
Nel sole alto a candire i cedri
il vuoto di te ruppe la barriera fra vita finta e morte
Gino Rago è nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È membro della redazione dell’Ombra delle Parole. Email: ragogino@libero.it
*
Oggi, vigilia d’anno nuovo, chiuso in me stesso, ripiegato in me, in una folla di presenze gaudenti, ho voluto rivolgermi a te, madre (contadina e analfabeta, non sei mai stata donna da quando sono al mondo. Prima figlia. Poi moglie. Infine, forse, solamente “mamma”. Ora sei cenere. E nessuno ti ricorda…).
Da quando non ci sei, nessuno più parla di te. Ma il poeta ha la memoria lunga… Dunque, ovunque tu sia, con chiunque tu sia, in qualunque forma ti giunga il mio canto,Buon Anno Nuovo, mamma.”
(Gino Rago)

roberto cicchinè untitled 2009
Morte della madre
I falò di Carnevale…
[tu nel letto d’ospedale]
già tutta pronta al viaggio fra le stelle alla tua foce.
Con l’occhio nella cenere
quieta sussurravi: «Non sprecate l’acqua.
Lo capirete quando il pozzo sarà secco.
Ve ne accorgerete a focolare spento».
Per questo smarrimmo l’odore delle mele.
Di calce spenta su quest’altra sponda.
Abiti neri. Veli di pervinca. Condoglianze
appena bisbigliate.
Colpe da nascondere come una vergogna.
Contorni d’ombre. Intermittenze d’asma.
Il tuo viaggio solitario verso l’onniscienza.
Nel sole alto a candire i cedri
il vuoto di te ruppe la barriera fra vita finta e morte.
Atrocemente straripò quel vuoto come un’eco
di strepiti distanti
o di remoti palpiti sapienti.
Dall’ocra dei licheni al fiore sui limoni
un vento soffiò sul sangue della terra.
Prosciugò le conche. Disperse la casa e l’aquilone.

città Tomas Saraceno
Riflessione di Rossana Levati
Caro Gino Rago,
avevo già letto questa poesia in qualche pagina on-line, la ricordavo, e ancora più preziosa mi è ora che hai pensato di ri-fondarla lavorando sulla forma-poesia.
E’ una poesia potente e densa, drammatica e accorata, dove il tuo amore per tua madre si addensa in parole ed espressioni “totali”, per nulla indulgenti ai sentimentalismi e alla prevedibilità.
Capita anche a me che mentre il mondo strepita e si fa gaudente il cuore prenda altre direzioni, più intime e segrete, e abbia bisogno di un momento di solitudine e ripiegamento interiore…
Essere donna è anche questo; forse il “modo femminile” di vivere i sentimenti e di riconoscersi nel mondo, di cui tu parlavi per la poesia di Filomena Rago, è anche questo, ha radici profonde che stanno nella maggior fatica, per una donna, di autodefinirsi, di stabilire quale sia esattamente la propria identità, o anche solo ha radici che stanno nel vivere esclusivamente dell’amore per gli altri, come ci hanno sempre insegnato, finché si scopre dolorosamente che questo non basta…
Nella storia della madre del poeta riconosco un po’ anche la storia della mia (che vive ancora con me…)
Tua madre è cenere, ma viva nelle tue mani, nel tuo passo sulla terra, nel tuo stesso respiro, nel tuo pensiero che le rende un omaggio così bello; forse per te il mondo è oscuro senza di lei, ti sembra secco; ma io credo che dalla sua mitezza e sapienza provenga la tua delicatezza, la ricchezza del tuo cuore, la tua capacità di ascoltare gli altri; credo che tutto ciò te lo abbia dato lei, e anche molto di più che magari io non so dire o che non conosco bene di te; le tue radici che ti legano a lei come alla tua linfa vitale sono quelle di cui ti parlavo qualche tempo fa, quando ti dicevo che la tua comprensione del mondo viene da qualcosa di più antico e segreto, che non è solo la letteratura e la poesia apprese, studiate e vissute da te con tanta passione; forse è con gli occhi di lei (e con quelli di tuo padre) che tu ancora oggi guardi il mondo, ma dev’essere lei che ti ha insegnato a farlo! (…)
Sono tornata a rileggere la tua poesia nell’ultima variante, un po’ modificata, e ti aggiungo alcune mie riflessioni, meno d’impeto e un po’ più meditate: sono partita da una definizione di Lucio Mayoor Tosi che diceva che la tua poesia è piena di luce e di cose.
