Salvatore Martino, Poesie, sintesi critica su Autoantologia – Cinquantanni di poesia (Progetto Cultura, 2014, pp. 1000, € 25 ) – Presentazione critica di Mario M. Gabriele

Il Mangiaparole rivista n. 1

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel 1940, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Laboratorio-15-febbraio-2018

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Salvatore Martino fa parte della fitta schiera di poeti della cosiddetta Quinta Generazione, locuzione con la quale Giampaolo Piccari diede vita all’omonima Rivista e a una significativa produzione poetica ed editoriale nelle regioni d’Italia. Martino entra nella Poesia con Attraverso l’Assiria del 1969, con testi che hanno una propria visibilità e tracciamento  estetico, fino al volume La metamorfosi del buio del 2012.

La poesia italiana fra le due guerre ha avuto un notevole impatto nella società delle lettere a Nord e a Sud dell’Italia. Su queste due aree hanno operato le grandi Case Editrici con una autonomia selettiva, escludendo poeti di rilievo con l’appoggio collaborativo della critica militante. Non c’è dubbio che la “questione meridionale” abbia avuto un ruolo importante in un periodo di crisi socio-economica e culturale. I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”. Più verosimilmente si trattò di una esperienza poetica e generazionale nel ristretto tempo in cui si venne a formare all’interno di una serra fatta di svariate vegetazioni poetiche.

Il superamento dalla stasi poetica, tipo country, avvenne  con la nascita della Neoavanguardia, che con il Gruppo 63 operò una vera e propria rivoluzione linguistica, determinando una frattura con la Tradizione. L’appoggio di Riviste come I Quaderni Piacentini, Officina, Tam Tam, ES, Carte Segrete, ecc. portò ad una rivoluzione sistemica e linguistica nella poesia. Dire dove nasce e muore la poesia o codificarla con delle proiezioni temporali, per un’analisi delle strutture e delle forme, è operazione assai complessa considerati gli innumerevoli reperti testuali e verboiconici, così ricchi di mezzi toni e di falsetti, e tuttavia abbastanza significativi nell’esprimere il clima dentro il quale si muove il poeta. Intanto, bisogna risalire agli anni Settanta, dopo l’operazione estetico-critica avviata da Luciano Anceschi con la rivista Il Verri, fino al Gruppo 63 di Sanguineti, con le varie indicazioni poetico ideologiche diffuse in Italia come strutture-simbolo dai ciclostili di “impegno e di lotta”, per avere una discontinuità con le forme più conservatrici della poesia. Va da sé ricordare che il cammino non è stato agevole e che ha avuto  periodi caratterizzati da flussi e riflussi, da impegno e disimpegno nella operatività ricostruttiva della parola, che rimane sempre il vero campo d’azione per rimuovere steccati e barricate. Qui ci si limita a indicare le antologie che maggiormente si introdussero nel “mare della oggettività”, come  I Novissimi,  di Alfredo Giuliani del 1961, Il pubblico della poesia, di Berardinelli e Cordelli, del 1975, La parola innamorata, di Pontiggia e Di Mauro del 1978, La poesia degli anni Settanta, di Antonio Porta del 1979, l’ampio Repertorio  della poesia italiana contemporanea di Zagarrio del 1983 e La parola Plurale di Cortellessa del 2005, inclusiva di una anagrafe poetica tra le più diverse e propositive. Le ragioni che hanno portato le antologie a immettere e ad escludere nomi e opere, sono da ricercare nella mercificazione del prodotto poetico basato sul profitto e non sulla qualità. Il fenomeno delle omissioni ha modificato completamente il quadro operativo e poetico di stagioni molto diverse l’una dall’altra, all’interno di una Storia che ha falsificato la realtà, procedendo per “repressioni, per grandi operazioni di natura etnica” (Luigi Baldacci: Novecento passato remoto, pagine di critica militante. Rizzoli, gennaio 2000-pp. 18.19).

L’invisibilità di questi poeti ci ricorda, vagamente, Il Cavaliere Inesistente, di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino dei Guidilverni e degli Altri di Corbentraz  e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo  e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schermito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Ma quanti poeti hanno rivestito il ruolo di Agilulfo?, quante opere sono andate al macero o dimenticate solo perché non rientranti nelle antologie ufficiali? In occasione del ritiro del Premio Nobel, Montale ebbe a dire che: “La poesia è una entità di cui si sa  assai poco, tanto che due filosofi diversi  come Croce Storicista idealista, e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”. Allora a che serve scrivere? E come si giustificano le mille pagine relative a una produzione poetica pari a Cinquantanni di lavoro da parte di Salvatore Martino? un poeta meridionale che ha assorbito l’humus del proprio territorio senza esporsi alla cultura contadina con tutte le problematiche che essa poneva, tra ambiente sociale, povertà economica e figurazione del paesaggio?

Quando Salvatore Martino si propose con la sua prima opera poetica nel 1969, persistevano sul territorio italiano contraddizioni e dualismi di enorme portata. Alla poesia non bastava più il Gruppo e l’Antigruppo, l’umano e il disumano, il conscio e l’inconscio, il plurilinguismo e il neologismo, la metempsicosi  e la fabulazione discorsiva, il fumismo e la metafora, la viola d’amore e di morte, ma le occorreva un supplemento di rifondazione linguistica per colpire la stagnazione concettuale in cui si era immersa la cultura e la società. Su tutto questo bailamme, Salvatore Martino ha operato con una propria poesia democratica, e mai riduttiva; un long playing senza forzature sintattiche e visionarismo romantico. Si potrebbe tentare di dire che la sua opera rispecchi la vita di un uomo segnata da impegno e sincerità. Ora ci si trova qui ad esaminare la sua  Autoantologia – Cinquantanni di poesia, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2014, che assembla itinerari linguistici e poetici di diversa proposizione. Ne viene fuori una struttura linguistica dove non pochi sono i procedimenti che hanno dato uniformità alla parola con ideogrammi psicoestetici. Si può dire che questa di Martino è una biografia in versi fatta di espressionismo soggettivo e di classicismo moderno. Egli si avvale di significative esposizioni stilistiche rispetto allo sperimentalismo tout court, che non ha mai influito sul suo modo di fare poesia, stabilendo fusioni con la memoria e il quotidiano, ricorrendo alla lingua chiara e a immagini mai surreali, o strumentali, scegliendo la nitidezza delle esposizioni e privilegiando soprattutto il rapporto con il lettore attraverso il vissuto, e le frammentazioni della vita, spesso come  un Poème en Prose.

Una poesia che emerge dal mondo interno del poeta senza schemi rigidi o da decriptare. Nessuna contraddizione, quindi, negli eventi temporali e psicologici, largamente motivati da una realtà in continuo fermento. Una esperienza poetica di tutto rispetto, fedele a un clichè che ha garantito nel tempo, uno spartito linguistico anche con il disagio di chi avverte un velo di tristezza sopra l’anima. Una via poetica rimasta sempre sulla giusta tangenziale, con un IO psichico anch’esso multiplo nella riflessione critica e soggettiva delle cose. Si va, dunque, da un lato verso la contiguità con L’Essere e dall’altro, lungo le rifrazioni del proprio periscopio esterno.

In questa operazione c’è posto anche per la dinamica metrica e polifonica. Martino si è visto costretto a fare una scelta operativa dopo l’establishment poetico degli anni Sessanta, con una operazione linguistica diversa  dalle correnti più consolidate, accumulando decenni e decenni di lavoro silenzioso e ricostruttivo secondo lo spirito del proprio Tempo. Egli sa aprire e chiudere il dialogo, il racconto, la storia di un evento, le figurazioni dell’effimero nel teatrino del mondo. Martino coglie dalla profondità dell’ES, gli aspetti più controversi dell’ everyday life  per riportarli in superficie alla luce del sole, attraverso un linguaggio che, all’epoca della sua formulazione, si lascia indietro le architetture e i centri storici della poesia interpretativa di un meridionalismo  fatto di miseria e desolazione. E qui che il disboscamento culturale si fa avanzamento estetico e prassi necessaria per arginare il vuoto, le iperplasie linguistiche, instaurando un modello di poesia racconto, di cadenze accentuative nel ritmo basilare delle storie e degli eventi, affidandosi, senza maschere e coperture,  alle richieste del subconscio convocandone i soggetti e le storie nella continua leggibilità del mondo esterno. L’immaginario e il realistico emergono come onde di un fiume in piena. Si ha a che fare con un magnetismo poetico. Ci sono grovigli di memoria per implosioni della materia mentale e psichica, scarti onirici dove il poeta ci si immerge per trovare un punto di sintesi e di armonia. A volte è una fuga dal quotidiano, altre volte è un ritorno ai micro-mondi evaporati. Non c’è ricorso all’utopia e agli universi extrasensoriali. Il suo linguaggio si presenta, in rapporto ai poeti della metà del Novecento, come strumento di innovazione rispetto alle tematiche della letteratura popolare.

Nelle sue stanze poetiche Martino dà appuntamento alle figure altamente lampeggianti nella memoria. Non so se egli abbia mai fatto una “dichiarazione di poetica”. Sarebbe interessante, in questo caso, seguirne i sottopassaggi dove sosta il mondo della reificazione. Forse si coglierebbero gli aspetti più segreti, perché partono da un poeta che ha costruito il proprio verbum senza palcoscenici. A volte sembra di imbattersi in certi traumi, attraverso l’infittirsi di relazioni, tra collasso e ricostruzione della vita, “nel silenzio di Dio e nell’erotismo del corpo e della mente”. La sua poesia vuole appunto dirci tutto questo. Sta dentro il paesaggio esistenziale. Lo scardina, lo lascia, riprendendolo subito dopo, per non restare in vedovanza, convivendo con la poesia; una specie di chiatta di salvataggio contro l’effimero e il quotidiano.

Qui si riportano alcuni stralci di autoanalisi poetica fatta da Martino nella sua relazione tenuta presso il Laboratorio di poesia dell’Ombra delle parole del 30 marzo 2017, che sembrano allinearsi con quanto sopra espresso, trovando dei rapporti interattivi tra:

“Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla maniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica, che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza….. cominciarono a delinearsi le tematiche che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni: il rapporto dell’IO con se stesso, la maschera (persona), l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale”.

Su queste coordinate si allinea il lavoro di Salvatore Martino, un poeta che traccia i disagi della vita di fronte ai suoi processi corrosivi, al caos degenerativo delle cose nell’accumulo degli eventi dai quali è impossibile uscirne fuori. Il tutto con l’elaborazione di una poesia, moderna, ricostruita secondo schemi propri sull’onda di un lirismo controllato e di diversa vocalità e immaginazione. Una poesia cresciuta patrimonializzando la lettura di poeti come  Pound, ed Eliot ed altri ancora, che hanno arricchito la sua sensibilità da cui sono poi nate le ripercussioni estetiche trascritte come egli scrive su “fogli, lettere, alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli e mai distrutti, custoditi in un codice della memoria”.

                                                                                                 (Mario M. Gabriele)

Da La fondazione di Ninive (1965-!976)

…….Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra storia o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola – ……..

Presentazione Antonio Sagredo Salvatore Martino Sabino Caronia aprile 2017

da sx Sabino Caronia, Salvatore Martino, Antonio Sagredo, Aleph, Roma, 2017

Salvatore Martino
POESIE PER L’OMBRA

Muore anche chi ama e chi è amato

(Lev Nikolaevic Tolstoi: Anna Karenina)

Nel giorno settantasei di compleanno

Nel greto prodigioso del nonessere
si aggrumano i pensieri
le tessere che incagliano
il nostro passaggio sulla luna
come l’attraversare
un fiume di memorie
che ha sedotto la tua vita

E se una sera
colpito dal tramonto sul mare
non so se giallo o arancio
forse tendeva al viola
potrai decidere di affrontare
quella soglia indicata dal destino
discendere nel gorgo meridiano
dove potrai concedere alle stelle di tacere
al cuore dell’oceano di annegare
barche e vascelli che un giorno
ghermirono il tuo viaggio
verso un arrivo dissolto nella nebbia
e se una sera
gli olmi le querce i rododendri
declinassero anch’essi
un girotondo di domande
le stesse che intendi formulare
nella quiete di un assolato pomeriggio
contro le grate della tua prigione
e tu potessi essere un vagabondo
alla ricerca di una introvabile sortita
o quel callequero con derecho propio
su philosophia de la libertad
come canta l’argentino Cortèz

Si fletteranno dentro il cielo
responsi indecifrabili
come saliti un giorno
che il vento non smetteva di tacere
lungo i crinali della montagna a Delfi
o fu nella Tuscia non ricordo
ai piedi del mitico Soratte
dove avevi fissato la tua dimora
quell’oscuro colloquio con la morte?

Nel fondo di questa illusione
potrai dipingere il tuo autoritratto
salito dall’acqua dello stagno
o evaso dallo specchio
in quel tracciato speculare all’Altro
che circonda i tuoi mattini
simulando l’immagine del mondo
spinta a contraddire l’effimero
per tessere la trama dell’eterno
il sogno disceso ad abitare
i nostri poveri contatti con le nuvole
lenzuoli distesi sulla faccia

Dove siamo caduti?
In quale spazio alberga
questo bieco assalire delle cose
contro il nostro scheletro di sabbia
questo abitare l’insulto della morte?

Si aggrumano i pianeti
le comete rimpiangono
le scie private della luce
le galassie tradiscono il loro divenire

Quando una sera infinita dell’estate
incontreremo l’immagine salita dal suo fiume
forse potremo riconoscere
lo spazio e il tempo il numero
che ci hanno lanciati in questa mischia
senza bagagli né treni
stazioni di transito o finali
in una geometria dell’impossibile
un’algebra collusa con la sorte
un teorema che avrà dimenticato
le sue incognite le sue promesse soluzioni

Volver

Quando i vetri del tempo
avranno frantumato le lancette
e il sonno cancellato le lacrime
avranno conquistato il vuoto
il cervello e le arterie
il sangue congelato nell’addome
privo di aria il reticolo dei polmoni
e il febbrile ritorno nella terra
sarà invocato dai muscoli e dal cuore
l’estrema solitudine della nostra voce
un blocco di cotone alla laringe

Quando il metallo del tempo
avrà scardinato la memoria e l’attesa
non sarà più un evento del futuro
grideranno campane dalla notte all’alba
e saranno respinte tutte le lettere
vergate col tuo nome
e tutti i linfonodi liquefatti
la cheratina soltanto di unghie e di capelli
sarà sopravvissuta
a questo immortale disfacimento

Così accoglieranno all’altra riva
la barca dove sei disteso
la testa abbandonata sul cuscino

Va! sulla corrente che attraversa
ponti e canali argini di seta e di cemento
privi di musica e parole
per abituarti al silenzio
che già invade le tube dell’orecchio
con un suono che non è suono
ma sibilo del vento

Va! Accompagna la bonaccia
impara a memoria le risposte
che dovrai pronunciare
prepara il peso del cuore alla bilancia
la mente al colloquio imbevuto di fonemi
quelli che ancora non conosci

Controllerai il comando delle vele
dei remi se ci sono
guarderai il compagno
anch’egli disteso lungo il fondo
in questa deserta solitudine

E quando avrai confuso
l’arrivo così a lungo meditato
comprenderai che il Nulla soltanto
ti appartiene
persino il viaggio un inganno
la moneta fissata nella bocca
inutile strumento
che nessuno avrà il coraggio di rubare

L’acqua è divenuta sabbia
il deserto una bianca tavola di ghiacci
le nuvole persino
hanno cessato di coprire il sole
nella muta scoperta della quiete
i sogni non promettono risvegli

 

Storia della giornata di ieri*

Una notte di complice delirio
si addensavano corpi intorno al letto
voci che scandivano
nomi mai prima d’ora posseduti
tracciavano immagini sul quadro
come sorte da una macchia di acrilico
invadevano il perimetro della mente
in un colpevole omicidio

Chi era il cadavere
disteso lungo il letto?
Con l’addome squarciato
il taglio sottile della gola

Pero que sabes tu de ti
si no sabes nada de los otros
y de la vida
del coltello che gli dei o il caso
hanno costretto nella tua mano?

L’incedere delle ore
resecava la nebbia
salita a confondere
la liturgia dell’accaduto
che disegna l’uscita
da questo labirinto
negataci dal filo
smarrito dalla sua guida

Disciolti nell’azoto i muscoli
confusi con la terra
magazzino di vermi
in una condensa di potassio

Discendi allora hanno gridato
le voci a bordo letto
percorri la strada che corrisponde
al viottolo dell’inutile
e concluso il cammino
ricomposte le tessere del tuo mosaico
potrai ritrovare la fiamma
che ti ha guidato
a tutte le forme della cancellazione

*Titolo rubato a Lev Nicolaevíč Tolstoj

Salvatore Martino in pensiero

[Salvatore Martino] Il nostro dialogare col silenzio

Il nostro dialogare col silenzio

Aspetta che la sera
sia circondata da rumori
per simulare una cadenza
di mai consacrata melodia
e l’angolo che trema
contro il tuo nascondiglio
avrà coinvolto la storia della tua caduta
quel sacro disfacimento
che dalla nascita
disperi di abbracciare

Sdraiato accanto al mio respiro
contro le strisce di catrame
che suggellano la mia bocca
stratagemma ordito dagli dei
per impedire di svelare
il rantolo sinistro della fine

Numeri e divieti avranno enfatizzato
la mitica discesa
verso le anime dei morti
i compagni folgorati dal mare

Si leveranno voci
ti abbrancano nel vuoto
mentre la nave afferra l’orizzonte
e tu sei immobile
disteso nel tuo letto
il caffè raffreddato al comodino
la persiana che batte alla finestra

Ti chiedono soltanto
di tacere sulla loro condanna
presto sarà la tua
dove la siepe insulta le radici
gli alberi cedono all’azzurro
e sarai finalmente
quella miniera di salgemma
che glorifica il bianco

Le vele della tua barca
sono gonfie di vento
Mentre scivola
sul Lago di Fuoco
Nella regione dei Morti

(Capitolo XXIV
Libro dei Morti degli Egiziani)

Come nel tempo la dissoluzione

Il silenzio degli oggetti mi appassiona
il loro muto dialogare con la morte
il volto che li classifica immutabili
Io so che sopravviveranno
al nostro ottuso fallimento
e ne sono coscienti

Quando i corpi
involucro e memoria dell’oblio
saranno consumati
come un falò di stoppie nell’estate
i coppi e gli intonaci le pietre
potranno costruire
quel passaggio furtivo
che negli anni ha tentato
un impossibile dialogo
Le piante del giardino
certo rammenteranno
la cura maniacale delle mani
il getto benefico dell’acqua
la potatura secondo le stagioni
la lotta contro funghi e parassiti
l’erba del prato ritroverà i tuoi passi
l’andamento crudele della macchina
che appiana ogni sporgenza
e non conosce la pietà

Chissà se resteranno alle pareti
i nostri fiati e il canto
i versi ad alta voce recitati
può darsi che la casa
li rimandi intatti
e sarà
la sua voce il suo canto il suo delirio
ad attirare
qualche visitatore sprovveduto

Aleggerà nel vento
quello che del nostro respiro
viaggiava libero negli anni
tra i letti e le porte le pareti
a consacrare il nostro consistere nel tempo
E all’estremo orizzonte
come emersa dal cartone
che prepara un affresco
per correr miglior acque
tranquilla si alzerà una vela

 

Dove non volano le cicogne*

Il volo era partito verso un confine
dove le nuvole devastano la luce
e il pericolo di tuoni e di tempeste
avevano avvisato la carlinga
d’imminente pericolo
di un cambio possibile di rotta

Ma come affrontare il tuo mistero?
Se questo viaggio risulta imposto
da un comando che nessuno conosce
e nel cielo divenuto cremisi
impazzano comete e venti
il segno di una predetta maledizione?

