LA POESIA ESISTENZIALISTICA di Alberto Bevilacqua (1934-2013) Piccole questioni di eternità, Einaudi, 2002 – con un Commento impolitico di  Giorgio Linguaglossa

Foto Musée D'Orsay

la mia anima dov’è andata a finire,
l’avevo qui, poc’anzi…

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Queste «poesie di una vita», scritte da Alberto Bevilacqua durante la sua maturità di narratore, sono una esperienza poetica del tutto personale. Forse soltanto un narratore poteva scrivere delle poesie così intime senza cadere nel minimalismo e nel privatismo; soltanto un narratore poteva liberarsi dell’armamentario retorico senza ambascia. La scrittura di Bevilacqua è attaccata alla «cosa» che vuole significare. Il referente riveste una grande importanza. Un altro elemento significativo risiede nell’essere una poesia aliena da qualsiasi precettistica sull’oggettistica degli interni o preziosa ironizzazione del testo. La poesia di Bevilacqua ha abbandonato le forme stereotipiche, non impiega retorismi stranianti, le mosse da cavallo di sklovskjiana memoria sono assenti.

Ecco una dichiarazione di poetica già fin dalle prime pagine di apertura del libro: «Il sapere non è che una grafia / con cui ciascuno nasconde ciò che sa». La poesia per Bevilacqua è uno scandaglio puntato verso le zone oscure dell’esistenza, una sonda gettata tra i misteri della nostra «eternità». L’autore si chiede che cos’è l’«eternità» e se veramente l’uomo contenga in sé una particella di essa; questione non oziosa. Bevilacqua ha voluto consegnarci una specie di manuale di «piccole questioni di eternità», in formato ridotto e abbreviato, giacché ognuno di noi ha il proprio bagaglio di «eternità» da custodire.

 È utile  leggere uno dei primi scritti poetici per confrontarlo con l’ultima composizione contenuta nel libro per poter verificare l’omogeneità interna tra i due scritti, come dire, l’assenza di sviluppi stilistici:

Compleanno

la mia anima dov’è andata a finire,
l’avevo qui, poc’anzi,
fra male di testa e pillole,
qualche foglio appuntato,
forse ha scoperto che oggi ho
un anno in meno da vivere
(gliel’avevo occultato per prudenza)
o forse è stato
il vento di marzo, o i seccatori
che vanno e vengono, qualcuno
cleptomane di libri e cose inutili.
Che sia nei paraggi è indubbio,
faccio una confusione
di posta inevasa, reclami di pagamento, cartoline
d’amore, per cercarla, invano

*

L’ultimo congedo del dio subalterno

… tenetemi sul cuore la vecchia
lettera di famiglia
mai spedita, mai scritta,
per pura tentazione
tenetemi serenamente anche contro
coscienza,
contro natura,
sono così poca cosa:
uno per voi esistito
nient’altro, eppure
tanto e per tanto da scrivergli
senza destinazione

il mio esilio è ovunque
in me più che altrove

…E adesso vi lascio e vorrei mettere la data
ma non ricordo che giorno sia
non ricordo più il tempo – credete –
non riesco
più a vedermelo alle spalle il tempo
…perdonatemi questa inezia,
l’importante è che io vi abbia amato,
vero? O che almeno vi abbia conosciuti,
spero, almeno una volta: rispondetemi al riguardo
rassicuratemi

Foto Amelie

il mio esilio è ovunque / in me più che altrove

In entrambe le composizioni il tono, tra l’ottativo-colloquiale e l’assertivo-riflessivo, è il medesimo, medesimo l’impianto affabulatorio, l’uso degli incisi a spezzare il fluire del ritmo del discorso, gli incipit che irrompono di sghembo, come in scorcio, per permettere di progredire dentro il punto di latenza della progressione sintattica per gradi successivi, per successivi approfondimenti della progressione verso il punto oscuro. È evidente che in queste poesie la verità («che ci scruta dal fondo del suo specchio»), le “piccole questioni di eternità”, abitano il dettaglio, le fessure dell’anima, gli interstizi di oscurità.

 Possiamo dividere i poeti del Novecento in due categorie: quelli che intellettualizzano la poesia che hanno ricevuto in comodato d’uso dai predecessori, e coloro che operano invece una dis-intellettualizzazione. In quest’ultima tipologia rientra sicuramente Alberto Bevilacqua. In una sana vita letteraria occorrono entrambe le categorie. Al primo tipo appartengono poeti quali ad esempio Sanguineti e Zanzotto, essi operano una introduzione di scritture allotrie nel corpo della tradizione stilistica, arricchiscono il corpus lessicale e semantico della koiné linguistica ereditata, aprendo così maggiori spazi e possibilità espressive alla poesia. Che poi questi spazi si siano effettivamente “riempiti”, è un altro discorso; ciò che appare come una potenzialità non è detto che si traduca sempre in atto.

È noto che l’apertura lessicale e semantica introdotta da Sanguineti con Laborintus (1956) e Zanzotto con La Beltà (1968), si sia tramutato nella loro produzione poetica posteriore, in “chiusura” lessicale e semantica, più o meno a partire già dalla fine degli anni Settanta. Le proposte di poetica sono come delle automobili, all’inizio hanno lo sprint della giovinezza del motore, ma quando il motore accusa usura e la meccanica vecchiaia, la macchina perde di potenza.

La poesia di Alberto Bevilacqua opera una stabilizzazione del linguaggio poetico convertendolo in narrativo, svolge una funzione stabilizzatrice. Dopo una generazione di decostruzione dei linguaggi poetici, ecco che interviene una generazione che agisce da stabilizzazione, da controspinta, da contrappeso nei confronti dei linguaggi poetici precedenti.

Una poesia narrante, fortemente ancorata al piano narrativo con reminiscenze dei luoghi memoriali come questa di Bevilacqua, rientra perfettamente nel quadro di ricomposizione delle tensioni antinomiche che hanno agitato le soluzioni linguistiche degli ultimi due decenni del secolo trascorso.

