
Cado. Ci sono ombre: le vedo davanti a me./ Uno specchio di ricordi oscuri.
Alejandra Alfaro Alfieri è nata a Buenos Aires nel marzo del 1989. Cresciuta in Perù, si è poi trasferita in Spagna e in Italia, dove si è formata come operatrice sociale e dove studia Sociologia, presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato, oltre a vari testi in antologie italiane, il prosimetro De la mente al corazón (“Dalla mente al cuore”), la raccolta di poesie Profunda Eternidad (“Profonda Eternità”), il libro Creadora de un vínculo poético universal, scritto a quattro mani col poeta spagnolo Tomás Morilla Massieu. Ha diretto la “Revista cultural Puertos” di Lima, Perù. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo: El guardián de su verdad.
[in foto, Alejandra Alfaro Alfieri: Tra i sogni di due sconosciuti passano pensieri]
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Presentiamo qui la poesia di una autrice della nuova generazione: Alejandra Alfaro Alfieri che fa anche parte della redazione dell’Ombra delle Parole, l’«avanguardia senile», come è stata ironicamente chiamata da Antonio Sagredo. Come diciamo di frequente da queste colonne d’Ercole, la gran massa della poesia contemporanea appartiene a quel «nuovo» genere finzionale, dove il protagonista della pagina scritta è l’autore trapiantato in essa con tutto il proprio bagaglio di cronachismo e di quotidiano. La poesia di Alejandra Alfaro Alfieri prende le distanze da questo modo di intendere la poesia, mette in opera una autobiografia post-freudiana e post-lacaniana, si relaziona alla macchina desiderante dell’inconscio per scoprire le ragioni del proprio essere nel mondo:
Cado. Ci sono ombre: le vedo davanti a me.
Uno specchio di ricordi oscuri.
Alejandra considera la tensione fabulatoria quale ordine quale ragione principe del discorso poetico. Così, finzione e fabulazione scorrono in questa poesia come un cardo e un decumano incrociandosi e arricchendosi con i tagli delle vie laterali.
Giù, fino in fondo.
Provo a passare con cautela
per non risvegliare la paura.
La urto per sbaglio. Ne sento la minaccia.
Eppure, a guardar bene, non c’è nulla di privato in queste poesie, nulla di autobiografico. Se diamo per scontato che la finzione è tutto ciò che consente al racconto in versi di dispiegarsi secondo i binari della verosimiglianza e/o della inverosimiglianza nella continuità di un filo conduttore che mette in comunicazione la vita quotidiana con la poesia sul quotidiano, direi che nella poesia di Alejandra Alfaro Alfieri ci troviamo davanti ad un finzionale non come «finzione» ma come realtà dialettica del confronto fantasmatico tra gli attanti astratti della sua psiche, fondale sul quale si proiettano le immagini e i mitologemi del suo racconto fabulatorio.
In questo generale moto di deriva che sono i linguaggi poetici mediatici, il linguaggio poetico di Alejandra Alfaro Alfieri si cimenta in una resistenza alla loro direzione di marcia, del senso che la poesia che si fa oggi del fabulatorio e del quotidiano vorrebbe comunicare. Voglio dire che ciò che nella poesia di Alejandra appare di «retroguardia» e di «antico», è proprio ciò che resiste al solipsismo della comunicazione poetica in auge in certe scritture di oggi «al femminile», ciò che si allontana da quel paradigma risulta qui pienamente convincente.
Che la poesia delle nuove generazioni non possa che essere, in fin dei conti, che augurale e finzionale, e quindi conservativa della poesia-confessione come quella più adatta alla comprensione presso il pubblico mediatico, credo non ci sia ombra di dubbio. Oggi la maggioranza scrittoria di ciò che passa per poesia «al femminile» appare davvero non più esente da opposizioni e/o petizioni di principio oppositive. Una visione salvifica e di celluloide vorrebbe suggerirci e ci suggerisce senza ambasce né incertezze che la poesia-confessione sia la forma-poesia dell’evo mediatico. La poesia di Alejandra invece sta tutta dentro la tuta da palombaro della propria impermeabile fantasmaticità, dentro l’onda di una metricità interrotta che sa di «antico» ma è molto più moderna delle modernissime scritture della motricità prosastica e della sciatteria morfologica, per usare un eufemismo, che crede di nutrirsi del villaggio dell’anima che si ascolta e si dice, come in tralice e in trance, nel mondo combusto e terremotato della comunicazione globale.
Catafratta dentro la propria impermeabile tuta mimetica la poesia di Alejandra Alfaro Alfieri adesso può viaggiare tra i lettori. Se mai esistono ancora i lettori di poesia.

A.A. Alfieri, Fiera del Libro di Roma, 8 dic 2017 Convention Center
1.
Porto la luce pagana
come un bambino che sale sui muri
e contempla, per la prima volta,
l’oscillare della primavera, nuda, senza vergogna.
Cado. Ci sono ombre: le vedo davanti a me.
Uno specchio di ricordi oscuri.
Riflesso di ciechi, barbaglio di fumo.
Un rumore che inquina la coscienza
si nasconde dietro alla parete.
Tra il cuore e la mente.
2.
Attraverso il silenzio che divide il mare
non c’è parola che voglia parlare.
Il tempo offre un appiglio per risalire in fretta,
come all’insetto che ovula il processo della metamorfosi…
Solo quando rinasco, comprendo
che cos’è la vita
3.
Giù, fino in fondo.
Provo a passare con cautela
per non risvegliare la paura.
La urto per sbaglio. Ne sento la minaccia,
come uno sguardo che mi interroga,
un arcangelo mascherato, caduto sottoterra…
Ma continuo fino al battito.
La pelle non si fida dei pensieri che restano incerti.
Pensano, invece di vivere.
4.
Davanti allo specchio, il monologo
che spoglia senza misura ogni parola.
Si svuota a mano a mano il mare dei pensieri.
Non c’è marinaio che possa condurre questa barca
inondata dal dubbio. Arresa, senza un tramonto.
Nel riflesso, l’inganno del traguardo.
5.
Sempre la primavera
Sempre la primavera,
a rievocarmi nei suoi rumori.
L’odore dell’incerto, carico di tinte.
Voci, tra le vie, canzoni. E l’andare
che scorre denso, ininterrotto.
Ogni passo senza cornice.
6.
Il nuovo piano dell’esistenza
La strada è persa.
Un rilievo sinuoso, controverso, è
il nuovo piano dell’esistenza.
Accanto al cammino, lettere blu:
le osservo per orientarmi.
L’oceano non riconosce la marea del corpo,
la nuova composizione che divide le frontiere.
Si spostano da sinistra a destra, formano linee di forza.
Bestie divorano l’orizzonte.

A.A. Alfieri, Fiera del Libro di Roma, 8 dic 2017 Convention Center con G. Linguaglossa e L. Leone
7.
Gli oggetti che sfuggono.
Nessuno interpreta la necessità
di chi scrive ancora il giorno.
Ogni angolo ci rifiuta.
Si va in scena senza paradiso.
8.
Piazza Venezia
La notte cade dal cielo di piazza Venezia.
Ballano le creature bianche del porto,
disegnando in aria le torri che vegliano i gabbiani,
sopra castelli di spazzatura.
Giulio rimane qui,
a piedi nudi nel museo ancora aperto.
La città ha un grido immobile.
È senza salvezza.
9.
Spezza lo schema:
esplora le cose oltre ogni controllo.
A mano a mano, la vita veloce rallenta.
C’è da pensare, per compiere in fretta l’azione.
Tu sai che niente va perso,
anche i fiori sfogliati in una precoce primavera.
10.
È ancora silenzio
La notte spoglia le stelle.
Tra i sogni di due sconosciuti passano pensieri.
Crescono in frasi, col tempo.
Sulle labbra si stampa l’amore,
la trama di un nuovo scontento.
È ancora silenzio. Cieco, inciampa tra le parole.
Senza potersi guardare,
attraversa i laghi dei sospiri perduti.
Più in alto, il mormorio di un desiderio arrendevole
lo nasconde. Brucia nella schiena del sole.
11.
Stagnazione
Dentro il cortile, il sole sparso per terra.
Spento.
Intorno al sole spento, una farfalla bianca
circondava il paradiso della sua anima.
