oppure “Che festa che festa che festa” e “accade accade accade”.
Malgrado l’aspetto formale – compositivo-moderno e oltre modo ludico – nel testo scorgo tracce impetuose alla Rimbaud e non manca cultura classica. Si nota anche una componente libidica, da “vagina superior” che tradisce la ricerca di estasi – per magica facoltà – che poi non sarebbe altro che uno spostamento energetico dal basso verso l’alto.
Risultato: un ibrido della modernità, ma si distingue dalle esperienze precedenti di poesia visiva o visuale europea per la componente informatica ( negli anni ’60, solo macchine da scrivere, stampa e collages).
Mi chiedo se questa sia un’esperienza che valga la pena di approfondire, se qualcosa nelle ricerche sperimentali sia rimasto irrisolto. Sicuramente l’aspetto visivo – il testo allineato delle poesie, la stessa scrittura – ma penso si tratti di questioni di superficie; un po’ come nelle sculture di Arnaldo Pomodoro, quegli scavi dentro forme perfette che alludevano a meccaniche futuribili (ma non tanto), delle quali non era dato sapere nulla oltre ai valori plastici ed estetici. Il mezzo informatico pretende che si sappia cosa dire in quanto l’esito non è più allusivo, semmai è semplice o semplificato. Poi c’è da considerare la “carta” del monitor: non tutto deve poter stare dentro la pagina: c’è scorrimento, colore, interattività.
Non si arriva alla parola. Se non per tangenziali.
Nei commenti si è parlato di vuoto, laddove io parlerei di distanza: più ci si allontana con la vista (interiore) dalla parola scritta e più trasparirà evidente il senso del discorso. Viceversa, quando si lavora a ridosso della parola, il senso sfugge. Lì si trova il vuoto. Sicché scrivere dovrebbe essere un continua avvicinarsi e allontanarsi; che poi sarebbe il mestiere di noi pittori, da sempre.
Ho scoperto qualche minuta che il termine “vuoto” ricorre 60 volte nei miei versi…
“Non ho mai letto da parte di nessun poeta e di nessun critico della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni un tentativo di approfondimento della questione del «vuoto» in poesia (se c’è stato qualcuno ditemelo e faccio ammenda) ”
…. a proposito del vuoto, per Giorgio Linguaglossa, e l’ammenda?
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Poesia (non) d’amore
Và, e nascondi la tua verginità
sotto un sole imperiale
e se ci riesci batti un colpo come i Morti,
crederò, forse, che esiste un mare!
Mi difenderò con pietre, urla, bestemmie,
lancette di carne, arterie e grumi
invano vedrai sui quadranti delle orbite,
come una salamandra strisciare sul mio corpo.
Và, sta lontana, gioia greca,
come un applauso, un’anfora, un palinsesto!
Giochiamo agli atomi con sonori dadi:
non mi fanno paura il Vuoto, Dio e la Rivolta!
Cantami, cantami l’assenza o la mattanza!
La notte non è una memoria saracena,
i tuoi mostri, notte, sono vecchi:
ho bisogno di altre succursali!
antonio sagredo
Roma, 23 aprile 1981
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queste -succursali- mi rimettono in pace con il mondo.
sono pur sempre una scappatoia
verso il vuoto.
risucchiato nel ventre di questa parola.
(bella, Sagredo! )
Grazie, Ombra.
caro Antonio,
in una poesia può ricorrere anche cento volte la parola «vuoto» ma se lo si fa come si fa con una paroletta che si getta là a casaccio, si tratta quella paroletta con estrema superficialità, e anche con poco rispetto per le parole. Il problema veramente dificile è nominare il «vuoto» mediante un suo equivalente (o correlativo) oggettivo, mediante un traslato, una metafora, una metonimia… indicare allusivamente il «vuoto» è molto più difficile che nominarlo e via con una paroletta…
Il fatto è che tu spesso nomini parole importanti, ma lo fai dall’esterno:
non mi fanno paura il Vuoto, Dio e la Rivolta!
Il difficile è trovare degli equivalenti o dei traslati che danno la sensazione di quelle parole senza nominare affatto quelle parole (Vuoto, Dio, Rivolta).
Grazie Giorgio, per la tua risposta chiara, puntuale e di spessore data ad Antonio Sagredo.
Così mi scrive sul mio e-mail personale ANGELO SAGNELLI: “Veramente commosso ti ringrazio per l’appartenenza poetica ad un insieme di più vasto spessore sensitivo e nel contempo a visioni di religioso silenzio in un mondo che spesso non può essere da tutti compreso perché la parola e’ il vuoto di un dolcissimo sospiro.