A me è sembrato che tu non volessi lasciar andare tua madre nel buio, nelle tenebre come normalmente si definisce l’aldilà; nella tua poesia, che continuo a rileggere cercando di coglierne la bellezza, mi ha colpita soprattutto una nota cromatica: ci sono tutti i colori, il giallo delle stelle, dei cedri, dei limoni , l’ocra dei licheni e la terra amaramente color del sangue, ma tra tutto si impone il biancore, la lucentezza che si diffonde ovunque, dalle stelle brillanti nel buio dello spazio al colore della cenere, che è bianca anch’essa, dalla calce al sole con una luce che “candisce” i cedri; forse una luce troppo forte a esprimere uno sguardo abbagliato, offuscato da troppo nitore, che in quella luce bianca non può distinguere bene ma può solo immaginare quel viaggio solitario tra le stelle.
A questa luce dello spazio terreno (può far pensare a una esplosione, a un bagliore improvviso e devastante?) che è anche luce di uno spazio infinito (la foce delle stelle) si contrappongono tutte le immagini della mancanza e della perdita, che si inseguono da una strofa all’altra: i falò di Carnevale che diventano cenere spenta; il pozzo che tra breve non avrà più acqua per estinguere la sete; l’odore delle mele che è perduto; l’asma di chi respira a fatica; le persone-ombre, solo contorni e non più sostanze; l’eco che riporta palpiti remoti e rimbomba stranamente in un vuoto dove si perdono i suoni; il vento infine che prosciuga tutto; la casa che svanisce, e con essa i giochi infantili. In quelle conche prosciugate dal vento io vedo le “mani a conca” che tante volte le madri porgono ai figli per dissetarli, e dove il figlio non potrà più bere. Non è solo la madre-nutrimento, ma la madre-acqua, quella che disseta i figli nel deserto; come dice Andromaca parlando di suo figlio orfano, quando qualcuno gli avvicina una tazza, ‘gli bagna le labbra, non gli bagna il palato’.”
[Rossana Levati, Liceo Classico “Vittorio Alfieri”, Asti, 31 dicembre 2017]
Ho letto con emozione la poesia di G. Ragno . Il commento è di per sé emozionante nella sintonia delle emozioni. Mi limito, ringraziando l’autore, a qualche sottolineatura:
“Il tuo viaggio solitario verso l’onniscienza.”
…un vento soffiò sul sangue della terra.
Prosciugò le conche. Disperse la casa e l’aquilone..
Una poesia potente nella sua densità senza enfasi. La morte della madre: “il vuoto di te”: è la morte di una parte di ciascuno noi, “atrocemente”: una presenza che non ritroveremo se non nell’evocazione e nel ricordo doloroso.
Ci sono poesie che fuoriescono dall’archivio della nostra memoria, rivitalizzando le figure umane nel tempo della vita e della morte.Nel recupero del vissuto, si inserisce questo testo di Gino Rago, che fa della figura materna un poster poetico dai colori vivi e intensi,rivelando alla fine, una atmosfera domestica e oggettiva di accurata rievocazione e sensibilità.
Mario Gabriele, da poeta di valore e da interprete attento dei versi altrui,
in questi miei di “Morte della Madre” coglie ed estrapola una cifra centrale
già segnalata dalla Levati: i colori, i colori della vita da contrapporre ai non
colori della morte: dice giustamente Mario Gabriele “…fa della figura materna un poster poetico dai colori vivi e intensi…”. Bravo Mario.
E sempre Bukalas, da greco che parla ai ‘greci’, ci ha anche detto che
“L’amore sa trasformare in sacro la tempesta.”
Gino Rago
Gentile Maria Grazia Ferraris,
Le son grato per la Sua lettura così partecipata. Potente e colta è anche la nota critica di Rossana Levati, quasi a integrarsi con imei versi.
Però, Maria Grazia, non mi cambi il cognome… Gino Rago e non G, Ragno.
Scherzo, naturalmente. Grazie ancora per aver colto i versi ad alta carica
di metafisica oggettiva, più che simbolica (vento, viaggio, sangue, terra,
aquilone, casa, conche…).
Gino Rago
Ha ragione, mi scuso : e grazie per questa sua poesia così poco comune, così potente e partecipe.