Leggo nell’ala di sinistra
il nome della Compagnia
non è lo stesso letto all’aeroporto
quindi mi avevano ingannato
carte diversamente trascritte
per farmi rotolare in un’avventura
che non contempla uscita

Quando il discorso si farà crudele
e le parole diventeranno
simili a gomma sfilacciata
potrai discendere nella tua miniera
a raccogliere pietre e stratagemmi
ma non risulteranno utili
a tracciare un sentiero
dove cospargere di luce il tuo destino

Il punto dell’inizio
quasi in cerchio cammina
a congiungersi
in quella discendenza dell’inutile

Conoscerai stritolata dal tempo la tua casa
quello che fu l’incedere dei passi
le voci che toccarono il tuo cielo
fedele all’acqua che ossifica il sorriso

Il comandante annuncia l’avaria di un motore
le hostess si affannano a calmare
l’agitazione di donne e di bambini
un uomo corpulento al mio fianco
si è alzato minaccioso
e profetizza sciagure
Mi aggrappo quasi disperato
all’unica soluzione possibile
l’ebbrezza della fine
Ma il sonno ha invaso l
la casa che ti appresti a visitare
cenere e tempio
perturbamento bianco della calce
squarcio acuminato
tra numero e memoria

* [Ricordando un film russo del disgelo, 1957 Quando volano le cicogne di Michail Kalatozov, Palma d’oro a Cannes, 1958]

Nostos

Il viale conduceva
a quella che tu chiamavi la dimora
un pino e un cipresso in alternanza
come nelle tenute di Maremma
un vertice di rose distoglieva lo sguardo
dal fatidico verde

Non so perché la scala trascina ora i miei passi
e penetra stanze che forse mi appartennero
confuse nel ricordo
le finestre i colori le porte odoravano di cedro
erano gialle o bianche le pareti?
I piedi che si arrampicano
sui gradini di pietra serena
sono appendici del mio corpo
o un altro li possiede ?
che prima di me fu cacciatore
tra pinete e paludi
lungo il corso di un fiume senza acqua
traversato da un ponte
come a Palermo quello dell’Ammiraglio
e quel fiume non c’è

Senza specchi la casa senza richiami
sono tutti partiti gli abitanti
fuggiti per una lunga vacanza
Attraverso
e l’Ombra mi scivola nel fianco
corridoi che trattengono respiri
stanze accartocciate di veleni
gli stemmi graffiti sulle porte
circondano uomini che un tempo
avevano scolpito di parole queste mura
Chiuso il mio sguardo nella biblioteca
esamino i titoli dei libri
disposti con cura maniacale
di nazioni e di lingue

Dove si confonde la memoria
i volti affrontano i destini
e sopportano l’insulto della resa
ritratti ti scrutano nell’anima
trasmettono il loro fallimento
a te che sei venuto tremebondo
a chiedere risposte
che non potrai sapere

Ma chi è quest’uomo che ti guarda
e quasi ti aspettava?
E ti trasmette un brivido
dal muro dove sembra spiaccicato
quasi volesse combaciare la tua faccia
staccarsi dalla tela
raggiungere il fondo dei tuoi occhi
la curva della tua mascella
e tu lo riconosci
evaso dal tuo specchio
e all’improvviso parla la tua voce
anche se diversa è la lingua
germinata in un secolo diverso?

Ti aspettavo da giorni forse mesi
sei venuto a concludere un trattato di pace
con il Nulla e l’Assurdo
a ritrovare il vecchio che sei stato
il vecchio che sarai
in questa epifania del tempo
nel vuoto dilaniato dall’angoscia
Sei sceso a salutare l’incontro
dal quale sei partito
per affrontare questo viaggio
che conosce soltanto
la frantumazione degli arrivi
e pronuncia sentenze
di probabili ignominie
Quando avrai varcato quella soglia
e scoperto illusioni che forse ti appartennero
potrai sorridere di questo viaggio
che non hai cercato
riconoscendo la voce che non chiama
e conquista ogni misura del tuo corpo

Camminerai
fianco nel fianco con la perdizione
a ritrovare quel testamento smarrito
un giorno assolato dell’estate
la mappa di astuzie e stratagemmi
condivisi con altri che ti sopravvivranno

L’incidente dell’esistere
comincia a scivolare nell’imbuto
a storcere le mani rattrappire le spalle
in una paralisi di arti e di pensiero
nel vuoto che ossessivo ti chiama
con il vagito di un bambino
e stancamente si ripete
da un ciglio all’altro della notte

Viaggia con l’astronave del destino

Il gelo divorava le mascelle
come una parusia dell’invisibile
una scure che traccia il tuo cammino
intaccando rami intricati
quasi una siepe di pensieri
un variazione in sol minore
dentro un manoscritto seminato di note
che conducono all’assoluto

Ho incontrato nel fondo di un oceano senza rive
una macchia gelatinosa che copre il mio cervello
e impedisce alla bocca di emettere suoni
per trasmettere la condizione ultima
questa monodia che ci pietrifica

Chi sei tu che guardi il crinale
dove la tenebra incalza
una rovinosa caduta
il precipizio dove consigli di abitare all’Altro?

Le nuvole che angosciavano il cielo
si sono spaesate
in un alfabeto senza consonanti
un vaniloquio di parole
Varcato l’orizzonte la navicella viola lo spazio
dirige la sua punta verso altri pianeti
a trovare quadrati possibili di vita
implorando stelle diverse
galassie più lontane della nostra
Forse troverà risposta
agli interrogativi inquietanti
che il nostro povero cervello avrà piantato
dentro la sua strumentazione

Mi assesto a preparare nella sera
quello che resta del mio corpo
alla discesa che il sonno dovrà coagulare

E con dolcezza affronteremo il buio

Idi di marzo

Presto esploderà la primavera – Antonio –
e potremo partire per l’Oriente

Ora quarta del giorno stabilito
un uomo
il più potente di Roma
quindi del mondo intero
si avvia riluttante al suo luogo fatale
la Curia del nemico Pompeo

Ancora oggi
– e in questo luogo che si appresta a varcare
troneggia la sua statua di marmo –
rivede e allucinato
la testa del rivale mostratagli
quasi per compiacerlo
da quel traditore egizio

Forse già intuisce
mentre abbandona la lettiga
che questo potrà essere l’ultimo incontro
con quelli che ha beneficato
con quelli cui ha concesso
il perdono e la vita
e adesso Senatori di Roma

Non lo ha fermato la moglie
in questo approssimarsi del viaggio
non i messaggeri con in mano
i nomi trascritti dei Congiurati
bloccati come sono dalla folla
che vuole toccarlo quasi un dio
e chiedergli grazie e privilegi
Già! Calpurnia stessa non lo ha fermato
il suo medico Antistio
nemmeno l’àugure che gli indicava
il giorno del pericolo e il giorno è questo

Cammina incontro alla necessità
per troppa sicurezza?
Per sfidare ancora una volta il suo destino?
Per volontà misteriosa di finire?

Fa il suo ingresso nell’Aula
Avanza
Si è seduto

Lo aspettano impazienti i Congiurati
chissà se il compito sembra loro
immane e disperato persino ingiusto
E molti sono amici altri compagni di battaglie
in Gallia e nel Ponto in Germania e Spagna
qualcuno ha combattuto al suo fianco
nella remota Britannia
Senatori che hanno a cuore le sorti della Repubblica
o belve assetate di gelosia e vendetta
travolti dall’impossibile gratitudine
verso il Dittatore?

Cimbro si è avvicinato
attaccandosi alla tunica che scivola via
fingendo una richiesta di grazia per il fratello

Il segnale

Il primo colpo è di Casca
poi ventidue affondi
all’inguine il pugnale di Bruto

Tu quoque…-

La tunica imbrattata di sangue
il braccio levato nel tentativo
di proteggersi dal ferro
fissati in un attimo infinito
e il destino si compie
nello scorrimento di minuti
La storia del mondo infila
un percorso sconosciuto

Ma i Congiurati non sanno
non possono sapere
che la Necessità ha votato comunque
la morte della Repubblica
e che uccidendo Cesare
lo hanno consegnato
a un’altra e più profonda
immortalità

La matematica del viaggio

Numeri corrono
stratificati in una teoria di carri e di pensieri
cercando la ragione che consenta
di incidere sottopelle
il marchio della colpa

Camminano a testa alta
incuranti del vento che spazza via i capelli
Confondono lo sguardo
in una sequenza di strisce addominali
avvoltolate attorno a quelle voci
a loro un giorno appartenute
In marcia
come antichi soldati
sotto una comune bandiera
E non possiedono cavalli
i fucili tutti arrugginiti
e nemmeno un capitano che li guidi
un nocchiero disceso dalla sua barca in fiamme
abbandonata in chissà quale oceano

In fila
passivamente
i Numeri
s’avanzano

Corrisponde a ciascuno
quello che prima era un nome
un sogno una casa un amore segreto
il fascino letale del teatro
un corpo abituato al freddo dell’assenza
alla sabbia del deserto
a una corsa verso una stazione
a quel treno ancorato al suo binario

Hanno lo sguardo chiuso
lungo un orizzonte che li inquieta
in questo viaggio insensato
che non possono rifiutare
Hanno acquistato il biglietto
in un computer inquinato da virus
e confondono le destinazioni

Un cubo perfetto
un cerchio inscritto in un quadrato
un’equazione senza numeri primi
scandiscono un ritmo modellato
talvolta dalle cornamuse
e d’infilata il grido di una tromba
a caricare e braccia e l’anima
nell’attacco a un ipotetico nemico
o intona nella sera
il tema struggente del silenzio

Sei addormentato nella tua branda
e stringi ma non osi leggere
l’ultima lettera sbiadita
ricevuta un mattino di gennaio
quando la tundra ricoperta di neve
nascondeva piante e colori
il ricordo della gioia
che aveva danzato dentro le tue braccia
quella notte trascorsa in una taverna
dove l’acetilene riempiva l’aria di profumo
e rischiarava i volti dei soldati
magari tuoi compagni
e l’alcool lacerava il cervello
con una ebbrezza mai più ritrovata

Il Numero stampato sulla faccia
qualifica più del passaporto
il tuo navigare nel mondo
Il giorno degli addii è cominciato
stratifica nel suo gelo ogni saluto
l’esercito in rotta alimenta
un fiume di corpi alla deriva
come un inquinato Beresina
o si annulla nell’altro
imbalsamato nella terracotta
sepolto da secoli di pietra e di silenzio

Suonano entrambi una cadenza
di musica atonale verso il confine
che il vuoto invade l’universo
a congelare ogni possibile melodia
i tuoi passi anneriti nel giardino
la glaciale abitudine alla morte

54 commenti

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54 risposte a “Salvatore Martino, Poesie, sintesi critica su Autoantologia – Cinquantanni di poesia (Progetto Cultura, 2014, pp. 1000, € 25 ) – Presentazione critica di Mario M. Gabriele

  1. Non c’è dubbio che Salvatore Martino sia stato un poeta che ha goduto di scarsa «visibilità», e pensare che si tratta di un autore di lunghissimo corso, il primo libro, Attraverso l’Assiria, risale al 1969, si tratta di cinquanta anni di poesia, ma è anche indubbio che anche poeti di alto livello come Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher nel secondo novecento hanno goduto di scarsissima considerazione. Il problema posto, quindi, può essere derubricato a non problema, poiché L’Ombra delle Parole non considera tra i suoi criteri di valutazione quello della «visibilità». Per noi tutti i poeti partono, alla staffetta, su un piano di parità ontologica. La differenza la fa la valutazione estetica, solo quella. Certo, è da dire che la poesia italiana dagli anni sessanta non ha aiutato Salvatore Martino nel suo tragitto verso la «poesia», anzi, gli ha frapposto ostacoli, stilistici, politici (di politica estetica), estetici… una lunga storia che il pezzo introduttivo di Mario Gabriele ha fotografato con precisione.

    È senz’altro vero quello che scrive Mario Gabriele: «I poeti del Sud, in un certo senso, si sono autoemarginati con la loro poesia, minoritaria e monotematica, legandosi al paesaggio e agli affetti familiari, saturando l’ambiente, tra realtà e mito, all’interno della cosiddetta “civiltà contadina”», ma è senz’altro vero che la rivoluzione del ’68 in Italia ha visto la poesia italiana in una posizione di sfruttamento del demanio, i poeti si sono fatti una casa propria e si sono auto dichiarati poeti, l’antologia di Berardinelli e Cordelli Il pubblico della poesia (1975) fotografava con precisione questa nuova realtà dei «poeti massa» e dei «poeti di fede», che si auto nominavano «poeti» senza aggettivi… mi correggo: con una miriade di aggettivi qualificativi.

    Ecco, siamo arrivati al punto dolente: L’impiego degli aggettivi e degli attanti concreti. Se chiedete ad un poeta italiano come si regola dinanzi a questa cosa qui al massimo ti guardano come un marziano.
    Il fatto è che ben pochi poeti del secondo novecento si sono posti il problema della de-fondamentalizzazione della «forma-poesia» (intendo dire delle ripercussioni che tale fenomeno ha avuto all’interno della forma-poesia), fenomeno intervenuto in Europa (non so in America ma mi sembra che li le cose non siano state diverse). Ecco una serie di problemi: che cosa significa decostruzione in poesia? Che cosa significa la dis-locazione dell’io? Che cosa significa dis-locazione dell’oggetto? – Ecco, un poeta che non si pone questi problemi è un «poeta di fede», dobbiamo credergli sulla parola, dobbiamo credere che lui sia veramente un poeta anche se non capisce niente di che cosa significa la tridimensionalità in poesia e il quadri dimensionalismo in poesia. Come disse una volta Brodskij: «dal modo con cui metti un aggettivo capisco che poeta sei».

    Non c’è dubbio che Martino metta gli aggettivi in un modo consequenziale e qualificativo, ovvero, unidirezionale come gran parte della poesia italiana del secondo novecento, ma io mi chiedo sempre più spesso se non ci sia un altro modo per infilare nel verso gli aggettivi e i sostantivi, se, insomma, non ci sia una diversa ontologia estetica delle parole, se insomma, i tempi non siano maturi oggi per un Cambiamento radicale del paradigma poetico nella poesia italiana.

    • Salvatore Martino

      Carissimo Mario già in privato ebbi modo di comunicarti il mio entusiasmo (commozione profonda dell’anima, che i greci definivano essere posseduto dalla divinità) per il tuo magnifico escursus lungo la ia poesia. Sei disceso nel profondo della mia architettura, nei meandri nascosti, di un procedimento che coinvolge mente e corpo e anima, attraverso la mia dedizione maniacale al dettato poetico. Invito coloro che parlano di me come epigono,elegiaco e nostalgico a leggere attentamente quanto tu hai scritto e magari ad attraversare le mie parole che hai riportato, e che parlano di alcuni miei pensieri sulla poesia stessa.Invito inoltre a leggere quanto scrive più avanti Giuseppe Talia, che riporta alcuni miei componimenti del lontano 1966-1976 (la Fondazione di Ninive) per farsi un quadro quanto mai distante dai poeti del secondo novecento.Essere chiamato poeta elegiaco mi fa quasi sorridere. Elegia componimento che con i latini assunse carattere autobiografico, nostalgico, melanconico e talvolta funebre…come si vede applicabile , in varie circostanze, e a poeti diversi da Tibullo a Holderin a Rilke. Comunque carissimo Gabriele il tuo è davvero uno strumento prezioso per la conoscenza della mia poesia, che porterò sempre custodito lungo il io cammino.

  2. gino rago

    “Non so perché la scala trascina ora i miei passi
    e penetra stanze che forse mi appartennero
    confuse nel ricordo”

    Volendoci soffermare su questi tre versi di Nostos, appare chiaro che Salvatore Martino, introducendo il ‘ricordo’, tenda verso una visione di poesia quadri dimensionale, affiancando alle tre dimensioni del lungo, del largo e del profondo proprio il “ricordo”, superando così il bidimensionale e il tridimensionale per avvicinarsi alla visione quadridimensionalista dell’osservatore proustiano de La Recherche.

    Non so a che epoca della produzione poetica martiniana questi versi appartengano. Ma essi pongono tristemente un grande problema che in poesia ha falciato molte vittime innocenti: l’inadeguatezza culturale di certa critica letteraria che se non ha riconosciuto nei versi di Martino questa autentica novità le ha negato, sottratto, un grande merito di stile e di lavoro sul linguaggio poetico.

