
Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com
Giorgio Linguaglossa
La crisi del Soggetto novecentesco e la nuova ontologia estetica
Come potrà il Soggetto parlare di se stesso se esso non è più il Soggetto ma un soggetto? Come potrà il Soggetto validare il proprio discorso se non infirmando il discorso che va facendo nel mentre che lo asserisce? È ancora possibile un discorso non-assertorio da parte del soggetto scollegato e spodestato da se stesso? Sì, è ancora possibile.
Questa «positività» del proposizionalismo poetico che promana come un lezzo dalla poesia assertoria e suasoria del novecento epigonico deriva dalla illusione di voler ancora imbastire un discorso poetico fondato sulla illusoria illusione del Soggetto legiferante, del Soggetto egemone (a pendio elegiaco o post-sperimentale fa lo stesso).
Io invece ritengo altamente proficuo un discorso poetico che fondi quella «positività» sullo zoccolo duro del «negativo», della «mancanza», della «traccia», della dis-locazione, dello spaesamento, della estraniazione.
Il fonatore dunque non coincide più con il locutore.
Il soggetto problematizzato si rivela essere il soggetto retorizzato. Qualcuno parla, sì, non è il soggetto ma un «Altro» che parla.
La filosofia moderna sostiene che il soggetto è indicibile. La poesia e il romanzo fanno di questo indicibile il senso stesso del discorso poetico e narrativo. Qui si rivela una antinomia del discorso poetico e romanzesco, ma è una antinomia fruttuosa che darà i suoi frutti migliori nella poesia europea da Herbert a Tranströmer.
La traccia dell’origine, in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e manifestandosi in Altro. Con la conseguenza che il linguaggio poetico e il linguaggio narrativo subiranno le conseguenze di questa non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un Logos di un non-originario che si comporta tale e quale al logos dell’originario.
I linguaggi poetici veramente vitali saranno quelli, a mio avviso, che accetteranno di misurarsi con la non-adeguazione del discorso poetico all’originario, che si metteranno la coscienza in pace rispetto a questo problema accettandolo come il terreno negativo dal quale ricostruire l’infranto a partire dalla frammentazione.
La narrativizzazione della poesia moderna, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio e suasorio del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» nell’ambito del discorso poetico e narrativo.

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar/ radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano
La riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto. L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante.
Oggi anche la poesia non può non investigare con nuovi strumenti espressivi gli aspetti della attuale fase della crisi spirituale.
Oggi una nuova ontologia estetica non può non prendere a parametro del proprio comportamento proprio questa de-fondamentalizzazione del soggetto. E ripartire da lì.
Sulla veranda: Meena e Beena Mathur
Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)
Scrive René Char: «Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro».
Le parole per entrare nella nuova patria metafisica hanno dovuto spogliarsi dei loro vestiti, hanno abbandonato sulla spiaggia la «musica», il peplo musicale nelle quali erano avvolte, hanno abbandonato l’io da cui quelle parole, come un oboe sommerso, sembravano provenire. Adesso sono davanti al mare dell’essere, nude, prive di abiti. Adesso, possono entrare nel mare dell’essere fino a scomparirvi.
Le parole si sono liberate anche del soggetto egemone e legiferante. Il Re è stato spodestato, la monarchia assoluta del Re Sole è crollata di schianto.
Le parole sono queste: «Due sorelle», la «veranda», «vestiti», «giallo-sera», «Fuori, un giardino». Sono parole che il poeta mette sulla linea del verso, anzi, allinea nel verso come una serie di fotogrammi privi di accompagnamento musicale; sono i singoli fotogrammi che fanno musica, non il contrario. Non ci sono verbi che fanno da veicolo musicale, i verbi sono banditi, ci sono solo «cose», «cose» mute, e le «cose» portano con loro dei «limiti», dei confini. Le «sorelle», la «veranda», i «vestiti», il «giardino» sono tutte «cose» corpose circondate da corposi limiti. Di colpo, scopriamo in poesia la pesantezza delle «cose», il peso dei loro confini, dei loro limiti.
Queste «cose» messe così le une accanto alle altre potrebbero sembrare un atto di barbarie poetica, intendo quel loro essere messe assieme senza alcun accompagnamento musicale, senza verbi musicali e senza l’io che fa da direttore d’orchestra. Ma è che qui non c’è bisogno di alcun direttore d’orchestra perché non c’è più una orchestra, come avveniva per la poesia del novecento europeo da Seamus Heaney a Mark Strand, qui l’unica «musica» ammessa è la «musica» delle nude parole, delle nude «cose», con i loro confini e i loro limiti. Sono le «parole» le protagoniste della poesia. Nella nuova ontologia estetica sono le «parole» le vere protagoniste, le «parole» ci parlano, esse sanno molto di più di noi di quanto noi sappiamo di loro, perché adesso queste «parole» hanno preso a frequentare una nuova patria spirituale, hanno abbandonato per sempre l’antica patria musicale del novecento europeo per inoltrarsi in un nuovo dominio, in una nuova dimora del tutto priva degli antichi strumenti musicali dell’antica orchestra. Le parole si sono spogliate, sono diventate talmente nude da essere irriconoscibili.

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»
Sulla veranda: Meena e Beena Mathur
Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)
Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –
e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti
Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano
perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori
Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa
agli stormi di piccioni in volo
agli aquiloni che danzano più su
alle rondini nel più alto
Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»
*
La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.
«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»
Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).
Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.
E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia
(un riflesso incantevole)
[Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006]
La poesia di Steven Grieco pone, ancora una volta, il problema della comunicabilità.Non è una questione di quantità di parole,ma di qualità delle parole. Qui, ogni parola, ha una qualità altissima,inimitabile:è l’oro puro contro il dorato finto, il diamante grezzo contro il brillantone sintetico.Tra gli intenti della NOE c’è, appunto,lo sterminio dei dorati finti e dei brillantoni sintetici.Ma sarà dura.
Le parti descrittive di Steve Grieco, in questa come in altre sue poesie, mi rimandano nella memoria a Pasternak: la luminosità, il garbo, la capacità di cogliere dettagli. Quel suo particolare dinamismo costruttivo. Con in più i dialoghi, che sono voci, vive presenze che interrompono. A queste voci si dà vita in poesia (tocca a loro, non all’autore):
Meena: «ho fatto un sogno della / nostra madre morta. / Da 25 anni, ormai.
/ la incontro in altri luoghi.»