Strilli Tranströmer 1Strilli Talia la somiglianza è un addioScrivevo in Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (Società Editrice Fiorentina, 2013):

Possiamo definire Piccole questioni di eternità (2002), Tu che mi ascolti (2005), Poesie alla madre (2005), Duetto per voce sola (2008) e La camera segreta (2011), di Alberto Bevilacqua come un genere di discorso poetico privo di interlocutore. Qualcosa di non dissimile da un discorso segreto che si stabilisce tra due interlocutori che si trovino in una camera d’albergo, in una residenza di passaggio, in un luogo di transito, al tavolo di un bar o in uno scompartimento di un treno in corsa. Un discorso segreto che si sviluppa come monologo che l’io rivolge a se stesso. Che cos’è il monologo? In che senso e entro quali limiti si può dire che si è in presenza di un monologo? Che differenza c’è tra, mettiamo, il monologo della poesia di un Bevilacqua e quello del Montale di Satura? (1971). Bevilacqua smobilita il tono understatement alto-borghese di Montale: quello che rimane è l’ossatura di un colloquio «segreto» con se stesso; un colloquio intenso, vibrante, fitto di retro pensieri, di quasi pensieri, di frasi forse pronunciate o immaginate. Ma che significato ha parlare oggi di discorso poetico così come si è configurato nel corso del secolo scorso? Ci sono delle differenze? Possiamo affermare che il discorso poetico del secondo Novecento è stato quella particolare «forma stilistico-simbolica» che ha abbozzato un «discorso sulla verità»? (discorso sulla menzogna dell’arte, sulla finzione, sulla rappresentazione della verità, sulla messa in opera della verità, etc.). Di fatto, con lo scorrere del Novecento, quel discorso poetico che si fondava sulla illusione di contenere al suo interno un messaggio, si è rivelato per ciò che era: una illusione. Già Mandel’štam negli anni Dieci del Novecento scriveva e teorizzava una poesia senza interlocutore, una poesia senza messaggio, o meglio, con un messaggio segreto, scritto in una lingua sconosciuta o dimenticata, messo in una bottiglia abbandonata nel mare. Mandel’štam scriveva «poesie da camera» come lui le chiamava, predicendo che il lontano futuro della poesia sarebbe stato scrivere «poesie da camera».

La poesia degli ultimi venti anni di Bevilacqua sta, in rapporto ad opere «storiche» come Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini e con La ragazza Carla (1962) di Elio Pagliarani, in una posizione di triplice svantaggio: primo perché è venuta meno l’istanza ideologica; secondo, perché è venuta meno l’istanza sperimentale; terzo, perché quella Modernità che allora era agli albori, agli inizi della rivoluzione industriale, oggi è palesemente un attrezzo da museo della belle époque. Il poeta romano prende congedo dalla poesia del Novecento con tutto il suo prezioso carico di possibilità inespresse e intermesse. Che per grado di consapevolezza e livello di elaborazione formale la poesia di Bevilacqua segni una svolta significativa rispetto alla propria e altrui precedente poesia, credo sia fuori di dubbio.

Con l’ingresso degli anni Novanta, la generazione dei poeti nati prima del 1950 acquisisce una consapevolezza più profonda e complessa delle ragioni della crisi del discorso poetico, e ne trae le dovute conseguenze finanche rispetto al tempo recentissimo in cui l’egemonia delle poetiche maggioritarie che facevano capo al «minimalismo» ci squadernava il racconto delle ambasce e delle ambiguità «ottiche» dell’«io» in un linguaggio riconoscibile: nella sostanza, turistico.

I titoli dei libri di Bevilacqua: Duetto per voce sola, Tu che mi ascolti, La camera segreta designano l’ambiguità e l’impenetrabilità di una voce geroglifica, che si esprime in un «duetto», duale, interna; ma non ci si lasci trarre in inganno dal titolo, in verità si tratta di un monologo, un monologo ulteriore, che proviene da una proroga temporanea, l’ennesima, che viene dopo la galassia di parole del quotidiano. Un soliloquio che si sdoppia e si disarticola e si pone come discorso di tesi ed antitesi, solenoidale, come duellanti e coreuti che allignano nella stessa dimensione atopica e anomica, giacché, inutilmente qualcuno cercherebbe di rintracciare tra gli interstizi e i lemmi dei «duetti» poetici di questa poesia una qualche comunità di luogo e di «destino», concetto da prendere con le molle trattandosi di una poesia che esula da quello analogo di molta poesia «destinale», un po’ di maniera e artefatta fatta negli ultimi due decenni del Novecento. Possiamo dire che la poesia di Duetto per voce sola abita una lingua anomica di una zona franca: una lingua che non paga alcuna franchigia né alcun dazio alla tradizione, che anzi ha preso congedo dalla tradizione e dalla letterarietà; una voce franca che si è abbassata la maschera sul volto, che parla un monologo dietro al quale non c’è un altro monologo, che parla ad un interlocutore dietro al quale non c’è nessun altro interlocutore, che parla alla maschera di se stesso. Una lingua che ha cessato di essere la depositaria del «messaggio» o dell’«antimessaggio», che si deposita un po’ come la polvere sui mobili. Che cade ed accade come per una sua legge di gravità. Che adoperiamo quando parliamo in una stanza ammobiliata, in una camera d’albergo, nelle sale d’aspetto di un aeroporto, nel corridoio di un anonimo ufficio. Una lingua estranea e provvisoria.

Soltanto in queste condizioni può nascere la lingua poetica di Bevilacqua, non come un flusso ma come un insieme di rigagnoli, non con il carattere della continuità ma con quello della discontinuità e della aritmia. Si può affermare che quella sorta di esperanto poetico quale era diventato il linguaggio poetico del tardo Novecento incontra in questa poesia il suo capolavoro e il suo compimento per via della presa di congedo dalla forma-poesia del Novecento e della estrema duttilità della lingua «narrativa» o di provenienza narrativa impiegata dal poeta parmense: una miriade di sintagmi del parlato e del pensato, sintagmi dei retro pensieri e dei quasi pensieri, un ingolfamento affollamento di singole immagini-emozioni; quella poesia dei minimi termini e da minimo comun denominatore in auge in questi ultimi lustri nella poesia italiana contemporanea, viene qui letteralmente capovolta, e trova la propria rutilante vittoria con una grande mobilitazione di espedienti e stilemi narrativi.