    Ottima la nota critica di Mario Gabriele per cultura poetica e icasticità di scrittura.
    Gino Rago

    • E’ vero, caro Salvatore,che la NECESSITA’ segna la fine della Repubblica;ciò che deve accadere ,accade.Come non accade quello che non deve accadere.E il libero arbitrio?Beato che riesce a individuarlo ed esercitralo.Ma è dura, ugualmente.

    • È vero quello che dici, caro Gino Rago, Salvatore Martino introduce il “ricordo” ma lo fa pur sempre nell’ambito dell’elegia, come la totalità della migliore (e peggiore) poesia italiana, ricade nell’elegia. Questo è il punto. Quella dicotomia intravista da Gianfranco Contini: «linea innica» (Dino Campana) «linea elegiaca» (Montale), ha continuato a perseverare ben oltre Satura ed ha aperto le porte alla poesia-magazzino, alla poesia-raccogli-tutto, alla poesia dell’io, alla poesia-del-corpo… voglio dire che, Dopo Montale, nessuno ha levato alta la voce per dire che quel tipo di poesia lì era, nel migliore dei casi, «chiacchiera» (anche ben messa in verticale), ma «chiacchiera».

    • Salvatore Martino

      Come non ringraziarti Giorgio per questo grande spazio che mi hai dedicato. Tengo a precisare che questi versi furono il primo invio alla proposta di pubblicazione insieme al miini-saggio , per me straordinario di Mario Gabriele, versi che appartenevano ad un testo inedito , “Manoscritto trovato nella sabbia “ancora in work in progress .. un secondo invio fu comprensivo di poesie estratte dal mio werk “Cinquantanni di poesia”, che mi sembrava più in sintonia con lo scritto di Gabriele appunto. Tu hai preferito tenere la prima versione, che però nel frattempo è stata molto lavorata di lima e oggi mi appare ben diversa dalla attuale forma. Pazienza! Ci tenevo comunque a fare questa precisazione. Può darsi che tua abbia ragione nel considerarmi un poeta non attento allo sviluppo di una estetica più vicina ad un Cambiamento. Certo a settantotto anni mi è difficile inserire nel mio modo di scrittura un vento di novità magari anche necessario.Molte aggettivazioni da questa versione sono sparite,restando unidirezionali, come giustamente affermi , le rimanenti.Erano per me doverose queste precisazioni, anche per dare una via indicativa ai possibili lettori

    • Salvatore Martino

      I testi qui pubblicati appartengono ad un work in progress ancora totalmente inedito che declina il titolo “Manoscritto trovato nella sabbia”. Ti ringrazio caro Gino per l’accenno alla inadeguatezza culturale di certa citica letterario : è successo per molti e succederà ancora. Ti rispondo anche alla domanda sui tempi di costruzione di questo nuovo lavoro. Ripeto ancora inedito, cominciato nel 2015, quando avevo deciso di non scrivere più , dopo la pubblicazione di tutte le mie poesie in un solo volume. Ma , come ben sai ,non siamo mai noi a decidere quando e come scrivere. Hai colto nei versi di Nostos , che citi, quel superamento del bidimensionalismo , che avevo talvolta ricercato….. e che un lettore lo individui è certamente motivo di compiacimento.Anche il riferimento proustiano è senz’altro attinente.

      • https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/02/02/salvatore-martino-poesie-sintesi-critica-su-autoantologia-cinquantanni-di-poesia-progetto-cultura-2014-pp-1000-e-25-presentazione-critica-di-mario-m-gabriele/comment-page-1/#comment-30624
        La nuova ontologia estetica – le parole sono diventate «fragili» e «precarie», si sono «raffreddate»
        caro Salvatore Martino,
        sappiamo che stai lavorando su queste poesie, sappiamo che stai introducendo in esse delle idee nuove… e non possiamo che augurarti buon lavoro.

        Portiamo un esempio. Nelle immagini sovrapposte della poesia di Mario Gabriele, in quelle sue storie interrotte inserite una dentro l’altra e l’una accanto all’altra, nelle sue frequentissime lateralizzazioni e dis-locazioni del discorso poetico… l’autore induce nel lettore un effetto ipnotico, lo induce in uno stato di trance, il lettore è costretto ad aprire una epoché, deve sospendere l’atto della comprensione, della «adesione» al testo per aderire ad un diverso modo di ascolto: deve lasciarsi andare al flusso delle immagini e dei personaggi; non può fare altrimenti, non ha scelta che mettere l’io auto organizzatorio, l’io del discorso raziocinante, da parte, lo deve spostare di lato perché è diventato ingombrante e impedisce la comprensione profonda del testo.

        Ad esempio, tu, Salvatore Martino inizi spesso le tue poesie con l’avverbio «Quando». Ecco, quest’impiego del linguaggio è una tipica procedura della poesia elegiaca, induce il lettore ad entrare nel discorso temporalizzato del poeta, nella dimensione temporale indicata dall’autore, introduce una familiarità e una prossimità tra i fatti narrati (per lo più vicende dell’io) e l’«io» del lettore. A questo punto, il lettore non può che seguire docilmente e benevolmente l’autore nello svolgimento del discorso poetico, ma questa docilità e benevolenza ottundono e diminuiscono le facoltà critiche, le facoltà attive del lettore, inducendolo in uno stato sonnambolico, di debolezza, di passività risvegliando in lui le facoltà permissive ed elegiache. Questa è una caratteristica di tutta la poesia a pendio elegiaco del novecento, da Giovanni Pascoli, il maggiore responsabile di questa deriva agnostica, fino ad Attilio Bertolucci e agli odierni rappresentanti della linea elegiaca: Antonella Anedda ed epigoni.

        Di frequente, anche autori criticamente consapevoli di quello che stanno facendo, come Luigi Fontanella, adottano questa procedura (che è anche una visione del mondo e delle cose), che è una tecnica che sicuramente nel novecento ha dato «ottimi» risultati, che consente di andare sul sicuro, di tenersi su un terreno «stabile», di tenersi all’interno dei marciapiedi di sicurezza di una ontologia dell’io e del soggetto posto di fronte all’oggetto, dentro la sicurezza di una presunta «stabilità» del mondo, di un mondo in cui le relazioni sono pensate come «stabili» ed immutabili.

        Ma il prezzo di questa «credenza» in questa presunta «stabilità» è una poesia ancorata ad una ontologia poetica, permetteteci di dirlo, ancora pascoliana, una ontologia che non contempla la possibilità di una «sospensione» della condotta dell’io, che impedisce di pensare la possibilità di una diversa ontologia poetica che invece richieda la «sospensione», l’epoché, la lateralizzazione dei discorsi, la molteplicità dei discorsi (quel pluristilismo e quel multilinguismo invocato da Pasolini poco prima della sua morte prematura)… insomma, oggi si tratta di fare una poesia che sia (anche) metalogia, discorso che si fa «fuori» del discorso dell’io poetico ritenuto «stabile», fuori dell’io dell’autore e del lettore (ritenuti punti di riferimento stabili ed eterni); una poesia che non sia soltanto «rivelazione» da un altrove indefinito ma che sia apparizione del logos.

        «Lacan parla di parentesi, però ci dice che l’effetto dell’inconscio (l’eco del significante) si dà solo quando il soggetto, il soggetto parlante, gli lascia spazio: il che porta a un evento improvviso, viene tuttavia preparato da un “viaggio” che non si annuncia mai troppo breve e dove ci sarà da penare contro tutte le difese dell’io, in quell’apprentissage che è l’analisi. […] Se ci disponiamo in questa prospettiva, scopriamo molti modi di pensare, e anche saperi, che ci invitano ad esitare alle soglie di un medesimo luogo, e ci propongono sul serio alle soglie di un medesimo luogo, e ci propongono, perché quel luogo cominci a parlarci, di prendere sul serio l’esitazione: che non sarà né semplice incertezza, né un nudo abbandono, ma l’esercizio di un distanziamento… Dove non è importante che cosa abbiamo da nascondere o ci impediamo di osservare, ma il modo di guardare, la possibilità di distoglierci da un occhio in più e di troppo».1]

        Il fatto è che le parole sono diventate «fragili» e «precarie», si sono «raffreddate», di contro alla volontà della tecnologia dispiegata del mondo di oggi. Il mondo è cambiato, non è più quello di ieri. Anche le parole sono cambiate, hanno mutato colore e tonalità, e la poesia non può non fare altro che adottare le parole che trova, siano esse fragili, precarie, raffreddate o altro ancora…

        (Donatella Costantina Giancaspero e Giorgio Linguaglossa)
        1] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007, p. 14

        • gino rago

          Ben misero atteggiamento sarebbe il mio se mi limitassi così, semplicemente, alla totale condivisione dei pensieri di Costantina Donatella
          Giancaspero e di Giorgio Linguaglossa sui quali si fonda il loro commento
          su “le parole sono diventate fragili, precarie, sottoposte a raffreddamento” e non aggiungessi che le loro meditazioni vengono da molto lontano e in ciò
          mi torna a conforto proprio il ponderoso libro fresco di stampa:

          Giorgio Linguaglossa, Critica della ragione sufficiente, Ed. Progetto Cultura, 2018 pp. 510 € 21.00
          dal quale estraggo questa parte, dal saggio che sulla ‘Critica della Ragione
          Sufficiente’ sto pezzo su pezzo preparando:

          “(…)
          Il sottotitolo di Critica della Ragione Sufficiente è «verso una nuova ontologia estetica» e
          tutto il libro di Giorgio Linguaglossa ruota intorno a questo sottotitolo, con una pars destruens e una pars
          construens. Tutto parte da ciò che si apprende in
          “La crisi della Ragione poietica- La «Nuova ontologia estetica»” (pag. 169) in cui si ritrovano
          le ragioni a favore della NOE la quale a sua volta richiede una nuova ermeneutica che prenda coscienza del “frammento”, della fragmentation, del frammentarismo della condizione dell’uomo nel mondo.
          Nel dialogo Linguaglossa-Agamben-Lacan
          Giorgio Linguaglossa sostiene :
          “«[…] La crisi della ragione è la crisi del Soggetto. Anzi, deriva dalla crisi del soggetto cartesiano.
          Dopo Freud la crisi del Soggetto ha avuto una grandissima impennata: oggi abbiamo un Soggetto
          in frammenti, un corpo in frammenti, un oggetto in frammenti.
          Il frammento è diventato la nostra condizione esistenziale, viviamo in mezzo ad un isomorfismo
          di frammenti […] Non c’è alcun fenomeno dell’esistenza se non all’interno di una dimensione
          originariamente linguistica, determinata dall’Altro come luogo della Parola, fondata sulla totalità
          dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del soggetto[…]
          E Giorgio Agamben ( in ‘La Potenza del pensiero. Saggi e conferenze’, Neri Pozza, Milano, 2004, pag.28)
          ci dice che ‘Il linguaggio è ciò che deve necessariamente presupporre se stesso’[…]
          Il Soggetto sarà parlato e significato in una catena senza fine di significanti. Lacan dirà che
          ‘il significante è ciò che rappresenta il soggetto per una altro significante»”

          Attraverso Heidegger (Sein und Zeit, 1927) Giorgio Linguaglossa stabilisce la defondamentalizzazione
          del Soggetto e ridandogli la parola apprendiamo che «[…]Oggi anche la poesia non può non investigare
          con muovi strumenti espressivi gli aspetti della attuale fase della crisi spirituale»,
          con la Nuova Ontologia Estetica che assuma a parametro del proprio comportamento la defondamentalizzazione del Soggetto in cui i linguaggi poetici nuovi tendano alla ricostruzione
          dell’infranto partendo appunto dal frammento, dalla frammentazione dell’intero.
          In tali condizioni il frammento diviene la dimora di ciò che diciamo “L’Estraneo”. Il che fa prendere coscienza dell’indebolimento delle parole e della necessità della ri-metaforizzazione della nuova poesia del nostro tempo.

          Gino Rago

        • Salvatore Martino

          Salvatore Martino:
          inserisco qui, con il consenso del’interessata, Francesca Diano, un suo commento ad alcune mie poesie da “Manoscritto trovato nella sabbia” apparso alcuni giorni fa sul suo blog “Il ramo di corallo”. Mi sembra perfettamente in linea con le tematiche che in questo stralcio della Rivista
          si dipanano.

          “Mi piacciono i poeti-narratori e i poeti-filosofi. Mi piacciono i poeti che, con una lingua che la vita ha filtrato attraverso il setaccio dell’esperienza e della sete di conoscenza, della cultura e della curiosità, dell’esplorazione di sé stessi attraverso il mondo, esprimono quel che hanno lasciato decantare dentro di sé come enorme quantità di materiale e ne ri-narrano la quintessenza. Mi piacciono i poeti che hanno una poetica e una visione del mondo da cui spiccare il volo, capaci di lasciarsele alle spalle senza paura del vuoto. Mi piacciono i poeti la cui lingua, come la loro voce, è chiara, limpida, musicalissima, (dove poesia senza musica?) spoglia di ridicoli orpelli, termini obsoleti cercati sul dizionario e barocchismi, che son buoni solo per i poeti wannabe e solamente servono a mascherare l’assenza di pensiero e di idea e un deserto di sordità poetica. Capaci di una lingua raffinatissima e colta e scolpita. Mi piacciono i poeti che non hanno bisogno di volgarità, modernità a tutti i costi, finti sperimentalismi vecchi come il mondo, perché la vera novità è quella dello sguardo che hanno sul mondo e su sé stessi; libero, non legato a mode, a trend, a scuole, e che sanno rendere il Passato Presente, eppure sanno uscire dal presente. Bisogna essere grandi per essere limpidi e chiari. Il che non significa semplici. 
          Dunque ringrazio Salvatore Martino, grande poeta, grande attore di teatro, uomo coltissimo, mente profonda, figlia del mondo mediterraneo ma anche di molto altro, che mi ha permesso di pubblicare alcuni suoi inediti. Gliene sono grata. 
          Francesca Diano

    • Salvatore Martino

      Come sempre carissimo Gino riesci a centrare i nuclei fondamentali del mio fare poetico. Ho già risposto alla tua domanda: questi sono versi inediti a partire dal 2015, e ripeto suscettibili di cambiamenti, tra l’altro già ampiamente avvenuti

  3. https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/02/02/salvatore-martino-poesie-sintesi-critica-su-autoantologia-cinquantanni-di-poesia-progetto-cultura-2014-pp-1000-e-25-presentazione-critica-di-mario-m-gabriele/comment-page-1/#comment-30612
    Francesco Destro

    …ho pensato di proporvi queste due poesie che, in un certo senso, sono due facce della stessa medaglia.

    La prima, Pollicem vertere, è nata due mesi fa come riflessione in seguito alla petizione per rimuovere il quadro Therèse dreaming di Balthus da un museo di NY. Appresa la notizia, ho pensato all’ennesimo caso di rifiuto di considerare qualsiasi espressione artistica come qualcosa che vada continuamente decifrato, preferendo un’idea di arte come semplice intrattenimento dei sensi o vuoto formalismo.

    La seconda, Conforme agli standard, è nata invece da un senso di avvilimento dopo l’ennesima spettacolarizzazione e mercificazione della violenza, visto che più testate giornalistiche hanno condiviso il video (non necessario, quantomeno a mio avviso) della donna gettata sui binari, desolante e recente fatto di cronaca. Da qui, ho pensato a quell’essere sempre pronti a filmare o fotografare, ma soprattutto all’ipocrisia di certe persone, a quel condannare il “puramente possibile” (riferimento a Croce e alla sua idea di arte) e all’assurdità di certi “standard della comunità” virtuali e non, come pure all’idea di osceno e a come il popolo ami contraddirsi, imbrogliarsi da sé (pasolinianamente parlando, “er popolo è sempre colpevole” ).

    Nei giorni della tentata censura, nei cinema usciva con successo il film su Egon Schiele, cosa che ha rafforzato la mia idea di ipocrisia e di contraddizione (chiaramente, non pretendendo sia un fattore immancabile ed universale).

    DITTICO
    Pollicem vertere

    “La pornografia è una forma d’arte decaduta”
    Philip Roth, L’animale morente
    Non lo toglieranno, alla fine:
    il pollice verso stavolta
    non ha sortito effetto.
    Resterà lì, smacco in olio su tela,
    dimostrazione in cornice
    che in fondo è cosa vera,
    la fallibilità di certe petizioni.
    La censura, vedi, ormai è democratica;
    l’arte degenerata: designazione collettiva.
    L’osceno, invece, davvero è solo
    negli occhi di chi guarda?
    (ecco, guarda caso, forse proprio Balthus
    potrebbe aiutarci a venirne a capo)
    Perché vedi, fa piacere, ci si sente bene, più puliti
    ad additare e condannare, a stare dalla parte
    del pubblico invece che dell’attante
    – spesso più vero, compiuto e consapevole
    di quel suo essere simulante.
    (ma tu, mi raccomando, tu questo
    fa’ finta di non saperlo)
    Una firma lava la coscienza, l’unione
    fa la forza, l’opera d’arte non è più un simbolo,
    ci pensiamo noi a definirla una volta per tutte.
    Insomma toglietela, levatela via, fatela sparire!,
    così intollerabilmente conforme
    agli standard della comunità.
    Ciò che è certo è che l’arte non ha più diritti, né doveri:
    che se ne stia tranquilla, che non scuota, che non provochi,
    che non scombussoli, lasciandoci liberi di confonder daccapo
    il Bello col piacevole e, se ci avanza un po’ di tempo,
    di fare ressa al botteghino per quel nuovo film su Schiele.
    Non è anche questa pornografia?
    Non è anche questa volgarità?
    Ma come non ho detto,
    chiedo scusa,
    l’oscenità è soggettiva
    e stavolta è negli occhi
    di chi non vuol vedere.

    Conforme agli standard

    “Il giornalismo e in genere la rapidità di diffusione delle notizie inutili e mostruose
    è il danno maggiore che l’umanità sopporta in questo secolo.”