Grazie a Lei Maria Grazia.
Ho pensato alle donne di Ghiannis Ritsos quando ri-tracciavo il profilo
mai sbiadito in me di mia madre, versi anch’essi a me ricordati da quello scrigno prezioso, ricco di cultura poetica, di Rossana Levati:
“(…)Non ci rimaneva il tempo per stare con noi stesse,
non volevamo neanche
restare con noi stesse…(…)
(…) siamo cresciute lavorando,
e lavorando abbiamo imparato a lavorare, lavorando
abbiamo imparato a dimenticare i triboli,
a dimenticarci (…)”
(Questi versi di Ritsos Salvatore Martino li ha incrociato e li sa di sicuro a memoria, anche per la lunga e feconda frequentazione del poeta greco).
Gino Rago
Non ho mai scritto versi su mia madre… circa 30 anni fa ho scritto una poesia su mio padre… poi più nulla. Il fatto è che scrivere versi su questi argomenti è oltremodo difficile, si rischia di cadere nella retorica e nei cliché. Però Gino Rago è riuscito ad evitare il cliché e le frasi di circostanza che l’argomento materno infligge così sovente ai poeti incauti che si cimentano con questa tematica. Gino è riuscito grazie all’impiego continuato della metafora che lo ha lasciato a distanza di sicurezza dalla tenerezza e dalla commozione, i due più grandi nemici della Musa la quale non ama le svenevolezze e le commozioni. La poesia regge bene perché saldamente impiantata su un assetto epico del racconto… l’unico modo per evitare di cadere nel trabocchetto della commozione era spingere il dettato sul piano epico…
Giorgio Linguaglossa, tra i più competenti interpreti del verso libero contemporaneo, segnala giustamente i pericoli, i rischi, le trappole sempre in agguato nell’affrontare temi come questo della perdita della madre.
Il tono epico, la rarefazione dell’aggettivazione, i sostantivi ben sostenuti dalla punteggiatura a hoc, ecc., mi hanno, ( questo segnala Giorgio Linguaglossa nel suo limpido commento, e ciò valorizza a suo dire il dettato epico della mia poesia), tutelato dalla caduta libera nella retorica elegiaca cui il tema si presta.
Gino Rago
Da non molti anni ho visto vagare nei celi la mia di Madre e, nel leggere la Lirica del Prof. G. Rago, ho rivisto, accanto alla Sua, la mia di Genitrice: pura emozione, pure sensazioni, peraltro versi del tutto esenti da retorica e/o da inutili pietismi ma densa del senso vero della Pietas almeno così percepirei l’insieme poetico da non poeta ma da artista, complimenti di cuore non solo all’Autore ma alla giovane R. Levati le cui riflessioni mi sembrano singolarmente acute. Mi piacerebbe dedicare un mio foglio colorato alla Lirica in oggetto ma solo se l’autore consentirà.
r.m.
Mi associo al plauso per i versi epici di Gino Rago e per l’attenta e appassionata esegesi condotta di Rossana Levati. Il tema mi tocca nel profondo e raro è farsi coinvolgere da una tanto decantata intensità, il fuoco del vissuto che per grazia diventa poesia di memoria e presenza imperitura, pur nel canto del vuoto permanente dell’Assente..vorrei unirvi un controcanto di un mio testo per mia madre, ma temo suonerebbe come un’intrusione…
Conosco buona parte della poesia di Gabriella Cinti fondata su una seria e appassionata ricerca linguistica. E la ringrazio per l’efficacia della
sua lettura, sia dei versi miei, sia del lavoro ermeneutico di Rossana Levati.
Le parole sono anche “vele che il vento gonfia/ per fare viaggi nella gioia,
per fare viaggi nel dolore…” ci ha saputo testimoniare il poeta greco
Bukalas, a me segnalato di recente proprio da Rossana L., e Gabriella Cinti questo ha saputo rimarcarlo quando dice del ‘fuoco del vissuto’ che per prodigio si trasforma in canto…
Gino Rago
Gentile Roberto Matarazzo,
non soltanto Le dico un convintissimo ‘Sì’ per una Sua riflessione artistica dei miei versi e della magistrale interpretazione di Rossana Levati, ma soggiungo che Lei, con il Suo gesto artistico, darebbe alle meditazioni di
Rossana Levati e al mio componimento poetico lustro e onore.