Alberto Bevilacqua Alberta De Fontaine

Alberto Bevilacqua con Francesca De Fontaine

Poesie di Alberto Bevilacqua da Piccole questioni di eternità

… faccio cattivi sogni,
sogni che mi sfuggono, mi deridono,
splende d’insofferenza il sonno,
è stanco di me come padre,
s’è fatto alto, è uscito di misura,
non è più il fanciullo
di ieri,
ma un adulto che ha diritto
alla sua vita ormai
e a farsi per amante quell’eterna
ombra che chiamano
morte ed è solo il crescere dei sogni

*

L’amabile Caffè, il Marchesi,
alte le specchiere parmigiane
e tiepide come donne, che Larbaud racconta
prolungare le nevi della piazza,
i divani sottomessi
a miraggio di tazzine che in mani sapienti
erano indugi a un parlare
un po’ perfido, di libri e amicizie.
Per garbati enigmi
la vita si smaltiva:
noi figli di agrari e operai
viziosi di quiete saggezze
tra signori in pelliccia e bastone,
disincantati dagli incanti di Pietrino

I tempi sereni

un sorridere di compagnia
mi portava a te e un’amabile acrobazia
alquanto da prestigiatore
che rimette
di fronte
due sosia puntellati dallo stesso assolo,
non ci è bastata una vita per dare
una data a un addio,
tu con la superbia della viola
il tuo madrigale o la tua tempesta di neve
al profumare delle braci,
mia ombra schietta e sgombra
di me
…la stanza dei sottovoce dove ti spella
fare l’amore sulle ginocchia
come ai bambini un gioco,
e anche
un po’ affezionati come quando nevica sì e no
al nostro averci troppo da dire

Seme contumace

la stanza dove
siamo due ombre del suo imbrunire:
nel letto, quattro ricci
di pube,
la vagina che ha insanguinato
o i graffi per la tua unghia
fuori misura,
ci abbiamo scavato le fosse
di noi, fino alla rivalsa
– il seme è debitamente morto,
quattro orbite
di seme contumace,
quattro mosche beate
su quei grumetti nell’ultimo sole

A quella con cui dormivo così bene

Cambiare letto e, prima di svegliarsi, l’incubo
di non sapere dove si è
e la luce, la luce poi, in quale punto
sia una madre possibile
… e se mi accadrà anche più dentro al sogno
che chiamano il nessun posto
(parliamo di morte, tanto
siamo in casa dell’impiccato)?
… allora, non trovando la lampada, non potrò
sapere se sono vivo
a tentoni appoggiando l’orecchio al tuo cuore
a qualche aritmia
non sarò più uno
che si ascolta sulle tue pareti della mia prigione
– non servirà sussurrarti:
«svegliati, è tardi»

Dopo un addio

Ora,
è dura davvero, per un di più
di te nel ricordo,
ma indicibilmente meno
di una tua ombra, una tua voce,
per un’ubbia, pensa, che ti figura
alla ringhiera
già mentre stavo rincasando:
«Come ti è andata,
oggi?»
ora che a un altro
lo dici,
scopro che il difficile è questo:
l’essere
infelici con poco

Duetto per voce sola

sono un tuo soprapensiero
inseguendoti le ombre più lunghe
dei platani
col silenzio della pioggia che s’aggira,
il fischio
lungo modulato, prima di raggiungerti,
nella memoria reciproca, mia speculare
confidenza col tempo,
siamo perfetti
nel duetto per voce sola,
mia itaca perenne di tutte le mie vite
deviate nell’equivoco

Po

mi piace
tornare a dormire nella mia casa di Sermide
che fu di mia madre e delle amanti mie:
sbarrata e ancora (lo vedi
dalla tenda che s’impiglia alla finestra)
ventosa d’improvvisata,
casa
che qui si dice «non c’è»:
i muri tutti bianchi se li beve la neve
e passeri loschi in fila sulla gronda
son là che non si capisce:
a mezzo di che
quei puntini sospesi?

*

… diletto, convinciti, è una sera
come le altre,
ci faremo luce insieme,
ora, fra poco,
dovrò
pur ritrovarla la lampada:
era qui
solo un eterno fa
… amore, il gioco
– aspetta, abbi pazienza –
sta per ricominciare: nessuna
assenza, manchi solo tu,
cosa vuoi
che sia, un’inezia:
io battezzato
in tua lingua
in tua posa

 

Simpatia similare

ora che ti sento
nei polpastrelli una forma perduta
e sola
anche nel tatto mio,
il male
sottrattivo, puramente
animale, pensa che ironia: clinicamente è
la «simpatia similare»
– le parole non serviranno
sei il vuoto del braccio
amputato che duole

 

1. La duplice ombra

osceno fiordaliso
su finissima porcellana bianca
il tuo nome
ha la perfezione calligrafica
con cui cade l’accento della morte

lascio impronte tue
ogni mattina
sulla neve immacolata, le piccole scale,
per ricordarmi che esisti
e all’inverso per tracciarmi
una rotta tutta mia

miserabili femmine da strada
noi la duplice ombra
perduta nel crepuscolo
della luce di un dio

 

II. L’imbecillità al femminile

accarezzo
nelle tue gambe snelle, favolose dicono,
solo la sveltezza
delle tue lontananze da raggiungere,
stivaletti alla moda, calze a rete, il tanga
aperto sul davanti a ostia di vagina,
ho smesso
di chiedermi
con chi andrai a condividerla
e la tua bocca chiara come una festa

… scriviti
almeno il mio telefono sul palmo
qualora uno volesse farti del male

come al confluire degli alberi appena stormiti
vorrei darti un po’ di freddo e di lume
la terra arsa che nutre queste viti
gli orti che assiepano il mare:
odora di ultimo giorno
questo tuo vanto di mille giornate
ancora tutte da spendere,
e pensare
che i nostri nulla differiscono di così poco

l’imbecillità
è un’arte preziosa se la porti in salute
me ne lascio sfogliare
appena
come un libro dei tuoi che in fretta riponi
senza averne letto nemmeno una riga,
l’imbecillità
specie di una donna sta nel capolavoro
riposto che non sai
e neanche t’importa di sapere

17 commenti

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17 risposte a “LA POESIA ESISTENZIALISTICA di Alberto Bevilacqua (1934-2013) Piccole questioni di eternità, Einaudi, 2002 – con un Commento impolitico di  Giorgio Linguaglossa

  1. L’abilità nello scrivere, e il successo, permettono a Bevilacqua di dire tutto quello che vuole; ma la poesia, e il cuore,restano altrove.
    Anna Ventura

  2. Il fatto è che, in generale, in tutta la poesia italiana di fine novecento e di questi anni di stagnazione, c’è, ben visibile, la stanchezza di una vecchia ontologia… antiquata e non idonea a rappresentare il nuovo mondo…

    Ho scritto nel commento:

    «Una lingua che ha cessato di essere la depositaria del «messaggio» o dell’«anti messaggio», che si deposita un po’ come la polvere sui mobili. Che cade ed accade come per una sua legge di gravità. Che adoperiamo quando parliamo in una stanza ammobiliata, in una camera d’albergo, nelle sale d’aspetto di un aeroporto, nel corridoio di un anonimo ufficio. Una lingua estranea e provvisoria».