    Ennio Flaiano, Diario degli errori (nota del 1956)

    L’ho sentito prima, alla radio, e poco fa me l’ha ripetuto mia madre.
    Hai visto? Mi verso il caffè, annuisco, dalla bocca esce un sì.
    È forse importante dirle che in realtà ho semplicemente sentito,
    quando da tempo non è più un problema confondere
    il sentire con il vedere, l’immaginare con il sapere?
    L’ha spinta sulle rotaie, mentre il metró passava.
    Una mano amputata, dicono. Senza rimedio, precisano.
    Una lite, ipotizzano. Un qui pro quo, minimizzano.
    So già che sarà una notizia che mi accompagnerà per tutta la giornata.
    La troverò sulle locandine, nei quotidiani, sviscerata, approfondita,
    – complice il fatto che il fattaccio risale a ieri –
    amici virtuali la condivideranno, sempre più immagini
    cominceranno a girare, tacito da ogni gola salirà il grido
    “ancora, ancora, vogliamo di più, ne vogliamo ancora!”:
    l’aberrante è il nuovo oppio dei popoli,
    vivere è diventato un esercizio d’accusa e di discolpa.
    Presto o tardi salterà fuori un video, tempo che monti il caso,
    che lo scandalo si diffonda, che l’intrecciarsi dell’incriminare
    e del recriminare faccia il suo corso, che le visualizzazioni
    ripaghino dell’attesa di pubblicare il materiale,
    di decidere quali secondi di pubblicità infilarci:
    è un orrore tenuto al guinzaglio.
    La carne amputata è diventata carne da macello,
    la mano che ha spinto ora è capro espiatorio
    – per oggi, domani invece chi sarà?
    Lui è peggio di me, di noi tutti che commentiamo.
    Qui, certo, qui è sempre qualcun altro.
    So che è un vizio che ci si può togliere.
    Oggi no, oggi non chinerò il capo
    avvicinando lo schermo per veder meglio,
    è venuta a mancare quella curiosità morbosa;
    oggi non mi rassicura questa sofferenza altrui,
    quel ripetermi “io una cosa così non la farei mai”.
    No, non mi serve unirmi al coro di condanne,
    di minacce, di ingiurie, di battibecchi e di sarcasmi,
    non ho bisogno di questa comunione irriflessa,
    di quest’ultima proposta nel catalogo di mostruosità
    liberamente sfogliabili, di quest’ennesima violenza
    servita per essere consumata.
    Com’è ridicolo, in fondo:
    condanniamo il puramente possibile
    e ci imbeviamo del realmente accaduto;
    per tanti, non è altro che uno spettacolo,
    una mise en scène splendidamente iperrealista.
    Il popolo, come sempre, ama imbrogliarsi da sé.
    Io, per qualche istante, mi sento superstite fra vinti.

  4. gino rago

    Trovo utile per i lettori de L’Ombra delle Parole segnalare che le riflessioni
    sui tre versi di ‘Nostos’ di Salvatore Martino incardinate sul “quadridimensionalismo” derivano dalla lettura di:

    “Giorgio Linguaglossa, Critica della ragione sufficiente Ed. Progetto Cultura, 2018 pp. 510 € 21.00”
    di cui riporto il botta e risposta fra Maurizio Ferraris e Giorgio Linguaglossa
    proprio sul tema della “quarta” dimensione in poesia:

    “Esemplare appare in «Critica della Ragione Sufficiente» il botta e risposta fra Giorgio Linguaglossa
    e Maurizio Ferraris sul Quadridimensionalismo secondo l’osservatore proustiano della Recherche.
    Soffermandoci «Sul quadridimensionalismo» (Pagine 74/75), Giorgio Linguaglossa dà la parola a Maurizio Ferraris (da ‘Emergenza’, Einaudi,Torino, 2016,pag.127). Dice M. Ferraris:

    «[…] Nella prospettiva proustiana, la domanda ontologica “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori
    interni allo spaziotempo?” ha una risposta tridimensionalista soltanto se ci si
    limita ad osservare con la percezione; la risposta risulta invece quadridimensionalista se si osserva anche con la memoria. Ecco perché Proust sostiene che la vera vita sia la letteratura: perché è la vita registrata,
    fissata in un documento e resa quadridimensionale…[…] A ben vedere, però, la quadridimensionalità
    fa parte di individui comuni che rientrano nella nostra esperienza più ordinaria…»

    Risponde Giorgio Linguaglossa:

    «Per rispondere a Maurizio Ferraris, il problema che si pone
    a noi oggi, a distanza di cento anni da ‘ La Recherche ‘ è questo: ma noi sappiamo che
    esso [il segno] esiste come «traccia» di un qualcosa che non le preesiste, di un passato
    che non è mai stato presente e che non può essere rievocato. Vale a dire che non possiamo
    ripetere l’operazione di Proust, la quadridimensionalità si deve vestire di nuovi modi di
    rappresentazione […]»

    Gino Rago

  5. carlo livia

    Nel superbo finale de ” La matematica del viaggio ” si rende quasi palpabile la volontà di Martino di riscattare in uno scenario metafisico e in un’armonia simbolico- melica la sua diffusa angoscia e nostalgia di fronte alla reificazione e dissoluzione dell’essere. Lo fa con un preciso strumento espressivo: la trasfigurazione e ricomposizione sul piano simbolico di elementi ontologici sottratti e decomposti da un’implacabile deriva nichilistica, a cui il suo retroterra culturale e spirituale si oppone con una intensificazione emozionale degli scenari messi in atto.
    Mi sembra che il suo atteggiamento sia antitetico a quello di Mario M. Gabriele, la cui violenta e deliberata decostruzione logico-ontologica si potrebbe definire diabolica, naturalmente non in senso satanico, ma puramente etimologico, di decomposizione ( dia – ballo, divido ) operata in un’atmosfera emotiva completamente piatta e inerziale, post-umana ( con qualche intensificazione espressionista si potrebbe accostare a Beckett ).
    Tornando a Martino, colpisce la suggestione vagamente kafkiana dell’ultimo volo, con la proditoria falsificazione della meta, di ” Dove non volano le cicogne “, e l’intensa risultanza estetica delle scelte topologiche e lessicali offerta in ” Viaggia con l’astronave del destino ” che mi ha ricordato l’ultima scena di ” 2001 Odissea nello spazio ” , con la drammatica scena del precipizio dello spazio-tempo, che la perizia filologica di Martino traduce in forme di neo-classica eleganza:
    Le nuvole che angosciavano il cielo
    si sono spaesate
    in un alfabeto senza consonanti
    un vaniloquio di parole

    Ma se ho capito il rilievo critico di Linguaglossa – l’esperienza esistenziale di decentramento e spossessamento dell’io, che non si traduce in un’analoga delegittimazione del valore referenziale della lingua, non la connota, materializza con un’adeguata destrutturazione logico-sintattica – anch’io sono perplesso di fronte a questa discrasia tra uno sguardo post-moderno e una voce neo-classica, ma è anche l’elemento espressivo che le dona una nostalgia, un’aristocrazia alla Tomasi Di Lampedusa, decisamente affascinante.

    Spero che apprezzi il testo che gli dedico.

    AUTONECROLOGIO CON LUNA SPENTA

    Avevo una ferita in cielo e un’anima nel fossato dei serpenti

    Dei furiosi scuotevano la mia prigione

    Nel corridoio seppellivano cieli stellati, parlando della mia malattia

    Una piccola alba spenta e contagiosa conduceva piangendo il plotone d’esecuzione

    – Ho rinchiuso nell’orbita lunare la domestica col suo panico

    – Nel sogno delle statue in amore la tempesta di violino m’inchioda coi suoi baci

    – Fra cattedrali nude cerco l’istante in cui sono scomparso

    – Fuori fa freddo, tutte le ore sono morte, la falce di cristallo si allontana col mio corpo

    Nel mio letto folgori e marmi si disputavano il sonno eterno

    I teschi che mi amavano raccoglievano frantumi della mia vita intorno al piedistallo vuoto

    Mi gettarono nel Museo, scortato dall’ultima notte

    Cercavo il mio amore tra i nomi obliqui schiacciati sotto quella luna spenta

    ( era nell’altra stanza, scomparendo nel ricordo )

    E’ vero non ci sono morti quassù solo una notte di luci di tigli e parole erranti fra spettri ma un pensiero sbagliato ha lasciato cadere il suo sesso fra le angeliche spine c’è una ferita sanguinante che arde al centro è proprio lì la fonte e l’addio l’infiorescenza che non si può mai avere io raccolgo il mio sacrario di canti e respiri per entrare in quella porta nuvola dentro è un unico corpo è tutta vera la vita è l’al di qua che resta

    • Salvatore Martino

      Livia carissimo innanzi tutto ho molto apprezzato il suo commento ai miei deliri, con accostamenti che mi rendono persino orgoglioso. Non so, né mi interessa saperlo se sono un poeta legato alla tradizione (senza dubbio lo sono), ma certamente , almeno credo, che il mio occhio si slarghi ancheverso orizzonti non molto esplorati, che raggrumano anche delle novità. Quanto alle critiche di Giancaspero e Linguaglossa le accetto con assoluta umiltà, anche se non comprendo del tutto il loro modo di esporle , per me, sprovveduto modesto poeta, alquanto di difficile decrittazione. La ringrazio anche per la sua drammatica nota poetica, di spietata visione del mondo e delle cose e degli uomini e di se stesso.L’ho sentita particolarmente vicina alla ima sensibilità. Kubrik e il Pincipe di Lampedusa sono stai due punti focali del mio interesse artistico.

  6. Piccolo stralcio da “Riflessioni di chi ha ascoltato e letto” di Luciana Vasile su “La metamorfosi del buio” di Salvatore Martino (2012) le cui poesie sono contenute nell’Autoantologia qui presentata.
    …. I vari argomenti, veramente tanti, delle liriche di Salvatore Martino, a mio avviso, si riassumono e conducono a un unico tema principale, quello del viaggio dell’uomo e in questo caso del poeta: la scrittura automatica come abbandono profondo. Che non sia proprio questa resa incondizionata a stabilire il contatto con la verità? Ma molte le contraddizioni che lo stesso autore denuncia, compagna l’intelligente umiltà. L’animo del poeta alle prese con una realtà sfuggente, impossibile da fissare con il linguaggio, che si rivela strumento insufficiente e ingannevole. Ma è incontrovertibile che il dubbio si trasformi in vero cammino di ricerca. La curiosità del viaggio alla scoperta del mondo, dei diversi idiomi inseriti nelle liriche come punti di vista e suoni differenti, di nuovi paesaggi, il viaggio per una conoscenza degli altri non più stranieri. Il coraggio del viaggio attraverso la malattia e il dolore fisico. Il viaggio per una consapevolezza di se stessi. L’immersione nella sofferenza interiore, sfidandola. Viaggio nel proprio abisso, dove non si percepisce il buio ma la luce della conoscenza. La gioia del viaggio nell’unione dei corpi, nel linguaggio della fisicità. Nell’eros l’annullamento del proprio perimetro, della finitezza del sé nell’altro, per divenire Uno e perdersi. Un attimo – perché poi tutto è destinato a fuggire, dileguarsi, sciogliersi fra le dita che non riescono a trattenere, tutto per noi è caduco – . Un apice nel quale si tocca il mistero della morte-vita.
    Viene da domandarsi: – dobbiamo pensare che ci sia relazione, che il buio conduca all’abisso? -. – No, dice il poeta, il buio è orizzontale, l’abisso è verticale -. Il buio dell’avvenire, del futuro, si presenta sull’asse orizzontale delle ascisse e si coniuga con la luce, sempre verticale sull’asse delle ordinate della discesa e dell’ascesa, del tormento e della speranza, dalla caverna dell’Io dove si accende l’intelletto al chiarore dell’infinito cielo. L’essere umano punto nel piano cartesiano, che si muove fra buio e luce; esplosione nello spazio, in terza dimensione, se si proietta sul piano laterale. Ruotando il quadro la prospettiva cambia, si modificano i rapporti. E’ forse questa, mi chiedo, la metamorfosi del buio?

    • Salvatore Martino

      Grazie dolcissima Luciana per il tuo intervento lucido e profondo sulle moe divagazioni poetiche, nel tentativo di sconfiggere il buio che ci circonda o perlomeno di conoscere la sua metamorfosi. Hai colto benissimo alcuni fondamenti di quel libro così scandalosamente abissale, ma anche proiettato al superamento del dolore fisico, della malattia, nella sublimazione del viaggio e dell’eros.

      • Nelle mie riflessioni del 2012 su la tua “La metamorfosi del buio” c’era anche scritto:
        …Una ricerca dell’Io che si sposta continuamente, e non senza angoscia, fra il dentro e il fuori per incontrare l’Altro. L’Altro sé in continuo mutamento e rinnovamento, e l’Altro da sé che può essere non solo il fratello, l’amico, anche il diverso, il contrario, perfino il nemico, ma colui del quale abbiamo comunque bisogno per completarci e superare le solitudini dei corpi e degli animi…
        …Partire da un particolare della realtà, dalla concretezza delle cose semplici per cercare l’universale. Da un basso generalmente individuabile, volare alto, fa sentire vicino chi legge e chi scrive, impagabile unione in un mondo separato dove impera l’andare contro e non verso per con. Allontana, invece, la superbia di chi si pone al vertice di una supposta verità a volte dettata da fredda teoria, e da lì discetta. Sì, nei tuoi versi mi sono ri-conosciuta e, come un piccolo miracolo, mi sono ri-trovata… accanto…
        Caro Salvatore, aldilà dei preziosi studi, ricerche, approfondimenti – ma quali i risultati tangibili!?! -, questo per me è la Poesia e tu la incarni. Un soffio, un sospiro, un alito caldo che non ti fa sentire estraneo ma “dentro”, partecipe nell’attimo.

        • Concordo in toto con la riflessione di Luciana Vasile: il viaggio è, in altre parole, la «metamorfosi del buio» – Purtroppo, però, lo ribadisco, dopo il libro d’esordio, Attraverso l’Assiria (1976), Salvatore Martino ha parzialmente abbandonato quella via di ricerca che avrebbe dovuto essere portata alle sua conseguenze ulteriori…

  7. Giuseppe Talia

    E’ un grande piacere trovare un tributo a Salvatore Martino in queste pagine, con una nota di Mario M. Gabriele e l’ampio ventaglio di testi proposti.
    In un recentissimo incontro con Salvatore Martino in occasione della Fiera della piccola e media editoria di Roma ebbi modo di dire che siamo tutti NOE e Martino con “La Fondazione di Ninive” ha tracciato, con la sua indipendenza poetica rispetto al trend in auge, solchi ontologici ed estetici di grande rispetto.
    Riporto qui una nota che scrissi qualche anno fa dopo la lettura del suo volume antologico ed ontologico “Cinquantanni di poesia”:

    Nella “Nuova ontologia estetica”, come si sta venendo a delineare sulle pagine di questa rivista, c’è posto per tutti? Sì, diremmo, c’è posto per tutto il pensiero critico e autocritico, per tutti i portatori di nuove idee e nuovi modi di pensare l’arte. La “Nuova ontologia estetica” non presuppone che si debba scrivere necessariamente per “frammenti”, non nel senso della corrente letteraria sviluppatasi in Italia nei primi anni del Novecento, nemmeno adottare una forma metrica standard che potrebbe venir suggerita da un autore più che da un altro. Tutto è frammento. In questo momento che sto scrivendo una nota rivolta a uno dei poeti più colti di questi nostri tempi, Salvatore Martino, ogni mio pensiero e ogni mia frase sono a loro volta frammenti che si raggruppano, seguendo un ordine logico e filologico, attorno a un soggetto. E quando più tardi entrerò in un’altra stanza, leggerò, guarderò un film, ascolterò musica oppure cucinerò qualcosa, tutte queste mie future azioni saranno frammenti, e quando cercherò di ricordarle mi accorgerò che lo farò sempre per frammenti perché la memoria degli avvenimenti procede per spezzettamenti, per frangenti di tempo e di azioni a cui cercherò di dare, attraverso il ricordo, una trama unitaria.
    Allo stesso modo potremmo dire che ogni verso di una poesia è un frammento, e ogni poesia nella sua interezza è frammento, come pure ogni silloge compiuta è formata da tanti frammenti ed è essa stessa un frammento tra i frammenti. Perché dico questo? Perché vorrei far entrare, e ne ha diritto, nella “nuova ontologia estetica”, il libro di poesie di Salvatore Martino, La Fondazione di Ninive, 1977, contenuto nella più recente raccolta di tutta la sua produzione, Cinquant’anni di Poesia (1962 – 2013) a cura di Donato di Stasi, Edizioni Progetto Cultura, Roma.

    Il libro, fin dal titolo esplicita un “atto fondativo”, il riconoscimento di elementi formali e materiali attraverso apposite norme giuridiche di poiesis. Scrive Donato di Stasi nella introduzione alla Fondazione di Ninive, “Ardente di classicità, Salvatore Martino continua a occuparsi del regno della crudeltà, indagando la fondazione della capitale assira, Ninive, giocando una straordinaria partita spazio – temporale sulle ceneri della Storia e della civiltà umanistica.” Ecco dimostrato, dunque, a partire dall’ultima affermazione, come la poesia di Salvatore Martino entra, attraverso la correlazione spazio – tempo (tempo interno e tempo esterno che vedremo meglio successivamente nell’analisi di qualche verso) nel frammento (Storia) e nell’ontologia estetica (civiltà umanistica). Ed anche l’aggettivo “nuova” rientra pienamente in gioco se proviamo ad inquadrare il periodo storico-letterario in cui “La Fondazione di Ninive” ha visto la luce.
    La silloge contiene liriche scritte nell’arco di tempo che va dal 1965 al 1976, anni in cui la poesia italiana era percorsa dal movimento di rinnovamento attuato dalla neo-avanguardia, rinnovamento che però si esaurì presto lasciando tutta una serie di promesse non mantenute e mai pienamente realizzate. “E’ una scrittura che soffre di aperta discronia stilistica e spirituale rispetto alla poesia del suo tempo,” scrive a proposito del Nostro, Giorgio Linguaglossa in un commento impolitico apparso sull’Ombra delle Parole il 26 aprile 2016.
    Lo stesso autore in un suo appunto dichiara, “Cominciai a scrivere “La fondazione di Ninive” nel 1965, in seguito alla folgorazione, quasi una via di Damasco incontrando T.S.Eliot e il suo maggior fabbro Ezra Pound. The Wast land e i Four Quartets, i Pisan Cantos abitarono la mia casa come in seguito ad uno sconvolgimento tellurico, incrociando il mio specchio, la mia anima, la mia razionalità.