Del resto, credo che nella scia del Novecento, siamo ancora in pieno clima di “arti sorelle”…
Gino Rago
allora farò nel senso che delineerò un mio foglio atto a reinterpretare possibili sensi dei Suoi versi, per ora un saluto
r.m.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/03/gino-rago-una-poesia-morte-della-madre-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-29441
La poesia apre e manifesta l’illuminazione dell’Essere. Ma la “cosa” è davvero se stessa se, nell’essenza originaria della parola poetica, raccoglie e fa dimorare presso di sé il Geviert, la “quadratura dei quattro”: terra, cielo, mortali, divini. Sono i punti cardinali entro cui, nell’apertura ontologica del mondo, gli enti vengono alla luce dell’essere. Da qui la proposta heideggeriana di scrivere la parola “essere”, Sein, coperta da una barratura incrociata: ad indicare che si parla di un essere post-metafisico, aperto nelle quattro direzioni del Geviert. Le cose possono essere autenticamente solo nel linguaggio poetico, che non significa per forza il linguaggio della poesia ma il linguaggio nella sua forza originaria, creativa, necessitata, fondante. L’esperienza che fonda la filosofia stessa diventa l’ascolto del linguaggio nella sua originaria scaturigine poetica. E in quanto ascolto del linguaggio, il pensiero è “ermeneutica”. Ermeneutica (cioè incontro con il linguaggio) è l’esistenza stessa nella sua dimensione più autentica,
La parola nomina l’ente e lo fa apparire, cioè istituisce l’ente ad essere: dove non c’è parola l’ente resta chiuso, impenetrabile, opaco. L’esperienza umana del mondo è sempre connotata in senso linguistico. Il linguaggio è la sede dell’evento dell’essere come apertura dell’ente. Non ogni parlare, non il linguaggio strumentale e contingente; ma la poesia, ovvero la possibilità originaria del linguaggio in quanto creazione, apertura, illuminazione. La poesia è per Heidegger il fondo che regge la “storia”, cioè l’articolazione dell’esperienza umana, vale a dire ontologica, all’interno dell’opacità ontica della materia.
Le numerose asserzioni kyerigmatiche di Heidegger gettano luce sulla matrice religiosa del suo pensiero estetico: «noi giungiamo troppo tardi per gli Dei e troppo presto per l’Essere» e altre come «Hölderlin, rifondando l’essenza della poesia, determina e inizia una nuova età. Questa è l’età della indigenza, perché essa sta sia in una duplice mancanza e in un duplice non: nel non più degli Dei fuggiti e nel non ancora del Dio che ha da venire». E in alcuni passi posti all’inizio dello Humanismusbrief: «Il pensiero compie il rapporto dell’Essere con l’essenza dell’uomo. Esso non crea tale rapporto. Il pensiero altro non fa se non offrirlo all’Essere come ciò che a lui è dato dall’Essere. Questo offrire consiste nel fatto che l’Essere giunge al linguaggio nel pensare. Il linguaggio è la dimora dell’Essere. In questa abitazione abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa abitazione. Vegliando, essi portano a compimento il rivelarsi dell’Essere, in quanto, mediante il loro dire, portano al linguaggio e nel linguaggio custodiscono questa rivelazione».
Il Denken è Andenken (ricordo, memoria), ma anche la poesia è figlia di Mnemosyne, «la memoria, il raccolto ricordare ciò che deve essere pensato, è il fondamento e la fonte del poetare». «Il pensatore dice l’Essere. Il poeta nomina il Sacro […] Si conosce più di una cosa sul rapporto fra filosofia e poesia. Niente sappiamo del dialogo che intercorre tra poeti e pensatori che abitano vicino su monti quanto mai separati».*
«Il linguaggio è il linguaggio. Tale affermazione non ci porta a un fondamento del linguaggio estrinseco al linguaggio, e nulla ci dice riguardo al problema se il linguaggio sia per caso il fondamento di altro da sé. L’affermazione “il linguaggio è il linguaggio” ci lascia sospesi sopra un abisso… »*
«Il linguaggio parla. Ma come parla? Dove ci è dato cogliere tale suo parlare? Innanzitutto in una parola già detta. In questa infatti il parlare si è già realizzato… In ciò che è stato detto il parlare resta custodito.
