Andrea Emo fu un filosofo che scelse la via della “clausura” e dell’auto-esclusione dal mondo civile, un pensatore di grande profondità ed acume, oggi riscoperto e valorizzato, anche per la sua fibra “teologica”. Nato il 14 ottobre 1901 a Battaglia Terme in provincia di Padova, Andrea Emo fu il primogenito di un’antica e nobile famiglia di origine veneziano-patavina da parte di padre, e calabro-napoletana per parte materna. Nel 1938, Andrea sposò Giuseppina Pignatelli dei principi di Monteroduni, da cui ebbe due figlie, Marina ed Emilia. Allievo di Gentile, riuscì a costruire una sua figura di pensiero addensando appunti e note filosofiche e teologiche su centinaia di quaderni, che volle tenere rigorosamente inediti, una vera summa philosophiae ricca e sofisticata. Morì, dopo lunga malattia, a Roma, l’11 dicembre 1983. Al centro della filosofia di Emo campeggia quanto affermato in queste righe:
“Il problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo moderno; quale è la fede autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell’attività e la convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all’assoluto? Ogni uomo ha bisogno dell’assoluto e pertanto il suo problema è questa partecipazione all’assoluto”.
In questo quadro teoretico, si inseriscono alcuni snodi filosofici che dilatano lo spazio del pensiero di Emo fino a farlo implicare con l’Incarnazione di Cristo e la “religione dell’individuo”. La persona è uno dei rovelli filosofici del filosofo e la critica radicale alle religioni secolari fondate su una falsa mistica del Collettivo, il comunismo in testa, fa da pendant a questa assunzione di partenza. Emo ha una mistica del rovesciamento del Sacro, da figura collettiva e socialmente stabilizzante, a sostanza della religione dell’individuo. Non esiste niente fuori di questa unicità soggettiva ed individuale, l’unica realtà da difendere, contro le chimere collettivistiche (qui Emo scaglia dardi acuminati anche contro lo Stato etico di Gentile), è il soggetto, l’individuo, ultimamente la persona (termini che il filosofo spesso usa come sinonimi). “L’individuo non può essere un dato; esso può essere solo un soggetto cioè una resurrezione”. “Ogni rinascita è spirituale”, dunque l’età moderna, secondo la prospettiva indicata da Emo, o sarà nuovamente religiosa, per parafrasare Malraux, o non sarà. Ci vuole una fede, questo è certo, osserva il filosofo, ma quale fede? Quale sarà la fede dei laici? Non potrà essere quella collettivistico-sociale, fallimentare e violenta; ma anche quella cristiana rischia di essere contraria alla libertà di coscienza, in special modo nell’alveo cattolico. “I cristiani sono nati sotto il segno dello scandalo”; ed oggi, nella Chiesa, che fine ha fatto questo scandalo originario? A questo punto, compiendo uno scarto evidente, Emo introduce il tema della libertà individuale, sganciandola completamente da qualsiasi legame, anche religioso-sacrale. L’uomo potrà essere finalmente libero solo uscendo da qualsiasi vincolo di fede e da qualsiasi forma di obbedienza ad ogni autorità ecclesiastica. Altrimenti siamo ancora nel pieno del totalitarismo collettivista, dal Leviatano comunista al Leviatano cattolico, ma cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. L’idea filosofica della libertà personale vive e cresce solo nell’intimo della coscienza. Ogni coartazione morale nei confronti della coscienza potrà soltanto essere, nel tempo, l’anticamera del totalitarismo. Nella fede ciò che è irriducibile è l’amore, poiché quest’ultimo si rivolge all’individualità personale, al “singolo”. Leggiamo un passaggio filosofico veramente importante:
“Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l’elemento vergognoso è l’individualità pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua negazione; l’individualità è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti sono l’uniforme della società. Invano l’uomo (e la donna) credono di distinguersi con le vesti; e credono che la nudità sia uniformità. In realtà le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita di una nudità. La veste è orgogliosa della nudità che essa socializza”.
Emo rappresenta certamente uno scenario filosofico originale e seccamente interno ad una tensione teoretica che fa della persona la polarità positiva del mondo. Poi è anche vero che in Emo, almeno in questi quaderni del 1953, non troviamo una compiuta filosofia del Sacro né una teologia in nuce. E’ pur vero, in ogni caso, che un pensatore così vada seguito, con curiosità ed attenzione; è proprio da alcuni marginali individualisti che il novecento ha spesso ricavato nuova linfa vitale e lucida apprensione al vero.
Homo homini lupus si deve intendere nel senso che l’uomo è il lupo di se stesso.

I poeti riconducono le parole al loro valore primitivo
Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 359, 1973)
Nel passato… è l’unica sede dell’assoluto… (ché) il passato e la memoria sono il regno di Dio… e (solo) nel passato si manifesta l’assoluto che siamo
Andrea Emo, Quaderni di metafisica 1927-1981 (Quaderno 348, 1972)
Ognuno di noi ha continuamente bisogno di essere liberato da tutte le servitù a cui soggiace senza saperlo, a cominciare dalla servitù sotto il giogo del suo stesso io.
Andrea Emo, Quaderni di metafisica 1927-1981 (Quaderno 348, 1972)
Vi è una musicalità nelle idee, una musicalità nelle parole e nei versi, vi è perfino una musicalità nella musica (ma non già in tutte le musiche); una musicalità congiunta e diversa dai suoni e dalle melodie che gli strumenti esprimono e annunciano. Così vi è nelle parole, nei versi dei poemi (talvolta nelle prose) una musica sovrana e insieme tacita, che nessuno strumento musicale può riprodurre, che non può essere trasposta nella musica delle note, nella musica che si esprime senza parole. Essa è il ritmo con cui procede il secondo senso della poesia, quel senso che si diversifica dal senso grammaticale della poesia, dal suo discorso.
Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 238, 1961)
I poeti riconducono le parole al loro valore primitivo; le sottraggono ai banali riferimenti, sottraggono loro ogni fondamento. Gli assurdi fondamenti con cui tentiamo di giustificarle. Anche la parola, come l’immagine, trascendenza e insieme diversità, non può essere riferimento che al nulla, non può essere che la gloriosa coscienza del nulla.
Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 260, 1963)
Raramente si può tradurre in parole una musica o una pittura. Non si può tradurre in parole nemmeno una poesia; nemmeno una bella prosa si può tradurre in parole. La parola stessa è intraducibile in se stessa; essa vive e si illumina del proprio mistero. Noi traduciamo tutto nell’intraducibile.
Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 372, 1975)
Le più belle frasi sono le frasi musicali; forse le più belle fantasie amano diventare realtà come musica. Ma quale verità intraducibile in parole e concetti è narrata dalla musica? Né noi né la musica potremo mai saperlo. La musica ignora la propria verità, quanto più apertamente, potentemente, profondamente la dice. La verità emigra sempre in tutto ciò che la cela.
Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 347, 1972)
Si parla continuamente di solitudine e di incomunicabilità tra gli uomini. Ma nel mondo di oggi ciò che ci manca è appunto la solitudine che è considerata la colpa maggiore, e siamo obbligati a stare sempre in linea di comunicazione; potessimo comunicare la nostra incomunicabilità! Che altro vale la pena di essere comunicato? Potessimo interrompere la comunicazione!
Noi dunque, noi gli incontentabili, gli instabili, che cosa veramente vogliamo? Forse non possiamo saperlo perché ciò che veramente vogliamo è non volere. In questa volontà negativa il volere si riposa della sua straordinaria volubilità.
Noi forse scriviamo per una minoranza – per una piccola e misteriosa associazione consapevole della sua minoranza – di eletti; ma non democraticamente, perché eletti dall’alto, e dall’altro. Non dai loro simili, come prevedono le nostre costituzioni democratiche, appunto perché essi non hanno simili. E questa consorteria dove regnerà il presente che noi siamo e preconizziamo è futura; è una consorteria di uomini non ancora nati, una consorteria di nascituri…
Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 344, 1971)
I libri sono i dizionari in cui cerchiamo la definizione, la spiegazione del nostro nome, del nostro misterioso essere, la cui inesplicabilità è la nostra luce. Che cosa avverrebbe se riuscissimo a capire, a definire perfettamente noi stessi, cioè a distruggere perfettamente noi stessi? Ma sembra che il nostro compito, che rimane felicemente incompiuto fino alla morte, è di distruggerci conoscendo. Possiamo conoscere soltanto la nostra inesplicabilità.
Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 387, 1978)
Massimo Donà insegna Metafisica e Ontologia dell’arte presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È curatore, con Romano Gasparotti, dell’opera postuma di Andrea Emo. Fra i suoi libri si ricordano: Le forme del fare, con Massimo Cacciari e Romano Gasparotti (Liguori, Napoli 1987); Sull’assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano (Einaudi, Torino 1992); Aporia del fondamento (La Città del Sole, Napoli 2000, Mimesis, Milano, 2008); Aporie platoniche. Saggio sul ‘Parmenide’ (Città Nuova, Roma 2003); Filosofia del vino (Bompiani, Milano 2003); Magia e filosofia (Bompiani, Milano 2004); L’aporia del fondamento (Mimesis, Milano 2008); Filosofia dell’errore. Le forme dell’inciampo (Bompiani, Milano 2012). febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 27
https://massimodona.files.wordpress.com/2015/02/articolo-di-sessa-bvs_n2_febbraio_speciale-emo.pdf

Andrea Emo
Sicuramente, quella disegnata da Andrea Emo, nei molti anni della sua tenace, caparbia e talvolta addirittura ossessiva, riflessione metafisico-ontologica, è una prospettiva che, pur riconoscendosi erede di una formidabile e prestigiosa tradizione speculativa, riesce a farsi promotrice di un progetto davvero originale, che, sin da subito, chiama in causa – come Lei ha detto bene – un’idea di “negatività” sicuramente non riconducibile alla tradizione della cosiddetta, sia pur nobile, teologia apofatica. Per Emo, cioè, il “negativo” di Dio ha ben poco a che fare con il semplice riconoscimento del fatto che di lui nulla saremmo autorizzati a dire “in positivo”… in ragione di una finitezza e di una imperfezione che ci renderebbero costitutivamente incapaci di aver a che fare con la sua assolutezza. Per il filosofo veneto, infatti, il “negativo” di Dio non solo si dice in ogni espressione evidentemente finita dell’esperienza, ma vi si dice perfettamente proprio in quanto la sua assoluta negatività è tale da torcersi, ab origine e in primis, su se medesima; facendo di Dio un nulla che è tale in primis nei propri confronti. Insomma, Dio è nulla, perciò il mondo è.
È proprio a partire da un tale assunto che il nostro filosofo cerca in tutti i modi di riconoscere gli effetti di questa paradossale nullificazione in ogni “modalità” dell’esistere. Nessun “nichilismo” di maniera viene dunque evocato dal poderoso pensiero emiano; perché “nulla” sono per lui non tanto i valori e le idee della metafisica, o le forme del positivo, quanto piuttosto il nulla medesimo. D’altronde, Emo ha capito alla perfezione come già nel principio di non contraddizione tematizzato da Aristotele sia custodita la condizione di possibilità del suo destinale e immediato naufragio; perché, se l’essere può determinarsi solo distinguendosi dal nulla, allora va anche riconosciuto che è proprio in quanto altro dall’essere, che il nulla non riesce a stare nella propria nullità.
Perché il nulla, in ogni caso, “è”. Da cui l’originario negarsi dell’essere medesimo. Che non è, neppure esso, mai tale (ossia, ‘essere’), ma si presenta sempre e solamente nelle infinite determinatezze di cui è fatto il mondo; che “sono”, proprio perché il nulla si autonega (si nullifica, infatti, proprio essendo). Le cose, i valori, il positivo… che appaiono, sono dunque tutte mirabili espressioni di un nulla che, proprio nullificandosi, costringerebbe l’essere a negarsi… e a farsi sempre “altro” da un altro. Ossia, a “determinarsi”. Insomma, secondo Emo non è affatto vero che le cose “siano” in quanto non contraddittoriamente altre dal Nulla.