Sono dell’idea che il rapporto tra immagine e parola debba restare distinto; che le immagini, senza parole che arrivino dette o dettate, potrebbero mancare di poesia; che senza “(un riflesso incantevole)”, posto così, genialmente tra parentesi – come che sia capitato a cose dette, quasi involontariamente – ecco, l’intera poesia brillerebbe di meno. Anche se in questa poesia, per dirla alla Paolo Conte, tutto “sventola e danza”…
Sulla nuova patria metafisica delle parole e sull’etica del lutto
La crisi del Soggetto novecentesco e la nuova ontologia estetica
Botta-risposta fra Steven Grieco-Rathgeb e Gino Rago
sul postulato:
“Come potrà il Soggetto parlare di se stesso se esso non è più’ il’ Soggetto
ma ‘un’ Soggetto?” di Giorgio Linguaglossa
Morte della madre
I falò di Carnevale…
[tu nel letto d’ospedale]
già tutta pronta al viaggio fra le stelle alla tua foce.
Con l’occhio nella cenere
quieta sussurravi: «Non sprecate l’acqua.
Lo capirete quando il pozzo sarà secco.
Ve ne accorgerete a focolare spento».
Per questo smarrimmo l’odore delle mele.
Di calce spenta su quest’altra sponda.
Abiti neri. Veli di pervinca. Condoglianze
appena bisbigliate.
Colpe da nascondere come una vergogna.
Contorni d’ombre. Intermittenze d’asma.
Il tuo viaggio solitario verso l’onniscienza.
Nel sole alto a candire i cedri
il vuoto di te ruppe la barriera fra vita finta e morte.
Atrocemente straripò quel vuoto come un’eco
di strepiti distanti
o di remoti palpiti sapienti.
Dall’ocra dei licheni al fiore sui limoni
un vento soffiò sul sangue della terra.
Prosciugò le conche. Disperse la casa e l’aquilone.
Mother’s Death
The bonfires at Carnival time…
(you in your hospital bed)
now ready for the star journey to the mouth of your river.
Gazing in ash
you spoke quietly: “don’t waste the water.
You’ll understand when the well is dry.
You’ll know when the fireplace is extinguished.”
This is why we lost the scent of apples.
Of slaked lime on this far shore.
Mourning clothes. Periwinkle-coloured veils. Barely
murmured condolences.
Faults we must conceal like some shameful thing.
Outlines of shadows. Intermittent asthma.
Your lonely journey towards omniscience.
In the sun high up candying the citron fruits
the void of you broke the barrier between false life and death.
Terribly that void overflowed like an echo
of far-off clamours
or a remote, knowing throbbing.
From the ochre of lichens to the blossoms on the lemon trees
a wind blew over the blood of the earth.
Dried up the hollows. Scattered the house and the kite.
Steven Grieco Rathgeb (Traduzione di )
Steven Grieco-Rathgeb
Si tratta di una poesia questa di Gino Rago che si inscrive in uno stile di scrittura che rimane sostanzialmente invariato nei secoli. Infatti, qui è l’eco di poesie greco antiche, poesia romana – in particolare l’eco di quest’ultima è molto forte qui. (E’ incredibile notare come talvolta la lingua italiana riesce perfettamente a rievocare la paganità romana). L’importante in questi casi è reggere l’intensità richiesta dal soggetto senza cedere al sentimentalismo o alla retorica… ma questo lo hanno già detto altri commentatori.
Qui gli oggetti della poesia esprimono certo gravità, ma soprattutto una certa scabra semplicità, che scarnifica alquanto il testo: il risultato è infatti particolarmente asciutto. E questo è sempre un fatto positivo. Ad esempio, la parola “aquilone”, in quanto ultima parola della poesia, è fortemente staccata dal resto (e questo dà asciuttezza): “aquilone” sembra ricordare la solitudine del poeta, l’infanzia persa per sempre: ma quasi un fattore secondario rispetto all’evento centrale che domina tutta la poesia.
Chiederei all’autore di chiarire al traduttore certi passaggi. Forse sono io un po’ ignorante di sepolture cristiane-cattoliche (dato che è stato diverso per entrambi i miei genitori): Immagino che la calce spenta abbia un uso nei riti funerari della Calabria?
A proposito, non sogno di pormi in competizione con Adeodato Piazza Nicolai, anzi saluto la sua traduzione della poesia. Semplicemente, ho voluto cimentarmi anch’io, perché talvolta tradurre un testo aiuta moltissimo a comprenderlo meglio.
Gino Rago
Di fronte, o dentro, a un evento terribile come la morte della madre, chi rimane su quest’altra sponda, quella dei cosiddetti vivi, per ragioni di personalissima sensibilità o di struttura psicologica, ma anche per questioni
storico-etnico-culturali, per appartenenza geografica e quant’altro, può rimanere di stucco, o di pietra, o di marmo per la perdita, per la partenza
verso chissà quali rive di chi se ne va, per il vuoto che si fa vertigine d’assenza definitiva: del resto, carissimo Steven, qui si parla della morte.
Ho scelto, e tento di organizzare una risposta adeguata alla dura questione
che tu poni nel tuo lucido, colto e gradito commento, ‘calce spenta’ perché
la calce chimicamente parlando, e nella chimica del cantiere in particolare,
può essere ‘calce viva’, ed è Ossido di calcio, o ‘calce spenta’ ed è idrossido di Calcio. Si passa dalla calce viva alla calce spenta usando l’acqua che per questo si chiama in questo processo ‘acqua di spegnimento’.
Dunque, Steven caro, nel verso, che in te suscita perplessità,
“Di calce spenta su quest’altra sponda” intendo riferirmi a me personalmente, che pure non compaio giammai nella poesia, ma anche agli altri e alle altre nell’ultimo saluto del distacco… (l’atto più terribile,
prima della sepoltura e dell’addio al mondo).
Di calce spenta sono dunque coloro che restano i quali vengono ‘spenti’
dall’acqua di spegnimento che nel componimento poetico è metafora
della morte, del passaggio su di noi o intorno a noi della morte.
L’acqua di spegnimento che trasforma la calce ‘viva’ in calce ‘spenta’
qui l’ho adottata come metafora della morte tentando (vi sono riuscito?)
di universalizzare l’evento desiderando che da “privato”, “personale”,
l’evento della morte fosse riconosciuto da tutti/tutte.