Da lontano si vedeva come se ne vanno l’illusione,
i ricordi della spiaggia,
e come la sabbia invita a uscire sempre di più verso il mare,
per avvicinarsi al cerchio.
Ritroveremo nel vento il lamento. Il dolore
nella pioggia del cielo. E questa vita mondana,
immatura nelle sembianze. Dissipata,
nel quadrante del tempo.
12.
L’attesa vestiva i nostri corpi.
Tu stavi in silenzio – le mie dita, la pelle della tua spalla.
Non volevo pensare che dovessi dividere la mia illusione
dal tuo sguardo obliquo…
I minuti si cercavano alla fine della partenza.
La vita tornava oltre quella.
Noi ci allontanammo da noi stessi,
senza più condividere lo stesso spazio.
La distanza non era compresa come misura geografica o fisica.
La distanza non esisteva.
Ogni giorno gli specchi avevano preso a osservarmi.
La parete era piena di quadri non allineati,
raggruppati secondo la corrente artistica.
Mi ero concentrata su come si scioglievano le cuffie,
sulla vecchia sedia di legno. Ma non dicevano nulla.
E le canzoni blues si erano stancate di ritornare in scena.
Neanche l’attesa mi chiamava.
Solo il flashback di quando mi infilai sotto le coperte.
13.
Un circolo vizioso
Questa è la poesia dell’incertezza,
l’anima nascosta di chi porta una tigre silenziosa.
C’è il volto della gioventù, nel buio dell’universo.
Tra le ginocchia l’attesa resta in sospeso.
Dall’altro lato, il tempo si disfa dietro al paradiso.
Un riflesso nello specchio traguarda.
Sotto al letto, a bassa voce, la tigre indica l’ombra,
che dalla giungla arriva al vuoto sottofondo.
Un circolo vizioso.
Nel deserto soffiavano persi i respiri,
gli strumenti a fiato dell’attimo.
Il fiore di primavera – così lo ricordo –
spogliava l’indecenza.
traduzione in inglese di Adeodato Piazza Nicolai
1.
I carry the pagan light
like a child climbing walls
and contemplates, for the fist time
the spring, waverings, naked, shameless.
I fall. There are shadows: I see them before me.
A mirror of dark recallings.
Reflex of the blinds, smoke flashing.
Noise contaminating conscience
hides behind the wall.
Between heart and mind.
2.
Through silence dividing the sea
there’s no word wanting to speak.
Time offers a hold to climb again quickly,
as the ovulating insect the metamorphosis process…
only when reborn, I understand
what is life
3.
Down, to the bottom.
I try to carefully pass
so as not to reawake fear.
I strike it by mistake. I feel the threat,
as a stare that menaces me,
a masked arcangel, fallen underground…
But I move on until there’s the beat
The skin does not trust uncertain thoughts.
Instead they think of surviving.
4.
Before the mirror, the monologue
undressing without measure each word.
Hand by hand the sea is emptied of thoughts.
No boatman can row this boat
full of doubt. It stops, without a sunset.
In the reflection, the trick of the finish.
5.
Always Springtime
Always springtime,
recalling me in its sounds.
The smell of the unsure, loaded with tints.
Voices, along streets, songs. And the flow
moving dense, uninterrupted.
Each step without frame.
6.
The New plan of existence
The path is lost.
A sinuous relief, controversial, is
the new plan of existence.
Next to the walking, blue letters:
I watched them for orientation.
The ocean doesn’t recognize the body’s tide,
the new composition dividing borders.
They move from right to right, forming lines of power.
Beasts devour the horizon.
7.
The objects that flee.
No one interprets the need
of the one who still writes the day.
Every corner refuses us.
We are on the scene without heaven.
8.
Piazza Venezia
Night falls from the sky of Piazza Venezia.
The white port creatures are dancing,
drawing in air the towers guarded by seagulls,
above castles of garbage.
Giulio remains here,
bare-footed in the still open museum.
The city has a motionless cry.
It has no salvation.
9.
Shatter the scheme:
explore things beyond all control.
Hand by hand fast life slows down.
One must think to do an act quickly.
You know nothing is lost,
even the bare flowers in a precocious spring.
10.
It is silence still
Night is undressing the stars.
Between dreams of two strangers pass thoughts.
With time they grow into phrases.
Love is printed on the lips,
the web of a new displeasure.
It is yet silence. Blind, it trips between words.
Unable to see itself,
it crosses the lakes of lost souls.
Up higher the murmur of a surrendering desire
hides it. Burning on the back of the sun.
11.
Stagnation
inside the courtyard, the sun spread on the ground.
Turned off.
Around the turned-off sun, a white butterfly
surrounded the heaven of its soul.
Far away could be seen how illusion, the memories
of the beach floated away,
and how the sand invites to move out evermore to the sea,
coming closer to the circle.
We’ll find the lament in the wind. The pain
in the rain of the sky. And this mondane life,
immature in appearances. Dissipated,
in the quadrant of time.
12.
The wait dressed our bodies.
You remained silent – my fingers, your shoulder’s skin.
I did not want to think I had to split my illusion
from your oblique look…
Minutes sought themselves at the end of the departure.
Life went back beyond that.
We drew afar from each other,
without sharing the same space.
The distance wasn’t included as a geographic or phisical measure.
Distance was nonexistent.
Each day the mirrors had started to observe me.
The wall was filled with unalligned paintings,
hung according to artistic mode of the day.
I was concentrated on how to free the headphones
from the old wooden chair. But they said nothing.
And the blues songs got tired of coming back on the scene.
Not even the the waiting called me.
Only the flashback of when I slipped under the covers.
13.
A Vicious Circle
This is the poetry of uncertainty,
the hidden soul of one carrying a silent tiger.
There’s the face of youth, in the black of the universe.
Between knees the waiting remains suspended.
On the other side, time is undone behind paradise.
A reflection in the mirror is looking beynd.
Under the bed, whispering, the tiger shows the shadow
that from the jungle gets to the empty background.
A vicious circle.
In the desert lost sighs were blowing,
the air instruments of the moment.
The springtime flower – as I recall it –
undressed indecence.
© 2018 English Translation by Adeodato Piazza Nicolai di Alejandra Alfaro Alfieri – Tredici poesie inedite – con un Commento impolitico di Giorgio Lingua-glossa.All Rights Reserved by Author and Translator
Posto qui una poesia di Anna Ventura e quattro poesie della poetessa rumena Daniela Crasnaru.
Anna Ventura
Mitridate
Mitridate meticolosamente prendeva
la sua porzioncina di veleno,
ma sapeva che, comunque,
sarebbe morto avvelenato:
dalla paura; dalla diffidenza;
dall’assenza di ogni fiducia.
Un giorno particolarmente cupo
chiese a un servo se anche lui,
per caso,
avesse quella paura del veleno;
quello gli rispose che di paura non ne aveva.
“Sono troppo povero-disse-
perché qualcuno possa trarre profitto
dalla mia morte.”
Mitridate pensò, allora,
che erano la ricchezza e il potere,
il suo grande pericolo,
la causa prima della sua solitudine.
Per un attimo immaginò
di essere un povero,
uno di quei tanti straccioni
che si accalcavano nel retro
delle sue cucine, contendendosi i resti
dei suoi opulenti banchetti: l’idea
non gli piacque per niente:lui
era Mitridate,
e niente poteva sottrarlo a se stesso;
perciò ingoiò la sua razione quotidiana
e si avviò in pace
nei labirinti della sua lussuosa dimora.
(Inedito, 2014)
Daniela Crasnaru
Austerloo
Sia i detrattori sia i sostenitori sanno ugualmente
dove ha perso e dove ha vinto il Generale.
Persino gli abitanti di Sant’Elena sanno tutti
cos’è stato a Waterloo e cos’è stato ad Austerlitz.
Solo io ho confuso sempre
la sconfitta con la vittoria,
i campi di battaglia, i rapporti di forza,
le bandiere e il nemico.
E questo non è stato un semplice caso
da allievo ripetente al soldo
della frivola posterità. Tutta la mia vittoria
è stata piuttosto una sconfitta.
Tutto il bottino preso dal mio esercito di parole
marciando stordito
in mezzo a questa eterna siberia del dubbio
si è dimostrato rimpinguato col mio sangue.
Persino «l’odore della morte così prossimo all’odore dell’amore
come il viola all’indaco nello spettro della luce».
