
Mani Kaul era intento a creare un “oggetto puramente cinematico”
Steven Grieco-Rathgeb
12 gennaio 2018 alle 1.08
Cari amici, avrei voluto mettere un mio commento qui ieri sera, ma mi trovo da qualche giorno con una nuova traduzione da svolgere in tempi brevissimi, e sono arrivato a leggere i vostri alle una e mezza di stanotte, quando non ero più in grado di scrivere. Stasera ho riaperto l’Ombra, trovando nuovi eccellenti commenti… Mauro Pierno, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa!
Il testo di Mani Kaul è duro proprio perché è concretissimo: è duro perché apre vie impensate. Non è solo una questione di idee o di un suo ragionare sull’arte –che si possono facilmente opporre o confutare – MA SULLO STESSO OPERARE PSICHICO, MENTALE DELL’ARTISTA.
E’ dunque un testo duro, che costringe il lettore a fare un serio tentativo di concentrarsi per capirlo. Diversamente, la sua comprensione scivola via e si disperde.
Una delle difficoltà nel capire il testo sta nel fatto che Mani Kaul affronta e sbaraglia, il concetto fasullo di progresso che tanto occupa il pensiero mondiale oggi: quel concetto che a sua volta ha portato alla nozione della convergenza, del climax, su cui ancora si basa la stragrande maggioranza di prodotti culturali, alti o bassi che siano, poesie o installazioni che siano. Lo vediamo subito in poesia: pochissime le poesie che abbiano affrontato la questione centrale dello sviluppo, chiamiamolo, meta-tematico. Si tende invece ancora a parlare molto del contenuto. Quando il concetto di contenuto è ormai antiquato.
Ho molto apprezzato i commenti di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Chiara Catapano, Mauro Pierno. Interessantissimo quello che dice Tosi, del suo mescolarsi interamente al flusso della vita per cogliere il nascere di un’opera. Le sue poesie sono di questo una diretta testimonianza. Su una cosa non mi trovo d’accordo: tu dici, Lucio, che “L’immagine in movimento farà invecchiare i vecchi dipinti, anche quelli di Van Gogh.” Sarà anche vero, ma ahimè è tutt’altra cosa che già adesso sta determinando quell’invecchiamento: il fatto che noi sempre di più guardiamo le immagini sul computer e non sulla carta. Pensa a questo incredibile cambiamento: le immagini risultano intensificate “artificialmente” dalla luce interna allo schermo. E non ci possiamo fare nulla. Perché sempre più guarderemo le foto dei nostri cari, Van Gogh, e la fotografia d’autore sullo schermo del nostro computer di casa. I colori saranno più intensi, i sorrisi più smaglianti, le forme più profonde.
In risposta al bel commento di Mario Gabriele, devo precisare: Mani Kaul era intento a creare un “oggetto puramente cinematico”, e tutta la parte riguardante i concetti deleuziani “immagine tempo” e “immagine movimento” riguardano solo il cinema: possono far capire a noi poeti molte cose, ma non sono in questa loro forma direttamente applicabili alla poesia o alle altre arti – non prima, almeno, di una ulteriore lunga riflessione estetica sulla questione.
Quello che tu, Mario, chiami ”declassamento dello spazio” in Mani Kaul è un po’ diverso, e si riferisce, operativamente parlando, al cinema, non alla poesia o alla pittura. E comunque tale declassamento viene in gioco nel cinema principalmente come mezzo per abolire la “convergenza”, il climax prospettico, che ha fatto il suo tempo da tanto ormai, ma continua imperterrito a falsare così tanta produzione artistica. In tutti i prodotti culturali, da Hollywood alla quasi totalità dei poeti persiste questo paradigma così profondamente insediato nella mente umana da ormai 5 secoli, da non essere più nemmeno percepito dai fruitori.
Un piccolissimo esempio: in genere si finisce una poesia con una sottolineatura, una intensificazione emotiva di un tipo o l’altro: di “pathos”, di “ira”, di “dolcezza”, di “saggezza”. La tipica chiusa “emotiva” è senz’altro uno dei punti più deboli della poesia oggi, che nessuna avanguardia è riuscita ad abbattere, e che più invalida le nostre composizioni. E’ davvero difficile vedere come i poeti ancora interessati a creare questa convergenza, il climax, nelle loro poesie, possano sfuggire alla forma-poesia novecentesca.
Quello che invece è indubbiamente estrapolabile dal discorso di Mani e trasferibile a tutte le arti compresa la poesia, è la questione dello spazio sacro e lo spazio profano.
Ringrazio Chiara Catapano del primo punto del suo commento: illuminante, perché, ragazzi, la banalità entra ovunque e dovrà fare il suo corso, piaccia o non piaccia. Altro che la porosità dell’opera artistica di cui parliamo noi! I reality ci hanno letteralmente seminato! Chiara infatti evoca il “reale”, ossia “il cinema dal vero” che il filosofo-scienziato-autore e più geniale fantascientista del Novecento, Stanislaw Lem, descrive nel suo Powrot z gwiazd, (Ritorno dall’universo). In questo spettacolo detto “reale”, attori in carne ed ossa vivono tutte le esperienze realissime della vita direttamente davanti agli spettatori: vengono tangibilmente sbranati da tigri, si innamorano, mangiano un panino, scrivono poesie immortali. Poi tutto si scioglie: non era vero nulla! Proprio come il reality. Ma il romanzo di Lem risale agli anni 60 del secolo scorso…
La mia anima artistica non può che gioire di quella meravigliosa aleatorietà di cui parli, Chiara, avvenuto nello spettacolo inscenato nel cortile del carcere. Di questo abbiamo fortemente bisogno.
Sul terzo punto devo ancora pensare, perché viene sollevato un fatto letteralmente rivoluzionario: forse è proprio questo lo spioncino attraverso il quale l’uomo diventa tutto il suo ambiente. Non è detto affatto che l’uomo del dopo plastica, del dopo inquinamento, non sarà così.
Alla fine, come spesso succede, Giorgio Linguaglossa centra la questione in pieno, dicendo: “Mi sembra chiaro. Per cambiare la forma-poesia finora in uso nella poesia italiana, bisogna andare molto in profondità, alla scaturigine della forma-poesia, all’origine. Se ci si ferma a metà strada, se ci si limita a riformattare l’aspetto fono simbolico, che so, o l’aspetto meramente metrico del vers libre, faremo opera di salvataggio della vecchia forma-poesia, faremo del riformismo più o meno moderato…”
Caro Gino Rago, c’è un’altra frase nel Bravo Soldato Schweik, non so se te la ricordi, che dice che i comandanti sono spesso più umili dei luogotenenti. Ma io, diversamente da te, penso che sull’Ombra delle Parole non ci sono né luogotenenti, né comandanti. Perché non ci sono battaglie, e nemmeno guerre qui. C’è soltanto la sincera volontà di offrire poesia, e idee e concetti il più possibile concreti: applicabili concretamente alla poesia. E’ quello che tutti noi stiamo cercando di fare.
A questo riguardo, dedico a te e a noi tutti una poesia cinese dell’ottavo secolo, per ricordarci che nei nostri multiversi – almeno letterari! – la NOE è già esistita più volte in passato. Sì, caro Gino, sono assolutamente d’accordo, coltiviamo l’umiltà! La poesia è di Li I, poeta dell’epoca Tang, che estrapolo dal mio prossimo post:
Spedizione a Nord
vento gelido sulla neve di T’ien Shan
suoni di flauti, dura la marcia
fra le rupi trecentomila soldati
si girano tutti insieme: la luna
E aggiungo qui il geniale incipit della poesia di Mauro Pierno,
L’incontro
a breve in video-conferenza
devastò l’immagine.
Grazie, Mauro!
Chiara Catapano
IL CORBEZZOLO ROSSO
(2013)
Nipfjället, la Tundra Comoda – come la chiamano qui – c’innalza sui mille metri sotto il cono d’ombra dello Städjan,
e tra le ossa dell’altopiano riconosci la mia voce, cauto frinire di foglie del Rossello Alpino nell’infinito albeggiare:
sono il Corbezzolo Rosso che t’inquieta il sonno
e macchia la zolla del risveglio avvampandone la linfa.
Mi troverai dentro questa definizione, palpandomi i fianchi;
oseranno i polpastrelli raggiungere la polpa tenera del frutto?
Qui ogni amore lo separa il setaccio della metamorfosi, imposta per magia.
Così tu dovrai vagare alla ricerca dell’orizzonte esatto col quale dialogare,
e sorreggermi fino a casa senza far patire le radici.
È, questa inquietudine che sa di latte, la bussola prestata dall’infanzia alla mia vita.
Mi districavo con essa i capelli nella sera.
Ogni nodo soffoca un lieve incanto, e per quanti ne sciolga non conosce il destino del giorno successivo: altri se ne assieperebbero, frequentazioni incaute di memoria.
Se scoverai il segreto che mi tiene ancorata a terra,
arriverà precocemente la fine dell’estate;
raccoglierai quel che resta della mia voce nella neve sciolta
a margine del bosco. Maturerò nel viola
della Campanula Patula i pensieri che serrano le nostre decisioni.