Se, viceversa, avessi invece scritto “Di calce su quest’altra sponda” allora sì che “Le case bianche di calce” del Vittorio Bodini che canta i paesi del Salento, o gli arcinoti “Sepolcri imbiancati” sarebbero rimbalzati prepotenti
nella interpretazione del testo spingendo il lettore verso il sud, nell’universo contadino calabro-lucano-siculo di “Cristo si è fermato a Eboli” o di tant’altra Letteratura di Canzonieri in lutto o per una etica poetica del lutto.
Ho tentato invece, vigilando sulla mia scrittura non verso per verso, ma parola per parola, di parlare della “morte”.
Il dono che mi fai, con la traduzione in inglese di “Morte della madre”,
caro Steven, è di impareggiabile valore per la mia poesia e te ne sarò per sempre grato. Ma permettimi di dire che lo intendo, mi piace intenderlo,
come uno “xenia”, un dono offerto all’ospite di quella casa dispersa insieme
all’aquilone, mi piace sentire la tua traduzione in inglese dei miei versi come un grande fascio di rose sulla tomba di mia madre…
Parlare della poesia di Steven Grieco Rathgeb non è per niente semplice, e ciò in virtù della “naturalità” che – verso dopo verso – la poesia manifesta.
La prima cosa che lessi, un anno fa ormai, di suo, mi palesò immediatamente una scrittura assolutamente diversa da tutto quello che conoscevo (mi riferisco a “Felice notte O Bon”). Perché? mi chiesi… Un alito, una brezza proveniente da un luogo altro, inaccessibile, filtrava dalle parole al lettore. Questo era chiaro. E lo vidi ripetersi e nelle poesie italiane, e in quelle inglesi (che ho potuto spesso apprezzare grazie al suo intervento).
Ma questo luogo inaccessibile, capii solo in un successivo momento, è la realtà. Nulla più che la realtà della vita, che la parola sua poetica sa aprire quasi non ci fosse sforzo, sotto gli occhi del lettore.
Ed è, questa poesia, innovativa perché sbaraglia ogni forma di convenzione: la naturalità di cui vive la sua poesia non è “come”, ma è, precisamente la realtà.
Voglio ricordare qui la raccolta “Dimensioni di un cerchio”, dove poesie e una forma di critica poetica si mescolano tra loro: ecco, è vero – come qualcuno ha detto – che l’alternanza, il compenetrarsi delle due scritture spezza il ritmo della lettura poetica. Ma questo ha fatto sì che io dovessi tornare e ritornare ai testi, e scoprirne così, da sola – ma sempre accompagnata segretamente dal poeta – gli interni rimandi, i legami, le dissoluzioni di un testo dentro l’altro. Una lettura circolare, sulla quale sarebbe bello suffermarci più a lungo.
soggetto come got gesto
—————————————————-
Carta n.° 3
(rancore)
Il Potere e il Vuoto non cancellano uno specchio affatturato,
lo sguardo che non sai se tuo o dell’occhio che perseguita
una visione… ma questo è ciò che appare, e non ha valore!
L’oscillare di un’armilla disturba l’asse ottico e il suo vaneggiare.
Chi sono io prima di un soggetto che mi reclama un volto,
che con un trucco si ostina a celebrare una legnosa colpa?
Il patibolo della parola è approntato – il sonetto di una corda
è teso – il carnefice ha scuoiato la rima, la figura, e la sua maschera!
Perché era di carta la mia voce, e la mia parola, e il canto…
invano orfani lungo un fraseggiare di elogi e di epitaffi,
e non mi ritorno più in me stesso, non mi so ascoltare più il mio
silenzio… ma quel rancore m’inquieta più del mio congedo!
antonio sagredo
Vermicino, 25/26 giugno 2008
Ringrazio tutti moltissimo dei commenti a questo post,
L’intreccio della poesia di Gino con la mia è particolarmente gradito. Lo ringrazio anche della delucidazione riguardo al senso metaforico che ha dato alla calce spenta, che mi era sfuggito in parte. Peraltro io conosco da sempre la calce come materiale, perché quando avevo 13 anni mio padre decise che era ora che io, come tutti i bravi ragazzini americani, andassi a fare un lavoro manuale almeno un mese dell’estate. Quella prima volta mi trovai a fare il manovale in un piccolo cantiere di una erigenda casa nei pressi di Lugano, in Svizzera. Impastare il cemento era un lavoro per me durissimo, riuscivo appena a farlo, e i muratori si divertivano un sacco a guardarmi. (Molti anni più tardi, quando facevo l’agricoltore in Toscana, fui in grado di fare piccoli lavori in muratura, grazie a quelle esperienze.) La notte ero così stanco che non riuscivo a dormire. La mattina mi alzavo alle cinque e mezza, e in bicicletta raggiungevo il posto di lavoro per le sei. Adesso so anche come stuccare i buchi nelle pareti con la calce spenta nell’acqua: bisogna fare alla svelta, perché si indurisce subito. La calce viva bruciava le mani, così anche il cemento. I muratori mi davano da bere la birra e mi offrivano una sigaretta fatta a mano, ma non mi offrivano mai il tabacco da masticare…
Chiara ha saputo dire che “la realtà è un luogo inaccessibile”, quando pensavamo tutti che la realtà fosse il “banale quotidiano”. Non ci sono parole per descrivere un simile pensiero. Un pezzo di realtà deve essere stato quel cantiere, dove ho imparato cos’è la fatica dell’uomo, e che adesso proprio per questo mi pare un luogo sognato.
A Lucio dico che forse anche lui ha conosciuto il Makar Sakranti nell’India del nord, il giorno degli aquiloni, quando davvero tutto sventola e danza!
Cara Anna, hai ragione, sarà dura per la NOE spuntarla contro i brillantoni finti, ma tu ci sei dentro quanto noi con le tue poesie che parlano di saggezza…
E tu, Antonio, scrivi una poesia in cui il vecchio soggetto del Novecento, il vecchio Io del Novecento si trova catapultato dentro un bruttissimo incubo di specchi e di sguardi finti, dentro una poesia tentacolare che non lo fa uscire, perché sempre sposta i paletti, sempre barcolla sull’orlo pericolante delle cose, e quel povero io si ritrova infine, quando si congeda, né fuori né dentro, ma con un’amara consolazione fra le mani (anch’esse irreali): il rancore. Ben gli sta.
Infine ringrazio Giorgio per la sua lucidissima critica del mio pezzo!
Un augurio a tutti.