Con le migliori divisioni dimezzate
i miei anni a rimpinzare l’humus di questi fogli di carta.
Con i miei tiratori scelti
schiacciati fra le copertine dei miei libri.
Austerloo, 14 giugno
e la mia mano che scrive il diario dal fronte senza sapere
se è morta
o viva.
Nel mezzo del cammin
Tutto passerà, anche la vita
e il sommo demone non più venuto,
e io sono stanca di inventarmi sempre paesaggi ed eventi,
amori e delusioni, ribellione e viltà
e tutti gli altri temi della tesi di laurea
del filologo fuoriclasse.
Io che vivo nella sontuosa solitudine della finzione
piangendo con l’aiuto della parola lacrima e amando
con l’aiuto di un’altra parola, insomma
io che sono ormai non più che un pronome nel mio proprio testo.
Soffro tanto con me, con me, con me stessa
e provo tanta nostalgia
di un mostro silente, di una belva triste
di una creatura viva giunta da un’altra parte che non da me
dalla Poesia.
L’ultimo giorno a Pompei
Nelle viscere degli uccelli sacrificati
nel geroglifico di fumo del vulcano
si poteva scernere la parola distruzione.
Gli abitanti di Pompei sono stati tutti avvertiti.
Nemmeno uno ci ha creduto.
Io lo so e ci credo. Questo abbraccio
potrebbe essere l’ultimo.
Non la paura che m’invade le cellule
quanto la nausea di fronte all’esercito di turisti annoiati
a fotografare la lava pietrificata
la smorfia del dolore, il commercio con la morte
da cui è proprio questa che manca
la cenere dietro cui
non c’è altro che
cenere,
le parole dietro cui
altre parole.
Lezione di scrittura
Rimarrò ripetente.
Il professore mi dice:
descrivi questa cascata splendente e maestosa
nella luce dell’alba.
Lo guardo con occhi sbarrati
l’anemico filo d’acqua che scorre nella fessura della cunetta
e dico mortificata «non posso non posso e basta».
«Non hai ali», dice il professore,
nemmeno un briciolo di metafisica.
E ora ripeti con me: bianco splendore luce cristallo (gioia).
Bianco splendore belle parole con i pizzi ben inamidati
attraverso cui, con quanta impertinenza ahimè,
la realtà sprizza febbrile come il sangue tra bendaggi asettici.
Il mio argomento finale:
in spiaggia l’estate scorsa l’ultima parola di un annegato portato a riva
fu proprio il fiotto d’acqua sgorgato via dai polmoni.
Con i miei occhi ho visto: non
petali immacolati non alucce di farfalle.
Acqua mista a sangue scorrere nella sabbia
Una poesia di Gino Rago alla maniera della nuova ontologia estetica.
Gino Rago
(alla maniera di Ewa Lipska)
22 settembre 2017 alle 19:32
“Cara signora Schubert,
ancora si chiede dove andremo ad abitare Dopo?
Dopo. Cioè là dove prima c’era una fabbrica strana
che produceva la vita d’oltretomba.
E inquinava le menti. Avvelenava il mondo.
Ha riconosciuto la mia scrittura.?
Sì sono io. Sono l’autrice di tutte le lettere.
Si chiede sempre dove andremo ad abitare Dopo?
Senza timori vada
al Quartier Generale dell’Aldilà.
Al numero civico 777, piano terzo, scala D,
attigua alla abitazione di Dio.
Al Quartier Generale tutti e tutte lo sanno.
Il Dopo sarà tra ciò che non abbiamo fatto
e ciò che non faremo più.
Cara signora Schubert, e per conoscenza,
care signore Dzieduszycka, Ventura, Dono, Colonna,
al Quartier Generale dell’Aldilà ben sanno
e lo sapete bene anche voi che l’onda d’urto dell’Oscurità
assale i poeti alla stessa ora del mondo.
Cara signora Schubert, e per conoscenza,
care signore Leone, Giancaspero e Catapano,
la vita è un negozio di ferramenta.
E Dio è un meccanico supino che stringe i bulloni lenti del mondo.
Al Quartier Generale dell’Aldilà
l’acqua si beve in bicchieri di plastica.
E nessuna fa poesia coi tacchi a spillo.
Un caicco taglia il blu della laguna. Il cielo è fermo.
A nessuno interessano i moti dell’alta e della bassa marea.”
Poesie di Ewa Lipska (1945) da Il lettore di impronte digitali, Donzelli, 2017 – ed. polacca 2015 a cura di Marina Ciccarini
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/14/alejandra-alfaro-alfieri-tredici-poesie-inedite-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-30153
“Di recente [Ewa Lipska] ha affermato di scrivere poesie perché non sa suonare il pianoforte (intervista del 27 febbraio 2016 con Filip Lobodzinski): ciò che invidia alla musica e alla pittura è infatti il linguaggio delle cose e dei colori, nitido, senza sbavature o possibilità di fraintendimenti. Il poeta, invece, a suo avviso, ha a disposizione un materiale sfuggente e magmatico, è un funambolo che cammina sul filo del significato a volte ambiguo di ogni singola parola e deve perciò dedicarsi completamente a rendere il suo linguaggio quanto più possibile preciso ma anche, «come le impronte digitali, irripetibile e originale» (dal discorso pronunciato da ewa Lipska a Kielce in occasione del conferimento del dottorato honoris causa).
Immutabili e individuali, traccia del singolo ma tratto distintivo dell’umanità, le impronte digitali consentono l’identificazione degli esseri umani, e il «lettore» è quello strumento che le rileva, le elabora e le riconosce, che va a cercare le cosiddette «minuzie», cioè tutti quei punti dove le linee si interrompono o si biforcano, facendo apparire un’immagine dell’impronta che, in questo modo, diventa una mappa di punti che vanno a definire le coordinate della nostra identità fisica, unica e senza eguali.
«Siamo solo diversi in maniera tanto simile» (Tak samo, Allo stesso modo, in “Wiersze”, Poesie, 1967), ha scritto la poetessa all’inizio della sua attività poetica e, indifferente a tutte le mode, a questa certezza ha ancorato con determinazione il suo dar voce alla rappresentazione di un’alterità e complessità difficili da descrivere. Ciò che ci distingue inequivocabilmente l’uno dall’altro ci condanna all’essere separati, e la nostra originalità porta con sé un corollario pesante, la solitudine. Come sfuggirle? Come sopportare il peso di uno stato d’animo che non ha corpo, «neppure quando ci abbraccia»? (La solitudine).
Nella poesia che dà il titolo a questa raccolta, il web appare come una possibile e frequentata via di fuga del nostro tempo, virtuale ma efficace panacea e negazione del male di vivere, del mistero della vita, del desiderio inesausto di appartenenza. «Contatti e notifiche» ci forniscono un’identità comunitaria nella quale non importa la qualità della relazione ma la quantità del numero di «amicizie», illusione di una pienezza fittizia che sancisce l’impossibilità di un rapporto con se stessi.
La vita
una pesante misura preventiva
contro la morte.
*
Un verso randagio
Un verso randagio vagabonda
nella materia oscura della carta.
Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato
in balìa del destino. Orfano di parole.
A volte
i versi sono come cani abbandonati
che abbaiano alla poesia.
*
L’abisso
Le visite dei morti
capitano sempre
in momenti inopportuni.
Mentre stiamo per andare al cinema.
In discoteca. Al supermercato.
E loro ci portano frammenti
di muri. Pezzi di lamiera.
Fili di ferro avvolti nel dolore.
e dicono imbarazzati
eppure la morte è la vita stessa…
Che farci.
Ci spogliamo.
Ci facciamo un caffè.
Tiriamo fuori una bottiglia di bourbon
e ci guardiamo
dritti nell’abisso.
*
La solitudine
La solitudine non ha corpo.
Neppure quando ci abbraccia.
È ingannevolmente vuota.
Come una scatola senza più pensieri.
Volteggia sopra di noi
come un aereo da ricognizione.
Scampata per miracolo
alle ruote dei defunti
è ciò che non dovrebbe essere.
*
Il Big Bang
Forse è ancora vivo qualcuno
che è stato complice
della creazione di questo mondo?
Un artigiano. Un orafo.
Un meticoloso orologiaio.
(Lascio da parte
divinità taumaturghi bari).
Forse è ancora vivo il cameriere
che lo ha servito su un vassoio
simile alla pinna
di un disco voltante?