E a Dalarna dipingerai un cavallino intagliato nel mio ricordo,
souvenir da mercato per le ore giocate a rincorrerci
nell’acqua dove non si tocca.

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the …
Chiara Catapano
INN
(2012)
I
A Sils l’onda che incide il suo corso fluttuante tra gole d’acciaio è la similitudine che concedo alla mia infanzia.
Intagliavo rami così come i monelli sul Timavo scelgono legno adatto per le fionde, ma poi le tue le spezzavano, gelosi tu sapessi far meglio; la differenza è che io non t’avrei tradito. Ma di questo pare non lasciar traccia il beneficio che da lontano ha saputo, suo malgrado, mutare gli orizzonti fino a piegare l’arco tra Sils e Trieste.
Tu non capisci con quale potenza l’acqua addomestichi il corso al proprio volere: l’Inn procede con intenzione, munifico, nonostante sia rasoio sulla già affilata geometria elvetica.
Filo su filo, senza scintille.
E, dentro, tutto il fuoco della creazione.
Francesco riposa come in un risvolto di vita, cucito per essere – in un giorno di crescita – liberato e adattato alla nuova misura. È paragone da sarta che lo imbriglierebbe nel muto accordo tra donne (sì, anche tra una svizzera ventenne e una donna pisana funziona l’antico patto di reciproco sostegno), se pigiate dentro l’esistenza esse sentissero -magari pure senza conoscersi, magari scostando appena la cortina densa che le separa dalla propria fine – l’inestinguibile canto d’agonia con cui lo spirito femminile si lascia riconoscere all’interno di una metafora.
Lungo le rive di questo fiume, che qui è richiamo, puro accenno al suo fulgore, la tua CC gioca ad abbandonare i sensi – per ripescarli sbiaditi più a valle, nell’ansa amichevole scavata dall’acqua, lontano dalla corrente impetuosa.
Ti ci porto ogni volta che vieni, sperando tu accolga l’invito a rianimare – nel corso dell’infanzia- questa predisposizione all’abbandono di me, cedevolezza che ammolla il petto ammaestrandolo alla giusta disposizione, senza disperare.
Questo tu potresti, ogni volta, in virtù delle fionde che non danneggiai; sebbene ancora non possa vedere l’esito di ciò che non svolsi, in tutta purezza.
Qui ti consegno i polsi. La lametta sei tu, s’agita dentro il tuo seme come dentro un’estinzione.
Così m’acquatto, sfidando il battito blu delle piccole vene che affiorano turgide, che tu le beva una volta per tutte. O mi liberi dalla mia stessa schiavitù, di cui non fosti l’artefice, ma di cui – scoperta – t’impossessasti.
II
“…più di tutti però il magnifico straniero dagli occhi pieni di senso, dal passo librante, e dalle labbra ricche di suoni dolcemente schiuse.”, scrive Novalis, e pare scavare dall’ombra il suo letto.
Fischia l’acqua ed è acquisizione di stabilità nelle mie ossa; dischiude un giorno luminoso raggiunto dalla semina inconsapevole del tuo calore.
Vedi?, la tua pelle brucia, germoglia ciò che produce. Oggi è questo filamento di pace, che un alito solleva sulla corrente, perché io non mi punga con l’accento uncinato del destino; domani sarà lo stormire, dentro una noce di vita, di ogni mia opposizione, intessendo con quell’unica voce un indumento inadatto all’intelaiatura di straniante sospetto.
Perdi il ritmo quando mi cerchi negli sbuffi di fumo della mia sigaretta; fingo anche il respiro quando ti narro le lontananze della mia infanzia.
Se come Sophie morissi, sarei per te lo spirito dell’assoluto che in te si desta e determina la soluzione ai nostri mali? …no, non distogliere lo sguardo: lo sai che mi piace passeggiare tra i nomi che darei alla mia fine. Non è la lapide il muto richiamo del poeta all’amore eterno?
Lì ti rammenteresti di noi, di quel che disperdiamo in questa incostante apposizione?
Ti dimentichi di quanto sottrai alla semplicità del divino, con tutta questa letteratura? L’anima protestante riscopre il suo vantaggio nella scabra bellezza delle sue chiese, dei suoi cimiteri.
E tu perdi due volte, se ora t’allontani lanciando l’ennesima facezia alla volta di questo fiume, abbandonando al suo destino la mia fioritura nel sacro.
III
Cresce in petto, con morbida consistenza di fieno, la lacrima schiumosa del cervo.
Il bosco riceve l’afrore della sua ghiandola, pena di desiderio nell’attesa dell’accoppiamento.
Al margine estremo, dove il verde si perde sullo sperone di roccia, il cervo gratta corteccia e muschio, sbuffa feroci nuvole bianche dalle froge dilatate.
C è il nome dentro il richiamo della femmina, la voce odorosa raccolta dalla direzione dell’acqua.
Improvviso silenzio quel frugare nell’anima animale.
CC ha nella grafia il passo saltellante della Signora di Beare, quando la contea di Cork era la stessa sua mitologia; e io mi trasformo per lei in Cernunnos -mi dice inarcando tanto il linguine, da invitare la mia natura tutta a iniettare in lei il veleno del paganesimo.
Viaggiatori mentali, dirigiamo gli spazi coltivati dalla nostra memoria nei luoghi della spontaneità boschiva.
Ma è sempre C a guidarmi, esploratore-cervo sconvolto dalla stagionale eco degli amori.
Tra i larici piegano il loro richiamo le tue ciglia; come rami gonfi di neve s’addentrano nel mio petto. Il mito che mi racconti piega la fiaba del tuo dominio dove mi attiri e m’infilzi con l’osso ramificato dello sguardo.
Non mi salverò dall’accoppiamento con la mia cerva -penso- e lei non si salverà dall’amore che ha (per me) perché la nostra religione è pura etimologia che circoscrive:
“come la cerva anela ai corsi d’acqua così la mia anima anela a te”, C sfrega il rossore invernale delle guance nell’abbraccio del mio cappotto, e dalla frizione sgorga miracolosamente il ricordo (da dove?) del Salmo 41.
“Stai pronosticando la mia morte”, mi dice sorridendo.
E, pure se non voglio crederci, non ricambio il sorriso.
” C’è qualcosa di violento nel sesso; ciò che resta scisso in me, come tutto ciò che in natura scivola e vive, è l’ombra in cui vacillo mentre ti sorrido.”
Non posso far altro che ricambiare oggi, a distanza di tanti anni, il sorriso che non capii, che non voleva tranquillizzare me, ma gettare un ponte su quell’inscindibile patto tra vita e morte che era il nostro amore.
E non posso non pensare al tragico rovesciamento: a come CC decise di scivolare nell’acqua, cercando nel ribaltamento d’immagini la sutura possibile tra ciò che era, e ciò che sarebbe potuto essere. La vidi sciogliersi al mio abbraccio, che non trovò la forza di sostenerla.
Chiara Catapano
SARASWATI, IL SEGNALE AL POETA (1997-2017)
Ho osservato i negozianti, e ho concluso che ce ne sono di due tipi: uno siede dietro il banco con animo rapace, l’altro siede dietro lo stesso banco e serve i clienti che vanno e vengono.
Contemplando questo fatto, mi fermo, rapito. Capisco che il secondo negoziante è un semplice testimone dell’andirivieni degli esseri umani: anche lui, è ovvio, compra e vende, ma dietro questo comprare e vendere, commercia diversamente negli stessi articoli, e diversamente usa la stessa moneta. Quando prende ad osservare il gesto di servire il cliente, di prendere pagamento, di dare il resto, nasce un senso. Il modo in cui vengono compiuti i gesti è uguale, ma uno se n’è accorto, l’altro no. Uno ha dato loro un valore metafisico.
Può darsi che in un primo tempo non ne sia consapevole: semplicemente gli piace vedere la gente che entra e esce: gli articoli comprati e venduti, e il denaro che cambia mano, sono gli stessi. Non vede dove sta la differenza. Non capisce come lui, da uomo giovane, era felicemente ignaro eppure pieno di ogni ricchezza.
E’ solo lentamente, a piccoli passi nell’arco di lunghi mesi e anni, che inizia a notare qualcosa.
Così, ho visto il negoziante che non vede l’ora di fare l’inventario degli articoli venduti, facendo i suoi calcoli come l’uomo assetato in prossimità di uno specchio d’acqua. Non ci può fare niente: qualcosa lo spinge da dentro.
Sono rimasto seduto tutto questo tempo, scrivendo in una stanza nella città accaldata: Firenze, dove il caldo e l’umidità allungano le ore immensamente, togliendo alle persone le migliori energie fisiche, lasciandole infiacchite, ma col pensiero ben desto: qui, dove scorrono via innumerevoli pomeriggi sudati, con il sole violento che dardeggia fuori, mentre all’interno della casa perdura l’ombra delle persiane accostate. Anch’io ho sentito la mente desta, e mi sono interamente concentrato sulla mia scrittura; in un lento processo di raccolta e scelta del materiale, ho plasmato le forme che avevo immaginato: una lenta crescita, come di un albero, o di un qualsiasi altro essere vivente, che sembra sorgere dal nulla e ramificarsi, raggiungendo ampiezza e profondità. E poi la sera, che giunge improvvisa con un alito di vento.