Se pertanto dobbiamo cercare il parlare del linguaggio in una parola detta, sarà bene, anziché prendere a caso una parola qualsiasi, scegliere una parola pura. Parola pura è quella in cui la pienezza del dire… si configura come una pienezza iniziante. Parola pura è la poesia […] Ascoltiamo la parola già detta:
Una sera d’inverno (Georg Trakl)
Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.
Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri
Aureo fiorisce l’albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
Silenzioso entra il viandante;
Il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.*
(Giorgio Linguaglossa)
* Untervegs zur Sprache 1959, trad, it. 1973 Mursia Editore
I temi da Giorgio messi sul tappeto in questo suo commento dovranno
costituire occasioni e motivi di seria riflessione da parte di tutti sul fare poesia. oggi.
Da “La distruzione di Milos” di Ghiannis Ritsos per Giorgio e tutti/e noi questo stralcio
delle tre donne che raccontano se stesse, le loro vite:
” (…)
E subito a guardarci tutt’intorno,
come se fossimo colpevoli,
con la paura che lì, in fondo, qualcuno possa averci viste,
(…) e il nostro sguardo sempre pronto a chiedere scusa a tutti,
al ragazzino, al cane, al canarino.”
Conclusione di Rossana Levati:
‘Ma nelle loro vite di fatica le tre donne possono dire:
“Sapevamo che il mondo
era immenso, più grande di ciò che vedevamo, e noi
non eravamo sole”.’
Gino Rago
Caro Gino, “straripò quel vuoto…” mi ha particolarmente colpita questo passaggio (te l’avevo già scritto), e riportata anni indietro alla morte di mia madre. Quasi 90 anni, su un letto d’ospedale, lei, con i tubi che strappava, io e mia sorella, a sperare in silenzio che la portasse via la Signora nera. Di lei ho un altro ricordo ancora, altrettanto crudele, che risale alla mia infanzia, e che premeva così forte che ho dovuto ricercare le SUE parole e frugare nei SUOI ricordi per esorcizzarlo.
Ci sono nella vita dei passaggi inesorabili che lasciano tracce e ricordi, amari o belli, ma sempre indimenticabili. Come è stato già così bene sottolineato, tu hai evitato la retorica, lo sdolcinato piagnucolare che accompagnano così spesso quel genere di poesia. Non è poi nel tuo stile, insieme alto e concreto. Hai intrecciato la sua immagine e la sua essenza a quelle della natura, dei colori e dei sapori della tua terra in una miscela consolatoria di profonda sensibilità (non sentimentalismo) mai banale, quasi panteista. Grazie caro Gino per aver voluto condividere con noi questi tuoi stati d’animo..
Seduta vicina al fuoco
incredulo fantasma
magra pallida estenuata
una donna racconta
il viaggio la paura
la stretta nuda cella
invasa dalle pulci
le notti senza sonno
spiando il battito
ritmato degli stivali
lungo i corridoi
il cortile ghiacciato
dove sempre
girare rigirare
automi pallidi
gli interrogatori
ordini abbaiati
lontani o vicini
le grida i rantoli
il freddo con la fame
e sempre la paura.
E poi l’atroce strappo
la separazione
per lui verso chi sa
per lei forse ritorno
più che ritorno
miracolo
e poi il corvo nero
che ti mangia il cuore
dove si fa la cuccia
fedele complice
dei tanti giorni lunghi
a venire
di attesa amara.
Edith Dzieduszycka in questo passaggio del suo commento ai miei versi
di “Morte della madre”:
‘Hai intrecciato la sua immagine e la sua essenza a quelle della natura, dei colori e dei sapori della tua terra, in una miscela consolatoria di profonda sensibilità (non sentimentalismo) mai banale, quasi panteista’ rivela un
aspetto decisivo della mia composizione proprio nell’intreccio quasi
panteista fra natura contadina di mia madre e natura terragna fatta di odori,
di colori, di sapori e di profumi delle zolle che lei viva carezzava con le suole
delle scarpe in un passo lieve che mai calpestava le zolle al suo avanzare…, cogliendo in lei la donna greco-mediterranea delle donne
cantate impareggiabilmente da Ritsos. E’ bellissima e vera questa
cifra svelata da Edith.
I versi che Edith Dzieduszycka, d’altro lato, dedica a sua madre, con quel “corvo nero” che le rubò il cuore, forse sarà presto materia di altre mie meditazioni
sul recente corso della sua ricerca poetica.