    Bevilacqua giunge a capire, acutamente, che oggi si può fare poesia soltanto se adoperiamo una «lingua estranea e provvisoria», una lingua che parliamo in un «corridoio di un anonimo ufficio», «in una stanza ammobiliata», in «una camera d’albergo» per incontri clandestini, una lingua di plastica, di stracci… Ecco, direi che Bevilacqua giunge fin qui… ma non può andare oltre… non può andare oltre la sua ontologia estetica…
    E mi piacerebbe conoscere il parere di Mario Gabriele e di Steven Grieco Rathgeb in proposito…

    • Caro Giorgio,
      mi solleciti un parere sulla poesia di Bevilacqua, un autore che ha dedicato poche cose alla poesia, legando il suo nome alle opere La Califfa del 64, in pieno clima di rivoluzione culturale, e poi a Questa specie d’amore del 66 e a Il viaggio misterioso del 72, nelle quali non ha fatto nulla per uscire dal suo autobiografismo e dalla sua città, ossia Parma, a cui ha dedicato tutte le sue introspezioni psicologiche ed esistenziali. Quando tu dici che la poesia italiana di fine Novecento ha una ontologia stagnante cogli nel segno. Bevilacqua è un facitore di questo debolismo concettuale, formale e ideologico, assieme a tanti altri poeti e scrittori, che hanno denaturalizzato lo sviluppo linguistico, preferendo situazioni, fatti ed eventi a cui si identificavano le loro crisi dalle quali traevano la forza per affiancarsi ad una letteratura di consumo, più minoritaria che qualitativa. Un panorama questo a cui Bevilacqua non ha voluto mai sottrarsi proprio perché ne ricavava successo e popolarità. Né si poteva aspettare da questo scrittore un balzo di qualità nella sua poesia, che rimane moderna sì, ma come un palinsesto datato rispetto alle attuali produzioni poetiche oggi riscontrabili negli ultimi dati della documentazione chiamiamola in fieri. L’ultimo libro che ancora conservo di questo autore è L’Indignazione, Rizzoli Editore, 1973 nel quale si sente tutta la doppia valenza raffigurabile nei simboli e nelle allegorie all’interno di una “mistica del reale”, rivelandosi poeta lirico e civile,

  3. stavo pensando ad esempio alla grande differenza lessicale e stilistica tra la poesia di Alberto Bevilacqua e quella di una poetessa di lingua spagnola che vive qui a Roma, Francesca Lo Bue, che dovrò presentare domani, qui a Roma in piazza Augusto Imperatore, 4 sede della FUIS. Francesca usa delle parole che Bevilacqua non userebbe mai neanche sotto tortura, ma le usa alla maniera della tradizione di lingua spagnola dell’America latina, quella è la sua patria, quello è il suo mare linguistico… Ad esempio, le parole finali di ciascun verso della seconda poesia sono molto significative: radici, piedi, alberi, sole, cielo, luna… significative ed emblematiche perché serventi ad indicare il moto verticale che va dalla «terra» al «cielo». È ovvio che qui si tratta di una poesia che tende al metafisico…

    pensare ad un «itinerario» che si inoltra attraverso l’ignoto è pensare il sempre uguale, gli infiniti determinati che fondano la nostra esistenza, e cosa c’è di più che pensare gli infiniti determinati, le infinite unità, perché, come scrive Andrea Emo: «l’Uno è il numero più plurale di tutti gli altri… (che) infinite sono le unità… (e che) le unità sono ciò che vi è di più plurimo (Q. 348, 1972) non si può non riconoscere che proprio nel passato… è l’unica sede dell’assoluto… (ché) il passato e la memoria sono il regno di Dio… e (solo) nel passato si manifesta l’assoluto che siamo » (Quaderno 348, 1972. Citato da Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Milano, Mimesis, 2010 p.17).

    Del resto, ogni poesia che abbia tensione metafisica non può che adottare l’unità a fondamento del pensiero poetante, quell’unità che è molteplicità di unità.

    La guerra

    Tieniti ai suoi piedi fra i gradini del ponte.
    Eriche azzurrano nelle terre desolate,
    pellegrini nudi rincorrono le strade guaste e oscure
    in zig-zag nella polvere fragile.
    Lo sposo mi dice addio,
    piegata inseguo le vie cinerine in declivio.
    Che è stato della bellezza antica della valle,
    solenne di stornelli perenni?
    Mai più il suo segreto colpirà i miei fianchi.
    La lucciola aleggia verso l’orizzonte delle ossa.

    ~
    La guerra

    Ponte a sus pies, entre las gradas del puente.
    Flores de erizos azulean en las tierras desoladas,
    desnudos peregrinos recorren las gastadas vías oscuras,
    zigzaguean en la polvareda frágil.
    El esposo me dice adiós,
    curvada sigo las calles cenicientas en declive.
    ¿Qué fue de la belleza antigua del valle traslúcido
    solemne de villancicos perennes?
    Nunca más tu secreto golpeará mis caderas.
    La luciérnaga aletea hacia el horizonte de los huesos.

    Gli uomini residui

    Giacimenti, scavi, greti bruniti,
    gallerie di labirinti,
    in croce, in pietra aperti.
    Fremono gli angeli interrati e sono rossi gli araldi rauchi.
    Le grida sono ghiaccio di carbone e vetri infranti;
    chiamano l’oro, aspettano l’oro.
    Vibrano le acque rosse e le radici della disperazione,
    croci di legno e rene fosche.
    S’aggrinziscono nelle brezze congelate
    e cadono in cristalli di empietà e pallore.
    Angeli pietrificati in pianto
    sono lì nei muschi tenebrosi della terra.
    Cercano un anima per coniare effigi vive,
    vogliono fertilità, il debito del sangue e delle ossa
    [infrante.
    Vogliono essere radice,
    vogliono essere alberi,
    sono ombre che chiamano il sole.
    Vogliono arrivare al cielo
    scavando nell’argento della luna.