La magica profondità del mio pensiero: rispetto ad un’ape, dove sta la differenza? Librarsi sopra i fiori : come diverso dalle api? Sì, perché se lo vediamo diverso, dimentichiamo un punto essenziale, senza il quale non succede niente: l’arrivo inaspettato del segnale. Il segnale è ciò che riduce a nulla tutti i nostri progetti. E’ l’irruzione prepotente dell’estraneità. (Per quanto industriosa, l’ape si meraviglia davanti a tutti quei fiori.)
Ci sono irruzioni di una inaspettata, meravigliosa dolcezza, una dolcezza che ti porta via con sé. Diwali, la festa delle luci in India, e il tardo novembre: e questo sorprendente cielo azzurro, e il sole caldo del mezzogiorno, e l’arrivo prematuro della notte alle sei di sera. Le notti sono bellissime, nero pece ma con barlumi di nascoste luminosità.
Una fanciulla non riusciva a tenere i piedi radicati al suolo. Si alzava in volo verso tutto ciò che le piaceva, perdendosi in quei mondi. Finché un giorno qualcuno la chiamò: e lei, rapita, si destò.
Stamani spolveravo gli scaffali nel mio studio. Le due finestrelle aperte, il caldo entrava con la brezza. Spolveravo, quando inavvertitamente lo spolverino colpisce una minuta statuetta in cartapesta di Saraswati, che tengo appesa ad un gancio davanti ai libri. Saraswati è la dea che protegge le arti. Ha quattro braccia, e tiene una veena sulle gambe incrociate, mentre siede sulla sua cavalcatura, il cigno divino di nome Rajahamsa. I colori sono vivaci, tipici di questa tradizione artigianale della città di Varanasi.
Lo spolverino ha fatto saltare la statuetta dal suo gancio: e giù, è rimbalzata sullo scaffale sottostante, poi ha battuto in terra con un rumore spiacevole. Mi sono chinato a raccoglierla. Sembrava star bene, ma proprio accanto a lei sul pavimento ho visto un frammento nero, lucido, evidentemente un pezzo che si era staccato. Rapito, l’ho guardato, cercando poi di ricongiungere il pezzo alla statuetta. Faceva parte della testa. Ho pensato, ormai il danno è fatto, che senso ha tentare di incollare un pezzo così piccolo?
Più tardi mi trovavo ad attraversare via de’ Cerretani all’altezza dell’albergo Baglioni, lontano dalle strisce pedonali: una via molto larga, io schivavo le macchine che arrivavano veloci, gli autobus arancioni, motorini. Nel bel mezzo delle corsie è giunta quella parola: “aegis”. Era questo il pezzo che era venuto via dalla testa della dea? Come si era affacciata la parola, proprio in quel momento, quando stavo altrove col pensiero, quando attraversavo una strada pericolosa nel traffico fitto?
E’ curioso che volta dopo volta, tutto il mio “lavoro” e i miei pensieri – ogni attimo libero del giorno, e della notte quando sto sveglio, mi riportino alla stessa vecchia, identica questione: la natura dello scrivere: no, anzi, la natura di quel segnale.
Ora, mi stupiva che la parola aegis, mi avesse raggiunto così, dal nulla. Non me l’aspettavo. Come se la lingua inglese non fosse mia nel profondo, non mie tutte le altre lingue che ho mai conosciuto. In quale di esse, mi chiedo, mi sono sentito come qualcosa di più che un semplice ospite? In quale ho nuotato come dentro il liquido stesso della placenta? Un tempo mi era sembrato di nuotare in quel modo nell’inglese, o forse nello svizzero-tedesco della mia infanzia. Era un’illusione. Sentivo che non erano propriamente lingue mie: quasi ne esistesse una più interna, un Sanscrito delle profondità, un dio del dire che fluttua invisibile nelle profondità insondate del mio essere, quelle che non raggiungo mai, ma che ho talvolta percepito come realtà oscura, inesistente.
Allora non ho potuto non rompere in un sorriso: la parola aegis non era giusta. La dea non porta alcuna egida.
E adesso rimango colpito da ciò che sempre, quando ero più giovane, trovavo del tutto naturale: che le idee mi vengono talvolta in una lingua, talvolta in un’altra: magari in russo, che conosco meno delle altre. Non so perché è così, non trovo nessuna giustificazione.
Tanto più logico che una parola mi arrivi inaspettata dal Greco antico: una parola di cui non conosco benissimo il significato: ma che mi porta vicinissimo alla dea: e che mi fa sbagliare. Basta una parola. Basta una parola per evocare orizzonti prodigiosi.
Lentamente mi appare davanti un paesaggio devastato e mutilato dal continuo cambiamento, dalla distruzione, dalla incessante ricostruzione.
Sono tornato a casa, ho cercato la parola nel dizionario greco. Il segnale dato al poeta è davvero cosa strana. Mi ha confermato che il vero senso della statuetta è di proteggere – l’aegis è archetipo di “protezione”. Perfino Zeus ne doveva avere uno per farsi scudo. Non aveva niente a che fare con il pezzettino che si era rotto, ma solo con il significato di protezione che la statuetta evidentemente ha per me (e nemmeno lo sapevo). Altrimenti perché dovrebbe stare lì, vicino a dove sempre sto seduto e lavoro e aspetto il segnale?
Ho riappeso la statuetta al suo gancio davanti alla fila di libri di poesia. Per chissà quale ragione, guarda nella direzione opposta a dove sto seduto. Più volte avevo cercato di girarla verso di me, perfino storcendo il fil di ferro a cui sta appesa. Niente da fare: dopo un po’ la statuetta si era di nuovo voltata nell’altra direzione.
E’ passato qualche giorno, ho guardato la dea. Aveva cambiato posizione: guardava dritto verso il tavolino da lavoro dove io non sto più seduto.
Steven Grieco-Rathgeb
Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Studia filologia bizantina con il prof. Paolo Odorico e si trasferisce per alcuni anni ad Atene e Creta, dove approfondisce i suoi studi su cultura e lingua neogreca. Collabora con il Museo storico del Trentino per il quale sta curando la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine. Suoi articoli e testi creativi sono apparsi su riviste cartacee e online italiane ed estere. Traduce dal greco moderno (Ioulìta Iliopoulou, Agathì Dimitrouka). A luglio 2014 ha presentato al festival Stazione di Topolò la raccolta di poesie La graziosa vita, edita da Thauma edizioni sotto l’eteronimo di Rina Retis.
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com
Nel ringraziare per questo bel post, che corona il discorso di ieri, intavolato qui sull’Ombra, desidero commentare ciò che Steven Grieco-Rathgeb annota nel suo commento di ieri (oggi parte integrante di questo post):
Alla fine, come spesso succede, Giorgio Linguaglossa centra la questione in pieno, dicendo: “Mi sembra chiaro. Per cambiare la forma-poesia finora in uso nella poesia italiana, bisogna andare molto in profondità, alla scaturigine della forma-poesia, all’origine. Se ci si ferma a metà strada, se ci si limita a riformattare l’aspetto fono simbolico, che so, o l’aspetto meramente metrico del vers libre, faremo opera di salvataggio della vecchia forma-poesia, faremo del riformismo più o meno moderato…”
Ecco in poche parole centrato tutto il discorso. Quanto egregiamente riassuno da Giorgio Linguaglossa – che accidenti, riesce ad essere uno strale, a colpire nel segno e di questo desidero rendergli qui atto – è la centralità della ricerca che va fatta, a tutt’oggi, nella poesia (non solo italiana).
Giorgio più volte ha citato i poeti svedesi che hanno anticipato e stanno continuando a percorrere il cammino che in Italia in pochi hanno l’ardire di intraprendere (mi riferisco, in particolare a Tomas Tranströmer, Kjell Erik Espmark, Katarina Frostenson). Una consapevolezza profonda, che la zavorra letteraria accademica e non, nel Bel Paese strozza e umilia.
Nel Nord Europa qualche necessità, qualche consapevolezza, si è manifestata in modo inequivocabile, senza troppi passaggi di mano, troppe intermediazioni.
Ora, la sfida per noi è piantare, nel terreno ingombro delle accademie, il seme della “riscoperta del nuovo”.
Toccare quella “scaturigine della forma-poesia” è il dato più reale che abbiamo a disposizione quale fine e partenza (o “fine-partenza”).
Questa scaturigine, scavando negli anni dentro la mia poesia, posso dire di averla cercata e ricercata, perché si sposta: perché il nuovo si ricolloca ogni volta che l’hai in vista. Dunque un lavoro sulla lingua italiana, terribilmente ricca di storia – sua dannazione e sua possibilità di riscatto, allo stesso tempo – deve comprendere e compenetrae, strato dopo strato, tutta la sua memoria. Credo che, in fondo, l’originalità significhi trovare l’Origine. La scaturigine, da cui zampilla l’oro della poesia.
cari amici e lettori,
l’anno scorso ero stato contattato da un Ente che gestisce una manifestazione nazionale di poesia, “Ritratti di poesia”, qui a Roma per una «Tavola rotonda» con alcuni critici e poeti critici che rispondessero a delle domande sullo stato della poesia e della critica della poesia in italia.