La poesia di Rago – marmo scolpito, da cui promana l’immobile quiete dei millenni, lo stupore dell’evento irredimibile, la pausa di senso davanti alla dogana illune dell’oltretempo.
La visione di Grieco Rathgeb – giardino segreto, denso di aromi sacri, per celebrare la bellezza inafferrabile dell’essere, colta nel suo sbocciare ed eclissarsi in uno sfarfallio d’ombre di simboli e riflessi.
I versi di Sagredo, forziere di idee-gemme, che incantano nella abbacinante luce d’una verità annichilente come lo sguardo di Medusa.
Grazie.
Ogni volta che leggo, o per meglio dire rileggo, una poesia di Steven Grieco è come se fosse la prima volta. Una rinnovata conquista del senso ogni volta e ad ogni rilettura: questa è la sensazione. Talmente grande è l’atto di fiducia che il poeta assegna al lettore, insieme naturalmente alla responsabilità. Perché qui è in gioco la riconoscibilità. Mi pare che non ci troviamo di fronte ad immagini già formate ed acquisite, ad una struttura, forma formata, a parole solide, nature morte. Ha ragione Linguaglossa nel dire che qui “Le parole si sono spogliate, sono diventate talmente nude da essere irriconoscibili.” E nel leggerne i versi mi viene in mente l’esperienza della pittura di Cèzanne ( pretesto filosofico di Merlau-Ponty) il quale non voleva una realtà già compiuta da rappresentare ma tentava di cogliere “ la costituzione del paesaggio come un organismo nascente”. Ecco perché è inevitabile questo alto grado di indeterminatezza, questa vibrazione molecolare (se la forma, e la parola, non sono dati definitivi ma assimilabili ad “un movimento che tende al compimento” e non si chiude nel segno). Illuminanti le parole del filosofo sulla pittura di Cèzanne: “Se si segna con una linea il contorno d’una mela, lo si rende una cosa, mentre esso è il limite ideale verso cui i lati della mela fuggono in profondità. Non segnare nessun contorno, significherebbe togliere agli oggetti la loro identità. Segnarne uno solo, significherebbe sacrificare la profondità ossia la dimensione che ci dà la cosa, non come esibita davanti a noi, ma come piena di riserve e come realtà inesauribile…”
“Ma questo luogo inaccessibile, capii solo in un successivo momento, è la realtà” afferma infatti Chiara Catapano. Qui forse si apre il varco che rende la poesia di Steven assimilabile ad un’esperienza metafisica…”La nuova patria metafisica delle parole”…
La poesia di Steven Grieco Rathgeb procede da un lunghissimo cammino… da una attività preliminare che è stata compiuta che è un fare vuoto, un fare silenzio, da un atto di abolizione del rumore del chiacchiericcio, dalla marmellata linguistica che ci accompagna in ogni istante della nostra giornata. In questa gigantesca marmellata («Il mio bottone è più grande del tuo», le orribili parole di Trump suonano con una familiarità spaventosa), la parola chiacchiera occupa lo spazio planetario… in queste avverse condizioni planetarie diventa sempre più difficile scrivere poesia, si verifica come una paralisi dell’organo fonatore… miliardi di parole di pseudo poesia e di pseudo poeti hanno prodotto un gelo siberiano dal quale non è più possibile sortire…
Carissima Letizia leggo sempre con vivo interesse e partecipazione i tuoi interventi nella Rivista, sempre puntuali, chiari e profondi. Siccome sono abituato sempre a dire la verità, talvolta scomoda e controproducente per chi la pronuncia, devo confessarti che con una sorta di malcelato rammarico, e quella minima dolenzia , che attraversa la mia anima in certe occasioni, devo confessarti che noto la tua totale assenza su quanto io , o altri per me, fa comparire nell’Ombra. Ultimamente ho inserito molti commenti, anche in parte generalmente provocatori, ottenendo pochissimi risultati. Ora se da tanti non mi colpisce il silenzio, quello tuo non mi fa certamente piacere. Se non avessi più notato la tua presenza su lblog avrei immaginato una tua possibile carenza di tempo e di spazio. ma vedendo i tuoi recenti e anche lunghi, dettagliati commenti, mi sono spinto a scrivere queste parole, data la stima, l’affetto e l’amicizia, che ritengo, mi leghino a te.
Carissimo Salvatore, sottolineando la stima e l’affetto mi complimento per le tue analisi critiche profonde e competenti riguardo la poesia di Gino Rago. La mia mancata risposta alla tua sollecitazione sulla questione Pound/ Chlebnikov è stato solo voler evitare di ribadire considerazioni già fatte, da Giorgio o Steven o altri interlocutori, e ancor peggio rischiare un giudizio superficiale sul poeta russo del quale ne ha esposto magistralmente “fatti e misfatti” poetici il nostro Sagredo…. Solo due parole qui per dire che oltre il fondante contributo di Pound, la poesia moderna entra in una fase nuova pressappoco intorno al 1910 come ben evidenzia Hans Magnus Enzensberger nel suo “Il linguaggio mondiale della poesia moderna”. Sono anni importanti che annoverano dal manifesto dei futuristi e “Image à Crusoé” di Saint-John Perse; e poi l’espressionismo tedesco, (del 1912 è “Morgue” di Gottfried Benn), l’ acmeismo, Chlebnikov, Costantinos Kavafis ad Alessandria; Majakovskij e Machado, nel 1913 Guillaume Apollinaire (Alcools)…e molto altro tanto è ricco l’apporto del modernismo europeo. Bisognerebbe scriverne a lungo…
Per ciò che riguarda Steven ho avuto la felice occasione di presentare questo suo libro “Entrò in una perla” insieme a Giorgio alla libreria Nelson Mandela qualche tempo fa, e ho avuto la possibilità di analizzare e discutere insieme al poeta i suoi testi in modo approfondito… Dunque niente di personale e nessuna trascuratezza nei tuoi riguardi dato che ho commentato in altre occasioni tuoi testi o performance poetiche, e sai bene come mi sia dedicata a scrivere sulla tua poesia e a leggere con partecipazione e attenzione i tuoi “Cinquant’anni di poesia”. Però mi spiace dover anche dare giustificazioni pubbliche del tempo e dei modi dei miei interventi. Ti abbraccio caramente.
Scusatemi, giungo tardi per Seamus, non avevo il computer con me, ma rimedio con questi miei versi:
——
a Seamus Heaney
Che i computer tacciono per sempre il chiacchiericcio,
la morte di un poeta è il benestare della parola,
e se in croce balbetta un’afasia disumana
i necrologi in cenere non hanno storia!