    In questa ottica storica, Salvatore Martino coglie lo spirito del tempo, la coscienza sporca del postmoderno, “il viaggio/la casa/steep darkness”, attraverso un ordine disordinato, il logos esploso “in schegge impazzite e frantumi, in apparenza incomprensibili (Donato di Stasi).” E’ un libro di sperimentazione, di ricerca, di grumi di vita e di pensieri filosofici che nel tessuto della narrazione fa ricorso alla tecnica del flusso di coscienza superando, però, il monologo interiore per una più ampia estensione verso l’esterno, il canto, e la stessa percezione reale delle cose viene rielaborata attraverso il magma della paratassi, i nessi semantici che interessano diversi valori informativi, la punteggiatura che diviene elemento straniante e che sparisce quasi del tutto, sostituita dalle maiuscole all’interno dello stesso corpus: “E poi starsene a ragionare di canali! Ma c’è acqua nei canali?/ Se sapessi quanto fu lungo il travaglio del cuore a decidere/per la condanna e non si poté sviare la ruota che portava/sbocco al bacino sedimento di altre condizioni Quando/piove dall’alto un fiume di strade…
    Un tipico esempio di narrazione nevrotica, di letteralizzazione della nevrosi, una variegata tassonomia di isterismi, di cortocircuiti del sistema nervoso in generale, in cui il tempo interno (E poi starsene a ragionare… Se sapessi quanto fu lungo…) e il tempo esterno (Quando/piove strade…) si accavallano, si avvicendano l’uno all’altro come il lampo e il tuono.

    Scrive Giuseppe Panella: “Nel labirinto della sua scritta si aggrovigliano angoscia e speranza, attesa e prostrazione, illusione e disincanto. Poesia della contraddizione interna e interiorizzata, dunque, e, di conseguenza, poesia dell’Altro da sé che con l’Io interno si scontra e si ritrova in versi scanditi e cesellati dalla lama di rasoio dell’introspezione profonda e di un labor limae attento e raffinatamente spietato.

    Appare chiaro che la voce poetica di Salvatore Martino in ben più di mezzo secolo di poesia ha saputo costruire un dialogo costante con il mondo, soffrendo forse una certa lateralizzazione rispetto al discorso maggioritario della poesia italiana contemporanea, per il fatto di essersi sempre collocata in una ricerca assoluta, in percorsi di recupero e attualizzazione dei miti e degli archetipi, seguendo le indicazioni di maestri quali R. Jacobbi, E. Falqui, O. Macrì, ma dimostrando sempre fedeltà assoluta alla musa, dedizione, privilegiando in primis il dialogo con se stesso in una nuova ontologia estetica fatta di riscatto e di consacrazione.

    *
    Ci trovammo una sera tutti gli amici
    intorno al grande fuoco del cortile
    mentre il tordo saliva
    candidi specchi un gatto
    attorcigliato nella pioggia

    C’erano quattro porte sull’entrata

    Una sera che ne avevi di amici seduti
    intorno al letto la candela negli occhi
    e capisci che gli anni non sono stati
    Che tu che niente

    Una sera d’inverno intorno
    al secco piede dell’angoscia

    Non puoi ricordare!

    Sei morto tre anni a Smirne
    il grande fuoco del cortile
    la sentenza dei tarocchi
    e chi legge la mano e insegue
    numeri e pianeti il fatale scorpione
    l’ariete quattro volte
    sul tuo segno di gennaio

    Se almeno durasse la memoria!
    E l’ansia ti partorisse con cinque teste!

    Morto tre anni

    Ma non posso ricordare
    Non posso Niente
    Ricordare

    E’ stato l’altro giorno navigando
    l’Eufrate che perdesti le tracce
    a Vari si cantava
    quella piana di ulivi
    il raggio terso ci lacerava il ventre

    Una sera che ne avevi di amici
    e quattro porte sull’entrata
    i ramarri nei fossi
    senti uguali monotoni
    i passi della scala
    e sanno di colpire al punto giusto
    nell’ora e nel tempo
    col duplice sguardo
    del ventre e della testa
    come un tocco di piume
    Una sera d’inverno
    le quattro porte sull’uscita
    che non ricordi niente e l’ansia
    ti partorisce con cinque teste
    non vedi l’Assassino che arriva
    dalla strada di Smirne dopo un’altra
    stagione di delitti nel segno di gennaio
    questa sera che l’amore ci strappa
    tutto il silenzio delle cosce
    nell’ora e nel tempo

    *
    Hanno chiuso i campi verso la città che davano sbocco a
    tutte le strade di cui parlava il lontano scrittore ritrovato
    sopra iscrizioni indecifrabili Strade ampie e maestre
    condotte da pietre che alzano bastioni Non ricordo se fosse
    la Teogonia o le Storie ma questo può non avere importanza
    I bastioni di cui parlava c’erano davvero Quello che forse
    non c’era erano le strade quindi non potevano essere
    obliterate come più tardi fu detto e in malafede e allora
    dovevano pur dare sbocco ai campi se non verso la città
    E poi starsene a ragionare di canali! Ma c’è acqua nei canali?
    Se sapessi quanto fu lungo il travaglio del cuore a decidere
    per la condanna e non si poté sviare la ruota che portava
    sbocco al bacino sedimento di altre condizioni Quando
    piove dall’alto un fiume di strade che portano tutte alla
    città Seppellito il tormento prosegui al tempo delle cose
    passeggere ma non al fondo Cosa risponde a un rigido
    isolamento di motori? Fu scritto che le pietre non bastano
    a tenere i fili dell’acqua per questo s’intravede uno
    spiraglio chiuso dal cielo finalmente aperto una colonna
    di fumo a oriente in un giorno che la luce sepolta è
    ovunque chiuso il mistero Strade

    *
    Nell’universo quando due storie
    Si equivalgono restano inespresse

    Attraverso chilometriche fiale
    Darker the sky on the back of the mountain
    Segni di un antico dominio
    Sempre gli stessi libri Sbiadiscono i capelli

    Quando mi dissero di lasciare la casa
    lo feci senza rumore
    Perché negare l’assoluto?
    Presi le cose che più mi appartenevano
    lasciando ad altri l’inventario e la strage
    Il mondo può avere rispondenze precise
    in cambio del piacere il piacere

    Le storie si equivalgono
    su bassa frequenza di contatti

    Lo feci senza rumore come
    sradicando l’albero della prima infanzia
    e il petto struggente della madre

    Nuvole imbiancate a calce lungo siepi giganti
    calpestano fiori di loto e l’acqua solitaria dello stagno
    dove il giovane bello coglie il bacio mortale

    Non c’è silenzio così grande che non possa

    *
    Come tutto era celeste e quieto
    La notte che mi uccisero sul trono

    Dimenticavo per la prima volta il filo dei marosi e il
    soffio delle strade l’aranceto confinato nella memoria

    A poterli contare i giorni che ci separano dall’essere
    non basterebbero i campi in delirio o la spianata delle
    spighe ma essendo le canne in fiore potevo sedermi e
    accarezzare i piedi del ginepro trascorrere quest’altro
    universo da Valle Giulia a Termini le pendici dell’Oppio
    la fossa all’argine del Tevere o verso la Piramide il
    greto molliccio sopra Castel Sant’Angelo in uno sbocco
    a capofitto dal piazzale del Pincio
    La notte che mi uccisero era tutto celeste

    Una speranza sola che si spostasse il mare La direzione
    suprema voleva scongiurare il perielio Si annidavano
    ovunque i resti di baleniere scheletri fissati al legno
    riemergono Un gruppo di piloti conduceva le macchine
    a spinte inconsuete

    Così lisciavo il dorso dei cammelli e abbeveravo
    mandrie in ginocchio contro il sole e segnavo un istante
    di mie orme il deserto accendevo incensi nelle
    cattedrali normanne scuotevo lance contro di Albigesi
    chiuso nella mia stanza scongiuravo il perielio

    Da questo errore si alzarono le mura di Cartagine
    e vescovi furono condannati per simonia
    le torri crollarono di Vienne e di Aquisgrana

    La notte che mi uccisero saliva un tiepido lapidario

    L’aria non c’è il monumento equestre tanti nomi sognati di
    viali e boulevards avenues avenidas l’ufficio della domenica
    le salmodie il canto gregoriano la clientela e il furto Magari
    è andata meglio così Chi immaginava la felicità del niente?

    L’essere non è Buonanotte

    *
    Volver (inedito 2017)

    Quando i vetri del tempo
    avranno frantumato le lancette
    e il sonno cancellato le lacrime
    avranno conquistato il vuoto
    il cervello e le arterie
    il sangue congelato nell’addome
    privo di aria il reticolo dei polmoni
    e il febbrile ritorno nella terra
    sarà invocato dai muscoli e dal cuore
    l’estrema solitudine della nostra voce
    un blocco di cotone alla laringe
    quando il metallo del tempo
    avrà scardinato la memoria e l’attesa
    non sarai più un evento del futuro
    grideranno campane dalla notte all’alba
    e saranno respinte tutte le lettere
    vergate col tuo nome
    e tutti i linfonodi liquefatti
    la cheratina soltanto di unghie e di capelli
    sarà sopravvissuta
    a questo immortale disfacimento

    Così accoglieranno all’altra riva
    la barca dove sei disteso
    la testa abbandonata sul cuscino

    Va! sulla corrente che attraversa
    ponti e canali argini di seta e di cemento
    privi di musica e parole
    per abituarti al silenzio
    che già invade le tube dell’orecchio
    con un suono che non è suono
    ma sibilo del vento
    Va! Accompagna la bonaccia
    impara a memoria le risposte
    che dovrai pronunciare
    prepara il peso del cuore alla bilancia
    la mente al colloquio imbevuto di fonemi
    quelli che ancora non conosci

    Controllerai il comando delle vele
    dei remi se ci sono
    guarderai il compagno
    anch’egli disteso lungo il fondo
    per esserti vicino
    in questa deserta solitudine
    E quando avrai confuso
    l’arrivo così a lungo meditato
    comprenderai che il Nulla soltanto
    ti appartiene
    persino il viaggio un inganno
    la moneta fissata nella bocca
    inutile strumento
    che nessuno avrà il coraggio di rubare

    L’acqua è divenuta sabbia
    il deserto una bianca tavola di ghiacci
    le nuvole persino
    hanno cessato di coprire il sole
    nella muta scoperta della quiete
    i sogni non promettono risvegli

    • Salvatore Martino

      Il ringraziamento caro Giuseppe per quanto hai esposto sul mio cammino poetico è certamente riduttivo. Sono commosso per le parole così puntuali, esplicative e profondamente calate nei miei versi e non posso che condividere il tuo pensiero.Voglio aggiungere che il mio costruire poesia è cominciato nel lontanissimo 1962 con una produzione e,minentemente lirica, sotto l’influenza dei poeti spagnoli da Jimenez a Machado agli altri delle stagioni successive. Poi come ho tante volte affermato l’incontro con Pound ed Eliot , che mi ha trascinato verso quell’estetica, da te brillantemente interpretata intorno a “Ninive” e “Attraverso l’Assiria”, decisamente poèmes en prose , con ipermetro e cadenze musicali. Il verso libero i è stato compagno nei testi che si sono succeduti negli anni : poesia epica e narrativa, più decisamente lirica, con la rivisitazione dei miti della nostra tradizione occidentale, il disegno della storia, con puntate anche nel sociale e nel politico, cercando di tramutare le mie personali esperienze verso un crinale, che potesse coinvolgere il mondo esterno nel quale ero calato.La mistica e il metafisico hanno innervato spesso i miei versi. Non voglio qui annoiare i lettori del blog, che deve obbedire al canone della velocità, addentrandomi in considerazioni più dettagliate sul mio fare poesia, molti già lo hanno fatto. Voglio soltanto ricordare la mia fedeltà ad alcuni archetipi che mi hanno seguito e condizionato negli anni: l’Altro, lo specchio, la maschera, Dio ,il labirinto, il viaggio, la casa, gli dei ,il fiume, il sogno, la dimenticanza, la cancellazione, e soprattutto la steep darkness, l’abisso di cui parla Nietsche o quello rammentato da Rilke tessuto tra noi e Dio. E distesa sopra le miei parole tanto sovente la meditatio mortis, compagna dall’alba della vita. Stilisticamente approdai, come certo hai notato alla stagione della follia , che mi fece addentare in quel labirinto di scrittura che da sempre è stato il sonetto. Ho la presunzione di aver mostrato come si possa fare poesia immersa nel mondo contemporaneo anche utilizzando stilemi antichi di settecento anni. “Nella prigione azzurra del sonetto” lo considero una scommessa temeraria , ma certamente vinta, come diversi critici da Panella a di Stasi a Giachery a Pierangeli a Campailla hanno decisamente affermato. Mi sembra assai strano che l’amico e straordinario critico Giorgio Linguaglossa mi confini al restrittivo angolo di poeta elegiaco, pur avendo in mano il mio “Cinquantanni di poesia” e gli inediti qui rammentati. Speravo che almeno la visibiltà di questo splendido regalo di Giorgio fosse durata anche nel giorno festivo della domenica, ma mi auguro che altri lettori possano comunque visitarlo.

  8. MI piace questa affermazione di Simone Martino:”A 68 anni di età mi è difficile inserire nel mio modo di scrittura un vento di novità magari necessario” Quella di chi scrive (non solo in poesia)è una eterna ricerca,e non sono le”novità”ad alimentarla; la coerenza resta sempre
    un valore alto; il “nuovo”,se subentra, deve essere una naturale continuazione dell’antico,suggerito da una assimilazione del nuovo che è tanto più convincente quanto più discreta e consapevole.Non credo che la NOE suggerisca cambiamenti traumatici, ma piuttosto un inserimento naturale in un panorama letterario che è (e deve essere)in continua metamorfosi.

    • Salvatore Martino

      Carissima Ventura ti ringrazio innanzitutto per aver abbassato di ben dieci anni la mia venuta in questo mondo: sono ben 78 gli anni che segnano la mia storia.Anche l’affermazione sulla coerenza mi trova perfettamente d’accordo, non ci possono essere distacchi traumatici in poesia, come tutti i Grandi ci insegnano, le avanguardie che hanno tentato questa via di “rottamazione” non sono durate molto a lungo, nella loro fase fondamentalistica, hanno contribuito senza dubbio a svecchiare, ma non sono mai riuscite a tagliare il cordone della vera poesia, che comunque ha tenuto legato il nuovo alle conquiste del passato.

  9. Claudio Borghi

    Mi ha procurato grande piacere leggere una nota critica di Mario Gabriele su Salvatore Martino, dopo lunghe schermaglie, non di rado tese e dure, che spesso hanno coinvolto anche me nei mesi e anni scorsi. La poesia dovrebbe unire, non dividere, soprattutto quando le menti in gioco sono ricche di idee e valori, per quanto le sensibilità siano, come è giusto che sia, molto diverse. Non voglio addentrarmi nello specifico della scrittura di Salvatore, sulla quale ho avuto modo di esprimermi in passato sia nella rivista che privatamente, quanto tornare sulla questione, sollevata da Linguaglossa, del sentire elegiaco di cui la poesia di Salvatore sarebbe ancora troppo imbevuta e la conseguente necessità di andare oltre una certa forma di scrittura, in quanto legata a un modo di vivere la poesia ormai tramontato, quindi epigonico. Al solito, credo sia puramente teorico un modo di pensare del genere, e la poesia non è teoria, mentre qui la si vorrebbe tale, come si trattasse di una forma di scienza. In sostanza si riprende intatta la sfida ingenua di Rimbaud, che ha intonato la necessità di essere assolutamente moderni. E moderni sono stati poi i surrealisti, e un po’ tutte e avanguardie che hanno raccolto la sfida dell’adolescente di Charleville che, guarda caso, una volta maturato, ha lasciato sulla carta il suo, comunque geniale, tentativo di rivolta e rivoluzione. Essere moderni: rispetto a cosa, mi chiedo, e rispetto a chi? Siamo poi così sicuri che il pensiero scientifico, sempre più imbrigliato nel labirinto dei paradossi che le teorie fisiche e cosmologiche hanno generato e continuano a generare, sia così capace di tracciare una linea luminosa di progresso, che lo stesso Rimbaud, abbagliato dal positivismo che respirava in ogni centimetro cubo d’aria, e dall’utopismo di cui si era nutrito nelle folli letture da cui è sorta la sua miracolosa opera impastata di rabbia e visione, si illudeva di poter conquistare?
    Se alla poesia è concesso uno spazio, e io credo che questo spazio esista, potenzialmente enorme, ancora, a dispetto di tutte le necrologie e gli inni nichilisti, non può che essere in una dimensione interiore, in cui sentimento e pensiero si scambiano reciproco nutrimento. Niente a che fare col sentimentalismo o l’elegia quali vengono qui concepiti in senso deleterio, o col falso romanticismo di maniera che giustamente deve essere combattuto. Il nuovo, e Salvatore ce lo insegna con la sua opera, sta in una eterna pluridimensionalità del pensiero e dell’emozione, che non deve essere cercata in astratte dimensioni filosofiche o fisico-matematiche, spesso maldigerite o grossolanamente metabolizzate. Il progresso sta nella profondità dell’essere umano, infinitamente più estesa del cosmo di cui la piccola presuntuosa arrogante ragione fisico-matematica sta scandagliando la dimensione insondabile, paralizzata, nel suo fragile cuore logico, da strutture di cui non riesce a cogliere il senso alla luce dei modelli teorici che continua a concepire. Potrei a piacere entrare in tanti dettagli circa le contraddizioni tra la teoria dell’informazione quantistica e la relatività ristretta, la meccanica quantistica e la relatività generale, che si è cercato e si tenta di dirimere, ogni volta a prezzo di aprirne altre, moltiplicando la materia oscura dell’ignoto, che sempre più si dilata invece di ridursi alla luce dell’intelligenza analitica. Non è certo il mondo puramente intellettuale, sempre più algido e inespressivo, della tecnologia e della scienza su cui la nuova poesia vorrebbe affacciare lo sguardo e di cui vorrebbe essere testimone e interprete, la chiave della novità, nemmeno illudendosi di conquistarne la pluralità delle dimensioni diverse in chiave spaziotemporale.
    La poesia non può che riflettere l’imprevedibilmente ricca dimensione umana con cui il mondo viene filtrato.
    Ridurre l’emozione fino a farla sparire non può essere la strada giusta, e in questo la scienza non è in grado di insegnare niente alla poesia. Forse, anzi senz’altro, dovrebbe essere il contrario, e io ringrazio Salvatore per averlo fatto e per cercare di farlo ancora, nella sua inesauribile passione creativa, come io stesso ho tentato, nel mio vivere intellettuale-emotivo teso tra due modi diversi di sentire e pensare, di fornire, con i miei testi poetici e, perché no, anche i miei lavori teorici, una testimonianza autentica della luce e del buio che comporta essere creature capaci sia di pensiero che di sentimento, la cui scissione non genera che forme innaturali e potenzialmente disumane.
    Se questo si vuole, il rischio di far morire la letteratura e l’arte è chiaramente altissimo.