Il risultato qual è stato?
Il risultato è stato che la manifestazione si farà ma della «Tavola rotonda» non c’è traccia.
La morale della fabula è presto detta: a chi organizza eventi mediatici sulla «poesia» non interessa che qualcuno rifletta e discuta sullo stato della poesia oggi in Italia, è scomodo, si rischia di attirarsi delle antipatie, di farsi dei nemici, meglio un evento festaiolo, da gita scolastica, encomiastico e augurale…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/12/due-poesie-di-chiara-catapano-e-una-poesia-di-steven-grieco-rathgeb-la-porosita-dellopera-artistica/comment-page-1/#comment-29929
Steven Grieco Rathgeb nei suoi vagabondaggi attraverso il sorgere e il tramontare delle parole nella nostra mente si sofferma a parlarci di come una parolina gli sia venuta in mente mentre attraversava il traffico di Roma: aegis… tornato a casa ha consultato il vocabolario per cercare l’esatto significato di quella parolina e ne è risultato che «aegis è archetipo di “protezione”. Perfino Zeus ne doveva avere uno per farsi scudo.»
E mi è venuta in mente una frase di Heidegger il quale riflettendo sull’essenza del linguaggio ci dice (cito a memoria) «che l’essenza del linguaggio è un evento proteggente e avvolgente l’esserci».
Che significa questa frase misteriosa di Heidegger? E che significa quella parolina (aegis) venuta in mente in modo inconsulto e improvvido a Steven Grieco Rathgeb mentre attraversava il pericolosissimo traffico di Roma?
Significa che nella sua profondità il linguaggio è uno «scudo», è un evento «proteggente e avvolgente»… l’esserci ci si può avvolgere per stare più caldo, per proteggersi dai pericoli dell’ambiente e dalle intemperie del clima e della sorte… Il linguaggio poetico è quello più vicino a questa natura profonda del linguaggio, è un evento «proteggente e avvolgente» che fa da scudo all’esserci. Senza il linguaggio l’homo sapiens non avrebbe potuto sopravvivere neanche un minuto, sarebbe perito. Il linguaggio è un evento che illumina la strada dell’esserci e lo mette in guardia dai pericoli sparsi lungo il tragitto. È esattamente questo l’essenza e la funzione del linguaggio e del linguaggio poetico. È esattamente questa l’essenza e la funzione del linguaggio poetico. L’esserci deve brandire il linguaggio come uno scudo contro le avversità del cosmo e degli altri uomini. ed è proprio questo il significato profondo che noi diamo alla nuova poesia e alla «nuova ontologia estetica», quello di proteggerci contro il linguaggio banausico della generalità dei chiacchieranti e dei ciarlanti…
Credo che questa analisi abbia attinenza con la poesia. Chi scrive è un generale della repubblica cinese…
https://aurorasito.wordpress.com/2018/01/12/perno-della-cina-verso-i-mercati-mondiali-perno-di-washington-verso-le-guerre-mondiali/
Ho letto le poesie di Chiara qui approdate, da me conosciuta come poeta vero, e francamente sono rimasto perplesso. Dovrò tornarci sopra perché non riesco a seguire il filo che conduce al lettore questa poesia.Cammino in una strada buia, parlo del primo testo, ma certamente la colpa non è insita nel testo, ma nella mia precarietà di lettore… e mi scopro antico e inadatto a comprendere questa poesia delle scaturigini, la sua centralità della scoperta, lontana dalla zavorra accademica. Certo nessun commovimento mi arriva nessuna emozione. Quanto siamo lontani dai tuoi versi mitici carissima Chiara! Mi appare nel primo testo una vaga commistione tra te e la Natura, un vago sapore ovidiano di metamorfosi tentata, insieme a un vago ricordo di un’infanzia perduta. Il tutto mi appare privo di mistero, di musica con voli che vorrebbero essere pindarici, ma risultano, alla mia modesta lettura, come slegamenti di un discorso che vorrebbe essere, profondo e circolare. Sono perplesso di fronte a un testo, parlo del Corbezzolo, che mi sembra trascinato non da immagini del profondo, ma da un discorso puramente freddo e intellettualistico. Ma ripeto la colpa deve essere della mia inadeguatezza, perché so che Catapano è un valente poeta e non scriverebbe mai versi non dettati dal suo profondo. Il secondo testo con quell’incipit vagamente nietzciano, mi devasta nella sua lunghezza, mi perdo nei suoi corridoi, che mi appaiono prosastici e non poetici. Forse un poème en prose? Ma anche in questo caso una certa cadenza è necessaria. Dovrò tornarci per avvertire meglio il sapore di queste parole da te considerate, e magari giustamente, versi poetici. Quanto alla “poesia” di Grieco mi sembra più un racconto, ma data la lunghezza mi richiede una attenzione doppia rispetto per esempio al cartaceo. Nella lettura in video mi perdo e mi stanco.
Ma siccome conosco tante opere straordinarie del Nostro rimando ad un altro momento. Caro Steven tempo fa scrissi un commento molto dettagliato su una tua poesia, che mi aveva particolarmente colpito, commento elogiato anche da Talia. Non mi hai mai risposto…magari ti è sfuggito? .Mi avrebbe fatto piacere conoscere il tuo pensiero riguardo a certi motivi che la tua poesia mi aveva suggerito.
Il problema della cultura italiana, che Giorgio non si stanca di ripetere su queste pagine è benissimo illustrato dal caso di Giacinto Scelsi, fra i massimi compositori di musica classica contemporanea del Novecento, quasi sconosciuto in patria – ma a cui Donatella Costantina Giancaspero e lo stesso Giorgio hanno dedicato più di un post su questa rivista.
Cito un passo da “Cercando… Scelsi” di Nicola Sani, in Festival Scelsi 1995-2005 (FGS)
[Negli anni 70-90 del sec. scorso, la musica di Scelsi] “…la si ascoltava nei luoghi delle avanguardie sonore: scantinati, teatri, sperimentali, nelle gallerie d’arte, a Trastevere, in Prati, o presso alcune istituzioni illuminate come la Galleria nazionale d’arte moderna. Mai nelle istituzioni accademiche. Questa distanza dall’accademismo ha contraddistinto la musica di Scelsi e ne ha caratterizzato l’ascolto. La sua figura è atipica nel panorama internazionale della nuova musica. Famosissimo in tutto il mondo dove è considerato uno dei massimi compositori del 900, è ancora pressoché sconosciuto in Italia. Questo non perché il nostro sia un paese accademico o almeno non più di quanto non lo siano altri paesi. Il problema sta nella nostra cronica incapacità di esprimere dei modelli culturali forti al di fuori di ambiti ufficialmente riconosciuti. L’avanguardia statunitense (Cage, Brown, Feldman, Wolff), antiaccademica per elezione, è stato un fenomeno esplosivo in tutto il mondo e resta ancora oggi un punto di riferimento imprescindibile per comprendere la musica del secolo che con ostentato distacco definiamo “scorso”. L’avanguardia italiana che si è affermata internazionalmente è stata dunque – anche suo malgrado – accademica; chi ha operato al di fuori di quel contesto non è riuscito, in quel periodo, a varcare il perimetro di un ristretto circondario. Ma nel caso di Scelsi il riconoscimento è arrivato all’estero, in paesi e realtà culturali tra loro anche estremamente distanti.”
Tutta qui sta la questione. Per non dire tragedia. Ma per noi poeti il compito deve essere, dice Chiara, “Una consapevolezza profonda,” per quanto “la zavorra letteraria accademica e non, nel Bel Paese” voglia strozzarla e umiliarla.
Giorgio aggiunge: “Il linguaggio è un evento che illumina la strada dell’esserci e lo mette in guardia dai pericoli sparsi lungo il tragitto.” E inoltre: “L’esserci deve brandire il linguaggio come uno scudo contro le avversità del cosmo e degli altri uomini. ed è proprio questo il significato profondo che noi diamo alla nuova poesia e alla «nuova ontologia estetica», quello di proteggerci contro il linguaggio banausico della generalità dei chiacchieranti e dei ciarlanti…”
Cosa altro dire? Niente.
Spesso si confonde il commerciante col garzone. Il commerciante è quello rapace, il garzone, invece, serve i clienti. Da che mondo è mondo, così accade.
Le parole proteggono i poeti, o li dannano in eterno,”aegis”. Ci piacciono le illuminazioni di Grieco.
caro Steven,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/12/due-poesie-di-chiara-catapano-e-una-poesia-di-steven-grieco-rathgeb-la-porosita-dellopera-artistica/comment-page-1/#comment-30009
il problema è il linguaggio poetico. Chiediamoci:
quand’è che un linguaggio poetico diventa significativo? Come accade che un poeta incontra il proprio linguaggio poetico? Dove lo trova? Sta da qualche parte già bello e compiuto? Ha il poeta qualche margine di azione nella costruzione del proprio linguaggio poetico?