Ebbene, io lo conobbi tra paludi e acquitrini,
tra le vanghe azzoppate dalla roccia
in quel letame d’antrace, in quell’asfalto dissestato
da lamiere… marce, e in quella torba-cibo
dei suoi antenati che il diritto non sapevano
se i crani erano i loro vasellami…
e sei morto lasciandoci il peloso belato in bocca
e da mangiare patate marce, che i tuoi padri per non morire
divorarono… vedi, ora sei parte delle leggende giovani
e presto anche i miei versi ti seguiranno.
antonio sagredo
Roma, 3 ottobre 2013
“la vita non è / la quaglia che s’incanta con un fischio”
Due poeti prima della crisi del Soggetto novecentesco:
Stefano D’Arrigo e Salvatore Martino
Occorre partire dalla premessa di Silvio Perrella a “Codice siciliano” di Stefano D’Arrigo ( da poco ristampato da Mesogea, di Messina) per comprendere pienamente la ricchezza dei versi di questi due poeti isolani che ci hanno insegnato, accanto all’arte della migrazione verso il continente, che si può emigrare per aspirazione al meglio, lasciando la propria terra, o si può farlo per timore del peggio:
«Un siciliano emigrante, un siciliano che da Alì Marina, un borgo messinese, ha risalito la penisola verso Roma, porta con sé il desiderio di forgiare un “codice” della propria origine. Si tratta di uno scrittore che dedicherà tutta la vita restante a un’opera grandiosa, una sorta di poema in prosa, dentro il quale racchiudere le gesta del mare, dei suoi abitatori, siano essi bestie o esseri umani, e di una Storia maligna e fagocitatrice».
STEFANO D’ARRIGO e SALVATORE MARTINO mi sembra che nei loro versi, soprattutto il D’Arrigo,
ripercorrano viaggi di emigranti, figure femminili, memorie e simboli della religione, l’infanzia «tesoreggiata di pepe e cannella», di “carretti del Paladino Orlando” rivivendo il nostos omerico ma in un familiare odore di mele, nei più che familiari fiori dei fichidindia;
mi pare che i due poeti ci ricordino la Sicilia greca, romana, araba, saracena, ma anche la Sicilia degli svevi, arrivando D’Arrigo, fino al suo ’900, ai giovani che partono per la guerra, «su questo treno che va sulla luna», guardando l’Italia, il Nord, sull’altra sponda dello Stretto.
Nei versi di “Codice siciliano” troviamo spesso endecasillabi e un gioco di rime e intrecci di suoni, dove le spume (dannunziane?) («per mari d’aria e remare d’anime») stanno accanto a inflessioni quasi ermetiche («le improvvise clessidre del tuo male»). Ma sullo sfondo il rimpianto per «l’aurea / semplicità di un poeta che si chiama / Saba» (unico omaggio esplicito, pur essendo «di così estranea indole / all’araba tua e mia»).
Ma in comune i due poeti D’Arrigo e Martino mi pare che abbiano intanto l’aspirazione alla semplicità d’una voce (la voce materna?), d’una voce che non sa di «rimare, analfabeta» in una lingua diventata ormai irraggiungibile,
e inoltre, ben più marcate, le presenze di Eros, dell’epica del ritorno, del mito, del simbolo, del desiderio di ‘restare’ : tutte cifre tematico-stilistiche che fanno convergere Stefano D’Arrigo e Salvatore Martino
per il possente lavoro sulla lingua poetica, per la ricerca del senso, del ritmo, della cadenza, del metro, delle assonanze sul
Konstantinos Kavafis di “Mare al mattino”:
“Mare al mattino. // Possa restare qui. Mirare anch’io un po’ di natura. / Azzurri luminosi e gialli lidi / del mare al mattino e del cielo terso: tutto / è bello e nella luce immerso. / Possa restare qui. E illudermi di vedere ciò / (e davvero li vidi un attimo appena mi / fermai); / e non vedere anche qui i miei abbagli / i miei ricordi, le visioni del piacere.”
Stefano D’Arrigo
Alì (Messina), 1919 – Roma, 1992
da “CODICE SICILIANO”, 1957
Da Pregreca
Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece.
Alle marine, nel fragore illune
delle onde, per nuvole e dune
a spirale di pallide ceneri
di vulcani, alla radice del sale,
discesi dall’alto al basso
mondo, figurati sul piede
dell’imbarco come per simbolo
della meridionale specie,
spatriavano, il passo di pece
avanzato a più nere sponde,
al tenebroso, oceanico
oltremare, al loro antico
avverso futuro di vivi.
…….
cacciati di qua, dai ruggenti
enigmi, gli innocenti,
Coi perduti averi, le vite,
le labbra per sempre cucite,
Emigravano nell’aldilà.
S’imbarcavano per quelle rive
in classe unica, ammucchiati
o clandestini nelle stive
di necropoli come navi olearie.
All’impiedi nelle giare, rannicchiati
sui talloni, masticando qualcosa
nella notte, forse tossico
(quali pensieri? quali memorie?)
nella tenace, paziente posa
dal cafone resa famosa
[…]
IN UNA LINGUA CHE NON SO PIÙ DIRE
Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.
O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.
O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.
O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.
O in quella lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.
O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.
O in una lingua che non so più dire.
Salvatore Martino
Cammarata, 1940
Da “Venti pezzi facili” 1962
Allegro ( molto espressivo)
Ritrovi l’azzurro all’improvviso
più aspro il sole in questa valle
e disperato
la terra si squarcia verso il mare
Oltre l’agave in fiore
i templi gli oleandri
le case bianche
contro limoni e aranci
anch’esse divenute una rovina
Riconosci gli odori di lontano
il passo dei carretti dipinti
le braccia spinate dei fichidindia
il tempo immutabile
dentro l’arenaria
Il sud
il mio sud
irripetibile e giallo
dentro il suo sfacelo
e il vento rabbioso di scirocco
l’isola bruciata contro il cielo
Verso il mio paese Da “Ricordi da Palermo”, 1963-1965
Non so perché ho segnato
l’orizzonte della nostra paura
quella fatalità che non ci univa
e sorride la luna di gennaio
sopra i passi furtivi degli amanti
Forse se ascolti
il battito uguale del cuore
e il vento del mattino
contro i vetri della tua finestra
se stanotte allontani
un ricordo dall’altro
forse troverai
i segni di questo mio cammino
Ho conosciuto bambino
il liquido cantare dell’allodola
l’ombra dei grandi gelsi
i carretti del paladino Orlando
gli uomini incappucciati sui cavalli
il fucile nascosto nel mantello
Entrato nel cerchio
dove si tessono le trame
di questa musica senza partitura
ho coltivato la macchina oscura che ci sovrasta
Ma talvolta nelle notti d’agosto
ho dormito sull’aia contro il grano
contro meravigliose stelle
contro il cielo dell’isola profondo
Breve conclusione:
forse non cesseranno mai né le migrazioni né le emigrazioni, almeno fino a quando non si prosciugheranno i mari e non si essiccherà il mare di Sicilia fra Messina e Villa San Giovanni. Ma fino a quando sapremo dolerci di fronte
ai corpi senza vita di donne, uomini e bambini che galleggiano fra le spume marine le parole di poesia di Stefano D’Arrigo e di Salvatore Martino ancora ci occorrono.