    ~
    Los hombres residuos

    Yacimientos, excavaciones, zanjas labradas.
    Terraplenes y galerías, abiertas, en cruz. Es piedra.
    Arden con los ángeles enterrados y son rojos los
    [heraldos roncos.
    Los gritos son hielo de carbón y de vidrios despedazados;
    llaman el oro, esperan el oro negro.
    Vibran las aguas rojas y las raíces de la desesperanza,
    cruces de palo y arenas hoscas.
    Se erizan en las brisas congeladas
    y caen, caen cristales de pavor, impiedad y palidez.
    Ángeles petrificados en llanto
    están ahí en el musgo tenebroso de la tierra.
    Buscan un alma, para acuñar efigies vivas
    Quieren fertilidad, la deuda de la sangre y de los huesos
    [quebrados.
    Quieren ser raíz,
    quieren ser árboles,
    son sombras que llaman el sol.
    Quieren llegar al cielo,
    bucean en la plata de la luna.

    Incertezza

    Incertezza sui tuoi precetti,
    dai tuoi messaggi solo presagi, allucinazioni e visioni.
    Qual è il sapere di Te?
    Qual è il diamante buono che anela e spinge?
    Signore pensa a me.
    Signore che abbatti i monti e desti l’aurora potente
    concedimi la beatitudine della verità.
    Da te trarrò pensieri e ispirazioni
    per arrivare all’albero vivo.
    Sarò fenice per le altezze assolute.

    ~
    Incertidumbre

    Incertidumbre, tus preceptos,
    tus mensajes son presagios, alucinaciones, visiones…
    ¿cuál es Tu saber?
    ¿Cuál es el buen diamante que anhela y empuja?
    Señor piensa en mí.
    Señor que derrumbas los montes y despiertas la
    [aurora potente
    concédeme la beatitud de la verdad.
    De ti vienen pensamientos e inspiraciones
    para llegar al árbol vivo.
    Seré ave fénix para las altezas absolutas.

    La strada maestra

    Devia dal cammino delle maschere,
    non passare!
    Ci sono astuzie e trappole.
    Sono primizie intossicate,
    sono riti putrefatti,
    canne abbattute nell’oblio spurio dell’aria.
    C’è una strada che è perfetta,
    ha scalini di desiderio e freschezza.
    Attenti, i giacinti s’allungano verso albe premurose,
    le libellule s’accendono nei boschi ombrosi
    clamando la fiamma dei roveti.
    Più in là delle labbra,
    più in là dei muri slabbrati,
    c’è il sole di verità.
    Sono arrivata alla sua cuspide ambrata?
    Avrò la sua acqua brillante?

    ~
    La via maestra

    ¡Desvía del camino de las máscaras!
    ¡No pases!
    Hay astucias y trampas.
    Son primicias perniciosas,
    son ritos putrefactos,
    cañas abatidas en el olvido espurio del aire.
    Hay una vía perfecta,
    tiene gradas de amenidad y frescura.
    Atención, los jacintos se alargan hacia auroras apresuradas,
    las libélulas se encienden en los bosques sombríos
    clamando el incendio de las zarzas.
    Más allá de los labios,
    más allá de los muros deslucidos,
    está el sol de verdad.
    ¿Estoy llegando a su cúspide ambarina?
    ¿Tendré su agua brillante?

    Gulliver

    Gli aracnidi invadono la superficie del corpo,
    legano e pungono con dolore di radici,
    lance di sangue e ricordo.
    Nella cartapesta del cuore malignità radicate,
    sedimento di draghi e leoni,
    salgono sull’uomo nelle intemperie della vita.
    Parole amare,
    vecchie untuose congiure,
    scavano sentieri nella carne.
    Colpe ignorate e veleni secolari
    con lontananze sacre intossicano gli occhi nell’aria di
    [mezzodì.
    La notte luccica con la luna dimezzata
    e nell’acqua soporifera arrivano le picche del mattino.
    Si ridestano i personaggi fatati,
    per i nascondigli delle strade riprendono il lavoro,
    nel corpo non tuo, che non fu mai tuo,
    prigioniero di quelle talpe immagazzinate.
    È il loro focolare, degli infaticabili aracnidi invisibili.
    Un anelito cade,
    ed è acqua di pioggia bianca.
    È forte ed è torbido nella notte nera.
    È purpureo e allerta,
    ed è geometrico.

    ~
    Gulliver

    Los arácnidos invaden la superficie del cuerpo,
    atan y punzan con dolor de raíces,
    lanzas de sangre y recuerdo.
    En el cartapacio del corazón malignidad enraizada,
    sedimento de dragones y leones
    sube hacia el hombre en la intemperie de la vida.
    Palabras amargas,
    viejas untuosas conjuras excaban grietas en la carne.
    Culpas ignoradas y venenos seculares
    entre lejanas tinieblas sagradas intoxican los ojos en el
    [aire del mediodía.
    La noche brilla con la luna menguante
    y en las aguas soporosas llegan las picas de la mañana.
    Se despiertan los personajes hechizados,
    por los escondites de las calles retoman el trabajo,
    en tu cuerpo no tuyo, que nunca fue tuyo,
    prisionero de aquellas talpas encerradas,
    es de ellos la casa, de los infatigables arácnidos invisibles.
    Un ahelo cae
    y es agua de lluvia.
    Es fuerte, es turbio en la noche negra.
    Es purpúreo, está alerta,
    y es geomético.

    Endimione

    In esodo partii,
    verso pareti ingemmate di gocce celesti,
    lucori remoti di lagrime,
    per abitare altezze eteree nel tepore antico,
    dove gli archi del sole incrociano l’assemblea dei
    [cuori.
    Le mani tremanti divennero tenui e inutili.
    Non potevo andare indietro,
    c’erano fiumi imperituri e valli annerite,
    più in là il mare dei morti e dei relitti.
    Guardai avanti,
    verso le pareti che stillavano acque limpide.
    Lì, dove partono le colombe a cercare i nidi della
    [misericordia
    e gli agnelli fulvi pascolano le terre boreali.
    Lì, dove i prigionieri della terra scrivono le righe del
    [destino,
    nomi scelti per il canto degli attimi e dell’eternità.
    S’acquietarono le mani diffidenti.
    A quando uno squarcio di spade,
    a quando la dimora per i giorni del sonno,
    a quando il risveglio dal sogno della morte?
    Endimione dorme,
    la luna lo cattura nelle traversie del sogno.