    • EVVIVA Claudio Borghi! Lei non ha idea come le sue parole, questa mattina, mi abbiano confortato e reso felice. Personalmente sottoscrivo ogni suo pensiero e il modo chiaro con il quale lei lo esprime. La scrittura criptica nasconde sempre qualche inganno. Così come la pratica della passione nelle idee e nel vivere stimoli solo la voglia di fuggire di fronte alle “teorie, al dividere e non all’unire”, negazioni di ogni libertà “in una dimensione interiore, in cui sentimento e pensiero si scambiano reciproco nutrimento”. Perché ci dovremmo imporre la “lateralità” nello scrivere e nel leggere? Nel privarsi a tutti i costi della “pluridimensionalità del pensiero ed dell’emozione” per dar posto alla “piccola presuntuosa arrogante ragione fisico-matematica etc.” se non è proprio morire dentro è l’autostrada alla depressione. Grazie, resto libera senza imprigionarmi nel registro del Nuovo a tutti i costi facendomi violenza: “ridurre l’emozione fino a farla sparire non può essere la strada giusta…essere creature capaci sia di pensiero che di sentimento, la cui scissione non genera che forme innaturali e potenzialmente disumane. Se questo si vuole, il rischio di far morire la letteratura e l’arte è chiaramente altissimo”. Voglio qui ripetere in una eco le sue parole. Grazie ancora Claudio!

    • Salvatore Martino

      Condivido, come spesso mi è accaduto nel tempo passato, totamlente il tuo pensiero, qui espresso in modo chiaro ed inequivocabile carissimo Borghi, non credo sia necessario aggiungere altra parola.

    • londadeltempo

      Carissimo Claudio,

      sono molto d’accordo con le tue parole che sono in piena sintonia con il mio pensiero: “La poesia non può che riflettere l’imprevedibilmente ricca dimensione umana con cui il mondo viene filtrato”.
      Però non credo che i veri poeti, a qualunque gruppoo tendenza appartengano, si lascino coinvolgere dall’utopia di un progresso scientifico senza fine al punto di tradire l’aspetto umano e spirituale.
      Il conformismo, il linearismo, il “letterario” preso a sistema trattengono chi ha paura del nuovo come se non fosse nel cuore stesso della natura e della realtà il movimenti di nascita-morte-vita: nulla può durare in eterno, ogni cosa ha una fine, ma nella fine già si intravedono i fiori del futuro che s’intrecciano sui rami dell'”albero della Vita”. Lasciamoci attrarre anche noiu da quei fiori…già da questi giorni d’inverno tutto il cosmo è in attesa
      della primavera. Noi poeti continuiamo a sognare – testa nelle nuvole- tanto è sicuro che, a farci posare i piedi per terra ci pensano le persone che vivono insieme a noi e…il resto del mondo!

      Mariella

  10. “Ho incontrato nel fondo di un oceano senza rive
    una macchia gelatinosa che copre il mio cervello
    e impedisce alla bocca di emettere suoni
    per trasmettere la condizione ultima
    questa monodia che ci pietrifica”

    Viaggi viaggi ed altri viaggi… Con tutti i miei libri impacchettati pronti per il trasloco, non posso aprire il libro di Martino, e scegliere i passaggi che più amo, attraverso 50 anni di poesia.
    Una cosa mi appare chiarissima: che Martino ha in mente, in poesia, il grande viaggio. E che la sua poesia poggi su fondamenta mobili, magmatiche. Da quel magma, da eruzioni fantastiche, a volte si ergono costruzioni di durissima pietra; altre volte i suoi versi tornano a fondersi e viaggiare. Questi ultimi, sono da me più amati.
    Ecco, leggendolo, in questi mesi, mi è parso di sentire sotto pelle la dimensione interiore di questo viaggio: come se egli avesse chiesto in eredità ai suoi amatissimi greci di poter continuare ciò che Ulisse, esausto, abbandonò. C’è il mito. E questo mito ha attraversato lo stivale mentre decine di piccole, insignificanti pseudo-rivoluzioni tentavano di dare assetti nuovi alla poesia, alla fine del secolo scorso.
    Allora certo, sono con Giorgio Linguaglossa: si chiede alla poesia italiana di aprire l’occhio/orecchio sigillato delle questioni estetiche… Aprirlo perché il linguaggio pretende di svezzarci, va avanti, e la poesia deve svecchiarsi, tremare e far tremare questo mondo, non altri mondi passati. C’è l’elegia, e spesso il rifiuto per i linguaggi “disarticolati”, come quelli, in musica, della musica dodecafonca e contemporanea, che tanto hanno spinto le altre arti a svecchiarsi. Su questo ho avuto modo di discutere a più riprese con Martino, e restiamo, credo, su posizioni divergenti.
    Però affermo che Martino, nel suo percorso furente, concreto, ha tirato una linea interna di coerenza. Ha continuato a credere nel viaggio, fino a volte allo smarrimento – coraggio nello smarrimento.
    Anna Ventura più sopra ha parlato di questa coerenza, che forse è la cifra più vigorosa di questi 50 anni in versi.

    Una nota a Mario Gabriele, perché davvero trovo questo suo articolo di gran pregio: ci dà modo di ragionare, in modo così aperto e vivace, proprio su un filo di lama. Due poeti, Gabriele e Martino, che hanno seguito strade così diverse, e che ci mostrano come ancora e ancora la poesia intessa invisibili trame tra tutti noi poeti.

    Nei versi che ho citato all’inizio della nota, sento il suo viaggio nella parola esprimere l’impossibilità a dire ciò che proprio la sua coerenza poetica gli sta suggerendo impossibile. L’essere parola-gelatinosa, la nuova realtà della parola. La parola che perde ogni riferimento a ciò che era, e ancora non ha preso sembianze definitive, angoscia il poeta, il suo viaggio che dura da tantissimo tempo.

    Vi chiedo venia se errori ci sono in questo mio intervento, scrivo su supporti non ortodossi, mentre trasloco! Ci tenevo però a lasciare una traccia.

    • Ringrazio Giorgio Linguaglossa nell’aver dato l’opportunità ai lettori dell’Ombra di conoscere la poesia di Martino con testi editi e inediti, scelti dall’Autore, oltre a quelli supplementari presentati da Talia. E’ stato un riscontro critico che ha visto nei pareri di Linguaglossa, Giancaspero, Rago, Borghi, Talia, Livia, Ventura, Vasile e Catapano un organigramma di pensieri mai conflittuale e ostativo: una giusta riconoscenza al lavoro poetico e cinquantennale di Martino, al di là delle proposizioni estetiche, teorizzate in questa sede su Spazio-Tempo, il Quadridimensionalismo: ecc.; fenomeni ugualmente necessari al pensiero poetico e alle tracce che esso può lasciare.La società globale si autoriforma con l’avanzamento scientifico, proprio perché è dominata dalla tecnologia. Nè è pensabile una stasi linguistica sul versante poetico, anch’esso bisogno di riformulazione.
      Grazie e cordiali saluti.

    • Salvatore Martino

      Dolcissima fresca acqua Chiara, che sempre fai tornare alla mia memoria l’amatissimo Petrarca. Hai colto alcune profondità magmatiche della mia poesia, e quel cordone indistruttibile, incancellabile, inalienabile che mi lega a double tour all’Ellade, ai suoi miti, alla sua storia, ai suoi deliri, a quella sete di conoscenza, che fa tentare un viaggio senza mèta, senza arresto, alla ricerca impossibile di un Vello d’oro, o del superamento di limiti segnati da colonne.Oggi il viaggio appare naufragato dentro parole gelatinose, come tu cogli perfettamente, in una dimensione che non è tragica(magari lo fosse) ,ma semplicemente paludosa, e questo si riflette costantemente, a mio avviso, anche nella limacciosa produzione poetica del nostro tempo. Il tentativo della NOeE di sottrarsi a questa deriva è certamente nobile e da incoraggiare, persino oltre i suoi “sbandamenti” fondamentalistici. e turbati da un dettato trippo rigooisamente, a mio avviso, legato a strutturazioni razionali a detrimento di una emozionalità e di una ispirazione creativa, che a mio avviso modestissimo, dovrebbero costituire parte fondante del discorso poetico. Sono orgoglioso che nonostante il trambusto di un cambiamento come quello traumatico dell’abitare, non ti abbia impedito di trasmettere il tuo contributo…vuol dire che mi stimi e mi vuoi bene.

      • londadeltempo

        Carissimo Salvatore,

        del tuo “Manoscritto trovato nella sabbia” ho parlato anche io…(ma non appaio) : è un’opera innovatrice, sia dal punto di vista della forma-linguaggio, sia dalla pregnanza dei significati che spesso si uniscono intimanìmente ai significanti, tanto che è impossibile analizzarli separatamente e il messaggio rimane misteriosamente legato al “desiderio” del lettore che lo insegue più dentro di te o di sé che in alcun altro luogo reale o metafisico. A proposito di “metafisica” è importante sottolineare che una delle tue novità non abbastanza sottolineate è la tensione metafisica che trabocca fino quasi ad esplodere in alcuni versi che andrebbero “ricontestualizzati” dalla critica. C’è, e chi può non vederlo almeno con gli occhi dell’ immaginazione, un’attesa del “nuovo”, un’attesa però protetta da una forma di pudore dell’intimità, che perciò non si manifesta platealmente o non viene organizzata in sequenze scenografiche, nonostante l’autore sia uomo di teatro. E da questa emblematica contraddizione (solo apparente) emana un aroma di vera novità, non certo diffuso tra i poeti italiani di oggi, clamorosamente autoreferenziali o tendenti a bypassare il problema delle origini di tutto, a comincare dagli organismi unicellulari fino all’essere umano.
        L’analisi di Mario Gabriele ha messo in chiaro il tessuto connettivo della tua opera, la libertà con cui ti muovi da Paund a Eliot e a tanti altri, contemporanei o no,che però non condizionano in alcun modo la tua scrittura che si muove dal passato al futuro e sfiora il presente senza toccarlo con l’ardore ontologico di chi beve e divora la vita per non permettere alla morte di suggellare la fine dei sogni.
        Mario Gabriele ha messo a fuoco l’intreccio funzionale tra i frammenti che bucano la pagina e la corsa, l’apertura “verso” “altro” e più in alto.
        E poi:
        “…L’immaginario e il realistico emergono come onde di un fiume in piena. Si ha a che fare con un magnetismo poetico. Ci sono grovigli di memoria per implosioni della materia mentale e psichica, scarti onirici dove il poeta ci si immerge per trovare un punto di sintesi e di armonia. A volte è una fuga dal quotidiano, altre volte è un ritorno ai micro-mondi evaporati. Non c’è ricorso all’utopia e agli universi extrasensoriali. Il suo linguaggio si presenta, in rapporto ai poeti della metà del Novecento, come strumento di innovazione rispetto alle tematiche della letteratura popolare…”

        Sono contenta di aver partecipato a questo interessante dibattito, caro Salvatore, e voglio ancora sottolineare la modernità e l’intensità de i versi tratti da “La fondazione di Ninive” con cui si è aperta la presentazione delle tue poesie sull’ “Ombra” di oggi. C’è l’insistente richiamo della morte, che però si nasconde tra visioni deliri e immagini di vitalità “onirica”:

        “….Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
        vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
        Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
        l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
        a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
        il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
        verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
        sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
        a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
        e il rammarico di non aver parlato e come potesse
        finire un’altra storia o soltanto impietrirsi nel ricordo
        Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
        di menzogne quando muti verranno col freddo piede
        di uccello l’unghia ritorta nella gola …”

        Però che ne dici, Salvatore? Se eliminassi i 4 “quando” nonamati dal Linguaglossa-pensiero, non credi che la forza straordinaria della poesia avrebbe ancora più risalto?
        Comunque ti auguro buona salute e tutta la gioia poetica-e-non che meriti per la tua appassionata ricerca culturale artistica e creativa.

        Mariella

        • Salvatore Martino

          Ti ringrazio carissima Mariella per le tue parole che scavano così profondamente nel mio dire poetico. e soprattutto per il passaggio che nomini sulla mia tendenza al metafisico, e per quella distinzione alla quale accenni tra me e i poeti contemporanei. Per quel che concerne il famigerato Quando non amato da Linguaglossa ti faccio notare che è per me assolutamente indispensabile la ripetitività dell’evento temporale che si dispiega in situazioni diverse e successive, una ossessione che altrimenti non risulterebbe così luminosamente chiara. passando dall’io al tu al noi. E spero che il tuo augurio finale mi raggiunga in questo squarcio di vita che ancora mi viene destinato.

  11. donatellacostantina

    Ecco alcune composizioni di un poeta ceco, Pavel Řezníček (1942) uno dei maggiori rappresentanti del surrealismo ceco.

    L’Ombra delle parole se ne è già occupata nel recente passato. Mi chiedo perché mai la poesia italiana abbia un registro stilistico così preventivato, giustificato, sembra quasi che ciascun autore scriva per essere capito e giustificato dagli altri poeti del proprio gruppo, nessuno sembra mai scrivere per gli altri, per il lettore che verrà. Di solito, la poesia italiana di questi ultimi decenni sembra non essersi mossa dal punto raggiunto dalla poesia del tardo Bertolucci, sembra omologa da un autore all’altro, anche a distanza di decenni.

    Ecco cosa scrive Pavel Řezníček della propria poesia: “Vedere le cose senza illusione e criticamente, aggiungendo umorismo, possibilmente nero”.
    Ecco qui, siamo arrivati al problema vero, quello delle “cose” e del modo con cui le guardiamo, e le scriviamo. Tutto qui.

    Pavel Řezníček

    Esser pancia

    Esser pancia
    O cappello
    Essere l’ombra di un cerotto
    Far ritorno nella piazzetta
    Uccidere il legno
    Uccidere il fuoco
    Uccidere la nebbia
    Col cappotto liso pulirsi gli occhiali
    E stupirsi della gravidanza della civetta
    sulla scatoletta della carta moschicida.

    (2001)

    Confessione di un funambolo

    La morte e l’uccello sono entrambi stupidi
    entrambi si scacciano col correggiato
    sull’immagine della Madonna di segale
    nel campo di segale il cerchio dell’atterraggio di un UFO (?)
    giunge Rajmund
    no non è Rajmund è un marabù
    che infilzavamo sulla centrifuga
    come pezzi di gyros
    o di giroscopio?
    qualche generale finlandese fa rapporto
    a Boleslao il Crudele
    ma ecco è un lucido sogno
    non c’è affatto un generale finlandese
    non c’è affatto Boleslao il Crudele
    ci sono soltanto vie
    dove si cuoce il sapone
    e i funamboli
    sono uccelli
    che si alzano in volo dalle palme dei palombari
    che sono appena emersi dal mare

    Pavel Řezníček

    Il dolce legno delle navi

    Un’ostrica bruna come New York
    Montoni aggraziati come abiti da sera con spalline
    Le spalle nude di scheletri di pesce
    Il tuo bottone, Dulcinea
    O gas della mia stufa
    Espressi intorno al divano
    Finestre chiuse soltanto durante il monsone
    Giganteschi aquiloni che si sentono sulla lingua
    Come granelli di frumento

    Poi si aprì l’armadio del ciclone
    I mandarini caricavano a polvere i cappotti
    Dalle fornaci dell’Austria
    Bigodini di carta nei capelli una corda
    sulla quale si tiene il vuoto
    L’espresso Vindobona
    Pertiche
    Lanterne
    Un caldo respiro granuloso che riscalda la pergamena
    Nel labirinto delle bottiglie
    Che scommettono su o la va o la spacca del guardaroba del granchio

    La lingua strappata al dott. Jesenius
    Si aggira per le cinte e intorno all’Europa.