Per lui, infatti, esse sono tutte vere e proprie, nonché immediate, espressioni del suo (del Nulla) stesso originario negarsi. Per questo, agli occhi del filosofo veneto non si può dire né che l’essere “sarebbe” in ragione del non essere del nulla (come avrebbe voluto Parmenide) – stante che, come abbiamo appena visto, è proprio in ragione dell’essere del nulla, che il nulla si nullifica in quanto nulla, e l’essere, anche, si nega, – e neppure (come avrebbe voluto invece il discorso eracliteo) che il nulla e l’essere si contrapporrebbero tenendo ben nascosta la propria originaria identità (comunque riconoscibile, secondo Eraclito, ascoltando il logos) -, se non altro perché quell’identità appare tutta, di là da qualsivoglia equivoco, nel semplice non riuscire ad opporsi da parte degli assolutamente opposti… e dunque, innanzitutto, dell’essere e del nulla.
I referenti del pensiero emiano sono molti e anche esplicitamente dichiarati dal nostro. Potremmo cominciare a citare Giordano Bruno, e potremmo continuare riferendoci ad un grande Padre della Chiesa come Agostino. Già per Agostino, infatti, ad apparire, nelle cose presenti, in quelle passate e in quelle future, è sempre il medesimo “presente”; ossia ciò che dice il non essere ancora del futuro e il non essere più del passato. Stante che il passato e il futuro altro non sono che figure di quella “negatività” che si esprime appunto nell’immediato, o meglio originario, negarsi dell’uno e dell’altro in quanto determinazioni di una evidentemente intrascendibile presenza – che poi è quella che, sola, del passato può dirci e mostrarci che non è più, e del futuro, che non è ancora. Ma potremmo anche citare il suo amato Shakespeare; e lo Jago che ci dice, apertis verbis, di “non essere quello che è” (I’m not what I am).
Per Emo, comunque, ad emergere, in queste figure e nelle prospettive ad esse connesse, non è affatto l’illusorietà del mondo presente. Ma piuttosto la sua costitutiva e stupefacente “ambivalenza”; il suo trionfo e il suo naufragio, in-uno; la sua divinità e la sua mortalità. Quanto può esserci cioè restituito solo da una messa in scena che sappia essere insieme tragica e comica. Perciò, ai suoi occhi, la morte non ci attende, ma ci accompagna in ogni istante della vita. Perciò, così come la vita vive della propria continua morte, anche la morte muore in una vita che, sola, sembra poterla rendere davvero pregnante e in qualche modo esperibile. Perciò il “suo” secolo è il Barocco; e i riferimenti alle sue fantasmagoriche espressioni, tanto letterarie quanto, più in generale, artistiche, si sprecano. Un altro imprescindibile riferimento del suo densissimo orizzonte speculativo è poi costituito dal pensiero hegeliano, prima ancora che da quello del suo maestro Gentile.
Nella ‘dialettica’ del filosofo tedesco, infatti, Emo riconosce, già operante, un principio che egli si impegna a portare ancora più a fondo; sì da liberarlo dalle incrostazioni che ancora impedivano ad Hegel di affidare al “negativo” un ruolo non più semplicemente ancillare rispetto ad una già da sempre risolta ‘eternità’. Perciò in Emo non si sarebbe giunti a fare, del movimento e del divenire, delle semplici figure o espressioni dell’eterno, quanto, piuttosto, si sarebbe messo a tema il valore costitutivamente “imaginale” dell’eterno medesimo – esso, sì, valevole appunto come simulacro di qualcosa che, in verità, sarebbe già da sempre altro da quel che è. E perciò mai pacificato ‘con se stesso’. Insomma, se da Platone il tempo veniva inteso come mera parvenza dell’eternità, e dunque del sempre uguale a sé, da Emo è piuttosto l’identico “con cui abbiamo sempre a che fare” a venire riconsegnato alla costitutiva inquietudine caratterizzante la “differenza” – una “differenza”, dunque, non più riconducibile alla potenza armonizzatrice dell’identico. Altri riferimenti essenziali della mai esausta ricerca emiana sono poi i grandi miti greci, e soprattutto la sovrumana vicenda della morte di Gesù.
Perché in ogni poesia c’è qualcosa di scandaloso e di favoloso. La poesia che non fa scandalo viene subito dimenticata. La poesia che non è fabula viene anch’essa subito dimenticata.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/06/intervista-a-massimo-dona-sul-pensiero-del-filosofo-andrea-emo-1901-1983-dio-e-nulla-percio-il-mondo-e-il-passato-e-la-memoria-sono-il-regno-di-dio-nel-passato-e-lunica-sede-d/comment-page-1/#comment-29640
Si ha sempre il sospetto che le parole non dette ci perseguitino… Anche le parole dette e scritte ci perseguitano con la superfluità e la vacuità con cui sono state pronunciate.
Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue e di essere nate da un difetto di pronuncia del demiurgo…
Questa volta carissimo Giorgio non posso che metaforicamente baciarti per queste pagine luminose che hai inserito nella Rivista. Tutti noi dovremmo leggerle rileggerle, farle diventare il vademecum, il libro dei libri sul nostro comodino. Una commozione profonda mi invade ad ogni passo. Emo scrive poesia dall’agolo della sua strada filosofica, con una lucidità, un Kommos,che ti trrascina nell’Assoluto. Non importa di quale fede o non fede tu sia, di quali convinzioni estetiche o filosofiche tu ti abbeveri, le sue parole ti trafiggono come lama di Toledo nella carne di un El Greco, di un Goya della Quinta del Sordo. Quello che lui dice dell’Arte mi sembra uscito da un capitolo della Bibbia per un Ebreo, tanto è incontrovertibile il suo dettato.Tutta le filosofia germanica sull’estetica mi sembra cosa impenetrabilmente algida.
Ottima la scelta di Emo Andea e tutto ciò intorno, compresa la intervista.
Bene ha fatto Lingualossa a pubblicare alcuni scritti del filosofo, che non ho mai approfondito abbastanza, ma alcuni suoi temi filosofici fanno parte dei miei versi come non avrei pensato mai; non mi sono certo riferito al filosofo per costruirli, ma credo che ci sia stata simpatia singolare. E allora dovrei andare in cerca di alcuni miei versi che hanno attinenza con la sua filosofia e qui pubblicarli.
“La veste è orgogliosa della nudità che essa socializza”.
Grande Andrea Emo e bravo Giorgio Linguaglossa che ce lo ha riproposto.
Una lettura entusiasmante. La proposta illuminante di Giorgio (che ringrazio vivamente), occasione di studio di un filosofo anomalo e totalmente sconosciuto in vita, confermano quanto nella modernità la questione estetica sia essenziale in un fare artistico che non può più fondarsi in una genesi ispirativa “ingenua e sentimentale” a rischio del ridicolo. Addirittura Emo considera impossibile non solo agire ma anche fare opere nella contemporaneità: “La poesia e l’arte in genere oggi purtroppo non possono essere che ridicole. Esse sono nate nel tempo in cui il lavoro, il trattamento della materia, in cui la storia (e la vita) erano condotte in maniera artigianale…Perciò il cosiddetto artista è una sopravvivenza ridicola dell’artigianato: egli si vergogna di quel glorioso passato” (“Le voci delle Muse – scritti sulla religione e sull’arte”)
Mi pare che qui siamo di fronte ad un salto quantico rispetto al neoidealismo di Croce e Gentile che ha dominato la scena italiana fino agli anni cinquanta. Emo (1918- 1983) ha condotto la sua ricerca filosofica in forma diaristica e frammentaria dal 1918 al 1981 in circa quattrocento quadernoni per un totale di quarantamila pagine! Scrive il filosofo Mario Perniola che se l’Estetica può essere paragonata all’inconscio della società, “il corpus di Emo è simile a uno specchio, posto a una profondità inarrivabile, che riflette ciò che sta alla superficie. Al tempo tirannico del mondo Emo contrappone un altro tempo speculare, ma opposto, che nessuno può vedere e che soltanto lui conosce: “L’abolizione dello scopo, della finalità, in una parola l’abolizione del futuro…è l’instaurazione di un presente eterno”( Emo).
Ecco cosa scrive Andrea Emo di Dante:
“il più consistente dei poemi in lingua italiana, quello dantesco, è il poema del mondo dell’ inconsistenza e delle ombre”. Le ombre degli uomini, del male e del bene. Di una vita “ridotta ad ombra per poter essere eterna”. La Divina Commedia diventa così – tra le mani di Emo – “la Cattedrale delle Ombre”.
Andrea Emo:
“Io sono un buono a nulla, ciò posso anche confessarlo; ma sono appunto un buono a nulla, capace del nulla; capace di affrontare guardare sopportare il nulla”.
Sulla celebre mela di Cézanne.
“La radice dell’ arte è l’ eternità dell’ effimero, il pervenire all’ eterno accettando, accogliendo l’ effimero come tale; senza tentare di fissare, di obbiettivare, di possedere l’ istante, accettandolo come pura negazione, come ciò che non si può affermare direttamente”.
È questo che fa la nuova ontologia estetica:
costruire una «cattedrale delle ombre» quale unica possibile rappresentazione del mondo dei cosiddetti vivi.
Se poi questo qualcuno lo chiama nichilismo, non so, non saprei, e neanche mi interessa…
Le sciocchezze e i banalismi dei luogotenenti del nulla che si affrettano a narrarci i banalismi dell’io, li trovo rivoltanti…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/06/intervista-a-massimo-dona-sul-pensiero-del-filosofo-andrea-emo-1901-1983-dio-e-nulla-percio-il-mondo-e-il-passato-e-la-memoria-sono-il-regno-di-dio-nel-passato-e-lunica-sede-d/comment-page-1/#comment-29669
[…] La dicotomia su cui l’intera teoresi occidentale ha edificato le proprie fondamenta viene così scalzata da una speculazione diretta al superamento della logica immunitaria del principio d’identità e di non contraddizione in un oltrepassamento di fatto della stessa Grundfrage, la domanda fondamentale heideggeriana «perché l’essere e non il nulla?». Fulcro di questa operazione è la coincidenza, in seno al pensiero emiano, di essere e nulla, in quanto, come notò Romano Gasparotti, «se è vero che non si può pensare l’origine… essa necessariamente va pensata come lo stesso negarsi in quanto tale… l’originario e immediato autonegarsi» (Note sul pensiero di A. Emo, in Andrea Emo, Quaderni di metafisica 1927/1981, Bompiani, Milano 2007, p. 1388). Essere e nulla non sono allora contrapposti, bensì co-implicati, in quanto «gli enti appaiono dal nulla, da quello specifico sfondo abissale che consente loro di ex-sistere, di star-fuori dal Principio, per poi, attraverso un ulteriore atto di negazione, farvi ritorno: ogni ente manifesta il ni-ente e, nel mondo, l’eternità rinasce con gli enti come effimera» (p. 86). La potenza del negativo è l’unica forza grazie a cui è possibile concepire la purezza del positivo: il nulla è il lavacro ove tutto sorge e scompare senza mai distaccarsi completamente dallo sfondo enigmatico originario. Sotto un profilo teologico, secondo considerazioni analoghe a quelle succitate, il cristianesimo tragico di Emo si fonda sull’interpretazione di Cristo come aletheia, disvelamento, in quanto Dio è il suo stesso annichilirsi, «per esistere e farsi presenza deve necessariamente negarsi» (p. 92). Un Dio che muore e disgrega se stesso sulla Croce per tutelare l’enigma cosmico, secondo una prospettiva per certi versi non dissimile dal pensiero teologico del poeta portoghese Teixeira de Pascoaes, per il quale «l’Universo è il cadavere di Dio, la statua fredda e inerte della Speranza» (Aforismi. Scelti da Màrio Cesariny, Edizioni ETS, Pisa 2010, p. 31). Un Dio che è sacrificio, dramma, redenzione nella contemplazione della propria stessa tragedia…
* Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, introduzione di Romano Gasparotti, con un inedito di Andrea Emo, Edizioni Bietti, Milano 2014, pp. 417, € 22,00
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Mentre in questi giorni sto rileggendo G. Manganelli, a distanza di quasi 25 anni dalla mia prima lettura, grazie alla guida di alcune pagine de l’Ombra, come questa dedicata al filosofo A. Emo, vorrei evidenziare come ne stia raggiungendo una comprensione migliore, con un percorso di illuminazione reciproca tra le notazioni del filosofo e i racconti che vado riscoprendo.