O forse è ancora viva la miccia
che ci ha spostati verso il rosso?
(secondo Edwin Hubble).
Una vecchia fune di canapa.
Uno sbeffeggiatore di fuochi d’artificio
e di girandole.
È sempre nei paraggi
dei nostri
incontri pirotecnici.
*
La vita
Morbida flanella
dell’infanzia
quando il Tempo Assoluto di Newton
non ci rompeva le scatole.
Imparavamo a contare.
Sommavamo
dita ancora analfabete.
La sottrazione
già apparteneva ai morti.
Ricordi la sicurezza di sé?
La prima della nostra classe.
È finita miseramente
nel dizionario dei sinonimi.
Ci abituavamo a quello
che gli altri chiamano vita.
Ogni giorno lo stesso panino
imbottito con ali di foglie.
Una droga pesante.
Tutto era come in prova
ma ci entrava il sangue.
In soffitta si asciugavano
le istruzioni per l’uso.
Sottovoce elencavano
i nostri nomi.
Forse qualcuno
ci cambiava
in spiccioli.
*
Il lettore di impronte digitali
Poggiamo un dito
sul lettore di impronte digitali
e iniziamo ad amarci.
I nostri file virtuali di corpi
in album
blog
in taccuini di conoscenti
Nuovi eventi.
Nuovi mi piace.
Piacciamo alla Coca-Cola
a Ronaldo e al Papa.
Siamo già
nei contatti
e nelle notifiche.
Il nostro letto
nel diario.
Toccami
e tieni premuto.
Ci baciamo
con miliardi di bocche.
Caro Gino,oggi ti rubo questo verso:”un caicco taglia il blu della marina”; sono i versi apparentemente meno significativi, meno necessari,quelli che, a volte, mi piace accalappiare col mio retino per farfalle. Avvalora anche la mia convinzione che è ciò che accade fuori dalla nostra portata cognitiva normale sia più importante di quanto possiamo immaginare
La voce-luce nell’occhio di Borges
(versi per Alejandra Alfaro Alfieri )
“Lo scambio dell’essere con l’apparire…
Non salva l’adulto. Né l’ironia del saggio
affranca dagli scorni la letteratura
(che se proprio serve
serve per porre questioni.
Non per ottenere risposte).
(…)
Le volpi si dissetano di notte.
La varietà del mondo Alejandra la legge allo specchio.
Le folle di perdenti e vincenti. Di colti e di ingenui.
Di salvati e sommersi. Di ricchi e indigenti.
(…)
Il cavaliere di Spagna è morto.
Philip e gli altri si ubriacano al bar.
Il Budda sorride dietro lo steccato.
Certi poeti scalano le montagne dei Paesi Bassi.
(…)
Dai versi di Alejandra dispare la macchia umana.
L’occhio di Victoria Ocampo ci scruta.
Julio Cortazar esce dalla tomba.
Insegue il fratello nelle corse sui monti.
Alejandra gli prende la voce.
Una voce più libera dell’acqua.
La voce-luce nell’occhio di Borges.”
Gino Rago
Cara Anna (Ventura) una volta scritti, pubblicati e diffusi, i versi non son più
di chi li ha scritti, ma di chi li legge. Quindi sei padronissima di interpretarlli in piena libertà, anche se hai saputo cogliere nel caicco e nel blu della laguna
il senso e il segno del taglio che il natante arreca a quel blu non più compatto.
(Confessione: ho un lungo viaggio nelle ossa, un viaggio in treno e in autobus e ho bisogno di riposo. Ringrazio Giorgio Linguaglossa per il ripescaggio di ‘cara signora Schubert’, di cui m’ero dimenticato, così
come dico a Steven G-R e a Chiara C. che il mancato mio commento ai loro
ricchi lavori di ieri è legato allo stesso ‘viaggio’).
GR
Naturalmente la poesia, in quanto codice comunicativo, deve porsi in relazione con un lettore che da essa sia raggiunto perché il codice sia realmente efficace; ciò non significa che io, come lettrice, mi aspetti una comunicazione immediata, copia di quella pseudo-comunicazione o falsa comunicazione cui il linguaggio degradato, pubblicitario o meno, del nostro quotidiano ci ha abituati. Né mi attendo che nella poesia sia tutto detto, che i nessi logici o i passaggi da un’espressione all’altra siano espliciti ed evidenti, che la mia strada sia quindi nettamente tracciata dal poeta che mi indichi dove vuole che io arrivi.
In questo senso i versi di Alejandra Alfaro Alfieri che ho potuto leggere oggi sono, per me lettrice e per il mio personale modo di relazionarmi con il dettato poetico, una felice proposta.
Per indicare solo pochi brevi passaggi della giovane autrice presentata oggi, questi versi che ho letto: “Tu sai che niente va perso/ anche i fiori sfogliati in una precoce primavera”; “E’ ancora silenzio. Cieco, inciampa tra le parole”,
e soprattutto questi: “Ritroveremo nel vento il lamento. Il dolore / nella pioggia del cielo. E questa vita mondana, / immatura nelle sembianze. Dissipata,/ nel quadrante del tempo”
sono stati per me un esempio luminoso di un circuito comunicativo che si è attivato efficacemente, nel quale mi sono sentita naturalmente inserita; e se rileggendoli io cerco di capire perché e di darmene una spiegazione più chiara e ragionata, comprendo che questi versi mi risultano efficaci perché esprimono una CONNESSIONE COSMICA che il poeta mi indica tra livelli diversi dell’esistere, tra il dettato poetico – che mi conferma come nulla “va perso” pur là dove “tra le ginocchia l’attesa resta in sospeso”- e gli oggetti e le esperienze che conservano la loro necessità, anche se nessuno la interpreta e si è costretti ad andare in scena “senza paradiso”.
La stessa capacità di indicarmi una connessione cosmica tra oggetti, luoghi e soggetti apparentemente lontani e frammentati (come mi suggerisce il verso “l’onda d’urto dell’Oscurità assale i poeti alla stessa ora del mondo”), la stessa idea me la trasmette la poesia oggi proposta di Gino Rago: quando afferma che “un caicco taglia il blu della marina” è nella mia identità di lettrice che questo verso fa presa, che suggerisce possibili viaggi che si incrociano, nella mia mente, con quelli di altri testi letti, sedimentati nella mia memoria e al tempo stesso ciò lascia una strada aperta verso una meta di questo viaggio, da porre in un punto o nell’altro dello spazio e del tempo. Così, se la nostra “razione quotidiana” di bene e di male ci riporterà ai “labirinti” delle nostre dimore, per dirla con le parole di Anna Ventura, io lettrice ricollego le proposte aperte dai versi che ho potuto leggere, pur così differenti tra loro, ai percorsi intimamente connessi degli esseri viventi, alle mete di quel viaggio umano sprofondato in uno spazio universale che lo contiene e in un tempo immoto, e ritorno, sulla spinta che i versi di oggi mi hanno indicato, a quanto leggo in Ritsos: “sotto i molti strati del turbamento e della paura, indovino / il silenzio infinito che si stende – una giustizia,/ un equilibrio che esiste per se’ e che ci contiene / nell’ordine dei semi e delle stelle”(“Oreste”) o ancora alla “grande foglia secca del nespolo che precipitava con enorme fracasso nel tempo- e poi la quiete diveniva più silenziosa come lo specchio dimenticato sotto gli alberi” (“La distruzione di Milos”).
Allora non capisco cosa dovrei commentare, le poesie delle Alfaro Alfieri o quelle della Ventura o quelle della poetessa rmena o ancora quelle di Gino Rago?. Tralascio ovviamente quelle che meno mi colpiscono e parlo della straordinaria versione storico mitologica della Ventura. Un testo che mi appare di altissimo valore sia per la descrizione romanzata di un evento storico, sia per l’assoluta limpidezza del tessuto linguistico, la sobrietà, la scarnificazione di ogni parola che poteva essere superflua. E pur nella geometrica costruzione perfetta affiora prepotentemente l’ironia e la disperazione, il senso tragico dell’ultimo viaggio tra dubbi e veleni, una accettazione quasi stoica della morte.