    (2001)

    Pavel Řezníček

    Sala macchine del carciofo

    L’orichicco quel vecchio spilungone
    e il fruscio di banconote tra le mani delle ortiche
    qualcosa si allontana e qualcosa si adagia accanto a noi
    ai nostri corpi alla nostra cenere
    il silenzio della lampada e la meteora dell’asciugamano
    scompartimento sotto frane di pepe e arpione
    portavano la megera tutta di arance sbucciate
    e di piume di sparvieri che imbrattavano tutte le finestre del mondo
    è solo una vampata quella che balugina
    nella sala macchine del carciofo
    un fazzoletto gettato sul chimico
    che ispeziona la pancia del defunto Lévy-Bruhl
    Il Canale di Panama e l’incidente d’auto (o di flauto?)
    verga di nocciolo martelli pneumatici e la pazzia del pompelmo
    appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
    irreperibile dall’aprile del 1995
    è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
    Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
    334 41 Dobřany

    meteora dell’asciugamano gettato sul ring del destino
    un passante in lontananza di notte si soffia il naso su un globo di diamanti

    Pavel Řezníček

    La seppia pascola il ragno

    Portava sempre due sacchi
    Il cammello alla stazione
    Non dovresti credere a queste facce piatte come la pietra
    Prendi metà saccarina e metà caramello
    Il cucciolo di felino non lo si riconosce
    Quando finalmente inizierà la guerra?
    Tutto palpitante per il Modern Jazz Quartetto
    Due lanterne verdi due sigari verdi
    Fece amicizia con un uccello
    Portava sempre tre sacchi
    Ragni con cappelli in testa

    I ragni pascolano le seppie
    Le seppie pascolano le puttane
    Un cane micaceo picchiettava il muso
    Un fiammingo
    Le calze azzurro chiaro
    Portava sempre tre sacchi portava quattro sacchi
    Ma non le servì a nulla:
    Il martello di pietra centrava sempre in pieno
    La carriola
    Nella quale portavano
    la testa di Charles Bukowski

    Pavel Řezníček

    Le febbrili visioni di un surrealista: Omicidi, supplizi, macinatura in polvere di vivi…

    (Dedicato al compagno Štěpán Vlašín per la sua recensione del mio “Caldo”nel giornale comunista HALÓ)

    Nei boschi e durante la guazza
    flicorno cistifellea madreperla coltelli
    nel ricordo di colui che sforbiciava i giornali e faceva bambini dal formaggio
    inzaccherare l’occhio
    la calce porta la bicicletta
    nella calce farina nelle uova sangue
    la puzzola interprete della Luna
    non dovremmo leccare la stufa ogni musicante poi mescolerebbe con la carriola
    quello che non si deve svelare
    il lebbrosario di San Giacomo
    le grancasse sono in valigia qualcosa come frittate
    e gli schizzi di sangue dei tuoi seni rappresentano una marcita
    zeppa
    di segreti granchi e aragoste massacrati
    che confessano di essere aragoste
    e quello che è un fungo è cristallo e i funghi sono persone
    con la lingua perforata dal ferro da maglia

    Poi ridusse le persone vive in polvere
    e quei pochi assassinii che gli caddero dalle tasche erano un affare da nulla
    come i peli che crescono dal naso di Messerschmidt
    che era non solo professore
    ma anche un aereo fatto con la busta
    di plastica del latte
    Allora: quei pochi assassinii che erano un affare da nulla
    si trasformarono in pariglia di cani eschimesi husky
    e la città O. si trasformò nel condrosarcoma del dio Aion
    sì quello della grotta di Mitra
    dove si asciuga il bucato della trascendenza

    Ho due piedi, il cuore e la ragione

    Il negro dei miei piedi mi porge una rosa
    (fiorita tra le dita delle quali cinque
    digrignate come denti
    o come una previsione meteorologica
    si dà l’aria di un castaldo)

    Due cavalli un aratro e un aratore
    mi lavorano sulle dita

    Il più anziano monta lì una capanna dopo il lavoro
    Presto da lì uscirà del fumo
    Quando il fumo si poserà sulle mie ginocchia
    le gambe andranno in pezzi come un vecchio camino

    Dovrei lavarmeli più spesso
    ma preferisco bermi con gli ugonotti
    quella loro notte

  12. Trovo in queste poesie di Salvatore Martino la sofferenza dell’antico uomo greco posto nel tempo e nel luogo sbagliato. Mi è parso che il suo esistenzialismo e la tendenza all’elegia possano derivare da questo smarrimento, che non è di identità ma di contesto. L’uomo siciliano, il poeta Martino, colora le sue poesie con mare, limoni e notti incantate perché questo sa vedere e riconoscere. In passato credevo di scorgere nel poeta siciliano un certo narcisismo, un’eccessiva attenzione a se stesso, ma devo ricredermi: è tutto quel che gli resta dell’antico mondo. Una nota tragica, solitaria, nel dramma post moderno. Ma in queste poesie ho colto della novità; mi è parsa breve la successione delle immagini e avvertito nei versi una freschezza che non ricordavo; anche con qualche verso in chiusura davvero notevole.
    Il poeta Mario Gabriele arriva da un tempo diverso, proiettato dal futuro, ma i due potrebbero benissimo incontrarsi poi che a mio avviso sono vicini nella leggerezza espressiva, oltre che nella precisione; li separa il fatto che Martno è ancora legato al canto, mentre Gabriele è passato al volo. Il volo è assoluto presente libero di muoversi nel tempo. E comporta dimenticanza, essere vuoti… Ma per poter fare questo bisogna dotarsi di altra strumentazione, servono ali meccaniche quali la punteggiatura e un metro che non lasci troppo spazio al pensiero lineare, che è tutto ideale e immaginativo. Martino troverà la strada più bella per arrivare a se’ in questo nuovo mondo. Ringrazio la rivista e Mario Gabriele per averci offerto l’opportunità di poter assistere a questa trasformazione, di Martino, non lenta ma forse resa poco evidente proprio per quel trasporto emotivo che, per come scrive, a Martino secondo me potrebbe anche interessare meno.

    • Se mi sono espresso male è perché in questi giorni non riesco quasi a scrivere. Perdonate.

      • Salvatore Martino

        Caro Lucio certo mi fa piacere che tu abbia colto la nota tragica e solitaria che abita i miei versi. Che io sia ancora legato al canto o meglio alla musica che invade la poesia è incontrovertibile, lo è stato anche quando mi sono addentrato in una scrittura poematica e quasi prosastica, anche quando ho usasto un ipermetro nelle mie rivisitazioni epico o storico. Certamente ho frequentato anche la lirica, addirittura la forma chiusa e spaventosa del sonetto. Non mi sono mai posto il problema di essere o no moderno, di dovermi integrare in un movimento, ho semplicemente cercato di vivere la poesia secondo i miei dettami interiori, secondo la mia visione del mondo, secondo il mio consistere nel presente, magari col ritmo in testa del passato, e forse anche del futuro anch’esso irredimibile. Se poi alcuni vogliono etichettarmi come poeta elegiaco vuol dire che non hanno letto o forse non compreso il mio lungo cammino, fatto di estreme differenziazioni anche stilistiche. Mi sono evoluto insieme come uomo e come facitore di versi, cambiando sovente la mia pelle interiore e quella esteriore.Ti ringrazio per aver compreso che il narcisismo non abita il mio essere, ho sempre guardato al dialogo con L’Altro e gli Altri tra la soggettività e l’oggettività della vita. D’altra parte il poeta esprime sempre la sua propria visone del mondo, che ovviamente gli deriva dal suo io profondo o da quello coscienziale…in questo senso è anche ripiegato su se stesso e quindi in qualche misura anche narcisista. Credo fermamente che l’artista debba comunicare immagini ed emozioni, pensieri, e visioni, raggiungere l’anima o la mente e il corpo di un eventuale lettore. Come esplicitare il mistero della poesia è missione impossibile, quindi dettare regole precise è una fatica di Sisifo.

  13. letizia leone

    Questo profondo e interessantissimo inquadramento critico di Mario Gabriele ha avuto anche il pregio di stimolare una lunga argomentazione intorno a molti aspetti della poetica di Salvatore Martino. In oltre cinquant’anni di ricerca aperta a nuove soluzioni poetiche e stilistiche Martino ha sempre mantenuto saldo il senso della responsabilità della propria parola poetica. Allego qui una mia settoriale lettura della poesia di Martino riguardante il mito scritta tempo fa sotto la suggestione della Summa della sua poesia pubblicata dalle Edizioni Progetto Cultura con il caro augurio di una lunga stagione ricca di salute e creatività: RITROVANDO COL MITO L’AVVENTURA NEL QUOTIDIANO IN UNA SELEZIONE DI TESTI DA: AVANZARE DI RITORNO; LA TREDICESIMA FATICA; IL GUARDIANO DEI COBRA; LE CITTÀ POSSEDUTE DALLA LUNA; IL LIBRO DELLA CANCELLAZIONE; LA METAMORFOSI DEL BUIO.
    Dato per certo che il mito riveste un ruolo primario nell’organizzazione “poiètica” dell’opera in versi di Salvatore Martino, come testimonia la summa della sua ultima pubblicazione “Cinquant’anni di poesia 1962- 2013” (Edizioni Progetto Cultura, 2013), i testi qui selezionati ai quali l’autore stesso riconosce la peculiarità di “Ritrovare col mito l’avventura nel quotidiano”, corrispondono ad una qualità particolare dello sguardo, alla capacità di intravedere vita vissuta e quotidianità “al di fuori di qualsiasi relazione temporale”, sotto la lente dell’ eternità, direbbe Spinoza.
    Focalizzare il presente storico e individuale dalla prospettiva extratemporale del mito, significa sabotare la concezione lineare del tempo e rimettere in gioco quell’ordine “ideale e simultaneo che trascende la storia” sia nel senso in cui l’intesero i grandi poeti modernisti, in primis Eliot con il suo metodo mitico e la sua resa di senso “all’immenso panorama di futile anarchia che è la storia contemporanea”; sia più in generale nel riconoscimento di quella virtù sincretica, tipica delle folgoranti intuizioni poetiche, di radunare in un giro di versi, tempi, spazi e fatti lontani.

    “Quell’infinita trama dell’ieri, dell’oggi, dell’avvenire, del sempre e del mai” secondo la definizione di Borges è l’enigma assoluto del Tempo il quale si può definire solo per approssimazioni: “che cos’è allora il tempo”, si chiedeva sant’Agostino “Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so” per giungere alla certezza che soltanto il presente è realmente. “Il presente è la visione”.

    La profonda interrogazione poetica di Salvatore Martino, questo suo “Sedersi a decifrare il tempo” come recita il primo verso del testo di apertura, si avvale dunque dello specchio del mito greco, mythos: «qualcosa che si è raccontato un tempo, ma che per la sua stessa essenza è senza tempo, eterno!» (W. F. Otto)
    E, non a caso, i miti che in questi testi mantengono intatta la loro incandescenza di esperienza originaria, si rivelano frammenti di un dramma assolutamente contemporaneo. Il mito reso presente irradia le sue energie:

    Sedersi a decifrare il tempo
    in questo luogo di voci
    per monti della piena luce
    Sedersi in quest’ora di attesa
    al misterico luogo
    col sole declinato oltre la valle
    e il mare verso Itèa
    Qui venne Laio

    I miti, liberati dalla connotazione di exempla, rendono percepibili attimi ed eventi di un tempo altro, trascendente la successione temporale irreversibile.
    Segmenti di classicità che in una sorta di “presentificazione” mitologica creano spaesamento:

    Ora tra i mandorli cantano cicale
    a sera il muggito delle vacche
    flauti e cori il passo nella danza
    l’urlo selvaggio della Pizia
    Il dio non torna…

    I passi ricadono…
    Sopra il quieto procedere dell’anno…

    Qui non si vince più

    Anche la fisica contemporanea è ormai allineata su posizioni metafisiche quando arriva a definire il tempo pura illusione sensibile. Seguendo il ragionamento del fisico Carlo Rovelli “ogni percorso nello spazio, si porta il suo tempo. Non c’è un tempo, ci sono tanti tempi. Come faccio a tener conto del tempo tessuto da tutti questi percorsi tessuti che passano attraverso lo spazio? La soluzione, che è quella che i fisici usano oggi, è pensare che tutti questi percorsi tessano una superficie che si chiama lo spaziotempo…”
    Semplificando teoremi e ragionamenti, questo tempo è una superficie, “si curva, si piega, ha i buchi e ci sono le equazioni di Einstein che lo descrivono”, e non è assurdo formulare la tesi che il tempo che passa siamo noi con la nostra percezione del mondo.

    Proprio il mito ci avvisa di questo tempo particolare e dislocato. Tempo fondante della poesia sia che appartenga all’interiorità o all’immobilità dell’eterno, sia esso mondo interno archetipico, struttura profonda della psiche o esperienza storica e contingente.
    E forse proprio perché “il linguaggio è sempre d’indole successiva; non è capace di ragionare l’eterno, l’intemporale” come ci avvisa Borges nella “Confutazione del tempo”, allora non è strano pensare che possa soccorrerci il mito con la sua verità simbolica.

    Perché il mito ci suggerisce che non c’è un solo tempo ma ci sono tanti tempi. C’è l’attimo che ritorna, identico e necessario, come l’Ulisse di “Avanzare di ritorno” della potente evocazione poetica di questi testi.
    Si potrebbe affermare che il mito in Salvatore Martino è lo spaziotempo originario condiviso: la stessa rupe dove arrivò Laio, l’isola di Ulisse e lo stesso portico, il giardino, la stessa ora. Fatti omogenei dislocati sull’asse temporale.
    In questi versi l’eco della sconfitta e della rovina collettiva non risuonano più da una distanza infinita. Il tempo non è più una dimensione a compartimenti stagni:

    Non serve chiudere la porta
    ugualmente arriveranno i ladri
    gli uomini del regime
    l’ospite gli affettuosi amici

    ……………………………………

    Dove le tessere rompono il mosaico
    spartito in diecimila pezzi
    t’imbatterai in una giuria
    che rifiuta il perdono
    senza poter dimenticare
    i campi attraversati
    evitando cadaveri il filo spinato
    l’altoparlante ripete
    i nomi dei fuggiaschi

    …………………………………

    Nel vuoto che ti è concesso
    potrai correre lunghi tratti di strada
    senza incontrare amici
    Come il tuo cane ti sarà fedele il vento
    troverai da mangiare
    sui muri nei rifiuti
    qualcuno ti negherà dell’acqua
    costretto a uccidere e odiare
    altri ti laveranno i piedi
    Se il mito inteso come paradigma concettuale o modello archetipico secondo N. Frye ha esaurito il suo “dinamismo narrativo” cristallizzandosi in una “stasi tematica”, Martino rigenera dall’interno il meccanismo mitico caricandolo di personali sfumature emotive e spirituali, dell’energia vivificante del proprio vissuto mai stanco di seguire la traccia labile del senso e del canto.
    Una conciliazione profonda tra la parola della poesia e la vita perché il poeta è convinto con James Hillman (annoverato tra le molte frequentazioni e incontri con i grandi protagonisti della cultura del novecento) che le risposte estetiche siano risposte morali.
    In questo caso il controcanto mitico è il parametro che dà la misura del grave disagio spirituale del nostro “nulla di senso” e di certe malattie della psiche, è quella destabilizzante “mossa animica” di Hillman nella radura nichilista dell’esperienza moderna della perdita di senso. Una sorta di rianimazione dell’immaginazione come terapia dell’anima individuale e dell’anima mundi.
    Un mito singolare, dunque del quale è innervata l’intera ispirazione creativa di Salvatore Martino, che apre spiragli e brecce nell’infinita muraglia della storia universale: “…la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico.” (Borges)

    Dalla presenza millenaria di motivi psichici alla hybris tragica che affonda nell’oscurità dionisiaca dell’inconscio collettivo, l’immaginario mitopoietico di Salvatore Martino scaturisce da un intenso patire e irrompe nella sacralità di una dimensione rituale: lo spazio tempo teatrale, il palcoscenico, “l’arena simbolica di scontri metafisici” nella bella definizione del nobel Soyinka per il quale il teatro è un’arena, una delle prime che noi conosciamo, in cui l’uomo ha tentato di fare i conti con il fenomeno spaziale del suo proprio essere.
    Ulisse, Re Lear o Laio sono i protagonisti archetipici che hanno calcato le scene dei teatri del mondo insieme al poeta.
    Non sono proiezioni visionarie ma incarnazioni che abitano l’io, penetrano la dimensione quotidiana dell’artista in modo concreto.
    Vere incarnazioni “mitiche” trascendenti e immanenti, come dichiarano ad ogni verso queste poesie, poesie che sembrano appartenere ai processi catartici delle grandi tragedie classiche.
    Sedersi a decifrare il tempo
    in questo luogo di voci
    per monti della piena luce
    Sedersi in quest’ora di attesa
    al misterico luogo
    col sole declinato oltre la valle
    e il mare verso Itèa
    Qui venne Laio

    Ora tra i mandorli cantano cicale
    a sera il muggito delle vacche
    flauti e cori il passo nella danza
    l’urlo selvaggio della Pizia
    Il dio non torna
    Parole incise che la notte richiama
    si aspetta il vento prima del grido
    per l’auriga che vince

    I passi ricadono
    brume si fondono al cielo
    il viaggio sale
    l’urto di nuvole spezzate
    Non c’è risposta
    Sopra il quieto procedere dell’anno
    i pini cadono

    Qui non si vince più.

    • Salvatore Martino

      Letizia dolcissima creatura del profondo, non posso aggiungere alcuna parola a quanto splendidamente hai esternato in codesta tua lunga nota sul mio appartenere al mito. Hai colto, tra le tante individuate, la nota fondamentale: quell’insinuarsi profondo del mito nel quotidiano, quello scardinare il tempo, facendolo scivolare nell’eterno. Certo la lezione di James Hilmann e di Bernard e di Bianca Garufi, da me frequentati , mi ha rivelato mondi che le letture di Jung, di Graves, di Kereny mi avevano suggerito in parte. Apollo, Dioniso, Pan e gli eroi del mito ci guidano, ci illuminano, ci perseguitano, ci condannano oltre le nostre volontà. Estrema gratitudine da un poeta tacciato di essere tradizionale ed elegiaco.

      • Giuseppe Talia

        Caro Salvatore, sai la mia stima e il mio affetto, però devo dirti che faresti bene ad accettare che tu sei un poeta tradizionale ed elegiaco. Più volte , in questi ultimi tempi, ti ho suggerito di scavare più a fondo, di andare oltre te stesso, hai dalla tua parte armi severe, intellighenzia, lingua forbita, cultura, autoanalisi, vita vissuta, ma forse, secondo me, e to lo dico da amico e confidente, dovresti rimettere tutto in discussione. Che rimanga la musica nei tuoi versi, quella sì, ha un valore altissimo, ma dai terra alla terra, incazzati veramente qualche volta, contro tutto e tutti.