Gino Rago
Carissimo Gino io non posso inventarmi parole, che nel vocabolario che mi appartiene non hanno spazio, per descriverti quello che provo nel leggere le tue parole. L’accostamento a quel grande che fu D’Arrigo mi fanno sentire piccolo e grande nello stessi tempo. Avere testimonianze da un poeta come te così profondamente elevate riesce a colmare il vuoto della vecchiaia, il senso precario della vita, che tutti ci conquista. Una.parentesi di arcobaleno dentro un cielo che promette ormai soltanto oscurità
Non avevo visto il nuovo inserimento sul successivo articolo , carissimo Rago, da te introdotto, quindi ripeto qui il mio commento precedente
Meglio di come ho già fatto nel mio lavoro d’interpretazione di due poeti
di chiaro valore tematico-stilistico-formale, caro Salvatore Martino, non so più fare:
“STEFANO D’ARRIGO e SALVATORE MARTINO
mi sembra che nei loro versi, soprattutto il D’Arrigo,
ripercorrano viaggi di emigranti, figure femminili, memorie e simboli della religione, l’infanzia «tesoreggiata di pepe e cannella», di “carretti del Paladino Orlando” rivivendo il nostos omerico
ma in un familiare odore di mele, nei più che familiari fiori dei fichidindia;
mi pare che i due poeti ci ricordino la Sicilia greca, romana, araba, saracena, ma anche la Sicilia degli svevi, arrivando, D’Arrigo, fino al suo ’900, ai giovani che partono per la guerra, «su questo treno che va sulla luna», guardando l’Italia, il Nord, sull’altra sponda dello Stretto.
(…)
Ma fino a quando sapremo dolerci di fronte al Male
in tutte le forme nelle quali è capace a noi di mostrarsi
le parole di poesia di Stefano D’Arrigo e di Salvatore Martino ancora ci occorrono.”
Perché, aggiungo, quelle dei due poeti da me proposti e interpretati in
questo secco e recentissimo lavoro sono “parole necessarie”, “parole
abitate”. Di quelle che possono essere anche ignorate; ma se esse, queste parole poetiche di D’Arrigo e Martino, vengono incontrate, lette e meditate
di sicuro rendono la vita più degna d’essere vissuta. E la poesia così fa quello che deve fare.
P.S. Ti confesso, caro Salvatore Martino, che l’incontro con l’opera di Bartolo Cattafi si sta a me presentando più duro e ostico del previsto.
Perciò ti ho associato a Stefano D’Arrigo della “poesia in forma di poesia”
anche se di facile lettura D’Arrigo non è mai stato né lo è; ma è stato anche per un mio personale debito verso l’autore più importante del dopoguerra
italiano con quell’ “Horcynus Orca”, subito tradotto appena uscito in più di trenta lingue straniere, che è il capolavoro
dell’ “espressionismo linguistico” in Italia inaugurato dall’Ingegnere
in blu, il Carlo Emilio Gadda der Pasticciaccio brutto di Via Merulana.
E io ti ho presentato in questo lavoro proprio con Stefano D’Arrigo. Più di questo, credimi Salvatore, proprio non so dire.
Gino Rago
Confesso che in me gelosamente custodisco altre due sicilie poetiche:
1) la Sicilia che come scoglio in un mare in tempesta affiora qua e là
in “Preghiera per un’ombra” e ne “La grande casa immersa fra gli aranci”
di Giorgio Linguaglossa;
2) la Sicilia surreale di Bartolo Cattafi, la Sicilia del miele amaro di Gesualdo Bufalino e la Sicilia della stringente nostalgia del primo tempo poetico di Angelo Maria Ripellino.
Ma non so se e quando troverò energie e tempo per completarle.
Intanto chiedo scusa a Steven Grieco-Rathgeb se ho invaso la ‘sua’ pagina
e poi desidero ringraziare Carlo Livia per il suo giudizio sulla mia poesia,
un giudizio perentorio, secco, pieno. Ricorda il colpo di fucile in un mattino
di gennaio di Giorgio Caproni.
Gino Rago
dedico la seconda delle mie Legioni a Steven e alla sua perla….
——————————————————————————–
Là, rantoli di muffa, delizie, torce
e broccati, ciarle di accesi candelabri,
come sulla via dei misteri fittizie sfingi, Tamerlano
con tamburi e denti le stanze acquetasse
e fosse il tempo solo rostri d’ossa non scarniti.
Lascia che i vermi aspettino!
Perché possano infiniti digitali annullare
i miti con domande e corde, fustigare visioni
e abbracci di Orfei.
E’ solo, è solo il gallo sui crateri!
Le Madri su stampi di fauno, sbiadite, Tommaso!
La tela dei neurini manipoliamo come banderuole:
sono visite cortesi, maschere corazzate
di colomba, surrogati di corone o gemiti imperiali.
Quando la pietra più che al volo
all’indugio spezza l’asta della luce, il tuo cranio
possa lacrimare in barba ai veri morti tra giostre
rinascimenti lutti e spine, renderti giustizia
tra tumuli e tumulti. Caccerò il roditore d’ossa,
non spezzerò il pane,
né il vino offrirò, né il sale,
né il cantico dal passo di lumaca, ma il morso
di un’àncora… col sonno tra le mani, alle analisi
di neve sui divani, la lira e il libro opporrò,
urla fossili, grumi di nere frecce,
il sangue strizzato da una perla al dio compatto.