Tante domande, nessuna risposta. In queste due poesie di Chiara Catapano riesce evidente che esse appartengono ad un periodo (mi sembra il 2011) in cui l’autrice si doveva ancora confrontare con gli assiomi e gli assunti della «nuova ontologia estetica»; in questo linguaggio si rinvengono alcuni stilemi della poesia “al femminile” che io spesso stigmatizzo quando parlo delle «poetesse» pubblicate da Einaudi. Certo, in Chiara c’è una grande capacità di orchestrazione, ma questo, mi permetto di dire, non basta. Sono, a mio avviso, delle prove di orchestrazione, prove d’orchestra, quelle che un tempo lontano si definivano «sperimentali»…
Voglio dire che in questi ultimi due decenni la scrittura al femminile ha avuto uno sviluppo davvero rigoglioso e invasivo. Alcuni nomi: Chandra Livia Candiani, Mariangela Gualtieri, la Bedini e innumerevoli altre scritture al femminile, un vero diluvio di «poetesse» che ci parlano delle loro questioni private e delle loro ubbìe. Poesie dichiarative scritte con un linguaggio dichiarativo. Tant’è che proprio ieri a un personaggio femminile che aveva scritto una «poesia» d’amore ho risposto, in facebook, che quella era una dichiarazione d’amore diretta ad un uomo ma non una poesia. Il fatto è sintomatico della gran confusione che esiste oggi tra le dichiarazioni in gergo poetico e la forma-poesia. Poi c’è anche una scrittura «femminilizzata», quella di un certo Franco Arminio, frutto di un cumulo di banalità sconcertanti messe in righe (orizzontali e verticali)… con centinaia di allegri epigoni dell’epigono… Epperò, nulla nasce dal nulla se è vero che nessuna voce si leva a dichiarare che queste sono delle sciocchezze messe in orizzontale e in verticale con in più tanta bambagia in mostra, roba da slam poetry e chat poetry. Perdonatemi, ma ogni tanto bisogna dire le cose come stanno, bisogna essere seri. Per troppo tempo si sono scritte e sono state spacciate per poesia delle «cose» che altro non erano che battute di spirito messe in orizzontale e in verticale… per troppo tempo abbiamo preso le poesie spiritose di Valentino Zeichen come quelle di un padre della patria…
Il problema è che quando un certo tipo di linguaggio poetico (in questo caso quello che Costantina Giancaspero definisce “al femminile”) cessa di avere un rapporto attivo con i problemi del nostro tempo, anch’esso cessa di essere significativo, cioè non significa più niente.
Per esempio, sto rileggendo la poesia di Margherita Guidacci (1921-1992). Ebbene, la sua opera d’esordio, La sabbia e l’angelo (1946) è rivelatrice di un vero talento poetico che rompe tutti gli schemi della poesia post-ermetica con un linguaggio alto di derivazione biblica e metafisica.
Ecco cosa scriveva la Guidacci: Consigli a un giovane poeta (1947):
Meglio scrivere un libro importante nel deserto,
Dirgli «Sei frutto del deserto, qui sei nato e qui rimani,
Solo le pietre e il vento ti avranno conosciuto»,
Che diventare celebri per un equivoco.
Consigli da sottoscrivere in toto.
Il fatto è che dal libro di esordio la Guidacci nei decenni successivi non riuscirà ad elaborare un linguaggio poetico compiuto malgrado alcuni spunti, qui e là, di alto livello etico ed estetico come nelle poesie di L’orologio di Bologna (1981) scritte a ridosso della bomba stragista alla stazione di Bologna, un evento che ebbe una importanza enorme per il paese Italia e malgrado alcune vette contenute nella raccolta L’altare di Isenheim (1980). Il problema è che, progressivamente, la Guidacci perde il controllo del suo strumento espressivo, perde di vista il suo linguaggio poetico esondando in una prosa ritmicizzata, generalista.
Accade spesso che i poeti perdano il contatto con il proprio linguaggio poetico, allora finisce un’epoca del proprio stile e la poesia si inaridisce e si smarrisce…
La «nuova ontologia estetica» è proprio questo: voler rimettere in discussione tutte le categorie con cui nel secondo novecento si è creduto di fare poesia. Rimetterle in discussione, non solo, ma riformularle… La poesia che vorrà emanciparsi dall’epigonismo invasivo di oggi dovrà necessariamente misurarsi con gli assunti della «nuova ontologia estetica», altrimenti si rischierà di restare «laterali», marginali, epigonici… e non più significativi.
Quando sono stati presentati questi lavori non ho pensato – non mi è proprio sovvenuto! – di specificare un paio di dati che effettivamente possono essere importanti per la lettura dei due miei testi. Lo faccio ora, sperando che possa dare una chiave diversa per aprire questa scrittura che, lo so, si svela a volte con cautela.
I due testi sono estrapolati da un’opera che consta all’incirca di un centinaio di pagine. Faceva parte di un progetto artistico molto interessante, dove io ero chiamata a scrivere su due personaggi inventati da un poeta geniale, con il quale ho collaborato per alcuni anni. I personaggi attraversavano così una storia, e la storia veniva filtrata in tutte le forme poetiche raggiungibili dal racconto.
Ho dovuto qui cambiare – mi riferisco al secondo pezzo – le iniziali del nome femminile, ed il nome maschile dei due personaggi, perché poi la collaborazione si sciolse, e – benché i testi sono frutti dal mio ramo – i personaggi non lo sono, e dunque ho ritenuto più onesto qui apportare queste modifiche.
Detto questo, posso meglio inserirmi nei commenti precedenti.
Innanzi tutto, per quanto riguarda quella scrittura al femminile, di cui Giorgio giustamente parla – perché si potrebbe pensare alla poesia dichiarativa d’autoconfessione, modulazione lirica dell’io, etc.
In realtà la sfida bellissima di entrare nella psicologia di due personaggi assolutamente ben delineati, quali mi furono presentati, mi diede l’opportunità di cimentarmi con un tipo di poesia e di verso molto lontani proprio – o volevano esserlo – da quella poesia/diario/confessione.
Ho qui messo a punto un discorso che poi ha dato l’avvio all’altro mio lavoro – che fu presentato un anno fa su questo blog, “Alìmono”: una scrittura dove gli slegati interni, il verso disarticolato, la suddivisione dl discorso va in cerca di nuove “unità melodiche” – come avrebbe potuto chiamarle Gian Luigi Beccaria – ove il significato emergesse come da una visione attraverso l’acqua.
Qui la scrittura è (ricordandoci che siamo dentro ad una forma di racconto-in-versi) divaricatissima: si apre e in alcuni casi (non questi presentati qui) si regge quasi al limite della tensione d’apertura.
Si genera certo una teatralizzazione, ma al di là del racconto inscenato, desidero porre l’attenzine sullo scavo della parola-verso: parola che si espande al tutto, parola tirata per giungere all’estremo e consegnare un’immagine straniata, ma vicinissima al vero. Il “gap”, quel “vicinissimo” e non aderenza completa, è il pertugio da cui far entrare il mondo e da cui deve uscire poesia.
Spero così di aver chiarito anche a Salvatore Martino le sue comprensibili perplessità nella lettura. Quello che si chiede qui, è un entrare stratificato, perché la chiave è proprio nei gangli di slegatura/giuntura. Apparentemente innocui, a volte sotterranei ma sempre presenti: cifra però di quel che si voleva in nuce mostrare di quella “porosità” – espressione felicissima coniata da Steven Grieco per intendere proprio una nuova esigenza della scrittura oggi.
Benché i lavori risalgano ad un momento precedente all’incontro con la NOE, desideravo mostrare ai lettori che la ricerca era nell’aria. Ed è stato bello poi constatare che in molti erano e sono sulla stessa strada di ricerca.
Aforismi sul linguaggio della «nuova ontologia estetica».
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/12/due-poesie-di-chiara-catapano-e-una-poesia-di-steven-grieco-rathgeb-la-porosita-dellopera-artistica/comment-page-1/#comment-30011
«Per Merleau-Ponty “il linguaggio assomiglia alle cose e alle idee che esprime, è la fodera dell’essere, e non si concepiscono cose o idee che nascano senza parole (… vi è un luogo in cui tutto ciò che è, o che sarà, si prepara contemporaneamente a essere detto…)”, e dunque “si tratta solo di incontrare questa frase già formulata nel limbo del linguaggio, di captare le parole sorde che l’essere mormora[…] il filosofo parla, ma è una debolezza, e una debolezza inspiegabile: egli dovrebbe tacere, coincidere in silenzio, e raggiungere nell’Essere una filosofia che vi è già fatta. Viceversa, tutto avviene come se egli volesse tradurre in parole un certo silenzio che è in lui e che egli ascolta. La sua intera ‘opera’ è questo sforzo assurdo. Il filosofo scriveva per dire il suo contatto con l’Essere: ma non l’ha detto, e non potrebbe dirlo, giacché questo contatto è tacito”».1]
1] cit in Massimo Donà in L’aporia del fondamento Milano, Mimesis, 2010 pp. 508-9
Il presupposto del linguaggio è il linguaggio.
Il presupposto del linguaggio non è il pre-linguistico, che non ha ragione di esistere in sé ma soltanto in rapporto al linguaggio che si auto determina in quanto si auto significa.
Nel linguaggio si riflette l’originaria onticità dell’ente in quanto ente linguistico.