Gino Rago
Non mi sento di esprimere un giudizio critico alla maniera della lunga dissertazione di Lingiaglossa. la poesia sulla tua mamma caro Gino riflette tutto quanto penso della poesia: la commozione, la musica,il paesaggio dell’anima, l’esperienza individuale che diventa esperienza dell’umanità. l’asciuttezza del dettato poetico, la condizione dell’uomo davanti al mistero ultimo, questa meditazione sulla morte con assoluta dignità e virile senso del commiato…la tua poesia nasce dal profondo come sempre dovrebbe essere, è limata dalla mente senza compiacimenti,obbedisce a quell’estasi di cui parla Pound, è annegata in un misticismo laico, che trascina il lettore in un mondo sconosciuto, che tutti abiteremo.E infonde anche un sentiero di luce persino un lampo di gioia, che ci porta a vivere questa tua storia personale come trasferita nel mondo classico, con una epicità che travalica tutti i dettami ostruzionistici di strutture preconcette, motivate da un falso abbandono della ispirazione, della Musa, del Dionisos, dell’Angelo di Rilke, del dàmon, dello Spirito, Inafferrabile,come la celeste -infera bellezza di Baudelaire, delliAssoluto di Mallarmè, della testa do medusa di Celan,tutte varianti che comunque presiedono alla creatività, beninteso non un annuncio teofanico, nessuna figura del divino inteso in un segno strettamente teologico., , persino in Holderlin, che si è spinto fino alla soglia di un nuovo annuncio. La tua memoria “mistica” di un simile avvenimento si apparenta a quella memoire involontaire , cui Proust affidava l’evocazione liberata dal tempo, nell’attimo imponderabile in cui ne dura l’estatica epifania, dell’essenza inaccessibile della realtà. Come nei mistici la conoscenza segreta è nascosta all’intelletto stesso che la riceve. La negatività mistica della poesia è ancora legata in qualche modo all’appropriazione, che cerca in qualche modo di sostituire lo spossamento alle cose possedute. Penso che il raggiungimento stilistico ,tematico,estetico quindi in senso lato ti faccia riflettere sull’opportunità di considerare la poesia da una angolazione meno razionalistica e di preconcetta costruzione, che la conducono sul sentiero dell’aridità.. scriveva Ezra Pound, certamente il più grande e insuperato innovatore della poesia moderna,
Che dire, cosa rispondere, come organizzare un commento di risposta
al magistero che sostiene il commento di Salvatore Martino ai miei versi?
Per ora adotto il criterio di inserirlo nel mio archivio personale, riservandomi,
non potendomi limitare a dirgli uno ‘sbrigativo’ e ingeneroso e inadatto e insufficiente “Grazie”, di ritornarvi, considerata la succulenta materia in fatto
di “fare poesia” che Salvatore Martino sdipana, prendendo spunto dalla mia
composizione poetica, tirando riccamente in ballo motivi etici, stilistici, storici,
estetici, ecc.
Mattone su mattone, commento dopo commento, si sta costruendo una pagina che dire ‘importante’ è persino poca cosa perché qui si sta edificando una comune casa che ci accoglie tutti: la casa della poesia.
Un commento questo di Salvatore Martino che tra i viventi è il poeta più degno di quel capolavoro poetico che è stato e rimarrà a lungo
il “Codice Siciliano” di Stefano D’Arrigo….
Gino Rago
Che dirti ancora carissimo Gino’ Io parlo con l’addome e il cuore e talvolta col cervello nella mano mano e quando incontro persone come te che comprendono nel profondo le mie parile mi commuovo come si conviene ad un vecchio poeta che ha giurato fedeltà alla poesia.
Mi era saltata la frase ultima scritta da Pound appunto .Ripeto come tante volte ho scritto, mai nessuno mi ha risposto in merito, che la poesia prescinde da igni fatto stilistico, può essere fatta in tanti modi, ma purtroppo è comunque riservata a pochissimi eletti, come da secoli si sostiene, misteriosa non meno che tutte le altre forme dell’universo, in un assioma apodittico E’ O NON E’.
Non capisco perché non mi voglia riportare la follia del computer la frase di Pound, eppure l’ho scritta tre volte
Niente me la cancella inesorabilmente
Dolcissimo, doloroso ricordo. Grazie!