“Sono troppo povero-disse-
perché qualcuno possa trarre profitto
dalla mia morte”
Versi come questi racchiudono il metafisico e il sociale, la certezza che la povertà è ignorata da tutti, che soltanto il profitto domina la nostra squallida vita. Straordinario il ritratto del Re che non può sottrarsi a se stesso, che accetta la sua sorte con la dignità del sovrano, accetta l’ananke cui non può sfuggire stoicamente sereno. Sono scomparse la diffidenza e la paura. In pochi versi Ventura ci racconta una storia come in un romanzo, un’avventura dello spirito esemplare che ci conduce tutti ad una serena riflessione. Il testo Schubert di Rago mi pare, se non ricordo male, di averlo letto e forse anche commentato. Qui mi limito a dire del suo notevole spessore poetico , con quella sottile ironia che sempre lo contraddistingue. I versi della Alfieri non mi piacciono, brutta espressione e non mi perdo a commentarli, del resto non essendo un critico mi è consentita codesta libertà. Idem per i versi romeni.
Ecco uno stralcio di dialogo avvenuto pochi minuti fa su Facebook (Gruppo La scialuppa di Pegaso)
Giorgio Linguaglossa:
Si può dire che Anna Ventura abbia detto il massimo con un minimo di parole. E questo è il risparmio energetico: le parole devono essere usate con grande parsimonia. Anna Ventura nella poesia italiana ha lo stesso valore che la Szymborska ha per la poesia polacca, solo che in Italia non c’è stata mai una critica libera e intelligente e indipendente dai gruppi di potere, così la sua poesia in tutti questi anni di feroce mediocrità letteraria è stata trascurata…
Lorena Dolce Glicine Turri:
Giorgio, vorrei capire, non tanto sulla produzione poetica della Ventura di cui ho letto solo poche cose, ma su questo testo che, per quanto a risparmio energetico, per me è scritto in prosa (come un riassunto).
La “parola scarnificata” come ho letto nella recensione postata da Donatella Costantina io non la trovo ma anzi trovo espressioni che potevano essere evitate a maggior risparmio come ad esempio “comunque, per caso, quello gli rispose, penso allora…”.
Forse si poteva risparmiare maggiormente con un linguaggio più poetico, una sintassi più scremata. O no?
Giorgio Linguaglossa:
cara Lorena Dolce Glicine Turri a mio avviso le forme incidentali, dubitative e introduttive sono essenziali sia nel linguaggio parlato che nel linguaggio poetico (“comunque, per caso, quello gli rispose, penso allora…”), e quindi: perché il linguaggio poetico dovrebbe rinunciare ad esse forme? Scremare ulteriormente la sintassi avrebbe comportato l’impoverimento semantico del testo, dinanzi a questo problema Anna Ventura opta intelligentemente per la adozione di forme parenetiche e incidentali e dubitative che conferiscono alla poesia ulteriori possibilità di lettura da parte del lettore. Il testo apre davanti al lettore, implicitamente, una serie di possibilità interpretative, è questo il segreto della poesia della Ventura, che lei prende un tema, lo riduce all’osso per poi confezionare un vestito sintattico e semantico di perifrasi dubitative, esortative parenetiche, parentetiche che lasciano presagire ulteriori impensati e impensabili sviluppi della situazione narrata.
Pat Stefanelli.
Dunque, a mio avviso non c’è alcun bisogno di possibilità interpretative tanto è chiaro e lineare il testo. Le possibilità scaturiscono sempre da un segno che in concatenazione poetica porta ad altro significato. Il testo è un racconto spezzettato. Non c’è alcun segreto né una riduzione all’osso. Il tutto è più che evidente.
Giorgio Linguaglossa:
La chiarezza e la linearità del lessico e della sintassi testo come di tutta la poesia di Anna Ventura da Brillanti di bottiglia del 1974 in poi, è una qualità da tutelare in un ecosistema linguistico come quello della poesia italiana che predilige l’accumulo di parole inutili e incongrue. Qualità da tenere distinte però dal semplicismo irresponsabile e dal riduzionismo che altri autori di versi fanno, questo sì che è un attentato all’ecosistema linguistico…
Wilma Minotti Cerini:
A me pare che l’unica forma dubitativa sta nell’apertura del pensiero dopo la risposta del suo servo ” sono troppo povero perché qualcuno possa trarre profitto dalla mia morte” e quindi solo perché si è poveri non si è ricattabili, un’immedesimarsi di pochi istanti e parallelamente la sua minima quantità terapeutica del veleno per continuare la sua lussuosa vita. Certamente Mitridate non avere molta scelta se non tra povero e straccione e la ricchezza lussuosa con i suoi pericoli. Beh un parallelo con i nostri giorni c’è pure. Che poi ti batta il cuore leggendola è altra cosa…ormai dobbiamo guardare più alla terra che al cielo, ai cunicoli delle talpe anche….la vita sotterranea….salvo riprenderci un po’ gli antichi che non soggiacciono ai vari cambiamenti ritmici della poesia: quasi un aforisma poetico.
Ringrazio gli amici che hanno letto con attenzione e perspicacia il mio “Mitridate”.La poesia spesso scaturisce,spontaneamente, sia dall’osservazione della realtà che dalla meditazione di quanto ci offrono il mito, la storia,la letteratura.Qualunque cosa io legga, cerco di collocarla nel mio immaginario,ma anche nella realtà vera e propria.Il mondo è pieno di uomini che assomigliano a Mitridate,oppressi dal loro stesso potere,ma decisi a non rinunciarvi.
Carissima Anna mi sarei aspettato una risposta diretta al mio commento abbastanza dettagliato, ma vedo che anche tu sei restia a rispondere direttamente a quanto io scrivo…e non so perché mi ostini a farlo.
Bravissima poeta Alejandra, per come scrive non mi sorprende che sia nella redazione de L’ombra delle parole. In queste poesie tutto è NOE, dall’incipit per me straordinario per la visione e l’impatto:
Porto la luce pagana
come un bambino che sale sui muri
e contempla, per la prima volta,
l’oscillare della primavera, nuda, senza vergogna.
passando da un verso che sa di Tranströmer:
Ballano le creature bianche del porto,
disegnando in aria le torri che vegliano i gabbiani,
fino all’ultima poesia (con la sola eccezione della n.12 che sento differente).
Mi sento vicino a questo suo modo di concepire poesia.
Complimenti davvero.
“Cado. Ci sono ombre: le vedo davanti a me.
Uno specchio di ricordi oscuri.
Riflesso di ciechi, barbaglio di fumo.
Un rumore che inquina la coscienza
si nasconde dietro alla parete.
Tra il cuore e la mente.”
Ascoltate bene questo pezzo. Non vi sembra di aver già sentito questa cadenza, quel certo ritmo “già sentito su questo stesso blog”?
Alejandra è una poetessa giovane e piena di energie e di futuro, e quindi ha tutto il tempo per farsi le ossa e scrollarsi di dosso ideologie di passaggio. Ed è capace di scrivere bellissima poesia, come ha notato Lucio (solo adesso vedo il suo commento, per via del mancato reload).
Non vorrei però che un certo stile NOE omogeneizzato continuasse a plagiare anche i poeti più grandi, che pure avevano un proprio stile precedente, lo stanno perdendo, e invece vivamente prego loro di conservarlo! O cambiarlo – perché no, può essere assolutamente necessario – ma secondo un loro profondo convincimento interno, una loro personalissima ricerca forte, dura, raggiunta attraverso la assoluta libertà di opinione.
In poesia, prima di tutto: irripetibilità, irriproducibilità.
Se perdiamo questo, perdiamo tutto.
E, come sempre, esprimo qui il mio grande apprezzamento per la sovrana libertà poetica di Anna Ventura.
La frequenza del punto fermo è una costante negli autori NOE. Ma ciascuno interpreta a suo modo questi intervalli. Alcuni con più regolarità di altri che hanno periodi più lunghi o vari. Ma questo è solo ciò che subito balza agli occhi. Anche lo stile e il linguaggio sono diversi. Lo sguardo interno con cui Alejandra vede e pensa le cose è suo. E non può essere che così.
Prometto che proverò a dire diversamente da “poesia NOE” o “poeti NOE”, se non altro per evitare malintesi o superficiali classificazioni. Qui non c’è un poeta che somigli all’altro. Il punto rafforza e rende concisa l’espressività, tutto qui. Ma essendo anche molto altro, diciamo allora che è una sorta di passepartout.
“Solo quando rinasco, comprendo
che cos’è la vita”
…
Si,
questo è ben(e) detto
Si viene al mondo solo quando si ri-nasce.