La mia ultima poesia:
Il grande Vuoto di Angelo Sagnelli
Quando la materia consumerà il suo tempo,
compiutamente espansa l’ultima energia
nel saluto di un eco sfumato nel nulla,
il grande Vuoto rigenererà se stesso.
Si, è questo il nostro mondo che muore
senza più tempo e senza più energia,
ma l’anima che vive tende il Vuoto:
dalle ceneri il fuoco di una eterna poesia.”
“La scrittura alfabetica trova la sua ragion d’essere appunto attraverso l’esperienza del vuoto: vuoto tra le parole e vuoto tra le parole e l’essere” (Giorgio Linguaglossa, su la poesia di Tomas Tranströmer)
Questa affermazione mi sembra particolarmente azzeccata se si pensa di stare in un rapporto ravvicinato con le parole. Ma saremmo ai margini del discorso, in quanto il logos necessita dello sguardo d’insieme, più distante. A meno che non si tratti di verbi, il vuoto precede e segue la parola molto da vicino… Nella Nuova Ontologia Estetica, secondo me, si tiene conto della visione ravvicinata delle parole, perché il vuoto sta lì (i frequenti STOP e le ripartenze).
BELLO! GRAZIE! Bravo Lucrezio!
Già tutto è stato detto. Bisogna solo andare a riscoprirlo…
“Il fatto è che tu spesso nomini parole importanti, ma lo fai dall’esterno”:
«non mi fanno paura il Vuoto, Dio e la Rivolta!”….»
caro Linguaglossa hai fatto di certo felice la signora Vasile, e meritate infatti una risposta: che abbia usato quelle parole e che secondo Lei “equivalenti o dei traslati che danno la sensazione di quelle parole senza nominare affatto quelle parole”, io non possiedo è falso ed è errato.
Ne possiedo in centinaia di versi! E faranno scuola!
E non uso affatto “parolette”, e questo per me è offensivo al massimo grado
ed è strano che Voi scriviate quanto segue:
“in una poesia può ricorrere anche cento volte la parola «vuoto» ma se lo si fa come si fa con una paroletta che si getta là a casaccio, si tratta quella paroletta con estrema superficialità, e anche con poco rispetto per le parole. Il problema veramente difficile è nominare il «vuoto» mediante un suo equivalente (o correlativo) oggettivo, mediante un traslato, una metafora, una metonimia… indicare allusivamente il «vuoto» è molto più difficile che nominarlo e via con una paroletta… ”
E quanto a metafore e metonimie non ho rivali. E non solo quantità a non finire, ma in qualità ed efficacia… non ho rivali.
E il fatto che quando propongo dei versi pertinenti – riguardo l’oggetto di cui si discute – non vengono commentati mai, mi ha fatto pensare più volte a certe incapacità critiche di chi mi legge, di non andare a fondo per comprendere quanto scrivo.
Parolette soltanto, ebbene: nessun verso sarà qui mai più qui pubblicato.
A.S.
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Se ne è andato novembre
con l’odore dei morti sotto-vetro,
corone secchi sigilli -polvere
respiro degli antichi.
Andiamo a trovare il poeta!
Si ha nel cuore la scoperta della meraviglia,
un barocco desiderio dell’assenza,
ma la notte è una vecchia citazione
che di numeri è fatta e non di eventi.
Non si è sofferto abbastanza per le notti e i giorni?
Siamo soli – nei frammenti?
a.s.
18-20 dicembre 1972
Signor Sagredo,
lei ha scritto nei suoi commenti parole inappropriate e offensive («criptocretino») rivolte ad un autore della rivista (ai limiti del codice penale vigente) e ha usato, sotto pseudonimi vari, parole offensive e gratuite nei confronti di un altro autore presentato dalla rivista. Per tale comportamento inappropriato ed offensivo in qualità di amministratore del blog ho cancellato i suoi commenti e quelli di risposta di altri commentatori.
Questa notte quando cominciava a nevicare, il silenzio e il buio vuoti, liberi, hanno acuito il desiderio di approfondire la riflessione che tu, Giorgio, ci hai invitato a fare e della quale sentitamente ti ringrazio:
Solo l’Amore è l’Uno, perché contiene in sé gli opposti: gioia e dolore.
Per il resto, nulla è se non c’è il suo contrario.
Hai ragione, Giorgio, come architetto ho riflettuto molto sul vuoto e il pieno.
Diciamo che sono stata costretta e… mi è piaciuto (non faccio mai nulla per caso, il Caso non esiste).
Sento la responsabilità che mi è stata data, con la mia professione, quando riempio quel vuoto, ho la sensazione quasi di contaminarlo, violarlo.
E così sono discreta (minimalista) per rispetto del suo mistero.
Ma l’esperienza mi ha insegnato che il vuoto è generoso, accetta e accoglie senza condizioni.