    ~
    Endimión

    En éxodo partí,
    hacia paredes engarzadas de rocío celeste,
    lumbre remota de lágrimas;
    habitarás en las alturas etéreas, en la tibieza antigua
    donde los arcos del sol se entrecruzan con la asamblea
    [de los corazones.
    Las manos temblorosas fueron tenues, inútiles.
    No pude volver atrás,
    había ríos imperecederos y valles negruzcos,
    y más allá el mar de los muertos y de los relictos.
    Miré adelante,
    hacia las paredes que goteaban aguas límpidas,
    de donde partieron las palomas a buscar el nido de la
    [misericordia
    y las fulgidas ovejas pacen las tierras boreales.
    Allí donde los prisioneros de la tierra escriben las
    [líneas del destino,
    nombres elegidos para el canto de los instantes y de la
    [eternidad.
    Se aquietaron las manos difidentes.
    ¿Para cuándo una herida de saeta,
    y cuándo amenidad por los días del sueño
    cuándo el despertar del sueño de la muerte?
    Endimión duerme,
    la luna lo captura en las travesías del sueño.

    La lotta

    La forza del no,
    muro e disdegno di forza invalicabile,
    silenzio e poi nulla.
    Qual è l’incantesimo distruttore?
    Il male,
    il male pallido e contorto,
    serpeggia negli acquitrini,
    dai boschi minaccia il pane e l’acqua.
    Nei pozzi delle acque risananti arriva il cavaliere,
    fra le mani la pace delle erbe pure.
    Quando ribollirono le acque
    emerse la tavola del mondo.
    E la tavola fu il fondamento,
    di numeri e ore di necessità.
    O Re, tavola fondamentale,
    salva la pianura del mondo.
    Il nome è veleno,
    sconfigge i balocchi di sabbia.
    E di chi sono?
    Di un brano dell’aria.

    ~
    La lucha

    La fuerza del no,
    muro y desdén de fuerza infranqueable,
    silencio y después nada.
    ¿Cuál es el encanto destructor?
    El mal,
    el mal pálido y retorcido,
    serpentea en los estanques,
    desde los bosques amenaza el pan y el agua.
    En los pozos de las aguas salubres llega el caballero,
    en sus manos la paz de las hierbas puras.
    Cuando hervían las aguas emergió la tabla del mundo
    y la tabla fue el fundamento,
    de números y horas de necesidad.
    O Rey, tabla fundamental,
    salva la llanura del mundo.
    El nombre es veneno,
    derrota los títeres de arena.
    ¿Y de quién son?
    de una franja de aire.

    La chimera di Enkidu

    Enkidu sogna la rosa del tempo,
    una barca che scende nell’oasi vespertina
    fra gli spasimi della lontananza.
    Enkidu sogna l’astuta regina
    fra nuvole rosse e pianure di fumo.
    Enkidu annusa l’oppressione dei fratelli
    mentre le pietre si ammantano di rostri
    e le api dissecano nei rovi del deserto.
    Discende Enkidu melanconico
    e le stelle eclissano i suoi passi mortali.
    A Enkidu chiama una voce,
    chimera nella lontananza bruna.
    Enkidu cerca il cedro del bosco,
    compra l’immortalità dei giochi
    pagando l’obolo per la porta della vita,
    vita che è madre nel giardino della lotta.
    Sarai uomo con una scala addosso
    e una chiave nella cintura.
    Nessuno si ricorda di te, Mago del Paradiso.
    Il veggente sboccia in enigmi e ambiguità,
    in sortilegi di allucinazione.

    ~
    La quimera de Enkidu

    Enkidu sueña la rosa del tiempo,
    una barca que desciende en el oasis vespertino
    entre los espasmos de la lejanía.
    Enkidu sueña la astuta reina
    entre nubes rojas y llanuras de humo.
    Enkidu percibe la opresión de los hermanos
    mientras las piedras simulan rostros
    y las abejas se disecan en las breñas del desierto.
    Desciende Enkidu melancólico
    y las estrellas eclipsan sus pasos mortales.
    A Enkidu una voz lo llama,
    quimera en la lejanía bruna.
    Enkidu busca el cedro del bosque,
    compra la inmortalidad de los juegos
    pagando el óbolo para la puerta de la vida
    vida que es madre en el jardín de la lucha.
    Serás hombre con una escalera a cuestas
    y una llave en la cintura.
    Nadie se acuerda de ti, Mago del Paraíso,
    del vidente brotan enigmas y ambiguedad,
    en sortilegios de alucinación.

    Gilgamesh

    C’è un cacciatore nello squarcio dell’abisso,
    piccona le stelle di una carne breve.
    Il cacciatore affila le saette nel cuore
    lanciando agguati di parole ardue,
    congiure di echi e oblii.
    Il cacciatore lancia segnali di congedo,
    dice addio alle nubi cerulee e ai cedri lontani.
    Nella terra inospitale suona il fuoco tribale,
    ed è lontananza ed è infinito,
    ruggine che scola e rimane.
    Fra carezze di vento e aliti di caverne
    c’è presagio di esilio e unità.
    Per avere illusioni di vita
    un figlio è venuto al mondo.
    La rocca è nuda nel sonno degli obliati.

    ~

    Gilgamés

    Hay un cazador en una fisura de abismo,
    picotea las estrellas de una carne breve.
    El cazador afila las saetas del corazón,
    lanzando emboscadas de palabras arduas,
    conjuras de ecos y olvidos.
    El cazador lanza señales de despedida,
    dice adiós a las nubes cerúleas y a los cedros lejanos.
    En la tierra inhóspita suena un fuego tribal,
    y es lejanía y es infinito,
    herrumbre que cuela y se queda.
    Entre caricias de viento y aliento de cavernas
    hay un presagio de exilio y de unidad única.
    Para tener ilusión de vida
    un hijo ha venido al mundo .
    El dolmen está desnudo, es el sueño de los olvidados.