Vorrei segnalare, dalla raccolta “La notte”, il meraviglioso racconto “Il gioco”: rifondando una letteratura come scherzo, beffa e provocazione, e al contempo rifuggendo da una letteratura “tradizionale” e, come dice Letizia Leone, da una ispirazione “ingenua e sentimentale” che sfiorirebbe il ridicolo, Manganelli, che peraltro rifugge sempre dal “nominare” personaggi e voci narranti secondo il vecchio clichè del “protagonista” dotato di una tradizionale identità anagrafica, imposta il racconto “Il gioco” come un lungo monologo di un’unica voce, che dalla definizione di “vicerè delle tenebre” (“cessai di essere il nulla e precipitai ad essere le tenebre”, “mi avevi lasciato progettare le tenebre, ho pensato che volessi fare di me una sorte di vicerè”) è evidentemente Lucifero, alla ricerca di un colloquio impossibile con il creatore, Dio (neanch’egli nominato) dal quale tuttavia non arriverà nessuna risposta: “Noi siamo costretti a parlare, perché noi soli sappiamo parlare. Certo, anche altri parlano: ma tra di loro; se non ascolti me, chi ascolti? Se non mi rispondi, a chi mai risponderai? Certo, tu puoi non rispondere; ed anzi, di regola tu non rispondi”.
Mentre riflettevo sulla frase di Emo: “Nel passato…è l’unica sede dell’assoluto, (chè) il passato e la memoria sono il regno di Dio”, questo passaggio del racconto di Manganelli me l’ ha meglio chiarito e reso evidente:
“Tu non potevi conseguire il futuro. Non c’era il futuro, perché per quanto procedessi ti trovavi sempre e solo al termine del tuo passato, un passato senza fine, e insomma tu eri il passato.” Il futuro infatti entra nel dominio esclusivo di Lucifero, ed è a quel punto che Dio e Lucifero inventano un “gioco”, ossia la creazione del mondo e dell’uomo (su suggerimento di Lucifero, a “immagine e somiglianza” di Dio, benchè Dio gli risponda di averlo già deciso) e l’inizio della storia. Ma a questo gioco Dio dovrà essere estraneo, anzi è questa la prima regola del gioco: “la storia era un gioco fondato su questa regola: che tu non giocavi”; beninteso potrà delegare qualcuno a parteciparvi in sua vece, “un altro che conosceva la tua e la mia lingua”. Dio estraneo al gioco e Lucifero unico “titolare del futuro, e senza futuro non solo il gioco era impossibile, ma anche la morte”, che Dio ha creato prima dell’uomo, prima di scagliare quest’ultimo “nel cuore del futuro, in direzione della morte”.
Così le creature sono condannate alla totale ignoranza di se’. Dio è “la sola conoscenza di se’ pensabile”, ma totalmente nel passato, e Lucifero si può conoscere solo limitatamente, cioè “fino a quel momento che precedette” la sua uscita dal nulla, non prima.
“Il gioco non poteva essere cosa tua, in nessun caso” , tuttavia di questo gioco Dio sembra essere l’ideatore e l’oscuro regista; a questo gioco di primo grado che è la storia e la vita umana si sovrappone poi il gioco di secondo grado, la scrittura di Manganelli e la novità del suo modo di “fare” narrativa.
Ringrazio anch’io quindi Giorgio Linguaglossa per la sua proposizione della pagina su A. Emo, per me risultata davvero preziosa nel riverbero che mi ha fornito per la migliore comprensione del racconto di Manganelli.
Uno dei vertici del pensiero di Emo è aver mostrato l’impossibilità di una rappresentazione non ontologizzante – e aporetica – del nulla e, di conseguenza, di un discrimine che possa differenziare essere e nulla. Da questo vortice di senso, che risucchia il pensiero dal tempo di Parmenide, fa scaturire un nichilismo che aderisce più ad una teologia eterodossa, apofatica, che al materialismo leopardiano o al superomismo nicciano.
” Dio è l’infinito negarsi, la dimensione interiore del negarsi è infinita, il negarsi è l’interiorità dell’infinito. ”
Ma l’individuo, negazione dell’essere, è anche il confine intrascendibile di ogni legittima prospettiva soteriologica, in antitesi alle mistificatorie pseudo religioni sociali del ‘900 ( psicanalisi, marxismo, nazismo, consumismo ), che può concretizzarsi solo riscoprendo il valore noetico della dimensione emozionale, affettiva, contro il progressivo prosciugarsi di mistero e sacro del logos occidentale post-socratico.
“L’umanità futura sarà religiosa o non sarà “. Anche la sua analisi della
” scandalosa ” rivelazione cristiana verte sulla funzione paradossalmente semantizzante dell’amore, perché solo un Dio che muore sulla Croce rivela la sua natura relazionale al “nulla” dell’individuo, e può perciò essere amato.
Spero che nessuno si adombri se dedico un testo al ricordo di questo maestro ( ma nessuno è obbligato a leggerlo ! ).
LA FATALE RESURREZIONE DEL GRANDE ASSENTE
La vestale celeste pianse per nove mesi, e partorì il peccato.
Era uno sciame di locuste di tenebra, che uccideva gli Dei e se ne nutriva, crescendo e moltiplicandosi sopra l’universo.
Il cielo più antico precipitò nel fossato delle donne fulve.
Dal mistero profanato vedevo quelle fauci spalancate.
Le moltitudini persero l’ultimo sogno, per un soffio.
Restava la foresta di plastica e metallo, piena di nomi morti.
E il beato immortale, quel sesso enorme che spacciava gli angeli.
Non potevo più scomparire, ero l’amore della grande falce di cristallo.
Il tempo, bandiera senza speranza, si lacerata sulle spine dell’uragano interminabile.
dalla Treccani su L’esserre e il nulla (1943) di Jean Paul Sartre
Essere e il nulla, L’ (L’être et le néant) Opera di J.-P. Sartre, pubblicata nel 1943, in cui è esposta un’«ontologia fenomenologica» sviluppata come superamento della fenomenologia di Husserl, dell’ontologia di Heidegger e della «concezione dialettica del nulla» di Hegel. L’essere è considerato nel fenomeno (essere del fenomeno) e nella coscienza (essere della coscienza); l’analisi, condotta con metodo fenomenologico, giunge dall’«essere del fenomeno» alla coscienza che, nel «cogito preriflessivo», si rivela come «coscienza (di) sé», il cui «tipo di essere» non è «un possibile prima dell’essere, ma […] la sorgente e la condizione di ogni possibilità». In tale prospettiva è l’«esistenza» stessa della coscienza a implicarne «l’essenza» (Introduzione). La coscienza «è causa del proprio modo d’essere» ed è, al tempo stesso, «coscienza di essere» e coscienza di «non essere ciò di cui è coscienza». Vengono a porsi, in tal modo, due diversi «tipi» o «zone di essere»: l’‘essere-in-sé’ (être-en-soi), ossia l’essere dei fenomeni, statico e atemporale, «massiccio», «opaco» e «brutalmente esistente», che «non può mai essere altro che ciò che è»; l’‘essere-per-sé’ (être-pour-soi), ossia l’essere della coscienza, dinamico e temporale, che si «crea» costantemente e «non può coincidere con sé». L’essere-per-sé, antitetico all’essere-in-sé, in quanto lo nega, delimitandolo e circoscrivendolo continuamente, si configura come non-essere e ciò avvia la riflessione ontologica sul nulla; l’essere-per-sé della coscienza è infatti negazione (négatité) mediante la quale essa genera il «nulla» (néantisation) dentro e intorno a sé; in tale prospettiva: «l’uomo si presenta […] come un essere che fa apparire il nulla nel mondo, in quanto si investe del non-essere a questo scopo» (I, 5). La negazione riposa sulla condizione ineliminabile della «libertà»; l’uomo, per poter porre il nulla, «deve» essere libero, poiché in caso contrario la coscienza apparterrebbe completamente all’essere-in-sé e le modalità dell’interrogazione e della negazione non sorgerebbero: «L’uomo non è affatto prima, per essere libero dopo, non c’è differenza fra l’essere uomo e il suo essere-libero». Tale libertà è presenza del «nulla» dentro di noi, è «angoscia» di essere proiettati verso un cangiante essere-per-sé, cui le «routines» e i comportamenti di «malafede» non possono ovviare; l’uomo è «condannato alla libertà». In tale scenario si colloca la riflessione sul «solipsismo» (III, 2); il per-sé comporta un mondo in cui sono presenti altre coscienze e la relazione con gli altri comporta una reciproca oggettivazione e reificazione, ossia il «per-altri» (par-autrui) rivelato dall’analisi fenomenologica dello «sguardo», della «vergogna», dell’«odio» e del linguaggio, in cui Sartre recupera la riflessione hegeliana della dialettica servo-padrone. L’esistenza degli altri definisce lo scenario in cui l’anelito all’«autenticità» si realizza, diversamente che in Heidegger, mediante l’assunzione della propria libertà e il riconoscimento dell’altro come libertà.
L’angoscia rivela alla coscienza la nostra libertà e testimonia la costante modificabilità del progetto iniziale. Nell’angoscia non ci limitiamo a renderci conto del fatto che i possibili da noi progettati sono costantemente rosi dalla nostra libertà in attuazione, ma comprendiamo inoltre la scelta, ossia noi stessi, come ingiustificabili; il che vuol dire che ci rendiamo conto che la scelta non trae origine da alcuna realtà anteriore, ed è anzi, tale da dover fungere da fondamento dell’insieme dei significati che costituiscono la realtà. In tal modo siamo costantemente impegnati nella scelta di noi stessi e costantemente consapevoli di poter bruscamente rovesciare la scelta ed invertire la rotta. Siamo pertanto sotto la costante minaccia della nullificazione della nostra scelta attuale, sotto la costante minaccia di divenire altri da ciò che siamo. Proprio per il fatto di essere assoluta, la nostra scelta è fragile.
Jean-Paul Sartre
dal libro “L’essere e il nulla” di Jean-Paul Sartre
Niente è più reale del niente.
(Samuel Beckett)
Tutto è nulla, solido nulla.
(Giacomo Leopardi)
Possiamo sapere solo che non sappiamo nulla. E questo è il più alto grado di sapienza umana.
(Lev Tolstoj)
Solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, può essere senza limiti
(Emanuele Severino)
Nulla non è solamente nulla. È anche il nostro carcere.
(Antonio Porchia)
Quando pronuncio la parola Futuro
la prima sillaba va già nel passato.
Quando pronuncio la parola Silenzio,
lo distruggo.
Quando pronuncio la parola Niente,
creo qualche cosa che non entra in alcun nulla.
(Wisława Szymborska)
– Atreyu: Ma cosa è questo nulla?
– Gmork: E’ il vuoto che ci circonda. La gente ha rinunciato a sognare, ed io ho fatto in modo che il nulla dilaghi.
– Atreyu: Ma perché?
– Gmork: Perché è più facile dominare chi non crede in niente.
(Dal film La storia infinita)
Pare un assurdo, eppure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni.
(Giacomo Leopardi)
L’ultima citazione da Leopardi nel commento di Giorgio, “Pare un assurdo, eppure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni.” corrisponde abbastanza esattamente al concetto di Maya.