Il linguaggio è il luogo dell’incontraddittorio.
Il linguaggio è il luogo di tutte le contraddittorietà in fieri.
Nel linguaggio sorge l’Altro, che non potrebbe sorgere se non nel campo dell’Altro.
Il linguaggio è sempre il linguaggio dell’Altro perché presuppone l’esistenza di un altro ab origine, e quindi l’esistere dell’io è subordinato all’esistenza dell’Altro.
O l’uno o l’Altro, o esiste l’uno o esiste l’Altro, ma è sempre nel linguaggio che ciò può accadere. Il linguaggio è la precondizione dell’esistenza dell’io e dell’Altro.
Carissima certo ricordando alcuni tuoi testi straordinari,e mi riferisco a quelli coinvolti nel mito vorrei da te conoscere la cronologia dei medesimi rispetto ai due qui apparsi qui, e anche nei confronti del tuo incontro con la NOE. Allora mi sembrarono molto distanti dal decalogo tracciato da Rago e Linguaglossa, ma forse mi sbagliavo. Per tornare ai due di sopra dopo aver letto ancora una volta rimangono le mie perplessità. Il lettore capisce poco a meno che non sia introdotto nei misteri della nuova estetica…i legamenti di cui parli appaiono talmente sotterranei che sfuggono..mi sembrano poesie scritte per te sola, come se la tua esperienza, magari reale, non si trasmettesse ad altri. Vedi è importante che il nostro dialogare non rimanga confinato a noi stessi, che diventi un dialogo, altrimenti la poesia si sterilizza in narcisismo inutile. Comunque ci sono passaggi notevoli e l’impianto di commistione con la Natura , e mi ritornano le Metamorfosi, è comunque suggestivo. Forse un lavoro più crudele di lima e una maggiore attenzione alla cadenza musicale gioverebbero a far diventare i testi più non solo accessibili, ma certamente di spessore poetico più rilevante. In questo non ho dubbi. Come tu sai la poesia è anche folgorazione, discorso non esplicativo, privo di compiacimenti. Bisogna avere coraggio, usare la scure della crudeltà. A volte sacrificare versi o strefe o almeno parole che ci piacciono può essere doloroso ma comunque necessario. Ricordiamoci sempre Eliot-Pound e Terra desolata.
Se non conoscessi altre tue opere non parlerei in questi termini, ma quello che di te ho letto in passato mi autorizza a declinarti le mie perplessità.Un’ultima osservazione di carattere generale: Mi sembra di riscontrare in molta poesia che leggo oggi uno scollamento dalla vita vissuta dal poeta stesso, una certa astrazione, lontana dalla concretezza, dalle immagini reali poi trasfigurate, dalle emozioni, dai ricordi, dal pensiero posseduto al profondo, dai convincimenti su se stesso e gli altri, dal dialogo con l”Altro, la ricerca del Sé, la visione dell’Universo, in fondo le ragioni ultime dell’Uomo, compreso ovviamente il nodo cruciale quel viaggio sulla barca ultima che tutti ci aspetta. Mi rendo conto che tutto questo appartiene al mondo dell’Io tanto vituperato, ma io da buon passatista sono rimasto ancorato a Leon Battista Alberti a Marsilio Ficino e a tutti i grandi poeti del passato. Mi pare che in questi due testi il tuo specchio abbia poco funzionato, certo non come in altri che ho avuto la ventura di leggere.
Le domande che fai, Giorgio, lo sai tu stesso che sono al limite dell’impossibile. Perché invece di invocare possibili risposte, invocano altre domande. Qui si va a indagare nel profondo della psiche umana, in quei luoghi che gli psicologi credevano di aver capito e che invece rimangono ignoti come prima.
Così i grandi critici letterari di ieri pensavano anch’essi con il Marxismo, lo Strutturalismo, la Semiotica, di aver svelato il grande arcano della scrittura.
Ma molta della nostra, di noi poeti oggi, confusione è dovuta al fatto che quando eravamo ancora imberbi letteratini ventenni, su questa irrisolvibile questione ci si erano messi certi intelligentissimi furbissimi artigiani della letteratura come Umberto Eco che pensavano di aver capito, leggendo Borges, che la letteratura era in fondo niente più che un meraviglioso gioco combinatorio.
Povere vittime del positivismo, dell’infanzia del pensiero umano.
Le conoscenze che abbiamo oggi ci stanno portando a grandissimi passi alla intelligenza artificiale. I più semplici fra noi pensano questo una dimostrazione della grande capacità umana di entrare e rompere codici del comportamento umano, dell’operare della natura, insomma dell’Essere delle cose, perché in fondo il mondo non è altro che una grande, sofisticatissima macchina.
Ne sanno qualcosa in più gli astrofisici, da quanto ho capito in questi ultimi anni. Ho recentemente visto un documentario sul CERN di Ginevra. Anche se alcuni di essi gracchiano onnipotenza, in realtà i più accorti scienziati – e non sono pochi – sanno benissimo, come mi ebbe a dire anni fa una giovane e geniale donna fisico, “operiamo nel buio, ogni tanto troviamo qualcosa”.
Arriviamo a Chiara Catapano. Qui siamo anni luce dalla poesia “al femminile”, che pure è una cosa che esiste, perbacco se non esiste. Conosco le poetesse Einaudi. Ma bisogna entrare attraverso lo specchio della estrema lucentezza di questa superficie, l’abilità letteraria, l’artificio un po’ stregato, di questa scrittura della Catapano, per capire dove si va. In nessun punto di questi due scritti io mi sono sentito condurre da una mano persuasiva e semi-invisibile a quel dominio che si chiama “scrittura al femminile”.
Insomma, non farsi accompagnare dalla guida ingannevole dello stile e dagli apparenti significati.
Prendiamo un pezzo:
sono il Corbezzolo Rosso che t’inquieta il sonno
e macchia la zolla del risveglio avvampandone la linfa.
Mi troverai dentro questa definizione, palpandomi i fianchi;
oseranno i polpastrelli raggiungere la polpa tenera del frutto?
Qui ogni amore lo separa il setaccio della metamorfosi, imposta per magia.
Così tu dovrai vagare alla ricerca dell’orizzonte esatto col quale dialogare,
e sorreggermi fino a casa senza far patire le radici.
Che vuol dire? Quale linearità di Senso trovate qui? Io nessuna. Io qui vedo una inventiva sbrigliata, una pazzamente libera corsa verso un nessun dove, un nessun senso: sorretta però sempre da uno stile encomiabile, una raro equilibrio di sonorità, di apparenti significati, di immagini, colori. Sembra che l’autore appartenga ad un altro tempo! Ma leggendo bene, ci accorgiamo che il testo ci da dicendo: non cercate di capire come avete sempre capito!
Leggendo bene, si capisce che non dobbiamo intelligere come si fa normalmente, diciamo per una Gualtieri. Qui le questioni private, le ubbie, non ci sono proprio.
Qui tutto sembra, ma non è. Non per la burbizia di un Eco: ma per aprire un inaspettato, non familiare senso delle cose. Il cambio costante del soggetto, porta il lettore ad avviarsi su tante strade che si intersecano ma non portano da nessuna parte.
Si dirà: visto che il Senso lineare è assente, dove allora il piacere di questa lettura? Io rispondo: nel gioco dello sgambetto che mi apre una nuova visuale sullo stesso modo di fare poesia o prosa. Già nel Novecento l’autore tendeva sempre più a scrivere sullo scrivere. Nel nostro Ventunesimo, questa tendenza è andata avanti con la Frostenson, Espmark. Siamo ai limiti di una nuova scrittura e non lo sappiamo neanche.
Nei pezzi di Chiara Catapano vedo il germe della distruzione che innesca un profondo ripensamento di ogni base di certezza che un tempo può essere appartenuta alla letteratura. Penso che l’autrice avrà una lunga strada da fare per capire lei stessa come si va avanti da qui. Ma questo è normale, noi tutti siamo andati avanti nell’incertezza per anni.
Comunque, abbiamo visto questo procedimento già altrove. La Herta Mueller, per dirne una. Ma è ancora un fatto raro. Perché? Perché Signori miei, dopo aver parlato e riparlato, si cerca ancora in tutti i modi di privilegiare il Senso, il Significato, the Meaning, die Meinung.
Ebbene, in prosa, ma anche in poesia ne sono convinto, la prima cosa dove abdicare è esattamente qui, sul Significato.
Noi tutti parliamo di farlo, e come no! Ma quanto è difficile, questa cosa! La penna, il pensiero, caparbi, ci riportano duramente alla nostra base… alle nostre scuole, alle nostre università, alle nostre ultime residue certezze.
Oggi, nella scrittura letteraria, questo è il verme che rode e disgrega.
Ossia: quanto è difficile andare a cercare quell’altra cosa, che non è il significato “ricevuto”, “tramandato”: una volta spezzato il nesso logico, quanto è difficile far emergere l’inaspettato senso, quello ancora oscuro, l’appena intuito nei risvolti confusi dello scrivere.
Ma questa è la strada. Non ne ho dubbi. Il mio pensiero è radicale. Ma intanto quante volte la penna mi sfugge di mano e fa quello che vuole lei, continuamente la mia testa fa quello che vuole lei. Bisogna persistere.