Noi siamo il Governo della poesia italiana, siamo e rappresentiamo il punto di riferimento della «nuova poesia».
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/14/alejandra-alfaro-alfieri-tredici-poesie-inedite-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-30127
Ecco alcuni versi lapidari di Alejandra Alfaro Alfieri. Si riconosce in essi il maestro della poesia europea del novecento: Tomas Tranströmer, il che, si badi, non è un male, anzi, sarebbe bene che nella poesia italiana si verificasse un trapianto di organi, che riuscissimo a trapiantare nella poesia italiana un po’ di Tranströmer. Io che ho seguito Alejandra dai primi suoi passi in poesia ad oggi, noto che da quando si sforza di penetrare dentro l’alchimia della NOE, i suoi versi hanno avuto un subitaneo salto di qualità. Certo, poi bisogna lavorare, non bisogna mai fermarsi per cullarsi sugli allori, ma già il fatto di aver passato il Rubicone della critica severa dell’Ombra delle Parole, è un buon segno che dice che la poesia di Alejandra è cresciuta. Ed io aggiungo: non ancora del tutto però; può, anzi, deve migliorare, affinare i suoi strumenti di pensiero poetici che, qua e là rivelano delle debolezze, come io ho anche indicato nel mio pezzo prefatorio, come sono solito fare. Ecco tre aforismi di Alejandra Alfaro Alfieri:
Questa è la poesia dell’incertezza
L’attesa vestiva i nostri corpi.
Tra i sogni di due sconosciuti passano pensieri.
Un aneddoto. Ricordo di aver sottoposto ad un poeta questi versi di Alejandra tempo fa. Il risultato è che il poeta me li ha restituiti dicendo che non si può scrivere in questo modo:
Dentro il cortile, il sole sparso per terra.
Spento.
Intorno al sole spento, una farfalla bianca
Io gli ho risposto che l’immagine del «sole sparso per terra./ Spento» la trovavo semplicemente geniale. Come si vede, qui siamo agli antipodi, i pareri divergono in direzioni diametralmente opposte: rivelando una cosa molto semplice: che tra la nuova ontologia estetica e la poesia tradizionalmente novecentesca o di derivazione novecentesca, c’è un baratro profondissimo.
Però è vero quanto scrive Steven Grieco Rathgeb, che la NOE rischia di standardizzarsi in un medio livello abbastanza buono ma anche abbastanza prevedibile, in un livello di «scuola». Ma questo è un rischio inevitabile, caro Steven, un rischio che fa parte di un processo di crescita, l’importante è che la NOE riesca ad attirare anche qualche giovane, i migliori magari, che eserciti una «egemonia stilistica», ma non per sbandierare un altro canone o mini canone (tanto per usare le espressioni di Alfonso Berardinelli), quello che noi vogliamo è molto di più di un «Canone» più o meno riformulato, o un «mini-Canone», il che è una contradictio in adiecto. Il «Canone» non può essere «mini», o lo è o non lo è. Quello che noi vogliamo è molto di più, lo hanno capito bene Mario Gabriele, Gino Rago, Costantina Donatella Giancaspero e anche Rossana Levati: noi vogliamo semplicemente «cambiare il paradigma» della poesia italiana di oggi, fare uscire la poesia italiana di oggi dal suo stadio di minorità, dal suo sonno ontologico.
Noi non vogliamo essere una Opposizione (e poi, opposizione a che cosa? Non vedo nulla a cui dovremmo opporci, la poesia maggioritaria che si fa in Italia è davvero così poca cosa che non c’è bisogno di alcuna opposizione). Noi, è bene dirlo a chiare lettere, siamo il Governo della poesia italiana di oggi, siamo e rappresentiamo il punto di riferimento della «nuova poesia» italiana.
Un altro aneddoto. Ecco un frammento del dialogo tra Goethe ed Eckerman. Scrive Goethe:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/14/alejandra-alfaro-alfieri-tredici-poesie-inedite-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-30129
«Parlando delle opere dei nostri nuovissimi poeti siamo arrivati alla conclusione – scriveva Eckerman, – che neanche uno di loro scrive della bella prosa. – È semplice, – disse Goethe: per scrivere in prosa bisogna almeno dire qualche cosa; chi non ha niente da dire può tuttavia scrivere versi e cercare rime, e una parola suggerisce l’altra e finalmente sembra che qualche cosa riesca; e benché non significhi niente, sembra tuttavia che significhi qualcosa».
Commento di Jurij Tynjanov: «Cerchiamo di capire la sua definizione di una “nuova lirica”. Non c’è niente da dire, ossia non c’è niente da comunicare; non c’è un’idea che abbia bisogno di essere oggettivata; lo stesso processo della creazione non ha scopi comunicativi. (Mentre la prosa con il suo orientamento sulla parola simultanea è molto più comunicativa: “Per scrivere in prosa bisogna dire qualche cosa”.)
Goethe descrive come una successione lo stesso processo creativo: “una parola suggerisce un’altra” (e qui Goethe attribuisce un ruolo importante alla rima). “E benché non significhi niente, tuttavia sembra significhi qualche cosa.” Questo è il punto in cui Goethe è in contrasto con Kireevskij (“una parola detta bene ha il valore di una buona idea”). Pertanto, in entrambi i casi, si tratta di parole “prive di contenuto nel senso più lato della parola, che assumono nel verso una certa semantica immaginaria“.»*
Mio Commento:
Quello che voglio dire è questo: che spesso i poeti scrivono una parola pensando ad una «semantica immaginaria» del tutto personale, ma la questione non è così semplice, non sempre, o meglio, quasi mai una «semantica immaginaria personale» coincide con una semantica immaginaria pubblica, che il pubblico può comprendere. Spesso i poeti di minore rigore formale e mentale pensano in modo semplicistico che una semantica immaginaria personale debba SEMPRE coincidere con una semantica immaginaria del pubblico. Anche questo equivoco è stato un portato di certo sperimentalismo acritico tipicamente italiano diffusosi a macchia d’olio nel secondo Novecento.
Per tornare al nostro oggetto: la questione di una buona prosa.
È chiaro che un narratore che non abbia qualcosa di preciso da dire non potrà mai scrivere della buona prosa, ne uscirebbe un ircocervo incomprensibile. Per la poesia invece tutto sembra essere ammesso. Di frequente, io dico a certi autori di poesia che non ho le chiavi per entrare dentro i loro testi, intendendo dire che non ho le chiavi per entrare all’interno della loro semantica immaginaria.
Ecco la ragione per la quale ogni tanto mi cimento con il romanzo. Perché il romanzo mi obbliga a pensare un oggetto preciso e a raccontarlo nel modo più diretto, senza ricorrere a retorismi fuorvianti. Quindi, cari poeti, vi consiglio di misurarvi con il romanzo se volete scrivere buone poesie!
J. Tynjanov Il problema del linguaggio poetico, Il Saggiatore, 1968 p. 102
Le nuove generazioni, sanno benissimo cos’è il «Canone»,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/14/alejandra-alfaro-alfieri-tredici-poesie-inedite-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-30130
la parola magica che sta per «Canone». Il problema è: chi stabilisce che questo o quello è il «Canone» e chi è deputato ad interpretare il «Canone» (s’intende: interpretazione autentica). Ergo, il problema del «Canone» è un problema che può avere soltanto una soluzione politica. E la politica che cos’è? La politica è la prosecuzione della guerra in tempo di pace scriveva Von Clausewitz. Quindi la politica è guerra, sotto un’altra forma ma guerra. E allora chi decide il «Canone»?, ma è ovvio, lo decidono coloro che hanno le chiavi delle caserme e delle munizioni, non certo i pacifisti e gli isolazionisti.
Il fatto che tra Petrarca e Dante sia stato il primo a vincere e ad oscurare il rivale fino al Novecento inoltrato, è stato determinato da un disequilibrio politico, tra un disequilibrio dei rapporti di forza Istituzionali e culturali del settore “cultura”.
Certo, oggi abbiamo a che fare con un problema ben più modesto: se si debba scrivere in questo o in quell’altro modo per compiacere a una certa Area politico-poetica. Messa così la questione, la questione stessa non fa più questione, cessa di essere questione, cessa di essere un problema estetico e diventa un problema politico.