Non vi è nulla di illusorio in Maya: come dire per esempio che il tavolo è in realtà impalpabile. Niente di più illusorio! Maya è battere il ginocchio contro il tavolo e sentire male fisico. Maya è ugualmente la natura subatomica del tavolo, in cui lo spazio vuoto fra le particelle è immensamente maggiore rispetto allo spazio occupato dalle stesse particelle.
Leopardi giustamente dice che non vi è niente di più reale, di più sostanzioso e solido delle illusioni. Perché solo queste esistono, e sono infinitamente cangianti.
Mi è piaciuta moltissimo questa frase di Emo: “I libri sono i dizionari in cui cerchiamo la definizione, la spiegazione del nostro nome, del nostro misterioso essere, la cui inesplicabilità è la nostra luce.” Più noi siamo ‘inesplicabili’, più possiamo gioire di noi stessi. Tutte le risposte un giorno tornano ad essere domande. Ma il positivismo ancora imperante nel nostro mondo ci proibisce dal pensare profondamente pensieri di questo tipo.
Dio pensato come negazione totale è anch’esso un antichissimo concetto indiano. Si usava negli Upanishad dire che l’ultima realtà si poteva raggiungere soltanto dicendo, “non è questo, non è quest’altro, non è quest’altro ancora…” in un viaggio vertiginoso verso un nulla infinito e irraggiungibile.
Nei Veda a ‘Colui che sta nel più alto’ si negava addirittura l’avere una totale conoscenza delle cose: di lui si diceva, ‘anche Lui forse non sa’ da dove è venuto ‘tutto questo’.
Trovo ancora oggi incredibile e entusiasmante il pensiero che ‘Colui che è omnisciente’ possa ignorare la sua origine.
In Occidente si è buttato Dio giù dal suo trono. Un’operazione tutto sommato facile (e doverosa) da farsi. Lasciarlo dov’è, ma chiedersi quale sia la sua origine, e quale sia l’origine della sua origine, e via dicendo, ecco, questo modo di ragionare è più vicino al mio cuore.
Questo interrogativo basilare è quello che si vanno sempre più chiedendo gli astrofisici riguardo all’Universo. Sono sicuro che troveranno la risposta, se anche fra mille anni. Ma la risposta sarà la base per formulare la prossima domanda.
Il suono della Cenere
(da “I Canti del Nulla”)
Ascese a me la parola intatta dai miei fili inconsapevoli e sul palco il canto
e il suono della Cenere smorzato da serrate labbra e orecchie inascoltate.
Al poeta fu detto: non ti basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie!
Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Cieche, come tritoni nel calvario di luminose oscurità, le stanze se ne andarono
via da me lentamente… battelli in fuga dai moli e dai marosi! Muti gli stendardi. Non avevo che da stordire i gridi dei gabbiani che invano beccavano il sangue
dei tramonti… i rostri pregarono le polene deformi di non sbattere sulle spume.
Come una mazzata disattesa mi crollò quel sangue dal futuro – creature albine
di conoscenza e di fede mi dissero tutto ciò che non ci sconvolse da tutte le disfatte e le condanne… e mi dissero gementi che m’avrebbero restituito gli occhi, ma non le mie visioni! Ero l’unico sano in un cottolengo di dislocati cerebri!
E non pregavano per coloro che non c’erano, soltanto gli assenti non ci stupirono.
Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza
e sui moli sorridere ai suoni e ai rintocchi della Cenere, proprio noi gli assassinati
da Dio, dobbiamo scannare gli angeli per definizione come in un alogico assioma
interdetto alla finzione! Il suono – di me – della Rovina – in me – dai miei gesti genera le stazioni degli Ossari… avanzi di città noi canteremo… non riconosceremo più i sobborghi dalle macerie, dai suoi fanali arsi di visioni… novembre degli arcobaleni mai è stato il mese dei morti!… è tutto l’anno in un
secolo s’è ristretto come la legge delle visioni arse dagli occhi – e non mi silenzia il rumore di Dio! Il mio nobile disprezzo per la Storia! Il madrigale s’è oscurato per la Conoscenza! Oriente e Occidente non hanno più i monistici princìpi! E il suono della Cenere è crollato come il sangue dalle sorde ottave alle alcove… gemens, gemens!
Credevo la Conoscenza una presenza di fedeltà, non una figura o una finzione,
ma è un assassinio, un condursi alla forca o al rogo per soltanto dire andiamo a morire da Poeti, allegramente! Si ritrassero le stelle dalla propria luce, l’acqua, il fuoco e l’aria dalla Terra, e l’uomo dagli dei… il Nulla si ritrasse da se stesso,
come il Tutto! Non sono un cinico, disse Ruben, sono assente come una metafora… le figure sono una tortura e non conosco la differenza fra le macerie! Accidia è là dove mi sorprendono con un Pensiero! Il resto non è nemmeno un delirio o un caos… non ho che la mia presenza: vivo per vivere e non per prepararmi a vivere!
Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie!… sono questi pastori che generano stermini: trionfi dei genocidi e delle Ceneri! Vedrete che mattanza questo secolo! Ci sarà da ridere come in una finzione di cartone, mi diranno solo su un palco è possibile! La realtà è altra cosa… ma i divani sanguinano… è ora di finirla con
questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia Parola! Al poeta, si disse, non basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie! Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio!
Antonio Sagredo
Maruggio/Campomarino, 4/11/15 agosto 2015
(dal 4 agosto in treno Rm-Br)
Cosa è la presenza? La presenza è la presenza del togliersi, cioè l’attualità del togliersi. […] La presenza non è un immediato. […] Il negarsi del presente è il suo esser atto, esser in atto, esser presente, attuale […]. Il nulla giustifica, fonda l’originarietà dell’attuale. Appunto perché il nulla è attuale. L’attuale non contiene il nulla staticamente, come un recipiente, ma attualmente, negandosi, togliendosi.19
Essere pura ‘presenza’ vuol dire per Emo, essenzialmente negare, togliere l’immediatezza, ‘de-coincidersi’ dall’implosione infinita originaria in cui niente può ancora cogliersi. Presenza è il portarsi alla presenza nei confronti di ciò di cui essa è presenza, e nell’Inizio questo portarsi alla presenza non avviene che nei confronti di se stesso, dell’Atto originario, poiché nessun Altro c’è nell’Inizio. Anzi, nell’Inizio senza che ci sia l’Altro, a rigore, nemmeno il Se-stesso c’è: il sé, infatti, è già una determinazione, ed è tale solo perché si distingue da altro. Ecco perché Emo afferma anche che la presenza «si identifica», ossia si ‘trova’, coglie se stessa nella nullità dell’Indistinzione originaria. Tuttavia, quest’atto non avviene altro che implicando la stessa nullità (è un originario auto-annullarsi, infatti, non preceduto da nulla), e a partire dall’indifferenza originaria con il nulla. Il portarsi a presenza della presenza avviene solo sul fondamento (-infondato) dell’assenza, ossia di quell’implosione abissale in cui niente è mai coglibile, ma in cui comunque l’Assoluto paradossalmente si dà. Solo il nulla stesso consente, nel suo darsi, l’identificazione stessa della presenza, giacché questa «nega tutto ciò di cui essa è presenza». In questo modo, l’atto originario, proprio nel creare tutto, simultaneamente crea il nulla, e proprio mentre si-fa-presenza non può che farsi-assenza, ossia ‘abolizione’ d’essere e di presenza; infatti,
la presenza crea tutto in quanto crea il nulla e crea il nulla in quanto si identifica, in quanto si riduce a pura presenza, cioè nega tutto ciò di cui è presenza. […] facendosi presenza dell’essere e della presenza, essa nega e abolisce l’essere e la presenza. In quanto è presenza di essere è presenza di nulla.20
Qui, Emo asserisce in modo esplicito una perfetta verità paradossale: la presenza è presenza di nulla proprio perché è presenza di essere, e ciò vuol dire che la presenza di essere implica la presenza di nulla, e viceversa; se è presenza di nulla, allora è presenza di essere, ma se è presenza di essere, allora è presenza di nulla. Come si vede bene, qui è in opera il paradosso in senso pieno: p? ¬ p. Ora, è chiaro che la presenza in quanto Nulla di cui parla Emo, se da un lato si riconduce all’assoluta assenza, dall’altro non elimina il momento opposto in cui il nulla nel suo darsi, al tempo stesso è: «dire che il nulla è presente è come dire che il nulla è». Tuttavia, Emo chiarisce che questo essere del nulla, ossia il suo significato in quanto essente, non va inteso come un ridursi del nulla a qualcosa che è, in modo da perdere la sua nullità e tornare alla positività mediante una negatio negationis, poiché l’auto-negarsi del nulla è un assoluto annullarsi del nulla, e dunque è un mantenere la nullità, il suo tornare a darsi come tale, come nullità. Dire che il nulla è, allora, «è dire che il nulla si nega, appunto perché nega il suo essere; altrimenti se non negasse, non sarebbe nulla; e, se non fosse (non fosse essere), non sarebbe nulla, non sarebbe essere — cederebbe il posto al puro essere».21
Il nulla, quindi, nell’annullarsi originario che è l’Inizio in quanto dà-inizio (a Tutto), o atto originario con cui la presenza si istituisce, è pur sempre un non cedere il posto all’essere, un salvaguardarsi come puro nulla, e, in questo senso, un custodire l’assenza come risorsa. Il valore dell’assenza è esaltato nell’auto-eclissarsi di Dio stesso, il quale, secondo Emo, si rivela solo nel non-manifestarsi, nel non-apparire: «Dio è nascosto nella propria negazione. Quale altro nascondiglio, latebra, grotta? Ogni divinità nasce in una grotta».22 Viene riaffermata, qui, l’ineliminabilità del nulla, anche nel suo stesso annullarsi. Ciò implica che l’atto costitutivo con cui l’Assoluto stesso si dà è originariamente rapporto con il Nulla come con se stesso (ricordiamo che solo il creare il nulla identifica l’Assoluto): «l’assoluto non ammette relazione altro che con il nulla. Dalla relazione iniziale (nozze abissali, infernali) tra il tutto e il nulla sono nati l’universo, gli esseri e le cose».23
Queste ‘nozze abissali’ tra l’essere e il non essere sono anche le nozze implicite di tutti gli opposti, dell’Uno e del Non-Uno, dell’identità e della non-identità di tutto nel principio. Metafora perfetta della assoluta contraddittorietà dell’Atto originario e della realtà che ne è scaturita. La contraddittorietà ha qui il suo proprium nel fatto di essere assolutamente insolubile, e quindi di evocare come suo ‘destino’ il paradosso, tant’è che, per Emo, «ogni verità è sempre in sé contraddittoria (ciò spesso si chiama paradossale), eppure mediante questa contraddittorietà riesce a esprimere qualche profonda unità. […] Quale altro modo per esprimere una unità, che la contraddittorietà? Quale altra espressione è possibile per questa intuizione dell’uno? ».24 Occorre, insomma, concepire persino l’Uno come identico col Nulla, in quanto Uno non vuol dir altro che Indistinzione pura, e dunque il coincidere assoluto con l’indeterminazione del niente. Ritroviamo, non a caso, gli esiti aporetici della prima ipotesi del Parmenide, in cui l’Uno si auto-cancella per non essere neppure Uno. Ed è questo, forse, il motivo per cui Emo ritiene che «l’uno puro è lo zero», poiché l’Inizio proprio in quanto si annulla, in quanto si eclissa, insomma «essendo zero, crea la diversità».25
Ma non possiamo chiudere queste riflessioni sulla meontologia emiana senza aver mostrato che la centralità della nozione del Nulla nel suo pensiero non è individuabile solo nelle meditazioni più propriamente ‘protologiche’, sull’atto originario della presenza; essa è anche lo snodo teoretico focale nelle speculazioni riguardanti l’escatologia. Qui, forse, viene all’evidenza un tratto che non sarebbe inappropriato chiamare ‘nichilistico’:
Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?26
L’ultima parola sulla Fine è la stessa di quella sull’Inizio: anche qui, l’autentica Icona della verità contraddittoria dell’Assoluto è il paradosso; paradosso che, ovviamente, per i suoi caratteri di insolubilità e assoluta intrattabilità con gli strumenti logici non-contraddittori, può essere colto solo attraverso l’apertura alla ‘sovra-razionalità’ come dimensione in cui il logos nel suo auto-annullamento (già visto come esito del neoplatonico Damascio), andrebbe a ‘nozze’, se così si può dire, col lato notturno del pensare, e cioè il mito. Emo, infatti, ribadisce ancora una volta che «nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso».27 Occorre rilevare che proprio la valorizzazione del linguaggio mitico, come espressione di una verità profondamente paradossale e ‘sovra-razionale’, è stata uno degli intenti più tenacemente perseguiti da Luigi Pareyson,28 il cui pensiero non a caso, soprattutto nell’ultima sua fase, ha aperto orizzonti inusitati e abissali nella riflessione sulla meontologia del Principio.