Eppure in musica se ne erano accorti 60 anni fa.
In questo senso, benché abissalmente diversi, non vedo, a certi livelli, una grande differenza fra i lavori di Chiara Catapano, di Caronia, di di Carlo, di Sagredo. O, se è per quello, dei molti altri lavori che noi presentiamo su queste pagine. Ovunque, laddove ancora perdura il Senso, troviamo, guardando bene, il verme, il tarlo che rode e disgrega all’interno.
E’ altrettanto chiaro tutto questo quando di colpo le voci su l’Ombra ammutoliscono. Hai notato, Giorgio, che questo post è passato nel quasi totale silenzio? Quando si arriva al dunque, silenzio. Perché infatti i testi di Catapano pongono quesiti difficilissimi. Non abbiamo voglia di affrontarli.
Il massimo punto della scrittura oggi si istituisce nella inaccessibilità del testo. Però anche questa inaccessibilità… è falsa. Questo lo abbiamo visto a sufficienza nella contrapposizione negli ultimi decenni fra il romanzo “godibilissimo” da leggersi sul volo intercontinentale, e il romanzo duro, incomprensibile di Herta Mueller.
E si badi bene, non sto valutando il valore, la qualità, il “contenuto” della opera. Perché oggi penso questo sia francamente impossibile. Anziani rispettatissimi critici letterari quali Emerico Giachery e sua moglie, mi hanno confessato che di fronte alla nuova scrittura i loro antichi nobili strumenti sono tutti spuntati: siamo davanti ad una scelta dura: lo scritto “godibilissimo”, o questa nuova irta scrittura che iniziamo a intravedere.
Rimane il fatto che talvolta in tale inaccessibilità il testo è perfetto e impeccabile come questo della Catapano. Talvolta è irto, sconvolto, devastato come un villaggio iracheno dopo un raid alleato (Sagredo)!
Adesso sono troppo pieno di lavoro. Ma molto presto indicare volta per volta, punto per punto, dove il discorso della Catapano di colpo si disgrega, di colpo erra cieco, dove viene di colpo riacchiappato e ributtato in un nuovo nonsenso.
Incollo qui la poesia di Chiara Catapano del 2013:
IL CORBEZZOLO ROSSO
(2013)
Nipfjället, la Tundra Comoda – come la chiamano qui – c’innalza sui mille metri sotto il cono d’ombra dello Städjan,
e tra le ossa dell’altopiano riconosci la mia voce, cauto frinire di foglie del Rossello Alpino nell’infinito albeggiare:
sono il Corbezzolo Rosso che t’inquieta il sonno
e macchia la zolla del risveglio avvampandone la linfa.
Mi troverai dentro questa definizione, palpandomi i fianchi;
oseranno i polpastrelli raggiungere la polpa tenera del frutto?
Qui ogni amore lo separa il setaccio della metamorfosi, imposta per magia.
Così tu dovrai vagare alla ricerca dell’orizzonte esatto col quale dialogare,
e sorreggermi fino a casa senza far patire le radici.
È, questa inquietudine che sa di latte, la bussola prestata dall’infanzia alla mia vita.
Mi districavo con essa i capelli nella sera.
Ogni nodo soffoca un lieve incanto, e per quanti ne sciolga non conosce il destino del giorno successivo: altri se ne assieperebbero, frequentazioni incaute di memoria.
Se scoverai il segreto che mi tiene ancorata a terra,
arriverà precocemente la fine dell’estate;
raccoglierai quel che resta della mia voce nella neve sciolta
a margine del bosco. Maturerò nel viola
della Campanula Patula i pensieri che serrano le nostre decisioni.
E a Dalarna dipingerai un cavallino intagliato nel mio ricordo,
souvenir da mercato per le ore giocate a rincorrerci
nell’acqua dove non si tocca.
*
non c’è dubbio, caro Steven, che qui ci sia in azione, e ben visibile, una inquietudine, una ricerca che le poesie delle ambasce “al femminile” delle poetesse di Einaudi neanche si sognano, se ne parlo è perché considero Chiara Catapano ben più di una promessa per la poesia italiana. Però devo dire che per una volta condivido il pensiero espresso nell’ultimo commento da Salvatore Martino circa un lavoro di «crudele» puliture che i versi avrebbero necessitato. Detto questo, non c’è dubbio che la poesia di Chiara Catapano, quella antecedente l’incontro con la «nuova ontologia estetica», come quella riportata sopra, mostri delle «incertezze» sulla direzione in cui avviare la sua scrittura, la stessa adozione del prosimetro, la stessa complessificazione sintattica e semantica della sua poesia ne sono la spia. Quella «complessificazione» del discorso poetico che è anche il maggior prodotto dello sperimentalismo italiano del novecento, e anche la narrazione come «fabula» con quell’aria ariostesca che circola in questa poesia, tutti questi sono elementi positivi altamente gravidi di possibilità future di sviluppo della sua poesia.
Non a caso ho citato l’esempio di una poetessa di assoluto livello per la tradizione italiana del secondo novecento: Margherita Guidacci, la quale, dopo il brillantissimo esordio di La sabbia e l’angelo (del 1946), tenterà in tutti i modi di trovare una via, una strada maestra nella quale avviare la propria poesia senza però mai incontrarla… Ma è che un poeta incontra il proprio linguaggio poetico quando le condizioni storiche e stilistiche lo consentono, e probabilmente le circostanze storiche e stilistiche negli anni settanta e ottanta e novanta in Italia non consentivano facili soluzioni alle aporie della forma-poesia. Ma questa è la storia di oggi. Io sono più di 30 anni che rifletto e cerco una via di uscita dalle secche della poesia italiana. Tu anche sono più di 30 anni che rifletti e ricerchi una via di uscita dalla sabbia nella quale la poesia italiana degli scorsi decenni si è insabbiata, e so di non poter chiedere a nessuno di fare in tre giorni quello che io ho fatto (forse) in 30 anni.
Ma adesso la «nuova ontologia estetica» è diventata una realtà, basta saper leggere le poesie tue di Mario Gabriele, di Costantina Giancaspero, di Anna Ventura, di Gino Rago e degli altri numerosi che si stanno orientando in questa direzione. Chi legge con superficialità e superciliosità le poesie e le cose che stiamo facendo (parlo per i molti poeti che sono tuttora insabbiati nella sabbia e non se ne accorgono), non farà mai neanche un millimetro in avanti, resterà a fare poesia dozzinale da epigoni…
Chiara Catapano si esprime con un linguaggio trasparente e assai comprensibile, in poesia, per il poco che ho letto, come nella prosa dei suoi commenti. Queste poesie frastagliate nella forma ( non nel linguaggio) indicano però che Chiara, negli anni 2012/13 – si stava ancora arrovellando su temi – incontro, relazione – che rischiano di relegarla a tematiche del femminile, che pure ci potrebbero stare ma che in generale, femminile o no, stanno a indicare l’animo diviso: tra istinto e ragione, tra semplice osservazione e bisogno di conoscenza, pulsioni e domande. Si crea così una bolla esistenziale che avrebbe bisogno di dissolversi, ad esempio separando le parti in conflitto – la non scelta di tantrica memoria, il Sì – ma questo secondo me. Ne deriverebbe però una maggiore comprensione dell’essere, anche in chi vorrebbe leggere, o almeno se ne avvertirebbe la presenza. Questione di consapevolezza.
Mario M. Gabriele ha scritto “In viaggio con Godot”, titolo che secondo me dice tutto in merito al contenuto.
Caro Lucio, ho solo da obiettare – rispetto al tuo commento – un punto. Ovvero riguardo ai temi, perché nel progetto che stavo portando avanti – ma l’ho scritto solo in nota più sopra, dunque non appare nel corpo del post – , dovevo scrivere come da un canovaccio una sorta di “copione poetico”. Ed è stato bellissimo immergermi dentro una storia, per trarne versi. Dunque questi testi non rappresentano una biografia, o una nota biografica e lirica: appartengono ad un altro genere di esplorazione, che all’epoca affrontai con gioia e stupore. E devo dire che se i testi danno l’impressione di quell’animo diviso, (“tra istinto e ragione, tra semplice osservazione e bisogno di conoscenza, pulsioni e domande”, come giustamente appunti) questa è ulteriore conferma della riuscita della scrittura, perché il personaggio aveva esattamente questa problematica. Morirà poi suicida.
A me interessava iniziare in quegli anni, e questo era ciò che desideravo portare qui a testimonianza, uno studio dentro il discorso poetico, che toccasse la struttura perché sentivo insufficiente il linguaggio poetico a disposizione (ho iniziato a scrivere relativamente tardi, ma era chiaro da subito che qualcosa andava disvelato, qualcosa nel linguaggio poetico doveva risorgere primigenio, esprimere il mondo e non descriverlo e basta).
Credo che questi testi abbiamo confuso le acque e gettato una sorta di fraintendimento, riguardo alla “scrittura al femminile”. Era, quel progetto che fu a quattro e poi persino a sei mani, per un periodo, un tentativo di legare scritture, di mescolare esperienze. Di spezzare, per quanto mi riguarda, una serialità poetica che è poi quell’autoreferenzialità che nella NOE si cerca di abbattere.