Quello che le nuove generazioni percepiscono, a mio avviso, è proprio questo: che il problema estetico non esiste, esiste soltanto un problema politico-poetico. Sanno che uno scontro politico lo si vince solo se hai dietro di te le masse che ti votano, se hai la maggioranza che ti sostiene. Ma se si è isolati non si pone nemmeno il problema del «Canone», mini o maxi che sia.
Le nuove generazioni sanno bene che si parla di «Canone» ma si intende «Cannone».
Per tornare a noi, una poesia come quella di Anna Ventura che abbiamo postato stamane, che cos’è? Poesia o non poesia?. A me sembra che la poesia della Ventura, proprio per il suo essere rimasta per ben 50 anni in disparte, da Brillanti di bottiglia del 1978, è cresciuta fino a diventare una poesia altamente significativa del nostro tempo. Ma è dovuta restare in disparte per ben 50 anni! Le hanno fatto fare anticamera per 50 anni. Siamo noi dell’Ombra delle Parole che abbiamo posto fine a questa indecenza dell’intelligenza, che abbiamo ripescato e riconosciuto il giusto valore alla poesia di Anna Ventura.
E’ vero che il percorso del poeta è spesso dettato da incertezza. Se manca la domanda, ben difficilmente si arriverà a trovare una risposta. Ho notato che nelle sue poesie Anna Ventura cerca La domanda. Una volta trovata lascia la risposta al lettore, secondo il principio per cui la risposta è sempre celata nella domanda stessa. Non so se, all’inverso, questo procedimento possa essere utile ai romanzieri.
Fortunato il poeta che riceve solo risposte, senza che neppure si sogni di porre una domanda ( altro discorso andrebbe fatto per i poeti sapienziali) perché ancora oggi penso alla poesia come rivelazione – di domande e risposte – ragion per cui anche un solo verso può esaurire il compito del poeta. Viene da dire: ecco perché le poesie sono brevi mentre certi romanzi si possono pesare sulla bilancia.
Le poesie si fanno lunghe quando sono fitte di domande e risposte tiepide, oltre le quali si può tranquillamente proseguire.
Mi è capitato di leggere poesie che lasciano interamente al lettore il compito di porsi delle domande: è più difficile e avventuroso, si procede per suggestioni ma spesso non si va oltre il tentativo. Questo però sarebbe anche lo spazio che si dà alla bellezza, alla quale non viene chiesto mai nulla. Per timidezza o furbizia, non so. E’ certo appagante.
Alejandra Alfaro Alfieri scrive, come altri poeti della nuova ontologia estetica, facendosi testimone. Prevale la figura dell’osservatore, presente ma silenzioso.
Sempre la primavera,
a rievocarmi nei suoi rumori.
L’odore dell’incerto, carico di tinte.
Voci, tra le vie, canzoni. E l’andare
che scorre denso, ininterrotto.
Ogni passo senza cornice.
Mi ricorda certe immagini che ho letto di Steven Grieco. Anche Steven mette in chiaro la figura del testimone: la mente dell’autore che si fa specchio (quindi, dico io, bisogna che sia pulito). Ogni cosa gli arriva. Poi lui separa, raccoglie e… cade ahah nelle sue straordinarie domande.
Ma quant’è bella questa poesia di Alejandra? bella con rivelazione:
Gli oggetti che sfuggono.
Nessuno interpreta la necessità
di chi scrive ancora il giorno.
Ogni angolo ci rifiuta.
Si va in scena senza paradiso.
Sono lusingata dell’interesse che ha suscitato, tra i lettori del blog, il mio “Mitridate”; la mia sincera gratitudine va a loro, e soprattutto a Giorgo Linguaglossa, che mi sostiene sempre, superando anche la mia personale vocazione alla latenza.Mitridate è il simbolo del potere e del pericolo che lo accompagna,ed ha il merito di aver intuito e accettato la realtà dell’enorme rischio che ogni privilegio comporta, e di aver accettato questo rischio con coraggio e disinvoltura.Cosa che non tutti gli uomini di denaro e di potere riescono a fare con altrettanto garbo.Grazie a tutti gli amici che hanno voluto esprimere un loro parere, in particolare a Salvatore Martino,che mi onora della sua attenzione critica vigile e severa,e pertanto particolarmente significativa.
Ecco una poesia di Wislawa Szymborska, la Anna Ventura polacca.
https://wordpress.com/comment/lombradelleparole.wordpress.com/30146
C’è il parlato prosasticizzato. Pezzi di prosa trafugati e manomessi per essere scambiati come pezzi di poesia. C’è, come in Anna Ventura, una buona dose di ironia, ma senza speranza e senza disperazione. C’è un tema entro il quale viene appena abbozzata una domanda, come dice Lucio Mayoor Tosi, ma non ci sono risposte. C’è la consapevolezza che la vita è un gioco di specchi e che le metafore altro non sono che specchi, e noi non siamo altro che ombre che si affannano e si affrontano dentro un labirinto per trovare una via di uscita, perché una via di uscita c’è sicuramente, altrimenti non sarebbe un Labirinto. Una via di uscita c’è sicuramente, e noi la cerchiamo, a tentoni, con gli occhi, con le orecchie, con la tranquillità della disperazione.
Sono quelle stesse caratteristiche che Alfonso Berardinelli [1], parlando della Szymborka, trova nei corrispondenti femminili della poesia italiana dei giorni nostri: fa i nomi di Patrizia Cavalli, Bianca Tarozzi, Anna Maria Carpi, Alba Donati : “lucidità intellettuale, spregiudicatezza, coraggio, mancanza di sentimentalismo, distacco ironico, libertà di pensiero… energia espressiva e comunicativa… dove si incontrano le assurde meraviglie di Alice e la prassi conoscitiva della dialettica”, il connubio difficile di “immaginazione sfrenata e occasioni di vita quotidiana… giochi di parole mai separati da giochi di idee e immagini.”
No, io credo più affine alla poesia della Szymborska quella di Anna Ventura.
Ebbene, questa non potrebbe essere una poesia della nuova ontologia estetica? Non potrebbe essere stata scritta anche da Anna Ventura?
1] A. Berardinelli, Il Sole 24 Ore 9 febbraio, 2014
Da Due Punti 2005
Labirinto 667
– e ora qualche passo
da parete a parete,
su per questi gradini
o giù per quelli,
e poi un po’ a sinistra,
se non a destra,
dal muro in fondo al muro
fino alla settima soglia,
da ovunque, verso ovunque
fino al crocevia
dove convergono
per poi disperdersi
le tue speranze, errori, dolori,
sforzi, propositi e nuove speranze.
Una via dopo l’altra,
ma senza ritorno.
Accessibile soltanto
ciò che sta davanti a te,
e laggiù a mo’ di conforto,
curva dopo curva,
e stupore su stupore,
e veduta su veduta
Puoi decidere
dove essere o non essere,
saltare, svoltare
pur di non lasciarsi sfuggire.
Quindi di qui o di qua
magri per di lì,
per istinto, intuizione,
per ragione, di sbieco,
alla cieca,
per scorciatoie intricate.
Attraverso infilate di file
di corridoi, di portoni,
in fretta, perché nel tempo
hai poco tempo
da luogo a luogo,
fino a molti ancora aperti,
dove c’è buio ed incertezza
ma insieme chiarore, incanto
dove c’è gioia, benché il dolore
sia pressoché lì accanto
e altrove, qua e là,
in un altro luogo e ovunque
felicità nell’infelicità
come parentesi dentro parentesi,
e così sia,
e d’improvviso un dirupo
un dirupo, ma un ponticello
un ponticello, ma traballante,
traballante, ma c’è solo quello,
perché un altro non c’è.
Deve pur esserci un’ uscita,
è più che certo.
Ma tu non la cerchi,
è lei che ti cerca,
e lei fin dall’ inizio
che ti insegue
e il labirinto
altro non è
se non la tua, finché è possibile,
la tua, finché è tua
fuga, fuga –
Sono lusingata dal’accostamento della mia poesia a quella della grande Szymborska;ma non credo di poter reggere pienamente al confronto con un tale personaggio; ci separa la realtà:la sua, vissuta sulle barricate del continuo confronto,la mia,nascosta in recessi monacali, dai quali non sarei facilmente uscita senza l’aiuto determinante di Giorgio Linguaglossa.
mi devo scusare con Alejandra Alfaro Alfieri e con Chiara Catapano se invece di intrattenervi con qualche mio commento ho inserito le poesie di Wislawa Szymborska, Daniela Crasnaru e Anna Ventura, tre poetesse di statura sicuramente internazionale… ma sia Alejandra che Chiara capiranno che ho voluto inserire altre esemplarità poetiche, per contrasto, in modo da rendere più viva la discussione e arricchirla di spunti.