Cfr. A. Emo, Il Dio negativo ecc., cit., pp. 10-11. <
Ivi, pp. 12-13 (corsivo mio). <
Ivi, p. 10. <
Ivi, p. 33. E, in un altro passo, Emo torna su quest'auto-cancellarsi assoluto di Dio: «Dio 'consiste' nel suo annichilirsi» (ivi, p. 64). Sulla predilezione di Dio di rivelarsi solo nel paradossale non-rivelarsi, cfr. anche Pareyson, il quale, in Ontologia della libertà, afferma che «Dio, nella sua inesorabile e impervia trascendenza, si nasconde, e nascondendosi si rivela, né si rivela se non nascondendosi, al punto che d'ogni manifestazione si deve dire ch'essa vela nell'atto che svela e viceversa» (cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, p. 103, corsivo mio). <
Ivi, p. 34. Questa metafora delle 'nozze abissali', quasi segrete, 'notturne', tra essere e nulla (che è scritta in un aforisma datato 1960), è stata utilizzata anche da Emanuele Severino (ma è chiaro che si tratta di pura coincidenza, dato che gli scritti di Emo sono rimasti inediti fino al 1989). Egli, infatti, in Ritornare a Parmenide, a proposito del pensiero nichilistico, presente anche nel principio di non-contraddizione, nella misura in cui questo ammette un tempo in cui qualcosa 'non è', afferma: «Pensare 'quando l'essere non è', pensare cioè il tempo del suo non essere significa pensare il tempo in cui l'essere è il nulla, il tempo in cui si celebra la tresca notturna dell'essere e del nulla. Ciò che l'opposizione dell'essere e del nulla rifiuta è appunto che ci sia un tempo in cui l'essere non sia, un tempo in cui il positivo sia il negativo» (cfr. E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 22). <
Ivi, p. 84. <
Ivi, p. 136. <
Ivi, p. 75. <
Ibid. <
Come per Emo, anche per Pareyson il linguaggio mitico è «l'unico adatto» a rappresentare la Trascendenza divina, «in quanto idoneo a dire cose che non si possono dire se non in quella maniera» (cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 103). Ciò soprattutto perché esso si esprime, piuttosto che con la 'metafora', attraverso il 'simbolo', il quale «col salto di tutti i passaggi proporzionali produce una concentrazione così densa, che mantiene in perfetta simultaneità e coincidenza l'identità e la differenza, l'unità e l'alterità, l'assimilazione e la dissomiglianza» (ivi, p. 110, corsivi miei).
Adalberto Coltelluccio in dialeghestai
In questa poesia di Mario Gabriele, da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017) abbiamo un esempio di «nulla, solido nulla»:
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Il Decalogo è chiaro, il Codice pure.
I convenuti furono chiamati all’appello.
Chiesero perché fossero nel Tempio.
A sinistra del trono c’erano angeli e guardie del corpo.
Solo il Verbo può giudicare. L’occhio si lega alla terra.
Non ha altro appiglio se non la rosa e la viola.
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n.1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile.Il viso di Marilyn sul Time.
-Quella punta così in alto, che sembra la Torre Eiffel cos’è?-,
chiese un turista.
-E’ la mano del mondo vicina all’indice di Dio-,rispose un abatino.
Allora, che salvi Barbara Strong,
e il dottor Manson, l’abate De Bernard,
e i morti per acqua e solitudine,
e che non sia più sera e notte finché durano gli anni,
e che ci sia una sola primavera
di verdi boschi e alberi profumati,
come in un trittico di Bosch.
Ecco, ora anch’io vado perché suona il campanaccio.
Ci furono mostre di calici sugli altari,
libri di Padre Armeno e di Soledad,
e un concerto di Rostropovic.
Usciti all’aperto prendemmo motorways.
Nella terra di miti, dove ci si scorda di nascere e di morire,
c’erano cartelloni pubblicitari e blubell.
A San Marco di Castellabate
la stagione dei concerti era appena cominciata.
Il palco all’aperto aspettava il quintetto Gospel.
Si erano perse le tracce del sassofonista del Middle West.
Il primo showman raccontò la fuga d’amore di Greta con Stokowski.
Le passioni minime vennero con gli umori di Medea,
di fronte alle arti visive di Cornelis Escher.
Un relatore rimandò ad una nuova lettura
I Cent’anni di solitudine di Garcia Màrquez.
Quest’anno il postino non suonerà più di tre volte.
Et c’est la nuit, Madame, la Nuit! Je le jure, sans ironie.
Sì, è vero, in questa poesia Mario Gabriele ha raggiunto una vetta assoluta. Gli slegati, tipici della sua poesia, ma talvolta fin troppo troppo distanti gli uni dagli altri, tendono qui a ricostituirsi creando una illogica incredibilmente sensata. “che non sia più sera e notte finché durano gli anni” Ma vi rendete conto? Meraviglioso. Questa sì che è poesia.
Caro Steven,
hai decriptato molto bene la mia poesia cogliendone gli aspetti esteriori più significativi. E’una fortuna averti qui come poeta che indica, guida,e apre un discorso dai vari riflessi estetici, anche attraverso la tua poesia, di aura extraterritoriale, che fa senz’altro bene al linguaggio poetico. Grazie e Buon Anno.
Sì, ma tu, caro mio, hai raggiunto quella economia espressiva che letteralmente fa esplodere la poesia dalla pagina. E ci ridà il purissimo piacere di leggere una poesia perfettamente aderente al presente, esteticamente impeccabile, così inafferrabile da farci sentire che ad ogni passo sprofondiamo più dentro all’inspiegabile paradosso della realtà.
Buon Anno a te!
Profonda vertigine,
una ferita infinita!
Dio non si nasconde affatto, non c’è. Non può nascondersi né apparire colui che non c’è.
Essere nichilisti consapevoli e attivi penso significhi accettare l’evidenza che Dio non c’è.
Se togliamo Dio, resta tutto ciò che c’è.
“Se togliamo Dio, resta tutto ciò che c’è.”….
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Dio = il non esistente
…se togliamo “il non esistente”, “resta tutto ciò che c’è”. (l’uomo)
oppure :
Dio = l’esistente
… se togliamo “l’esistente”, “resta tutto ciò che NON c’è”. (l’uomo)
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insomma: o lui o noi
un dono di Antonio Sagredo ai Poeti e Poetesse per l’anno 2018, annondel sangue….
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a carlos gavito, il tanguero che balla il silenzio e la morte
E una sera di vigilie
Quando cessarono tutti i tramonti e le attese
E le aurore perdute nella notte conobbero la luce e l’onde
Nell’oscurità come sentieri inespugnabili alle spume
Io non seppi più se nate e dove le sorgenti…
E mi trovai in un millennio come in un cortile al centro
Di un ponte… gli spazi e i tempi: inesistenti, e amortali.
E nell’istante della creazione fra parola e parola
– O ponti, una volta arcobaleni! –
Ballano il silenzio e la morte un passo dopo l’altro,
Come in un tango che intreccia e tacchetta una condanna lenta
A due corpi appassionati: virtuosi sguardi e vuoti scellerati!
E nella destinazione ognuno s’affossa nell’essere
Ch’era stato e che mai era stato un essere altro!
E s’annulla il moto di una visione in ogni dove
Di uno spettro che non ha nostalgia dell’umano.
Labbra e palpebre sono un misero traguardo
Che già ai viventi abbandonammo quando la soglia
Era in tutte le rovine e le perdite una gioia preesistente
E ogni cosa e ricordo noi lasciammo insofferenti
All’inquietudine dell’oblio.
Orfani di tutte le maschere e le danze,
Noi che avviluppati nei mantelli abbiamo scordato i nostri volti
Umani… questo abbiamo voluto, per questo abbiamo
Vinto la rovina! Questo smarrirsi è la vita, ma non su
Questa Terra!
Avanzavo, e con le dita tagliuzzavo le maschere e i volti che mi somigliavano.
E ad ogni passo un volto, e una maschera a ogni altro passo!
Non volevo essere io in tutti i passi, in quest’io che mi inquieta dalla Nascita,
E che ancor prima m’hanno stampato un calco
E marchiato come un agnello in fiamme
Quasi fossi celebrato da millenni il mio avvento!
Come in un mattatoio questa nascita che non ha radici!
Questo ha dissipato la mia materia e il sangue
E la ragione!
Così su Saturno o altrove possiamo rinascere davvero nuovi
Come se a numeri infiniti un numero altro
Non infinito o la sua negazione…
Sarebbe leggerezza…
E poi essere lieve come uno dei qualsiasi numeri nei cristalli dei fiocchi
Di neve… e sciogliersi,
forse così la partenza, gli arrivederci e gli addii…
Lievezza, ovunque.
Non ci sono più ai crocicchi barocche lacrime,
Non c’è più Oriente.
Nessuno agiterà le banderuole ad ogni pietra miliare,
Nessuno i metallici galletti sui merletti consunti delle torri sveve.
Che armonia possedere in sé un altro canto!
Spazio che divorando altro spazio s’infiamma
Amore che sfiorendo s’innamora di nuovo Amore.
Celebrare la leggenda è dar vita alla Vita,
Non è nemmeno una nostalgia
Se né un bambino o un vegliardo la ricorderanno.
“Si parla continuamente di solitudine e di incomunicabilità tra gli uomini. Ma nel mondo di oggi ciò che ci manca è appunto la solitudine che è considerata la colpa maggiore, e siamo obbligati a stare sempre in linea di comunicazione; potessimo comunicare la nostra incomunicabilità! Che altro vale la pena di essere comunicato? Potessimo interrompere la comunicazione!”
Oggi stavo rileggendo Boine, avevo in mente una “trama” per entrare nel suo pensiero, prima che divenisse parola. Seguivo delle molliche di parola nel bosco della sua scrittura. Allora ho pensato alle parole di Emo, apparse qui nel post, e che ho citato più sopra.
E ho collegato con un filo rosso, nella mia testa, i suoi pensieri a quel frammento boiniano (da “Conclusioni d’ottobre”):
– “Quanto ai discorsi, andare lenti con l’amico per le strade di campagna, d’ombra o sole, o queste vie vuote intorno la città così pacifico zittire, dà conforto. Sotto un pino sdraiarsi con l’amico, mirare in giro la serenità! Frullare con le dita gli aghi resinosi, succhiare smemorati un filo d’erba amara, una secca pigna scrutare a squamma a squamma con curiosità: di tutte queste cose dire come viene al buon amico che ti sta vicino.
Però le cose buie del soffrire, quelle a dirle non c’è mai bontà. Non c’è l’amico che te le può mutare! Nessuno questa angoscia me la sa quetare! – Le sono, ormai per me, chiacchiere fatte sulla porta di casa: quand’entro e chiudo, di nuovo nudo, me.