1989
Da un anonimo lettore de L’Ombra delle Parole a me:
“(…)
Come si legge nella dedica alla moglie Jutta, le poesie di “Codice siciliano”
di Stefano D’Arrigo danno il via al “nostos horcyniano”.
Ho sentito doveroso oltre che utile il recupero di questa lettura proprio perché mi sto misurando con il mastodontico, impegnativo “Horcynus Orca”. Tentando inevitabilmente un confronto tra la “poesia in forma di poesia” e la “poesia in forma di romanzo”, sento, ma è un atteggiamento mio, personale, che Stefano D’Arrigo renda meglio su quest’ultima, sulla “poesia in forma di romanzo” di Horcynus Orca, forse perché meno oscura e più evocativa, meno misurata e più travolgente, meno vincolata e più creativa, anche perché in questa sua prova, che finì con il coincidere con la stessa vita di D’Arrigo, l’autore si è mosso in pieno espressionismo linguistico (guardando di lontano a C.E.Gadda?)
(…)
Certo le poesie hanno il pregio di concedere con più facilità una seconda lettura, alla ricerca di ciò che Lei, presentando D’Arrigo e Martino, ha elencato “del senso, del ritmo, della cadenza, del metro, delle assonanze…”.
Ma le poesie, come Lei ben sa, purtroppo hanno anche il difetto, se non colpiscono subito, di essere effimere anche dopo averle ravvivate.
Cosa in me rimarrà di “Codice siciliano”?
Di questo libro, Mesogea, Messina,2015, di Stefano D’Arrigo da Lei gentile Gino Rago ben presentato, mi rimarrà un sapore antico legato alla sua essenza che definirei ” materica “; ma anche alla sua copertina (regolata e geometrica) di bianco e colore; al nome dell’autore, scolpito con caratteri possenti e a quel trasudare del tempo che rovina (bellamente) proprio la stessa copertina. Cose che solo i libri di carta possono avere.
(…)
Le due poesie di D’Arrigo che Lei sceglie, ‘In una lingua che non so più dire’
e quella da “Pregreca”, dicono tanto del loro autore. Ma la mia preferita
è questa che Le allego:
“Alla sua la mia nostalgia somiglia”
(da “Codice siciliano” di S. D’Arrigo)
“Alla sua la mia nostalgia somiglia
se qui in Italia, oltremare, modulo
come la quaglia in maggio rochi gridi
al barlume del giorno.
In sogno volo
nel mare ventilato della luna,
col giovane grecale che stornisce
d’ala in ala, favorendo d’aria
Capo Passero, Siracusa, l’Anapo,
le rive di papiro dove già
fra foglia e foglia crepita la luce,
cerca la traccia eterna in un effimero
regno che un attimo dura, il più breve
mattino della vita, ma vero
come l’infanzia.
Ecco, in Italia, il giorno
da me ritira siciliano intorno
il mare, un miraggio, quella fedele
compagnia della luna, il vento dolce
che spira e fa una pura voglia in cielo
d’ogni lieve, domestica stella
d’orientamento.
Ma fuori dei sogni
vive crudele la memoria e reca
il segno d’un’antica ferita,
l’eco d’una caccia che viene, che va
nella vita, fra piume di pietà.”
(Ringrazio questo lettore assiduo de L’Ombra delle Parole per il suo
competentissimo commento da studioso dell’opera di D’Arrigo e non ne cito il nome, anche perché mi sembra ‘inventato’, firmandosi ‘Ndrja Cambrìa’
che è proprio il nome del protagonista di ” Horcynus Orca “).
G. R.
le PAROLE sono fredde, algide
come l’anagramma di PAROLE
che è POLARE
Carissimo Steven se la memoria, come ormai troppo spesso opera in me tradimenti, stavolta invece non mi tradisce credo di aver già letto questi tuoi versi, e persino commentati col mio esiguo bagaglio critico. Oggi mi appaiono forse più scolpiti nel tempo, nella memoria, tua personale e collettiva. Le immagini reali che si susseguono.dei luoghi domestici come in quelli della città, il contrasto tra la contemplazione e il silenzio contrapposti al rumore cittadino, questo affacciarsi al mondo delle protagoniste da una veranda reale e da un metaforico paesaggio, conducono me lettore in una atmosfera di imprendibile commozione, alle soglie di un abisso quasi celestiale. Nell’albero morto nel deserto, folgorante metafora della morte stessa alligna ancora, maledettamente la vita, persino colorata, questo affratellamento di eros e thanatos, che profondamente ti appartiene. E scorrono nei tuoi versi le testimonianze di grandi civiltà. India e Grecia, Inghilterra e Italia. E ancora il senso ciclico di quanto soggiace ai ritmi della Madre Terra, in combutta con le uraniche creature dell’aria, quegli uccelli che tutti noi invidiamo, e come il genio di da Vinci vorremmo imitare. Ho colto persino un sapore tibetano, come ascoltando quei suoni ossessivi e melodiosi delle voci e dei raffinatissimi strumenti. Mi è tornato alla mente l’ultimo quartetto di Eliot, quel Little Gidding che racconta la visita alla cappella solitaria in una atmosfera sacrale di pellegrinaggio al luogo dove altri erano stati o erano transitati, antichi semmai antenati, che comunque ancora ci appartengono.
La nota di lettura di Salvatore Martino sui versi di Grieco è altissima, come spesso avviene in molte note del Nostro, quando la materia lo sostiene. La scocca che Martino individua nella poesia di Steven mi sembra molto attinente, in definitiva, al leitmotiv primario dello Stesso, “affratellamento di eros e thanatos”, a cui si applica, per intercorsa varia cultura di appartenenza, stratificazione esperienziale, culturale, una visione teoretica della poesia trasversale e quindi omnicomprensiva (Steven da traduttore è in grado di penetrare i meandri dei tradotti).
Mi si conceda una ulteriore nota (è l’epifania che tutte le feste porta via), al pari dell’incipit Martiniano della nota, “credo di aver già letto questi tuoi versi”, allargando l’orizzonte sulla vexta questione dell’Io, si è assistito in questi ultimi giorni del blog a una massiccia riproposizione nei commenti di “fotocopie” di commenti di altre pagine e di “riproposizioni”, anche sotto l’istituto di paritetiche consonanze, tanto da rimpiangere i versi giambici di Sagredo, che pure hanno una loro originalità, non solo nell’intento: il primo in assoluto a profondere il blog di suoi versi, a modo di commento, di omaggio, come pure di contrasto.