Non solo, lo spazio progettato si dilata, si allarga ogni volta che si cominciano a posizionare oggetti.
Però non bisogna esagerare, perché se ti approfitti della sua dolce accondiscendenza e esageri, si ribella, subito si ritrae e si impiccolisce.
E’ incredibile, ma sembra parlare, ovviamente con gli strumenti a sua disposizione e se si è capaci di mettersi in ascolto.
Ogni volta, ormai per me da tanto tempo, è un miracolo. La mia meraviglia non si esaurisce.
Quando, poi, anni fa l’architetto si è messo a scrivere non poteva non accorgersi quanto valore avessero quelle pause fra le parole.
Li ho chiamati gli interstizi del non detto che, mano mano che procedevo nella nuova esperienza, trovavo affascinanti, quasi più importanti dei segni neri delle lettere dell’alfabeto, o almeno ugualmente fondamentali e interessanti, il negativo.
Concetto, che fra tanto altro, ho ritrovato preziosamente nel tuo scritto.
E’ tardi, le ore sono piccole, pronte a crescere di nuovo.
Sono appena rientrata dopo aver ballato per quattro ore fra corpi che, nel movimento, hanno disegnato nel vuoto.
E non è vero che non hanno lasciato nulla, solo perché non lo si vede. Io li ho visti quei muti tatuaggi, confusi gli uni con gli altri. Seppur sconosciuti, eravamo “Insieme” (oggi parola difficile da realizzare in un mondo di “Contro”, ma sempre bellissima e alla quale dovremmo tendere con pensieri e azioni).
Non di meno le note, che, perdendosi nel vuoto, da lì hanno preso consistenza e vita, non si sono smarrite. Le ho raccolte con gioia una per una, come gemme preziose, attraverso il mio sentire.
Ringrazio vivamente tutti i commentatori del mio “Volume” Viaggio Cilindrico nella Materia. In special modo ringrazio Giorgio Linguaglossa per la sua apertura a possibili linguaggi alternativi. I vostri commenti hanno oltremodo arricchito il mio essere al mondo.
Ora sento il dovere di dare un minimo di spiegazione della genesi del fantastico oggetto, la cui foto è posta all’inizio dell’articolo.
Breve nota sulla Poesia Volumetrica in relazione al manufatto Volume “Viaggio Cilindrico nella Materia”
Mi sembrava di avere esaurito tutte le parole. O perlomeno credevo di aver esaurito tutte le combinazioni del mio miserrimo bagaglio di parole adatte a far poesia. Ritenevo che la maggioranza delle parole in uso fossero irrimediabilmente logorate dalla pubblicità per finire nelle osterie e nei bar del mondo. Si era all’inizio degli anni ‘90 e la voglia di sperimentare era rimasta intatta. Per esempio non sopportavo le parole bidimensionali distese sul foglio di carta. Di 3D si parlava ancora poco, però pensavo ad una possibile fuga in altra dimensione del testo piatto…e le voci da ogni luogo che si sovrapponevano mi fecero capire che l’esposizione lineare di un concetto era indubbiamente vantaggioso per indicare le regole e le procedure costruttive di un qualsiasi manufatto seriale però inadatta all’innovazione, specialmente nell’espressione artistica in senso lato. Se hai la pretesa di fare qualche cosa di nuovo, devi cercare di conoscere, per quanto ti è possibile, “tutto” quanto hanno fatto gli altri per cercare di non rifarlo. Da qualche parte avevo letto che Claudio Monteverdi, lo ripeteva spesso ai suoi allievi.
La scrittura della prima poesia volumetrica segue una logica non lineare. Le parole e la grafica si susseguono in modo spontaneo, credo, sulla base del “mio totale sapere”. Al posto dei mezzi tradizionali (penna o matita) usai un desk top PC munito di un generico programma di scrittura tradizionale e di un potente programma di creazione e manipolazione grafica. Un anno di immersione mattutina nel caos cerebrale, forse con l’intento di dare un senso alla nebbia intellettiva. Ne uscirono poco meno di 50 paginette piatte quasi totalmente incomprensibili. Però ero io. Nessuno avrebbe comunque “letto” il mio lavoro. Non mi sembrava giusto. Al fine di rendere comunque visibile il “mio pensare”, decisi in modo stavolta razionale, di trasformare in un volume la mia fatica. La forma cilindrica mi sembrò la più adatta. Oltretutto un cilindro vuoto e di adeguate dimensioni avrebbe potuto catturare l’attenzione e “ospitare” all’interno un possibile lettore. Mentre procedevo in modo razionale con il pensiero, mi resi conto della fatica che avrebbe dovuto fare l’ipotetico lettore nel cercare di carpire il significato di una simile scrittura. Nacque così l’idea di distrarre il futuro malcapitato utente indirizzandolo verso concetti immediatamente fruibili. Stampai le pagine su fogli A3. Dopo un’accurata plastificazione le incollai fra loro ottenendo un lenzuolo lungo più di 4 metri. Preparai due piattaforme circolari di 160 cm. Sulle piattaforme furono incollati due specchi. Una piattaforma specchiata divenne il pavimento l’altra il soffitto. Arrotolai il lenzuolo attorno alla struttura, fissai una lucetta alogena al centro in alto e subito mi recai all’interno. Rimasi per un po’ senza fiato. Avevo ottenuto un “libro” che moltiplicava se stesso e il lettore verso l’infinito inferiore e superiore. Non mi passò minimante l’idea di leggere l’illeggibile da me creato. E così fecero tutte le persone che ebbero l’opportunità di entrare nel libro-cilindro.