    Anábasis

    Questo fu quando arrivò la desolazione,
    quando l’angelo della vigilia si fermò sull’erta,
    alle porte tenebrose della premorte.
    La tua pupilla ardeva nella terra della purgazione.
    Chissà…
    per dare un possesso alla geografia patriarcale,
    albero di vita nel giardino della nascita.
    Per andare ai cieli cristallini della legge celeste,
    legge dell’ordine nel sedile solare.
    Nella terra della purgazione cercavi il luogo del tuo
    [cuore,
    agonia del crepuscolo dove giustizia è un sole morto
    e l’invocazione fallace e sorda.
    L’angelo dall’occhio vigile parlava nella sofferenza
    e col dito segnava i giorni tiepidi della casa avita.
    Guardavi,
    sognavi,
    aspettavi il sentiero arduo del sangue,
    mentre, inerme, scrivevi il numero giusto della giustizia.
    Voce che continui nel sentiero di sale,
    segnavi il nome dei padri
    affinché la vita fosse una e completa
    e riposi nei figli nuovi della terra.

    ~

    Anábasis

    Esto fue cuando llegó la desolación,
    cuando el ángel de la vigilia se detuvo en la yerma altura,
    en las puertas tenebrosas de la pre-muerte.
    Tu pupila ardía en la tierra de la purgación.
    Quizás…
    para dar una posesión a la geografía patriarcal,
    árbol de vida en el jardín del nacimiento.
    Para ir hacia los cielos cristalinos de la ley celeste,
    ley de orden en el trono solar.
    En la tierra de la purgación buscabas el lugar de tu
    [corazón,
    agonía del crepúsculo donde la justicia es un sol muerto
    y la invocación falaz y sorda.
    El ángel del ojo vígil hablaba con sufrimiento
    y con el dedo anotabas los tibios días de la casa patriarcal.
    Mirabas,
    soñabas
    esperabas el sendero arduo de la sangre,
    mientras, inerme, escribías el número justo de la justicia.
    Voz que continuas en el sendero de sal,
    anotabas el nombre de los padres
    para que la vida sea una y completa
    y descanse en los hijos nuevos de la tierra.

    Maria Stuarda – Antigone

    Un sole inoffensivo si apre nel sentiero,
    per arrivare al bosco con strie d’oro.
    Un’ombra alta si muove di lassù,
    venendo da un raggio di luce,
    da un punto di lontananza, sepolcro e morte,
    quando indispettito fugge dalle mura ingombre.
    Con occhi piccoli e puntuti,
    dettando le parole della congiura,
    portano Maria e Antigone alla casa della morte.
    Della morte di quel che fu,
    di ciò che non sarà…
    diritti di oro e di terre.
    Folle, cosa fai?
    Riposo nella soglia silenziosa,
    guardando un infinito imperfetto
    nella fonte spenta.

    ~

    Antígona – María Estuardo

    Un sol inofensivo se abre en el sendero
    para llegar a un boscaje con estrías de oro.
    Una sombra alta se mueve desde arriba,
    viene de un rayo de luz,
    está en un punto negro de lejanía, sepulcro y muerte,
    quando enconado huye de los muros atiborrados.
    Con ojos pequeños y bigotes puntiagudos dictan las
    [palabras de la conjura
    que llevan María y Antígona al descenso en la casa de
    [la muerte.
    De la muerte de lo que fue,
    de lo que no será
    derecho de oro y de tierras.
    ¿Loco, qué haces?
    Descanso en el umbral silencioso,
    mirando un infinito imperfecto
    en la fuente apagada.

    Minotauro

    Come fecero a costruire mura labirintiche
    di greve forma circolare
    e, più in là, suadenti siepi profumate?
    Camminavano dietro stelle schive
    che illuminavano passi deformi
    e sentieri enigmatici
    in fiammate di specchi gialli.
    Come fecero a fissare sedili di carezze,
    di baci che rovinavano il sudore di parole?
    Come fecero a costruire sentieri incrociati in nodi
    [d’erbe,
    come fecero?
    Quanto tempo ancora ti rimane?
    Quando scenderai all’Ade,
    con l’obolo nero delle tue prodezze,
    la tua faccia di disonore
    sarà il corpo impalpabile della gelida oscurità.
    La gemma è una mano che chiama.

    ~
    Minotauro

    Y como hicieron en construir muros laberintados
    de grave forma circular
    y más allá suadentes cercos perfumados.
    Caminaban en pos de estrellas esquivas
    que iluminaban pasos deformes
    y senderos enigmáticos,
    en llamaradas de espejismos amarillos.
    ¿Como hicieron a fijar asientos de caricias que se
    [apagaban,
    de besos que malograban el sudor de palabras?
    ¿Como hicieron a construir sendas encrucijadas en
    [nudos de hierbas,
    como hicieron?
    Cuanto tiempo aún te queda
    cuando bajarás al Hades con el óbolo negro de tus
    [hazañas.
    Tu cara de deshonor
    será el cuerpo impalpable de la oscuridad helada.
    La perla es una mano que llama.

  4. Bellezza pura e drammatica della parola che – arenandosi sulla riva dell’impronunciabile – si trasfigura in sfolgorandi e impalpabili icone dense di misteriose risonanze semantiche. Sarebbe interessante leggere altro di questa straordinaria poetessa.

  5. gino rago

    Il sapere scaturisce “da nuove domande”?
    Grazie alle nuove domande
    il nostro corpo acquisterà calore, temperatura, più vita?

    Ewa Lipska in “La domanda”
    si chiede (e chiede dunque al lettore):

    “Chi erediterà questo mondo?”
    La Lipska così risponde:

    “la Storia tace su questo argomento. Per motivi
    oscuri da un uccello messaggero in volo
    è stata strappata l’ultima pagina.”

    (forse così “l’ultima” per il poeta è proprio la pagina di quel libro che si continuerà a scrivere e che continuerà a strapparsi quando si arriva
    esattamente in quel punto, “nel trauma nel quale può trovarsi la
    risposta”?)
    Il grande poeta non è chiamato a dare risposte, ma a porsi grandi
    domande (“Dove passerai l’eternità?”, Z. Herbert; “Chi erediterà questo
    mondo?”, E. Lipska).
    Vitale, Dall’Aglio, Stanizzi, Bevilacqua mi pare che non si pongano
    “grandi domande”.