– Sempre essere con sé, ma che squallore! Il cuore non ci dura. – Allora all’improvviso si fa una fiera ansante che non può più fuggire: o grida in disperazione: o vita o morte!
Però la vita non c’è più, è appena un passatempo. La morte bisogna morirla: a dirla fai paura ed è vergogna.”
Pensavo al linguaggio boiniano, alla torsione della sua lingua, volta a comunicare proprio quell’incomunicabilità…
In un suo saggio monografico (“Il lavoro e la scrittura, saggio in due tempi su Giovanni Boine”, Il Melangolo, 1987), Giorgio Bertone sottolinea con veemenza proprio questo aspetto – assolutamente innovativo, aggiungo io, nella poesia italiana dell’epoca, e anche contemporanea – della lingua poetica di Boine: quel piegare la lingua per comunicare la fatica della stessa ricerca poetica…
Una strada intuita dallo scrittore portorino, e morta con lui, fino ad oggi. Oggi: un oggi in cui in poesia viene sentita come ormai impellente la necessità di comunicare quell’incomunicabile che è la realtà.
Il balbettare quasi – con stupore forse più che con angoscia – del poeta, la stessa sua impossibilità di scrivere. O l’accorgersi che dietro il velo di Maya di cui si parla in un commento di Steven Grieco Rathgeb, non vi è nulla da svelare. E in tutto ciò, anziché disperazione: lo stupore del poeta!
E questo, aggiungo, è ciò che provo leggendo i versi di Mario Gabriele. Anse di pensiero, perfettamente mondo a sé, ognuna di loro – che insistono nel farci considerare non tanto il messaggio costruito nel legame tra i vari frammenti, quanto la realtà esistente in ognuno di essi.
Gentile
Chiara Catapano,
non posso far passare inosservata la sua nota, per questo la ringrazio sinceramente per l’ attenzione e per il modo in cui si connette alla mia poesia, disvelandone gli aspetti più profondi. Anche a lei formulo Buon Anno e buon lavoro.
Buon anno a lei, Mario Gabriele.
E certo buon lavoro: di esperienze poetiche come la sua è bene si discuta sulle pagine di questa rivista, dove si tenta l’intentato! e quando qualcuno riesce (come lei, ad esempio, con questi suoi versi) si gioisce assieme, per la Poesia tutta.
Nel giardino del mio Amore entrò un cafone
ora in terra stanno i cespugli, oh mia bella, stanno in terra
mentre raccoglieva le rose, ruppe gli steli, le fece marcire
ora sono tutte secche, oh mia bella, tutte secche
Abbiamo steso il tappeto della preghiera in ogni luogo
abbiamo visto la nostra amata nella grazia del Sommo
un giorno noi tutti entreremo nell’abbraccio della terra
marciremo, oh mia bella, marciremo
il Sommo stesso legge il destino, Lui stesso lo scrive
Lui chiuse le ciglia a mezzaluna dei suoi occhi incantevoli
le tue compagne ora camminano con te nel Giardino
sono le houri, oh mia bella, sono le houri, mia bella
Quale sia il tuo credo, io lo adorerò, lo pregherò
per risvegliarmi insieme a te nel Giorno del Giudizio
per alzarmi una volta ancora e baciare la tua bianca gola
non passare da qui per un breve attimo, oh mia bella, non passare
Io sono Pir Sultan Abdal, primo fra i primi
alimento l’anima con il meglio e pongo rimedio al peggio
riunirò il miele di mille fiori in un’arnia a scoppiare
ché io sono l’ape, oh mia bella, io sono l’ape
Pir Sultan Abdal, poeta, pensatore/filosofo turco del 16 sec., non musulmano, avverso a tutti i fanatismi, sostenitore (!!!!!!!!!!!) dell-uguaglianza assoluta della donna e dell-uomo.
Vorrei riportare un altro frammento boiniano, che trovo così perfettamente in linea con la nostra dissertazione di oggi, qui:
“- Di che desideri, pura, trema l’aurora, sempre di nuovo sorgendo? Dal profondo sepolcro Lazzaro ecco, ad ogni mattina! Fresco subito il cuore, come le cose è di perla; vergini, son come di un bimbo le membra. – Chiara la preghiera, allora, si versa come la fontana; ad uno ad uno gli oggetti (son d’aria?) corro a mirarli; presto ad una ad una le piante con palma amorosa le palpo: son vive! Le lucide foglie le bacio. Oh! qui ancora, tu, sogno? qui ancora, realtà?”
Questa luce, più bella fra tutte, è sorta. E’ nato il chiarore che ovunque si espande. Apparsa all’orizzonte, un lume viola ha inviato, inondando luminosa le distanze.
(shloka dai Veda)
L’ha ribloggato su RIDONDANZE.
“dio è nulla, perciò il mondo è”.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/06/intervista-a-massimo-dona-sul-pensiero-del-filosofo-andrea-emo-1901-1983-dio-e-nulla-percio-il-mondo-e-il-passato-e-la-memoria-sono-il-regno-di-dio-nel-passato-e-lunica-sede-d/comment-page-1/#comment-29707
Ed è la musica. La musica intesa come filosofia, come “apertura di senso”, che non contempla alcun oggetto materiale, che è pura possibilità, proiezione. La musica che non ha luogo, è sempre nunc ma non hic, è un ‘adesso’ che non ha luogo (Günther Anders, Philosophische Untersuchungen über musikalische Situationen, 1930). La deriva ‘individualistica’, l’apologia di un suono fine a sé stesso, viene superata in una visione antropologica. La musica come identità dell’umano, come luogo della celebrazione dell’incontro con il proprio Sé più profondo. La musica quale unica dimensione ‘auratica’ della modernità, cifra della nostra interiorità più incontaminata.
Bloch contribuisce in maniera decisiva all’affermarsi di tale prospettiva: muovendo proprio dall’esigenza della trasformazione del Sé, riafferma la coniugazione fra quanto avviene al cospetto del fenomeno musicale e quanto avviene nella storia, nelle sue discontinuità e lacerazioni. La musica non solo non è distinta dalla storia, ma ne rappresenta il sostrato più profondo e più autentico: è nella musica, infatti, che prende forma quel principio utopico di redenzione la cui dimensione propria è il presente, e la cui attualità acquista persino evidenza per chiunque attraversi quel cammino di trasformazione che porta l’individuo a costituirsi come sostanza etica sotto il segno del Noi, e non più sotto quello del suo isolamento monadico. Proprio per questo, allora, la tipologia di fondazione che il legame comunitario ritrova nella musica non potrà essere di natura estetica, ma dovrà collocarsi su un altro piano, non solo diverso, ma addirittura – ed esplicitamente – alternativo all’estetica.
L’estetica è pur sempre cosa da intenditori, da fruitori accorti che sanno decifrare gli schemi nascosti e raffinati di ogni composizione. L’ascolto, invece, come categoria comunitaria per eccellenza, non presuppone altro se non un comune riconoscimento intorno alla musica e nella musica. Perciò, è necessario poter riconoscere i punti d’incontro tra la musica e il pensiero filosofico contemporaneo, che forse oblia troppo la lezione di questa arte singolare, trascurata da alcuni autori, sopravvalutata da altri, ma raramente tenuta in conto con l’onestà e con l’ingenuità dimostrate e rivendicate da Bloch. Di fronte alla musica, sembra anzi che, per Bloch, l’ingenuità sia l’unico atteggiamento in grado di tenere insieme le istanze della comunità e dell’anima-contingenza, della speranza e della laicità, del messianismo e dell’attualità.
In base a questa nuova concezione della musica, dunque, non si tratta più di verificare come la filosofia abbia considerato la musica in quanto oggetto, ma di sperimentare come la filosofia sia stata capace di rimettere in discussione se stessa mediante il confronto con la musica. Così, il controverso rapporto tra la musica e il linguaggio può ispirare una concezione ‘oscillatoria’ della filosofia e dei suoi margini, come quella prospettata da Derrida (Margini della filosofia, 1972). Il «margine» come oscillazione perpetua, come linea di demarcazione problematica, che mette in primo luogo in discussione se medesima; la proposta filosofico-teorica che si può desumere da questo contesto ha una portata “eversiva” e si può considerare mutuata dalla musica e dalla vexata questio che da sempre la investe, il rapporto tra musica e linguaggio come rapporto che tende costantemente a debordare sui due piani, con la musica che tende a prevaricare il linguaggio o, viceversa, con il linguaggio che, in un atto di ritorsione, tende a prevaricare la musica. La strategia “marginalista”, mutuabile da Derrida, smaschera quel tanto di metafisico che grava sulla prospettiva pro o contro l’assimilazione della musica al linguaggio, deludendo ogni tentazione gerarchica e le rispettive “istanze-di-priorità”, e indicando la “svolta” impostasi nella musica contemporanea, anche riguardo alla scrittura notazionale, con l’avvento della musica elettronica (che tende a prescindere dall’uso della partitura, pur non rinunciando esplicitamente alla funzione scritturale: basti pensare a K. Stockhausen, F. Evangelisti, L. Berio, J.L. Koenig, compositori che producono solo a posteriori una partitura per quanto rudimentale e approssimata).
Su un altro piano, si assiste a una linea che tende a trasformare profondamente la continuità della temporalità musicale; sembra quasi che la musica, in analogia con quanto accade nel cinema, “spazializzi” all’ennesima potenza il tempo musicale: il compositore nella creazione riesce a far convivere forme temporali che si emancipano dalla linearità, dando luogo a quel processo che Salvatore Sciarrino definisce «discontinuità della dimensione temporale», alla cui conclusione vi è una «forma a finestre». La strategia “oscillatorio-marginalista” di Derrida riesce insomma a coprire compiutamente la svolta della musica contemporanea, accompagnandone ed esaltandone tutte le implicazioni-sfumature.
Alla luce di questo nuovo paradigma, cambia il senso stesso della locuzione “filosofia della musica”, dominata da un genitivo oggettivo: la filosofia guardava alla musica come a un suo oggetto specifico, un oggetto linguistico che andava ricondotto ad altro. In quella prospettiva, era la filosofia a dotare la musica di un senso che, da sola, questa non avrebbe mai potuto darsi. In questo modo, allora, la filosofia tendeva a colonizzare, addirittura ad annettersi la musica, che perdeva ogni autonomia e ogni specificità. Nella nuova prospettiva, invece, il genitivo dell’espressione “filosofia della musica” assume un valore soggettivo: la musica viene affrancata dall’ipoteca oggettivante della filosofia e può finalmente procedere iuxta propria principia. Non solo: se la filosofia della musica si farà filosofia dell’ascolto, di un ascolto non mediato dal linguaggio verbale (che non abbia a che fare con gli aspetti semantici, con la rappresentazione linguistica, con il contenuto veritativo), allora in essa si potranno trovare importanti indicazioni per una filosofia che sappia andare oltre la “svolta linguistica” che ha segnato, in massima parte, la filosofia novecentesca.
Ma vi è un’implicazione ancora più radicale, poiché la stessa tesi centrale dell’ermeneutica, ovvero il primato teoretico del testo letterario in quanto paradigma del processo interpretativo, viene messa radicalmente in discussione. Non la voce linguistica, ma il suono musicale è il fulcro di questa nuova filosofia, informata a un rapporto non più gerarchico con la musica. Oggi è molto comune attaccare il paradigma filosofico derivato dalla svolta linguistica. L’offensiva parte dal naturalismo, dalla fenomenologia, dal pragmatismo, dal pensiero della differenza; ora, per il paradigma linguistico, si è aperto anche un fronte musicale.
“Dalla filosofia della musica alla musica come filosofia” non è solo una formula suggestiva o un artificio letterario, ma l’indicazione precisa di una linea di tendenza che si è andata sempre più affermando nella cultura filosofica e musicale del Novecento, una cultura finalmente egualitaria, che non vede la supremazia di una dimensione sull’altra, presumendo, invece, una relazione autenticamente paritetica. Una cultura che aspira a dissociarsi da una concezione cosmologica del suono (l’armonia delle sfere celesti, il suono come eco di tale armonia), per approdare a un’interpretazione in cui il suono diviene risonanza della nostra cifra più profonda, materia per eccellenza dell’identità umana.