L’Io che scompare nel verso, spesso si manifesta in altri termini. Ma questo è un discorso cha attiene alla psicologia. Qui trattiamo di letteratura, di poesia, comparata, certo.
Carissimo Giuseppe ti ringrazio per le parole e soprattutto l’aggettivo altissima, io cerco come tu bem sai di leggere i versi degli altri pescando nel mio profondo, senza avere a disposizione un bagaglio critico, dal quale peraltro rifuggo, lasciando ad altri questo compito. Non ho ben capito la seconda parte del tuo intervento tra riproposizioni e l’io. Puoi essere più esplicito per un ritardato come me?
A mio parere questa poesia di Steven Grieco Rathgeb è interamente NOE. Nuova per la rapidità delle sequenze, sebbene tutte rallentate, e per l’inserimento dei dialoghi – da moderna Odissea – che giungono a sostituire quello che troppi “vecchi” poeti MAI si sognerebbero di abbandonare: un verso di bella letteratura. Poesia ontologica perché il soggetto è meno di un’ombra: è presenza che si riconosce nelle cose. In ultimo, è poesia che non ha passato.
(per la rapidità delle sequenze) per il susseguirsi rapido delle
“Come potrà il Soggetto validare il proprio discorso se non infirmando il discorso che va facendo nel mentre che lo asserisce?”
Partendo da questa domanda proposta da Giorgio Linguaglossa a proposito della crisi del Soggetto novecentesco che non è più “il” Soggetto ma “un” soggetto mi sembra utile riproporre un racconto di Manganelli, (Pseudonimia)2, che apre il volume “La notte”, in cui mi sembra si possa ben vedere tale processo di decadenza del Soggetto novecentesco nell’ambito della narrativa.
L’io narrante, informato da un amico incontrato casualmente per strada di aver pubblicato un libro, ne è sorpreso al punto di pensare a una “mediocre invenzione di pettegolo”. Si dichiara certo che l’autore del volume non sia un suo omonimo, ma che si tratti di un caso “di pseudonimia quadratica, che, come tutti sanno, consente di usare uno pseudonimo assolutamente identico al nome autentico. In questo caso, il nome resta falso e sviante, oltre che protettivo, sebbene sia autentico e inoppugnabile”. Dopo aver ritrovato il volume in una libreria, lo legge trovandolo tuttavia noioso, presuntuoso, perfino ridicolo: non rammenta di averlo scritto, né ricorda i nomi di quei ridicoli personaggi né la vicenda descritta. “Ma se l’avessi scritto io, se fosse esistito un “io” capace di scrivere un libro, quel libro, che cosa avrebbe potuto spiegare l’assoluta, fatidica estraneità che mi divideva da quella cosa scritta?”
La conclusione del breve racconta è questa, esplicita: “Dunque, io non avevo scritto nulla; ma per “io” intendevo quello dotato di nome, ma privo di pseudonimo. Aveva scritto lo pseudonimo? Probabile, ma lo pseudonimo pseudoscrive ed è, tecnicamente, illeggibile dall’io, ma al più dall’io pseudonimo quadratico, il quale, è ovvio, non esiste; ma se il lettore è inesistente, io so che cosa può leggere; quello che può scrivere lo pseudonimo di grado zero, qualcosa che non si può leggere da parte di nessuno che non sia lo pseudonimo quadratico, l’inesistente. Infatti, quello che viene scritto è il nulla”.
In questo breve racconto è evidente anche quanto Manganelli sostiene altrove: “La letteratura non è espressione, ma provocazione (…); è sempre un gesto di disubbidienza , peggio, un lazzo, una beffa; e insieme un gesto sacro, dunque antistorico, provocatorio”
Grazie all’anonimo lettore che riproduce questi versi straordinari di Stefano D’Arrigo, a me infinitamente cari e per rispetto non oso commentare. Certo anche in me il ricordo di tante estati tra Siracusa e capo Passero,e porto
Palo, e l’Anapo del Principe di Hybla, mi riportano ad antiche stagioni quando nel corso di recite durante le Feste classiche, al termine delle rappresentazioni, o anche nelle pause tra una e l’altra, scorrevo anch’io questi luoghi di magia, come in un interminabile pellegrinaggio.
L’imbarco a Porto Palo da ” La tredicesima fatica (1980-1986)
Morto nel sole già dell’occidente
nel secco riannodare dei marosi
il tempo destinato
per questa mai voragine che siamo
oscure desinenze della fede
incatenati stagni dall’aceto
per questa mai voragine che siamo
a somiglianza e immagine del niente
Una irriverente immissione di miei versi quasi un omaggio alla NOE e al nichilismo tanto trattato in questa Rivista. Sempre partendo dalla mia Sicilia, da quel suo punto estremo tanto vicino all’Africa.
Non soltanto, quando interviene, Rossana Levati non fa mai dissipazioni di parole, nè spreco di energie tanto per ‘sporcare’ il foglio per autopromozione, ma pertinentemente affronta la questione, il tema o se si vuole l’argomento che di volta in volta emerge nei suoi contorni solitamente
nitidi, e con quel tema, con quella questione, con quell’argomento ingaggia
il corpo a corpo a suon di cultura, senza mai oltrepassarne il perimetro.
Sono testimonianze, queste di Rossana Levati, di senso dell’armonia, di sentimento della misura, senza esondazioni sgradevoli sul piano della
civiltà dei rapporti umani ed inutili su quello della pertinenza che si richiede
per non debordare verso atteggiamenti autocelebrativi e/o di becero e malsano narcisismo. Risponde a suon di letteratura e ci ha abituati fin qui,
come ora visitando a hoc Giorgio Manganelli, nei suoi commenti a cogliere sempre il centro. Per me, il suo apporto alla nostra Rivista è sempre un
viaggio verso nuova luce, basterebbe da solo il ricordarci con Manganelli, che risponde armonicamente alla questione posta da Giorgio Linguaglossa,
che “quello che viene scritto è nulla…”
Gino Rago
Salvatore Martino ha perfettamente ragione. Questa mia poesia è comparsa già diverse volte su L’Ombra delle Parole.
Ringrazio ancora gli altri commentatori, Letizia Leone, Giuseppe Talia, Salvatore Martino! Nei commenti dei prossimi post riprenderò alcune delle loro interessantissime tematiche.
Grazie di cuore.
Insomma, Giorgio ha riproposto la mia poesia soprattutto per illustrare la crisi dell’io novecentesco. E va benissimo così