    Gino Rago

  6. caro Gino Rago,
    hai colto il centro del bersaglio, la poesia italiana che si fa da almeno cinquanta anni a questa parte non si pone domande e non pone domande importanti al lettore, si resta sempre nei dintorni dell’io e delle sue adiacenze. Si è giustificato ciò con l’argomento che, insomma sì, che da Lyotard in poi non c’è più bisogno di Grandi narrazioni, e che tutto è già stato scritto e detto; e, infatti, se si pensa questo (lo pensano tutti i minimalisti debolisti) perché mai scrivere un libro? Ovviamente si scriverà soltanto per narcisismo personale, per vanità… Tramontate le Grandi Domande, perché mai un lettore dovrebbe acquistare un libro di poesia che si occupa dei minimalia? –
    Se scompare il pubblico scompare anche la poesia.

    • Non credo che il pubblico della poesia scomparirà; mi sembra, anzi, che stia aumentando, spinto anche da un desiderio di partecipazione diretta.E’ un segnale positivo, esile come una piantina che sta nascendo;dobbiamo aiutarla a crescere, senza suggerire glorie o minacciare confronti sussiegosi,ma rispettando la sua evoluzione naturale:una nuova crescita, dopo silenzi e cadute,timori e proposte sconsiderate.Tutti possono scrivere poesie, come tutti possono pregare.

  7. gino rago

    Caro Giorgio, ti ringrazio per il consenso, per la condivisione del mio pensiero e sono spinto a rafforzare le nostre tesi insistendo con la Lipska
    il cui “Io”, tanto nella poesia quanto nella prosa sempre
    si perde per ritrovarsi altrove.

    In “Cara signora Schubert” si incontra sì l’Io, ma è un io
    che ricompone il Tempo con il suo “occhio incrinato”.
    E’ un io tendente a compiere sempre una sorta di bilancio esistenziale, un io teso ad affrontare le grandi tematiche della poesia (vita, amore, morte), mettendo il rapporto tra i due – il maschile del mittente e il femminile della destinataria delle lettere scritte – su un piano di parità, venendoci a trovare noi lettori nello scambio d’amore alla pari tra questi due esseri e quindi al centro della storia che ci viene narrata. Non a caso che la Lipska ne “Il labirinto” ci dice: “tutto ciò che ci ha amato non avrà più vie d’uscita”. E così, caro Giorgio, come tu hai notato presentando Ewa Lipska, ogni lettore  si sentirà ‘amato’ venendosi a trovare in uno spazio colmo soltanto di Memoria. Da una nota infatti apprendiamo che ” E’ in questo luogo
    (la memoria) che ci troveremo raccolti, chiamati a testimoniare il passaggio di questi versi nella nostra vita.”
     
    Il protagonista del romanzo 
     
    “Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
    trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,
    la guerra, la morte. Non sono in grado di aiutarlo.
    Si tira indietro quel baule per duecentocinquanta pagine.
    Non si regge più in piedi. E quando finalmente esce dal romanzo
    viene derubato di tutto. Perde la madre,
    le sorelle, la famiglia, la guerra, la morte. In un forum su Internet
    gli scrivono che gli sta bene.
    Forse è un ebreo o un nano? I testimoni
    affermano che taceranno su questo argomento.”
     
    Ewa Lipska è in grado di irrompere nella storia di un uomo al quale la
    Storia ha  strappato l’identità. Trovo stupendo il disegno di quest’uomo
    che trascina la propria vita in un baule…. E che poi perde tutto. 
    Una meditazione particolare richiede il finale di questa prosa poetica in cui la Lipska ci svela – in una domanda che contiene già la risposta ?-, l’identità di quest’ uomo:
     “Forse è un ebreo o un nano?”
    ” In un forum su internet dicono che gli sta bene.”
    Nel lampo di un solo verso la Lipska che riesce a mettere… 
    Ogni verso di questo poeta lo sento come un atto d’amore verso ogni
    lettore.

    Gino Rago

  8. Mi scuso per essermi introdotta con le mie considerazioni, spezzando involontariamente il filo del discorso tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa;la mia imperizia, nell’uso degli spazi del computer, è imperdonabile;ma rientra nei limiti della mia sofferta generazione.

    • cara Anna Ventura,

      le tue considerazioni sono sempre appropriate e piene di saggezza, considero un grande onore per me aver fatto la conoscenza della tua poesia, un momento che buca quei cinquanta anni di silenzio della poesia italiana di cui nel mio precedente commento, e che mi fa sperare, anche se debolmente, per il futuro…

      • Caro Giorgio, sono io che ti debbo tanto, la forza di credere ancora nel miracolo dell’amicizia e della fiducia reciproca,nella speranza che viene da un comune desiderio di chiarezza e di conoscenza.Sarebbe bene se tanti giovani desiderosi di apprendere e di sapere ,trovassero in tutti noi dei maestri di conoscenza e di forza intellettuale,considerando la poesia non un limbo per eletti, ma un terreno fertile per uno scambio di idee e di progetti onesti.

  9. gino rago

    Cara Anna (Ventura),
    le tue meditazioni sono sempre ispirate dall’amore per la parola d’arte e hanno sempre una luce accesa sull’incertezza del mondo, sulla precarietà della condizione umana. Ergo sono ben-venute.
    GR

  10. Caro Gino, grazie per il tuo commento generoso alle mie parole,così fragili contro la durezza della realtà vissuta.Si può ancora accendere una luce sull’incertezza del mondo?Forse,e in ciò ci aiutano i buoni compagni di viaggio, tutti insieme verso Compostela. Col bastone e la conchiglia,e l’umiltà del pellegrino devoto.

  11. Giuseppe Talia

    Bevilacqua poeta non è presente nella mia libreria. E’ presente come narratore, ma tranne la Califfa, splendori e miserie del miracolo italiano, altri altri romanzi latitano nella mia dimenticanza. In particolare L’Eros (Mondadori 1994) letto, faticosamente nel 1997 , appena approdato a Firenze (solo e solitario in una città tutta da costruire) e dopo un lungo anno trascorso a Londra, di cui ricordo, oltre alla fatica della lettura, che alla fine della lettura (solo e solitario in una città…) non mi sono nemmeno fatto una “spugnetta” (si può dire spugnetta?).

  12. antonio sagredo

    Bevilacqua poeta non esiste, esiste appena la sua prosa… le sue storielle ben s’adattano al calibro mediocre dei salottieri, che ciarlano e ciarlano, e di Gadda non sanno chi sia.

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