In sintesi il manufatto si presenta come una sorta di libro tutto aperto. L’ultima chance della parola scritta pronta a migrare dal supporto cartaceo verso nuovi mezzi espressivi. Entrato all’interno del cilindro, il lettore privo di scarpe (nudo sarebbe meglio) si trova “sospeso” a mezz’aria tra gli infiniti sopra citati. Illusione dovuta ai due specchi paralleli. Il “viaggiatore” resta fermo, però s’accorge che la sua materialità resiste alla frantumazione e che frapponendo il suo corpo fra il pensiero e l’infinito gli viene preclusa la vista estrema del punto di convergenza. Per intravedere un possibile infinito deve necessariamente rimuovere il suo corpo.
Per i curiosi posso aggiungere che in effetti la mia intenzione iniziale era quella di raccontare l’avventura di un individuo che via via si trasforma in coppia e che senza volerlo si ritrova ad un convegno di fisici su di un grattacielo a New York. I fisici discutono della materia e di come afferrarla e possibilmente possederla. Al convegno è presente Dio. Durante il cocktail si straparla e tutti si ubriacano. Vengono inventate le parole per spiegare l’inspiegabile. A piedi nudi i fisici cercano di frantumare la materia. I due partecipano attivamente alla sbornia collettiva e credendo di aver afferrato il senso del convegno si eccitano un po’ troppo e per una distrazione materiale sporgendosi oltre misura dal grattacielo cadono sull’asfalto di New York. Dopo vari rimbalzi finiscono nella zona Infernetto-Ostia.
Ridotti in frantumi infinitesimali, hanno la possibilità di vivere la natura biologica risalendo le radici delle piante verso le foglie e i fiori o vivere la natura inorganica dei cristalli di sabbia-silicio e ritrovarsi come parte fisica in qualche schermo televisivo o agitarsi freneticamente nel luminoso buio di componenti microelettronici o rimanere in apparente quiete in attesa di imprevedibili eventi.
Qui finisce l’avventura a noi narrata con un linguaggio fortemente influenzato/storpiato dai discorsi orecchiati durante il convegno.
Gianni Godi
Ora è tutto mi è chiaro. Una macchina del tempo umano, un sarcofago per vivere la morte nei suoi circuiti, specchio di molte vite, il rifacimento meccanico di quel processo naturale che ci renderebbe felici se non ci fosse l’inconveniente di dovere anche morire, ogni tanto. E’ tutta salute. Ringrazio Gianni Godi per essere qui con tanto anticipo. Sono certo che ci sveglieremo da quest’incubo, da questo passato che chiamiamo presente, con il quale comunque dobbiamo fare i conti. Grazie davvero.
Ringrazio Giorgio per averci offerto questo spunto straordinariamente interessante e stimolante su un territorio nuovo ed amplificante le possibilità espressive del linguaggio poetico, come la costruzione sperimentale ed perseguita da Godi. Personalmente, sono molto attratto da chi riesce a proporre dei modelli di registro espressivo così fortemente innovativa (specie nel tessuto di un corpo – come quello della poesia – che, come ripetiamo spesso e giustamente dalla pagine di questa rubrica, rischia seriamente la necrosi) ed in tal senso la poesia visuale costituisce senz’altro una delle modalità più “dirompenti” ed efficaci. Non appartengo però alla schiera dei cultori di poesia che snobisticamente esaltano il nuovo in quanto tale, specie quando è di difficile comprensione per i più e dunque ribadisco che si tratta di un contributo sicuramente arricchente oltretutto – lo ripeto- avendo un’attenzione particolare verso la poesia visuale, ma mi riprometto di approfondire cone grande attenzione la lettura dell’opera di questo poeta propostoci da Giorgio per poterle filtrare in modo più consapevole. Buona serata a tutti.