Dedico a Giorgio Linguaglossa e a tutti coloro che hanno attraversato questa pagina, il più recente lavoro di Paolo Rotili, direttore del Conservatorio O. Respighi di Latina, che venti anni fa è stato mio maestro.
Si tratta di Cinque Studi Modulari (2017). Come si legge nella didascalia che accompagna la composizione, il lavoro è scaturito “dall’esigenza manifestata da Claude Delangle di scrivere degli studi adeguati all’oggi”. Claude Delangle è uno dei più importanti sassofonisti al mondo e docente al Conservatorio Superiore di Musica di Parigi.
È interprete dei Cinque Studi a lui dedicati dall’autore, insieme a Stefano Nanni (sax soprano) e Silvia D’Augello (pianoforte).
Sebbene scritti senza alcun riferimento all’alea, con l’intento di “favorire la duttilità di un utilizzo didattico”, i singoli pezzi, nell’ordine in cui sono stati pensati e organizzati dall’autore, risultano così strettamente correlati tra loro da costituire un unicum, una composizione compatta, di indiscusso pregio artistico.
https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F%2Fsoundcloud.com%2Fpaolo-rotili%2F5-studi-modulari-2017per-sax-e-pianoforte-ad-libitum-delangle-nanni-daugello%3Futm_source%3Dsoundcloud%26utm_campaign%3Dshare%26utm_medium%3Dfacebook&h=ATNMzrI4s7d2_YmYzWRYQBxofDFkXmiroIfy3wzbRzwT_suaxQhth6v8ByAZRn4nTdXnDyREDPelf6D68Ost12P_2hFwLqhj_bfbH-rzBef-mTCRqRoPDawVUYarZ9tQvJSGAcRR4oujC-7UfCprJ8hCNYuUFBemNC9ms4hkeS2N5ZAQsdK0uC2sSmEWCJuaT_nmtfHHZ4kSxkHq7nhKJB4LdvcHSjITMwB0CA-FY9ArYOuIyA3Hd0fDBKCWWT7s5jV2CbvHZNWoJi1g2TYZxoQHkmXN-550eNZOOA
scritte a margine
le serpentine dei ghirigori solleticavano
gli avanzi.
assuefatte dal significato
le statue, gli studi, tutte le concentriche
cornici mutavano il sogno.
ai bordi estremi di un universo sfitto
leggevano leggende e misfatti.
ai bordi estremi vaganti condomini
nelle estrema sintesi
verseggiavano erostato.
il brindisi avvenne insignificato.
una chiocciola sbandò.
Zbigniew Herbert:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/06/intervista-a-massimo-dona-sul-pensiero-del-filosofo-andrea-emo-1901-1983-dio-e-nulla-percio-il-mondo-e-il-passato-e-la-memoria-sono-il-regno-di-dio-nel-passato-e-lunica-sede-d/comment-page-1/#comment-29723
Dove passerai l’eternità?
Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose.
da L’epilogo della tempesta, (Poesie 1990-1998), Adelphi, 2016 a cura di Francesca Fornari
Giorgio Linguaglossa
Dove passerai l’eternità?
Non lo ricordo.
Forse l’ho trascorsa nella sabbia tra le meduse.
Nella nebulosa di Oort
a 140 miliardi di chilometri dal pianeta Terra
(inedito)
* La nube di Oort
Secondo l’astronomo Oort all’esterno del sistema planetario esisterebbe una nube sferica formata dai residui della sua formazione, costituiti principalmente da ghiacci, aggregata in piccoli oggetti di pochi km di diametro che talvolta, disturbati da interferenze gravitazionali, modificano la loro orbita penetrando all’interno del sistema e dando origine ad una nuova cometa.
La nube di Oort che avvolge tutto il Sistema SolareQuesta idea gli venne ispirata dalle seguenti considerazioni:
Non era mai stata osservata alcuna cometa con un’orbita che indicasse la sua provenienza dallo spazio interstellare,
C’è una forte tendenza degli afeli delle comete a lungo periodo a situarsi alla distanza di circa 50.000 UA
Non c’è una direzione predominante di provenienza delle comete.
Circa il 50% delle comete seguono un’orbita in senso orario
Basandosi su queste considerazioni egli avanzò l’ipotesi che le comete si trovano in una vasta nube situata nelle regioni esterne del sistema solare. Questa è diventata nota come la Nube di Oort.
Le statistiche suggeriscono che potrebbe contenere mille miliardi (1012) di corpi, ma a causa delle piccole dimensioni di questi corpi e della grande distanza, non abbiamo nessuna prova diretta riguardo all’esistenza della Nube di Oort. La Nube di Oort potrebbe contenere una frazione significativa della massa del sistema solare, forse più della massa di Giove.
Una controversa teoria ipotizza che a perturbare lo stato delle comete nella Nube di Oort sia un’ipotetica stella compagna del Sole chiamata Nemesis.
Risvolto di copertina del libro di Zbigniew Herbert L’epilogo della tempesta. (Poesie 1990-1998), Adelphi, 2016 a cura di Francesca Fornari
«Scrivevo poesie serie, tragiche» ha detto nel 1991 Zbigniew Herbert in un’intervista, paradossalmente deplorando l’abolizione della censura seguita alla caduta del Muro. «Adesso scrivo sul mio corpo, sulla malattia, sulla perdita del pudore». In questa nuova atmosfera lirica, infatti, il poeta i cui versi Iosif Brodskij aveva definito come «una nitida figura geometrica … incuneata a forza nella gelatina della mia materia cerebrale» (versi, aggiungeva, che il lettore si ritrova «marchiati a fuoco nella mente con la loro glaciale lucidità») – ebbene, quello stesso poeta che era stato così discreto, così poco incline a parlare di sé, lascia spazio alle confessioni intime di un io che abita ormai «sull’orlo del nulla» e ci consegna una sorta di testamento spirituale. Rimane, certo, il suo tono, quella «miscela di ironia, disperazione ed equilibrio» che già incantava Brodskij; e rimangono i temi che sempre sono stati al centro della sua ricerca espressiva: la memoria come vicinanza al passato e alla tradizione, l’azione corrosiva del tempo, il viaggio come fonte di ispirazione: ma accanto a questi c’è ora la stoica accettazione della sofferenza fisica e psicologica, accompagnata dalla gratitudine (così si legge nelle estreme composizioni di Breviario) per tutta «questa cianfrusaglia della vita» (e soprattutto, scrive, «per le pasticche di sonnifero dai melodiosi nomi di ninfe romane») – una vita che si lascia, tuttavia, con il «cuore pieno di rimpianto».
Zbigniew Herbert
Rapporto dalla Città assediata
A cura di Pietro Marchesani
Biblioteca Adelphi
1993, 2ª ediz., pp. 269
isbn: 9788845909665
€ 25,00 -15% € 21,25
Zbigniew Herbert – Risvolto di copertina
La crudele Natura, scrive Brodskij nella appassionata Lettera al lettore italiano che apre questo libro, «con un minimo intervallo di tempo ha affibbiato alla Polonia non solo Czesław Miłosz ma anche Zbigniew Herbert. Che cosa ha cercato di fare, che cosa aveva in mente? Preparare la nazione al suo fosco avvenire, in modo che i polacchi potessero reggerlo?». Di fatto, la compresenza di due poeti di tale altezza – un’altezza dove «non c’è più gerarchia» – in una terra devastata sembra accennare a qualcosa. Lo scoprirà il lettore italiano, incontrando in queste pagine per la prima volta l’essenziale dell’opera di Herbert. Ma che specie di poeta è Herbert? Nessuno può rispondere meglio di come ha fatto Brodskij nella sua introduzione: «È un poeta di straordinaria economia. Nei suoi versi non c’è niente di retorico o di esortativo, il loro tessuto è quanto mai funzionale: è brusco piuttosto che “ricco”. La mia impressione complessiva delle sue poesie è sempre stata quella di una nitida figura geometrica (un triangolo? un romboide? un trapezio?) incuneata a forza nella gelatina della mia materia cerebrale. Più che ricordare i suoi versi, il lettore se li ritrova marchiati nella mente con la loro glaciale lucidità. Né gli succederà di recitarli: le cadenze del tuo linguaggio cedono, semplicemente, al timbro piano, quasi neutro, di Herbert, alla tonalità della sua discrezione».
Quando il Signor Cogito sarà invecchiato dignitosamente, non collezionerà francobolli, monete antiche, né libri rari. Creerà la prima collezione al mondo di nodi. Si sforzerà di convincere gli altri del fascino che esercita il mistero dei nodi.
Gli uomini non hanno mai apprezzato i nodi. Non hanno nemmeno imparato la loro complicata bellezza. Tagliavano i nodi con la spada, come quel fesso macedone, oppure scioglievano i nodi, orgogliosi di ritrovarsi poi con un’orribile corda, che può servire per legare il maialino all’albero, o essere legata al collo del prossimo.
da L’epilogo della tempesta
Dopo la pioggia di stelle
sul prato di ceneri
si riunirono tutti vigilati da angeli
da un’altura superstite
si può abbracciare con lo sguardo
l’intero gregge belante dei bipedi
in verità non sono molti
contando perfino quelli che verranno
da cronache favole e vite dei santi
ma basta con queste considerazioni
portiamoci con lo sguardo
alla gola della valle
da cui si leva un grido
dopo il sibilo dell’esplosione
dopo il sibilo del silenzio
quella voce pulsa come sorgente d’acqua viva
è come ci spiegano
il grido delle madri a cui vengono tolti i figli
giacché a quanto pare
saremo redenti singolarmente
gli angeli custodi sono intransigenti
e va riconosciuto fanno un duro lavoro
lei implora
– nascondimi in un occhio
nel palmo di una mano tra le braccia
siamo sempre stati insieme
non puoi abbandonarmi adesso
che sono morta e ho bisogno di tenerezza
un angelo più anziano
spiega sorridendo l’equivoco
una vecchietta porta
i resti d’un canarino
(tutti gli animali erano morti un po’ prima)
– era così caro – dice piangendo
capiva tutto
quando gli dicevo –
la sua voce si perde nel chiasso generale
perfino un taglialegna
che non si sospetterebbe di cose simili
un vecchio omone ricurvo
si stringe l’ascia al petto
– per tutta la vita è stata mia
anche adesso sarà mia
mi ha dato da vivere là
mi darà da vivere qui
nessuno ha il diritto
– dice –
non la consegnerò
quelli che a quanto sembra
hanno obbedito agli ordini senza soffrire
vanno a capo chino in segno di conciliazione
ma nei pugni stretti nascondono
frammenti di lettere nastri ciocche di capelli
e fotografie
credendo ingenuamente che
non verranno tolti loro
è così che appaiono
per un attimo
prima della divisione finale
in chi digrignerà i denti
e chi canterà i salmi
(“Alle porte della valle”, in Hermes, il cane e la stella)
Adeodato Piazza Nicolai
L’NUIA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/06/intervista-a-massimo-dona-sul-pensiero-del-filosofo-andrea-emo-1901-1983-dio-e-nulla-percio-il-mondo-e-il-passato-e-la-memoria-sono-il-regno-di-dio-nel-passato-e-lunica-sede-d/comment-page-1/#comment-29750
No credo pì a nuia
me à dito un amigo
daspò che so fiol
é morto a 4 àne.
No sento nuia, solo
dolor e desperathion.
No credo al paradìs
e neanche a l’inferno:
nasse, conpai de morì, no
fa nissun senso. No credo
neanche al destin; l’é na bala
contada da calchedun
che à paura dela nuote
sentha l domàn…
Che ése l nuia? Un orbo
e sordo se l sfiora na man
elo convinto che no l’à
tociou proprio nuia? N pupo
prima de nasse che séntelo
inte la pantha de so mare?