  14. griecorathgeb

    Re: On Salvatore Martino

    Se avessimo una esperienza del mondo che va oltre quella della nostra effettiva età; se avessimo più fede nella intrinseca nobiltà dell’essere umano; se non fossimo orfani di una cultura sfasciata, ma fossimo invece fortemente convinti che in ultima analisi la civiltà e i suoi valori vinceranno su tutti i tentativi di liquidarla – se tutte queste cose fossero, allora, accipicchia, vorremmo scrivere come Salvatore Martino.
    Salvatore Martino è sì, la nemesi (quella astronomica, badate, non l’altra!) della NOE: ne è la musa “altra”, la musa “sommersa” che sentiamo parlare di là dalla parete, e dire cose indicibilmente belle e autorevoli che vengono vicinissimo a noi, poi di nuovo si allontanano. Ma che intanto, possono ispirarci, e darci un senso preciso di quello che “non siamo” di quello che “non avremmo potuto essere” – ma inteso nel senso più forte e più partecipativo e più fraterno. Nel senso più bello, e forse anche struggente, di questo “non poter essere”.
    Forse sono solo pochi anni, dicevo – quei dieci, quindici anni in più o meno – che fanno tutta la differenza. Ma intanto la voce di Salvatore Martino è a modo suo vicinissima alla NOE, e noi lo salutiamo commossi.
    Perché esiste il negativo della fotografia. Ed è toccato a noi in questi tempi studiare il modo, anche misterioso, in cui la fotografia della realtà del mondo “non è”; in cui la concretezza delle cose “non è”; come, nel nostro tempo, sia questione dell’ombra delle parole e non delle parole stesse, del fantasma dei significati e non dei significati stessi. Solo così, forse, esiste un possibile percorso per la poesia del XXI secolo.
    Conosco benissimo gli antecedenti di Salvatore, li sento in ogni mia fibra: sento la sua Grecia, sento Lawrence Durrell e Patrick Lee Fermor, sento lo stupore che entrambi abbiamo vissuto per il viaggio e la scoperta, per Termessos sui monti del Tauro, sento la sua profonda fiducia nella (quasi) eternità della civiltà mediterranea.
    Quale può essere una mia risposta alla grande poesia di Martino, che pian piano sto leggendo nel volume 50 Anni di Poesia che il poeta stesso mi ha donato pochi mesi fa? Quale risposta alle sue ultime poesie in questo post, che rompono nuovi argini, vanno avanti imperterrite alla ricerca del Vello d’Oro?
    Non amo mettere mie poesie nei commenti, ma questa volta cedo anch’io, ed ecco la mia risposta, del 1989, che indica in modo preciso, quasi analitico, dove sta la biforcazione nella strada, quella che ha fatto andare Salvatore Martino in una direzione, mentre io ho preso l’altra. Non devono i poeti parlarsi tramite la poesia? E allora leggete qui. (Ma rimaniamo vicini.)

    L’UOMO E LA MUSICA

    Avrei benissimo potuto fermarmi
    nel mondo irraggiungibile della musica:
    nel mondo di Schubert, di Schumann, di Mozart.

    Quanti andarono sicuri oltre quel punto,
    scendendo nella pianura
    turbinante cumuliformi e futuro.
    E quando furono da tempo incamminati,
    la strada si alzò come una frusta
    e li colpì furibonda
    li disperse come polvere al vento.
    I più scomparvero
    i sopravissuti
    tornarono trascinandosi pesanti,
    irriconoscibili: non rivolti in avanti
    né più in grado di immaginare il passato.

    Lui non volle affrontare quel viaggio,
    rimase di qua dal maestoso colonnato
    sotto il cielo sempre sgombro, azzurro,
    dove sospira e si espande quella sognante sonorità
    e il crepacuore filtra sottile
    attraverso gli spessori vivi delle immagini.

    Rimase a lungo nella musica:
    fino ad amarla sopra ogni cosa, fino
    a immedesimarsi in lei.

    Fu lei un giorno a rompere il suo vaso angusto.

    Dopo lunghi anni tutto di nuovo si avvicina
    e quel che lui aveva in animo
    rivela la dimensione asferica,
    suona oltre i colonnati e le architetture.

    Adesso riconosce in sé l’asferico esistere.

    1989

    • Salvatore Martino

      Ho letto e riletto il tuo delirante, straordinario, meraviglioso, commento(al diavolo la condanna dell’aggettivazione anche da me perseguita), vorrei impararlo a memoria. E che dire dei versi che mi hai cortesemente dedicati?” Facilmente i poeti si riconoscono tra loro, non dalle parole che abbagliano la gente comune, ma da semplici gesti”, diceva Ritsos: ecco il gesto tuo di donazione poetico ci accomuna e ci riconosce. Certo la stratificazione comune ellenica e mediterranea contribuisce in maniera essenziale ad una sorta di sotterranea comprensione. E poi la musica che citi , tre miei adorati , mi fa comprendere meglio come essa abiti i tuoi versi, come i miei,e sia imprenscindibile dal momento poetico, qualunque sia la strada estetica che si voglia intraprendere. Siamo saliti entrambi all’imprendibile Termessos, forse entrambi abbiamo bevuto un ritmo di solitudine sulle gradinate del teatro o passando sotto la porta di Adriano. Mi piacerebbe moltissimo che la mia lunga esperienza di poesia possa suggerire a voi più giovani una sorta di cammino, non dico alternativo, ma che racchiuda anch’esso qualcosa che valga la pena di indagare. Come tu stesso affermi la poesia deve unire non dividere: le esperienze degli altri sono linfa vitale, che non può né deve essere ignorata- “E noi lo salutiamo commossi”…devo imparare a memoria.ripeto, alcune tue frasi, perché possa ripetermele mentre scivolo nell’oscurità del mio mattino.

      • Giuseppe Talia

        Ecco, come volevasi dimostrare. Se Greco m’avesse dedicato gli stessi versi che ha dedicato a te, caro Salvatore, io mi sarei incazzato come una belva, non contro Grieco, ma con me stesso, e avrei distrutto il mondo, il mio, o quello che in me appare.

      • griecorathgeb

        Caro Salvatore, siamo entrambi ashik, no? La parola viene dal persiano ishk, amore (sacro, profano e tutto il resto che si vuole), quindi aşık, per dirla in turco, è colui che ama, e per amare il mondo, scrive poesia. Insomma, è il poeta. Ed è anche il poeta-viandante che vaga per tutta la vita cercando quello che non troverà, ma diavolo, i mercati del mondo nascondono ogni sorta di tesori. In tutte le epoche.
        Questo, sì, ci accomuna, caro Salvatore.

        • griecorathgeb

          Salvatore Martino con l’immagine potentissima.”mentre scivolo nell’oscurità del mio mattino” evoca ciò che sembra perso, ma non si perde mai.
          Talia capovolge tutto con un’immagine egualmente potente: “avrei distrutto il mondo.” Quanta verità c’è in questo.
          Evcharistò a tutti e due.

          • griecorathgeb

            Non so se qualcuno è interessato ad una music ashik: se lo fosse, c’è questo: https://www.youtube.com/results?search_query=ABUZER+KARAKO%C3%87+Gidin+s%C3%B6ylen
            In realtà questo cantare-vagare-cercare per le pianure smisurate della Cappadocia porta ad una comprensione più interna di quello che è la poesia, di quello che la poesia vuol operare nell’animo dell’uomo. Perché scavando così in profondo a se stessi e al proprio mondo, si capisce che quello che si era creduto il fondo roccioso della civiltà, del proprio essere, della potenza delle parole, in realtà si apre e di colpo sprofonda più giù ancora. Finché un giorno non si cerca più la profondità. Allora nasce la poesia.

  15. Lettera al poeta Salvatore Martino
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/02/02/salvatore-martino-poesie-sintesi-critica-su-autoantologia-cinquantanni-di-poesia-progetto-cultura-2014-pp-1000-e-25-presentazione-critica-di-mario-m-gabriele/comment-page-1/#comment-30687
    caro Salvatore,
    la tua poesia mi suona familiare (per via dell’elegia così usata ed abusata dalla poesia italiana degli ultimi due secoli) ed estranea (per via appunto di quella medesima elegia verso la quale non mi riconosco più), e di questa estraneità e familiarità io ho deciso da tempo di prendere le distanze, di disabitare questa distanza, di dimenticare l’elegia, e dimenticare l’innica per voler, più prosaicamente, abitare il «discorso poetico» di cui ci ha parlato Osip Mandel’stam negli anni venti del novecento, un discorso che verta sulle «cose» e intorno alle «cose»…

    Scrive Steven Grieco Rathgeb:
    «Forse sono solo pochi anni, dicevo – quei dieci, quindici anni in più o meno – che fanno tutta la differenza. Ma intanto la voce di Salvatore Martino è a modo suo vicinissima alla NOE, e noi lo salutiamo commossi».

    E non posso che condividere. Sono a mio modo vicinissimo a Salvatore Martino e, allo stesso tempo, lontanissimo, anche se sono coetaneo di Steven, quei dieci anni che mi dividono da Salvatore sono un abisso.

    Sono nato e vissuto nel tedio di dio, nella sua ammutolita e fragorosa assenza e mancanza di parola… quel tedio e quella mancanza di parola ce l’ho addosso come carta moschicida…

    Margherita Guidacci (1921-1992) poteva ancora scrivere:

    «Dio mi ha chiamata ad arricchire il mondo» nel 1970.

    Io purtroppo non ho questa vocazione, non sento alcuna chiamata nello scrivere poesia, so con certezza che dio non esiste, che è una proiezione umana ed un comodo alibi… Sono lontanissimo da Salvatore Martino perché lui è tutto all’interno all’elegia mentre io ne sono completamente al di fuori, sono lontanissimo perché non ho alcuna fede nella poesia, neanche nella mia, né in quella degli altri… non so se questo può essere chiamato nichilismo e neanche mi interessa…

    caro Salvatore, non è mai troppo tardi, getta a mare tutta la zavorra dell’elegia che appesantisce la tua poesia e diventerai grande. Solo questo posso dirti.

    • Salvatore Martino

      Ma insomma dove vedete quest mio essere terribilmente elegiaco?: Ripeto avete letto davvero tutta la mia produzione poetica,la quale certamente contempla il coté elegiaco, ma non ne fa la condizione di prevalenza? Direi che affiora qua e là ma senza una invasione come si vuole far credere.

  16. griecorathgeb

    Caro Giorgio, ti capisco. Ma io non sarei così estremo.
    E’ più interessante vedere le somiglianze e le differenze fra il grande Salvatore Martino e un poeta che si riconosce in, o comunque ha affinità con, la NOE.
    Constatare come quel poeta spicca il volo in un’altra direzione, sì, certamente : ma è più interessante vedere come spicca il volo punto e basta. Come lui sceglie di farlo.
    Il confronto, anche quando sembra impossibile.

  17. antonio sagredo

    Nelle sue “stanze” Martino Salvatore ci mostra una “poesiateca” così diversificata (poesia svariatissima di svariatissimi poeti ) che altri poeti, come mi è stato detto e giustamente, se la sognano. Una diversificazione che mi sarebbe piaciuta molto più estesa verso i poeti slavi -, ma comunque una dilatazione vitalistica dei sentimenti e dei temi – che a tratti mi lascia interdetto anche per la chiarezza della esposizione, e non solo filologica, ma strutturale.
    Dunque dice bene Steven-Grieco che è come se Tu si trovassi all’interno di una elegia per smaltire i sentimenti – anche i controsentimenti! -, centellinarli forse sarebbe meglio proprio per la fede che hai nella poesia…
    …di saperla educare attraverso la conoscenza singolare, e personale l’hai avuta, che hai dei poeti – non solo quelli che hai conosciuto nel secolo trascorso e che sono di altissimo livello – specie quelli conosciuti dai libri che a me paiono essere più vivi e vitali ( e in questo m’assomigli un poco)…
    e qui subentra la Tua appassionata sensibilità e finezza d’intenti… insomma, caro Martino, non so cosa dirTi…. che mi manca la parola – proprio a me! – e che Tu possiedi anche teatrale poiché godetti tantissimo della Tua lettura dei miei versi!
    E con questo finisco, perché sotto casa mi stanno facendo non so se una serenata o una pernacchiata!

    • Salvatore Martino

      Rispondo soltanto ora al tuo commento caro Sagredo ma il tempo è tiranno, non alla maniera greca purtroppo, e la salute di un vecchio lo costringe a pause e ripiegamenti. Hai posto l’accento su alcune direttive del mio fare poetico e di questo ti ringrazio, e dello scivolamenti nel teatrale , che mi appartiene anch’esso. La dedizione maniacale alla poesia ci accomuna, anche in una apparente lontananza stilistica, ma il fuoco, il sangue ci contagiano entrambi.

  18. da Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e Lacan – Nóema, 4-1 (2013) http://riviste.unimi.it/index.php/noema 167

    …nel Seminario VII L’etica della psicoanalisi (1959-60). La problematica
    che abbiamo richiamato emerge chiaramente con quello che è il concetto centrale di questo seminario, ovvero das Ding, la Cosa. Lacan ricava questo termine da Freud, che con esso indicava l’oggetto di un primo mitico godimento, di un soddisfacimento pieno e impossibile; oggetto quindi che è essenzialmente perduto, ma la cui perdita lascia una traccia nell’apparato psichico del soggetto.

    Lacan valorizza il termine caricandolo di una serie di connotazioni e gli conferisce così un ruolo strategico. Lo si può osservare già richiamando alcune delle numerose espressioni utilizzate da Lacan per caratterizzare la Cosa e che permettono di cominciare a delinearne la funzione e lo statuto: «È attorno al Ding come Fremde, estraneo, e talvolta anche ostile, ma in ogni caso come il primo esterno, che si orienta tutto il percorso del soggetto»40; «Altro assoluto del soggetto» [41]; «Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato» [42]; «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung»43; «Das Ding, infatti, è proprio al centro nel senso che è escluso. […] Questo Altro preistorico impossibile da dimenticare […] che mi è estraneo pur essendo al centro di me» [44]; «interno escluso che […] si trova così escluso all’interno» [45];
    «fondamentalmente velata» [46]; «quel luogo centrale, quell’esteriorità intima, quell’estimità che è la Cosa» [47].

    Das Ding sta dunque a indicare qualcosa di essenzialmente estraneo (in
    quanto straniero e straniante, non in quanto indifferente) per l’esperienza
    dell’io: è il primo esterno, l’altro assoluto del soggetto, che rimanda a un tempo letteralmente «preistorico», anteriore a tutta la storia del soggetto, in quanto passato primordiale che non è mai stato presente. Questo «altro» è quindi irriducibile anche alla dinamica del principio di piacere, alle leggi dell’inconscio strutturato come linguaggio, così come all’ambito del significato, all’esperienza come totalità di significati per un soggetto: la Cosa è «fuori significato». Che la [40] J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 61.

    Cosa sia un’estraneità radicale non significa tuttavia che essa non riguardi il soggetto o meglio che il soggetto non sia riguardato da essa: proprio nella sua estraneità la Cosa condiziona in modo decisivo il soggetto, diventando il centro di gravità attorno a cui ruota tutta la sua attività inconscia, rappresentativa e linguistica; un centro che tuttavia non è esso stesso rappresentabile, non si dà come tale, rimane velato. Da qui le espressioni ossimoriche e paradossali che Lacan è condotto a utilizzare, come «interno escluso che […] si trova così escluso all’interno» ed «estimità»: la Cosa è simultaneamente esteriorità e intimità, è un’esteriorità e un’alterità intima al soggetto, e questo significa che quel che è più intimo al soggetto si rivela essere un’estraneità radicale ad esso. La Cosa non è «centro» in quanto fondamento, perché questo centro è essenzialmente un vuoto: l’esperienza del soggetto si struttura e si muove attorno a un vuoto, che, alle spalle di esso, ne calamita e mette in movimento l’attività rappresentativa e quindi il desiderio.

    Questo rimando al vuoto ci conduce al secondo riferimento essenziale
    che Lacan richiama nella sua analisi della Cosa, vale a dire la famosa conferenza di Heidegger intitolata precisamente Das Ding, La cosa, tenuta nel 1950 [48].

    Heidegger pone qui la questione semplice e insieme decisiva «che cos’è una cosa?», «in che cosa consiste la cosalità delle cose?», cercando di pensare il darsi della cosa al di qua delle categorie scientifiche, ontologiche e metafisiche tradizionali: la cosa come oggetto rappresentato per un soggetto, come sostanza, come risultato di una produzione, come materia fisica quantificabile. Heidegger sviluppa la sua analisi con l’esempio della brocca e si chiede che cosa faccia della brocca una brocca, cioè innanzitutto un recipiente che contiene e in cui possiamo versare qualcosa. La parete e il fondo della brocca sono ciò che impediscono al liquido di uscire, ma non sono ciò che propriamente realizza l’atto del contenere:
    Quando noi riempiamo la brocca, nel riempimento il liquido fluisce
    nella brocca vuota. È il vuoto ciò che, nel recipiente, contiene. Il vuoto,
    questo nulla nella brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che
    contiene [49].

    È il vuoto che propriamente riceve il liquido e che fa della brocca un
    recipiente. Il vuoto, «questo nulla nella brocca», struttura la brocca come tale: la brocca, in un certo senso, è il proprio vuoto. Il vasaio che crea la brocca, allora, propriamente non fabbrica la brocca, né si limita a dare forma all’argilla: egli dà forma al vuoto. Per esso, in esso e da esso egli foggia l’argilla in una forma. Il vasaio coglie [fasst] anzitutto e costantemente
    l’inafferrabile [das Unfassliche] del vuoto e lo produce come il contenente
    [das Fassende] nella forma del recipiente [Gefäss]. Il vuoto della brocca
    determina ogni movimento della produzione. La cosalità del recipiente non risiede affatto nel materiale di cui esso consiste, ma nel vuoto, che
    contiene [50].
    Indicando il vuoto come ciò che rende la brocca quel che è, Heidegger
    non si limita a operare uno scarto rispetto a una comprensione scientifica o
    comune della cosa. Il vuoto è un «nulla nella brocca» e questo significa che quel che fa essere una cosa non è a sua volta una cosa, non è dell’ordine dell’ente, ma è l’altro dall’ente e da ogni determinazione oggettiva: il nulla, di cui il vuoto è qui una figura.

    41 Ivi, p. 62.
    42 Ivi, p. 64, corsivo nostro.
    43 Ivi, p. 67.
    44 Ivi, p. 84.
    45 Ivi, p. 119.
    46 Ivi, p. 141.
    47 Ivi, p. 165.
    48 M. Heidegger, Das Ding, in Id., Vorträge und Aufsätze, HGA 7, 2000; tr. it. di G. Vattimo, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 109-124. Sul rapporto Lacan-Heidegger a proposito di questa tematica cfr. M. Recalcati, La Cosa e la verità. Attraversare Heidegger, cit.
    49 Ivi, p. 112.
    50 Ivi, p. 113

  19. antonio sagredo

    ma la filosofia da tempo ha fatto un passo indietro: la Poesia non sa cosa sia il passo.

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