Chiara e Alejandra hanno davanti a sé molto tempo ancora causa della loro giovane età, scriveranno altre cose che, auguro loro, possano sorpassare la Crasnaru e la Szymborska e la Ventura. Bisogna puntare in alto. Bisogna osare. Ma, credo, bisogna anche accettare le critiche altrui. In fin dei conti la prima volta che la giovanissima Szymborska presentò le sue poesie alla rivista letteraria più nota della Polonia, ricevette un rifiuto. In seguito, un redattore pubblicò quelle poesie con numerosi tagli.
Quella fu una lezione, ha raccontato la Szymborska, che le fu molto utile…
Caro Giorgio, certo mi lusinga essere accostata ad Alejandra: accostate per questa “giovane età” che ci avvicina. In fin dei conti lei ha ancora del tempo per chiudere i suoi 30 anni, io mi appropinquo ai 43.
Dunque qui colgo l’occasione per sottolineare che il suggerimento di accettare le critiche, o il noto aneddoto sulla Szymborska, son cose digerite per quel che mi riguarda, già da un decennio.
Resta, certo, l’augurio e lo sprone al duro lavoro sui propri versi. Che è e rimane il punto di partenza di qualsiasi artista.
Non sono invece d’accordo su qualsiasi distinzione gender-poetica, e mi riferisco a definizioni di “poesia al femminile”, che suona – pur non volendolo essere – una sorta di scalino verso il basso, con questo “femminile” che pare accompagnare la discesa. Sarebbe curioso capire quale “poesia al maschile” esista, a far da cartina al tornasole nella critica poetica.
Ma queste son quisquilie, il vero lavoro è quello che si fa silenziosamente, rompendo ogni volta la crosta dura che ogni artista vedrà riformarsi, ogni tot, dentro e sopra la propria arte (piccola o grande che sia).
Un caro abbraccio e buon lavoro,
Chiara
È vero che anche Alejandra Alfaro Alfieri, al pari di molti altri poeti che si riconoscono nella NOE, adotta il punto fermo a spezzare l’andamento ritmico della poesia. Però, mi sembra che la nostra autrice lo impieghi in una maniera del tutto personale: il più delle volte, vedo che lo inserisce là dove è necessario che sia, ovvero alla fine di una frase; in altri casi, per prolungare un respiro, una pausa, direi, pensando in termini musicali; una pausa un po’ più lunga, rispetto alla virgola. Questo corrisponde a un suo “fraseggio” interiore; “fraseggio”, anche qui inteso in senso musicale, ossia come la particolare maniera di dare espressività all’esecuzione di un brano, strumentale o vocale, avvalendosi di tutti quei segni utili a porre in evidenza le varie strutture della composizione. In un tempo binario semplice, per dire un 4/4, il nostro punto potrebbe corrispondere a una pausa di minima, che, per chi non la conoscesse, è una nota bianca con la gamba (non so se l’avete mai vista…). Scusate, amici, la digressione musicale. Spero di non essere stata oscura.
Mi sono sentita di fare il parallelo tra la punteggiatura e le pause musicali, perché a questo penso io quando scrivo i miei componimenti. Perciò, quando vado a leggere una poesia, interpreto la punteggiatura allo stesso modo. Anche gli “a capo” li intendo così, come fraseggio; e un doppio “a capo”, come una battuta vuota. Insomma, questo significa per me la punteggiatura in poesia e la durata del verso.
Per il resto, come osserva giustamente Lucio Mayoor Tosi, lo stile e il linguaggio sono del tutto personali: “Lo sguardo interno con cui Alejandra vede e pensa le cose è suo”. Io vedo che i versi di Alejandra, per lo più, circoscrivono un pensiero, per lasciare subito il campo a un altro, che non necessariamente abbia un nesso col precedente. E, se pure ce l’ha, io credo non sia rilevante ai fini del discorso poetico. Perché infine, ciò a cui tende la nostra autrice, è creare una suggestione. Sì, io trovo le poesie di Alejandra Alfaro Alfieri molto suggestive; mi sembrano avere la durata di brevi brani musicali adatti all’esecuzione di un piccolo organico strumentale, magari un quartetto o anche un trio: qui un clarinetto, là un violoncello ad accompagnare il canto.
Chiedo scusa ad Alejandra e a tutti voi, amici, ma stasera m’è presa così: parlando di poesia, non faccio altro che parlare di musica. Ma forse è tutta “colpa” proprio di questi versi: sono soffusi di una sfumata e irresistibile aura musicale.
Desidero ringraziare tutti, di vero cuore, per il tempo che hanno dedicato alle mie poesie, commentandole, oppure anche soltanto leggendole. Per me, che sperimento da poco la scrittura, in lingua italiana, è un onore immenso e un’autentica fortuna comparire qui, in questa prestigiosa Rivista, che considero un grande punto di riferimento letterario e una scuola di altissimo livello per chiunque voglia comprendere e approfondire i temi della poesia. Poiché L’Ombra delle Parole persegue sempre la qualità, sono davvero lusingata di aver meritato questo post; ma lo considero un semplice incoraggiamento, perché so che dovrò percorrere ancora molto cammino sulla impervia strada della poesia.
La mia più sentita gratitudine a Giorgio Linguaglossa, che ha riposto fiducia in me, intuendo nei miei versi qualche positivo sviluppo per il futuro.
Ma voglio rivolgere un grazie particolare al poeta italo-americano Adeodato Piazza Nicolai, per essersi così entusiasmato leggendo le mie poesie, da volerle addirittura tradurre! Sono rimasta senza parole: la sorpresa mi ha emozionata in modo inesplicabile.
Mi impegnerò per non deludere mai la Poesia.
Ancora grazie a tutti!!
Un caro saluto
Alejandra Alfaro Alfieri
http://www.alejandraalfaroalfieri.com
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/14/alejandra-alfaro-alfieri-tredici-poesie-inedite-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-30542
Amo, e l’ho già enunciato ne “La scialuppa di Pegaso” la poesia di Alejandra Alfaro Alfieri, per la grande tensione esistenziale che promana, che però grazie ad un sempre più matura adozione del frammento (per quanto forse nel caso di Alejandra sia tecnicamente improprio parlare di frammento in senso pieno, poiché il “giro” del suo verso da sempre l’idea di un “senso compiuto” espresso con perentoria significatività: diciamo allora punto fermo, come evidenziato dagli amici che mi hanno preceduto) si diluisce su di un orizzonte fatto di un caleidoscopio capace dapprima di convogliare la pulsione interiore in un’atmosfera del quotidiano che ne sottende lievemente la trama come una cornice “en plein air” (ma anche in questo caso evitando qualsiasi indugio autocompiacente o barocco) per poi ampliare definitivamente il respiro della narrazione verso una terza dimensione più “cosmica”. Considerando la giovane età di Alejandra e dunque gli enormi margini di ulteriore crescita che le si prospettano, direi che siamo di fronte realmente ad una voce poetica dalle straordinarie possibilità. Bellissime anche le poesie della Crasnaru (poetessa che ho imparato ad apprezzare grazie alle indicazioni forniteci da Giorgio e che sto approfondendo in questi giorni essendo riuscito a procurarmi del materiale in lingua originale) e naturalmente della nostra Anna Ventura, per la quale non solo trovo perfettamente calzante la definizione coniata da Giorgio di “Szymborska italiana” –
nonostante il suo tentativo di schermirsi- ma trovo addirittura che molte pagine finora lette della sua poesia, possano tranquillamente essere affiancate a molte tra quelle più riuscite della poetessa polacca. Buon fine settimana a tutti.
Ciò che amo nella poesia di Alejandra è quella libertà da schemi che gli toglie la ragione di stato per dargli la ragione dell’uomo . Anche il fraseggio musicale, come ben sottolineato da Donatella, contribuisce a questo risultato. In ciò riconosco la giovane poetessa argentina erede del gigantesco autore di “Finzioni”, Jorge Luis Borges, e della sua poesia. Sabino Caronia