Che alo patiu l bocia de 4 àne
cuanche l’à capiu che era
ruou l momento de morì?
Se me ndormento su l’onda
del mar e scominthio a sognà
ebe nparou l segreto del nuia?
© 2018 Adeodato Piazza Nicolai
Padova, ore 14:2
IL NULLA
Non credo più a nulla
ha detto un amico
dopo che il figlio
è morto a 4 anni.
Non sento nulla, solo
dolore e disperazione.
Non credo al paradiso
e neanche all’inferno:
nascere, come morire, non
fa alcun senso. Non credo
neanche al destino: è una palla
raccontata da qualcuno
che ha paura della notte
senza il domani…
Cos’è il nulla? Un cieco
e sordo se sfiora una mano
è convinto che non ha toccato
proprio nulla? Un bebè
prima di nascere cosa sente
nella pancia della mamma?
Cos’ha sofferto il bambino di 4 anni
quando ha capito che era
arrivato il momento di morire?
Se m’addormento sull’onda
del mare e inizio a sognare
ho imparato il segreto del nulla?
© 2018 Traduzione italiana dalla poesia ladina L’NUIA
di Adeodato Piazza Nicolai
Alcune considerazioni sulla propagazione del suono nell’universo. http://www.notiziedalcosmo.it/articoli/la-sinfonia-del-cosmo-the-sound-of-silence
Vorrei mettere in evidenza una notizia molto particolare riportata in questo interessante articolo, ossia la possibilità, per noi umani, di ascoltare i suoni presenti nell’Universo attraverso le onde radio.
Nello spettro elettromagnetico, le onde radio, come sappiamo, sono onde molto lunghe. Pertanto, esse vengono usate per le radiocomunicazioni e le telecomunicazioni, poiché veicolano i dati che vogliamo far trasportare loro, partendo da un apparecchio trasmittente e arrivando a un altro ricevente che li decodifica e li commuta in suono per noi udibile.
Quando la sonda Voyager della NASA passò accanto a Giove, registrò un suono “anomalo”: era il suono proveniente dal pianeta. Esso è prodotto dall’interazione delle particelle elettricamente cariche del vento solare, con la magnetosfera del pianeta. Il plasma di particelle cariche viene accelerato al di là della magnetosfera di Giove a velocità di decine di migliaia di chilometri al secondo. Le vibrazioni di queste particelle magnetiche generano appunto il suono decodificato nella registrazione.
Nel video è possibile ascoltare “il suono di Giove” così come la sonda Voyager lo captò nel suo flyby con il pianeta. Beh, che altro dire, se non…
Buon ascolto!!
https://wordpress.com/comment/lombradelleparole.wordpress.com/29758?action=edit
Mi ricordo di un noto poeta che scriveva sul Sole 24 Ore i suoi trafiletti (come filetti di baccalà) sulla poesia che infarciva sovente quei suoi articoletti di speculazioni sul «silenzio» e altre amenità consimili. Si sa che i poeti sono notoriamente digiuni di preparazione filosofica e molto spesso improvvisano su materie, come quella del «silenzio», sulle quali sarebbe preferibile un po’ di prudenza e tacere. Devo dire che quelle sue improvvisazioni mi annoiavano alquanto per cui dopo un po’ smisi del tutto di leggere i suoi scritti con mio sommo giovamento. Quel «rumore» confuso sul «silenzio» mi infastidiva…
Adesso, questo articolo citato da Costantina Giancaspero porta un po’ di cognizioni scientifiche e un po’ di serietà su una problematica invece importantissima come quella del «silenzio in poesia», devo dire molto trafugata dagli improvvisatori di poesia.
In verità, il «silenzio» non esiste, l’universo è molto chiassoso… Quello che a noi appare come silenzio è invece chiasso per altri organi acustici più precisi dell’orecchio umano. E poi, chiediamoci: Siamo proprio sicuri che esiste il «silenzio»? Perché dovrebbe esistere il «silenzio»? «Silenzio» di che cosa? tra che cosa? E perché poi il «silenzio» dovrebbe avere una primogenitura nell’ambito del sistema-poesia? Come e quando fondare il «silenzio»? Ammesso che esso esista… Come si vede, una infinità di questioni sulla quale quel povero poeta non si era mai soffermato e mai si soffermerà, credo.
La significatività del silenzio noi la possiamo riconoscere ed avvertire soltanto in quanto relazione tra due significanti, come ciò che si istituisce tra due positività fonetiche e fonemiche. E quindi è solo all’interno della tensione significante che si instaura e scocca tra due positività significanti che il «silenzio» trova una sua ragion d’essere, altrimenti è vuoto concetto, vuota ciarla. Il «silenzio» acquista un senso soltanto in quanto prigioniero e intrappolato tra due o più positività significanti. In sé esso è nullo, si auto nullifica, non ha alcuna ragion d’essere, poiché si ha essere all’interno del linguaggio soltanto in quanto essere significante. Insomma, per farla breve, non abbiamo mai un silenzio significante (concetto erroneo) ma significante in quanto scoccante tra due o più positività e polarità significanti… Il «silenzio» altro non è che il positivo relazionarsi (significarsi) tra almeno due positività…
Non si dà nessuna relazione originaria del silenzio.
«Relazione originaria si darebbe dunque solo in quanto il darsi della positività assoluta riuscisse a farsi determinare da nulla; e a darsi come quell’unica significazione che è comunque costretta, per significarsi come unica possibile significazione, a negare nel modo più assoluto innanzitutto se stessa. Ovvero, la propria assoluta significatività. A negarla in quel nulla-di-significabile che il tutto della significatività reclama appunto quale unico inesistente per esso “necessariamente” esistente (dove, la sua inesistenza è imprescindibile condizione di possibilità per una significazione assoluta quale vuole e deve essere la sua)».1]
Per Merleau Ponty «il linguaggio assomiglia alle cose e alle idee che esprime, è la fodera dell’essere, e non si concepiscono cose o idee che nascano senza parole (… vi è un luogo in cui tutto ciò che è, o che sarà, si prepara contemporaneamente a esser detto…)», e dunque «si tratta solo di incontrare questa frase già formulata nel limbo del linguaggio, di captare le parole sorde che l’essere mormora».2]
Insomma, qui ricadiamo ancora una volta nella questione già sollevata da Heidegger dell’essere originariamente linguistico. Appunto, in origine c’era l’originariamente linguistico, in quanto prima del linguistico non c’è un pre-linguistico, si dà un vuoto, non il silenzio. È dal vuoto che si origina l’originariamente linguistico, ovvero, la lingua…
1] Massimo Donà L’Aporia del fondamento, Mimesis, 2008 p. 36
2] Ibidem Cit. da M. Donà in op. cit. a p. 509
“Le comete sono esclusive, non dànno confidenza, non interviste, e insomma fanno razza e vita tra di loro. (…) Si consideri la loro qualità straordinaria: in un mondo impiegatizio, un universo gerarchicamente impeccabile, un cosmo di luci di ruolo, le comete fanno eccezione. Viaggiano. Conoscono stelle, pianeti, asteroidi (…) Forse frequentano angeli, draghi, costellazioni. Conoscono il fruscìo degli dei. Ci sono comete che vagolano con le valigette di fibra. Ci sono comete che si trascinano una coda di bagagli, vestiti, parrucche. (…) Tutte hanno una vita avventurosa, hanno storie da raccontare, hanno chiacchiere e confidenze da perdere per strada. Se incrociano altre comete, indugiano a dirsi storie che nessuno può ascoltare. Talora, d’estate, quando tutti dormono, potete sentirle ridere. Il loro senso dell’umorismo è stravagante e sottile.” (Manganelli, “Le comete”)
Caro Giorgio, troppe questioni interessanti sollevate qui nella sezione commenti! Tanto per cominciare, i tuoi ottimi rilevamenti sul grandissimo Herbert. Perché non farne un post? Io potrei contribuire citando quello che dice l’inglese Daniel Weissbort (esperto di poesia dei paesi euro-orientali) di Herbert, e della miriade di alti poeti che scrissero nella Europa orientale, quella dietro la cortina di ferro cosiddetta. Tutto il gioco gatto-topo con la censura – censura che alla fine, e alquanto contraddittoriamente, essi rimpiansero in qualche modo, quando si trovarono alluvionati dalla finta libertà artistica della società dei consumi.
Nel 1972 ero a Mosca. Per una eccezionale combinazione incontrai un dissidente (di cui non faccio il nome), tramite amici miei. Mi parlò a lungo della realtà sovietica – un racconto davvero affascinante – dei privilegi che godevano gli intellettuali benvisti dal regime (vedevano tutti gli ultimi film occidentali, da Fellini e Visconti a tutti gli Hollywood, leggevano tutte le riviste, etc.), e della censura : come, se non gli piacevi, ti commissionavano il libro, te lo pagavano, ma non te lo pubblicavano. Una specie di colpo di grazia silenzioso. Giudica la mia sorpresa quando molti anni dopo, nel 1990, la Jaca Book mi chiese di scrivere, insieme al mio collega Nihal Mathur, un doppio articolo “Gli anziani in India di fronte all’incedere della nuova società consumista”, e per una congiura di palazzo dentro la casa editrice milanese, mi fu riservata la stessa sorte degli scrittori sovietici: mi avevano commissionato l’articolo, me lo pagarono, ma non fu mai pubblicato…!
Nel 1974 ero di nuovo a Mosca, questa volta in compagnia di mia moglie e di un mio amico, lo scrittore romano Alberto Lecco, e di sua moglie. A Mosca potei di nuovo incontrare il dissidente che avevo conosciuto due anni prima. Organizzammo una tavola rotonda, Alberto Lecco, io , il dissidente mio amico e quattro o cinque suoi compagni, per parlare di libertà di espressione e di cultura URSS vis-à-vis Occidente. Stavamo tutti rischiando. Loro esordirono dicendo, “ma certo voi avete tutta la libertà che noi desideriamo da sempre”, spiegando con dovizia di dettagli le forme sottili e grossolane di intimidazione (i manicomi, tutto), quanto in Unione Sovietica la censura uccideva i migliori talenti e imbavagliava l’artista e lo scrittore. Albero Lecco aspettò con pazienza che finissero di parlare. Poi entrò nell’agone facendo una appassionatissima denuncia del sistema delle democrazie occidentali – allora già in pienissimo sviluppo – dove la effettiva censura non era politica, bensì semplicemente, economico-culturale. Quello che viviamo noi oggi.
Alberto Lecco, concluse: “Certo, voi non vivete nella bambagia. ma almeno i diritti dell’intellettuale dello scrittore e artista sono in qualche modo tutelati. Noi non abbiamo nemmeno quello.”
(A proposito, mi sembra di aver già detto queste cose un’altra volta su l’Ombra. Pazienza!)
Si può opinare che Lecco avesse esagerato. E certamente esagerò, senza dubbio. Rimane però il fatto che da allora ho conosciuto intellettuali romeni e polacchi della mia età, che più o meno confermano: allora l’intellettuale euro-orientale aveva sicuramente alcuni privilegi che quello occidentale non si sognava nemmeno col canocchiale. Perché? Semplice. Le società socialiste avevano bisogno di intellettuali artisti e scrittori se non altro per sviluppare la loro propaganda, e quindi erano uno dei pilastri di quelle società, da trattare bene (anche per imbrigliarli è chiaro). Qui sembra che la propaganda del consumo i nostri riescano a farla benissimo senza l’intellighenzia! Di cui la straripante maggioranza soffre una strana malattia simile alla lebbra…
Guarda un po’!
caro Steven Grieco Rathgeb,
sto preparando un post con le poesie di Herbert tratte da L’epilogo della tempesta (Adelphi, 2016)
Appena puoi mandami il pezzo di Daniel Weissbort sulla questione degli artisti e degli intellettuali dell’est quando ancora c’era la cortina di ferro, così lo inserisco nel post. E pubblichiamo il tutto.