Grazie per il tuo commento, apprezzatissimo.
11
profonda.
profonda la gioia di infinito che vortica
nel segno distinto di un otto compiuto,
in volo ti ascolto assopito volatile
che danza tua breve
l’animo infiamma.
che breve poetare somministra alla gente l’immagine nostra,
imperfetta, mondiale.
è questo mio bacio, poeti,
su pietra marmorea posato,
la sintesi estrema labile, non lapide.
(Abbraccio entrambi. Grazie a te,Steven. )
Grazie OMBRA
caro Mauro,
sulla questione dell’«infinito» cito Wittgenstein:
«L’infinito non è in concorrenza col finito. È ciò che essenzialmente non esclude nessun finito».
Il che implica la compresenza istantanea sia dell’infinito che del finito.
1] L. Wittgenstein Osservazioni filosofiche trad it. Einaudi, 1970, p. 117
Cari amici,
nella mia modestia di semplice lettrice, ritengo che i versi di Chiara Catapano non rivelino il benché minimo accenno a quella che identifichiamo come “poesia al femminile”; è una definizione, questa, che, avendo perso la sua valenza antica, noi oggi adoperiamo semplicemente per indicare un sotto-genere della poesia. E qui, i versi di Chiara Catapano tutto possono essere, meno che un sotto-genere. Questo è già stato sottolineato, per fortuna: e me ne compiaccio. Aggiungo: magari tanti avessero avuto l’abilità di scriverli come li ha scritti l’autrice. Sono versi che si innalzano, si proiettano in una sfera di assoluta libertà lessicale e immaginifica; quella assoluta libertà che è frutto di ricerca consapevole. Chiara, al tempo in cui componeva i suoi versi, sentiva urgente la necessità – come essa stessa dichiara – di “uno studio dentro il discorso poetico, che toccasse la struttura” e, ai fini del nuovo progetto artistico cui era stata chiamata a collaborare, sentiva insufficiente il linguaggio che era stato suo fino a quel momento. Era necessaria un’altra chiave espressiva. Chiarissimo! E poi si trattava anche di scrivere a tema, delineando la psicologia di due personaggi, con la necessità perfino di “una teatralizzazione” del discorso poetico. Insomma, il progetto artistico imponeva una vera e propria orchestrazione! Quella orchestrazione che emerge dalla stratificazione dei testi. Un lavoro ben difficile, dobbiamo riconoscere, che esigeva una ricerca tutta particolare. Qui non si tratta di dire se i versi che abbiamo letto siano migliori o peggiori di tanti altri che conosciamo dell’autrice. Quel progetto ha condotto Chiara su una determinata linea di ricerca e si è concretizzato in quel modo. Va bene così. Per poterli comprendere, dobbiamo inquadrarli nel periodo e, soprattutto, per la finalità con cui sono stati pensati e realizzati. Di sicuro la vita poetica non muore con essi: non rappresentano un punto di arrivo, ma una tappa importante – e sottolineo importante – nel percorso artistico che io auguro a Chiara lungo, costruttivo, brillante. Perché, quando c’è il talento, tutto si può fare.
Cara Costantina, hai toccato tutti i punti con precisione assoluta. Vi era uno strano fraintendimento intorno ai temi, che tiravan dietro altri fraintendimenti che oscillavano tra autobiografismo e parole accatastate in libertà.
La progettualità, l’elaborazione di un linguaggio ad hoc per il progetto, l’approfondimento… tutte cose che sono state la base per due anni di lavoro (decine e decine di pagine).
Bene le critiche- non si pensi che le scansi – purché attinenti a questo.
C’è poi da dire, e mi si consenta di sottolinearlo (altrimenti qui rischiavo di passare per una neofita assoluta della poesia), che da anni scavo – si vedano i primi lontani ormai studi all’univeristà, “dentro” e non intorno alla lingua poetica, greca e italiana; fino agli anni passati sulle carte della poesia primonovecentesca, con tutto quel che sta nel mezzo.
Una maturità e consapevolezza artistica che mi fa asserire che “poesia al femminile” non può e non deve significare nulla. Altrimenti il rischio è la classificazione (e discriminazione) gender-poetica, ove per suo contro, data di fatto ma mai nominata, la “poesia al maschile” ricopre un ruolo di valore, cartina al tornasole per una distinzione pericolosissima.
Cara Chiara,
a me piacerebbe se qualcuno mi dicesse che scrivo poesia al maschile, così se non altro per riflesso, avrei conferma di essere qualcuno all’interno di qualcosa, che somiglia a qualcos’altro e via dicendo. A parte gli scherzi, se qui si parla di fantasmi, visioni ologrammatiche, di tempo interno ed esterno, possiamo tranquillamente mettere da parte la questione dei generi, maschile e femminile. Una volta stabilito che la visione molteplice e contemporanea degli eventi era già distinguibile in queste tue poesie datate cinque anni fa, viene da sé che si capisca perché l’interesse verso la nuova ontologia estetica. Altrimenti dove mettere tutta questa… abbondanza? La mia modesta opinione, se può servire, è che non di tratta tanto di operare una riduzione o una condensazione dei tuoi parametri espressivi (perché rinunciare alla limpidezza del tuo linguaggio, se ben si trova nel verso lungo e nell’andamento prosastico?). Forse, e ti assicuro che è valso anche per me, con la NOE si è data in qualche modo chiarezza su una soluzione di poesia strutturata, però inedita, che consente alla scrittura tentacolare di darsi degli appigli. Un po’ come è stato lo stile Fosbury per il salto in alto. Si è tentato anche di dire come questo stile sia liberamente interpretabile, tanto più che, lo sai meglio di me, lo stile in questo caso non riveste un ruolo centrale. Trovare la propria misura non è semplice, non abbiamo molti riferimenti su cui appoggiarci. Io tengo conto di alcuni correttivi, ad esempio, proprio perché come te ho tendenza al verso lungo prosastico, ho imparato molto (senza mai eseguirla) dalla versificazione stretta di Mario Gabriele; ma anche dal linguaggio scarno e atemporale di Linguaglossa. Ho anche tratto insegnamento da alcune formule espressive di Francesca Dono. Eppure i miei riferimenti e le passioni culturali sono e restano altri – che però guarda caso sono dei poeti spesso celebrati su questa rivista. Che dire quindi? Buon lavoro.
Tomas Tranströmer
Seminario di sogno
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/12/due-poesie-di-chiara-catapano-e-una-poesia-di-steven-grieco-rathgeb-la-porosita-dellopera-artistica/comment-page-1/#comment-30156
Quattro miliardi di uomini sulla terra.
E tutti dormono, tutti sognano.
In ogni sogno si affollano volti e corpi.
Gli uomini sognati sono più di noi.
Ma non occupano spazio…
Accade che ti addormenti a teatro.
A metà dell’opera cadono le palpebre.
Un attimo di doppia esposizione: là davanti
la scena è traversata da un sogno.
Poi la scena scompare, la scena sei tu.
Il teatro nella profondità autentica!
Il mistero dell’esausto regista!
Sempre nuovi copioni da studiare…
Una camera. E’ notte.
Il cielo buio scorre attraverso la stanza.
Il libro su cui qualcuno si è addormentato
è ancora aperto
e sta ferito sull’angolo del letto.
Gli occhi del dormiente si muovono,
seguono il testo senza lettere
di un altro libro –
miniato, senile, veloce.
Una vertiginosa commedia che si stampa
davanti alle mura claustrali delle palpebre.
Esemplare unico. E’ qui, proprio ora!
Domani tutto sarà cancellato.
Il mistero del grande spreco:
L’annullamento…come un turista che viene fermato
da sospettosi uomini in uniforme –
gli aprono la macchina fotografica, svolgono il rullino
e lasciano che il sole uccida le immagini:
così la luce del giorno oscura i sogni.
Cancellato oppure solo invisibile?
C’è un sognare-fuori-raggio visivo
perennemente in funzione. Luce per altri occhi.
Una zona dove pensieri striscianti imparano a camminare.
I volti e le figure formano nuovi gruppi.
Ci muoviamo su una strada, fra uomini,
nel calore solare.
Ma altrettanti, o forse più, che non vediamo
stanno dietro oscuri edifici
che si levano da entrambi i lati.
A volte uno di loro si avvicina alla finestra
e getta uno sguardo in basso verso di noi.
I vichinghi furono ultimi in Europa ad accogliere il cristianesimo. Le prime raffigurazioni cristiane apparvero da quelle parti nell’anno mille. Ho visto una pietra su cui era incisa la figura di Gesù, con le braccia aperte ma senza croce. Il nichilismo ha radici storiche nel nord Europa, niente di strano se oggi, anche grazie a poeti del calibro di Tranströmer, questo pensiero ha potuto raggiungere le straordinarie vette di dolcezza che ho appena ascoltato. Come direbbe Pierno, grazie Ombra!
https://ridondanze.wordpress.com/2014/07/12/ridondanze-41-a-fammenadevo-dire-la-verita-e-colpa-mia/
dedicata.
Grazie Ombra.