Quanto mai gradito il tuo pur breve ma eloquente commento ai miei versi, cara Mariella Bettarini. Già l’ha fatto per tutti noi de L’Ombra delle Parole
Giorgio Linguaglossa. Lo faccio anch’io adesso: sull’Ombra delle Parole
puoi riprendere le tue battaglie condotte per anni su ‘L’Area di Broca’
a favore dell’innalzamento della nostra poesia, da anni caduta quasi in un pantano…
Gino Rago
Ho ricevuto da pochi minuti alla mia e-mail la traduzione di “Morte della madre” a opera di Adeodato Piazza Nicolai – che ringrazio sentitamente
per la bella energia e il tempo prezioso che dedica ai miei versi – e la condivido con tutto il pubblico della poesia de L’Ombra delle Parole.
DEATH OF THE MOTHER by Gino Rago
“The burning bushes at Carnival…
[you in a hospital bed]
All ready for the trip among stars to the estuary.
With the eye on the ashes
you quetly spoke: «Don’t waste the water.
You will undestand it when the well is dry.
You will be aware when the fireplace is dead».
For that disorientation the perfume of apples.
Of burnt-out limestone on the far shore.
Black dresses. Pervinca veils. Condolences
just whispered.
Guilts to be hidden like shame.
Outlines of shadows, Intermittent asma.
Your solitary journey towards omniscience.
In the high sun to leaven cedar fruit skins
your emptiness shattered the barrier between faked life and death
that absence overflowed atrociously like the echo
of distant breakings
or remote knowing heartbeats.
From the ochre of lichens to the flower on the lemons
a wind blew on the blood of the earth.
It dried up the holes. Dispersed the house and the kite.”
© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem
“Morte della madre” by Gino Rago. All Rights Reserved.
Ancora sentitamente grazie, caro Adeodato, per questo dono per mia madre,
prima ancora che per me.
Gino Rago
Ringrazio i lettori de “L’Ombra” che hanno espresso apprezzamento per le mie esili parole di commento a questo grande testo, ma soprattutto Gino Rago che, fidandosi del mio giudizio, me lo ha inviato senza chiedermi nulla: ho scritto il mio commento cercando di motivare e dar conto della profonda impressione che la poesia , che ho letto più volte, mi ha provocato con la sua densità e compostezza.
Credo che questa poesia abbia tutte le qualità di un “classico”, che ben si coglie nell’equilibrio tra i dettagli di una vita concreta contrapposti (il vuoto/il pieno; l’abbondanza/la mancanza; la vita vera/quella falsa; il corpo vero/ l’ombra; il bianco/il nero; il caldo/il freddo) ma fissati in un quadro lieve, dove tutto si compone, dove gli opposti si fermano quasi creando un punto di stabilità nella incertezza di una vita che scorre troppo veloce e insensata per dare sicurezze ad alcuno.
Questa capacità di fissare gli opposti in un equilibrio che li trattiene e contiene al suo interno, quasi a bilanciare l’inevitabile opposizione vita-morte e a tenerla in sospeso, è la grande qualità della poesia di Orazio.
Nelle poche parole che precedevano la poesia Gino Rago, rivolgendosi alla madre in un colloquio a distanza, le diceva: “Ora sei cenere. E nessuno ti ricorda…”; ma al di là di questo sconforto, al di là del “pulvis et umbra sumus” oraziano che risuona nel fondo di quella frase, e anzi contro il “pulvis et umbra sumus”, c’è invece la costruzione armoniosa di questa poesia che, parafrasando la definizione di “classico” che ne da’ Calvino, si può riproporre in questi termini: “Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di se’, ma continuamente se li scrolla di dosso” e “che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani”. Credo che “Morte della madre” abbia raggiunto questa preziose qualità, un piccolo “equivalente dell’universo” nel percorso di nascita, morte, dolore e ricordo che propone alla nostra attenzione. “E’ classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo” ma al tempo stesso “persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”.
Cara Rossana Levati,
mi inchino e scelgo il silenzio, ma quel silenzio più eloquente d’ogni parola.
Giacché esiste anche – e difficilissima – “L’arte del silenzio”.
Gino Rago
“Abiti neri. Veli di pervinca. Condoglianze
appena bisbigliate.”
Ecco che qui, per me, converge qualcosa: forse tutta l’ineluttabilità della morte, e del nostro sguardo su di lei.
Poi (e prima) erano i nostri pensieri: ma qui è il denso suo essere, l’apparire dinnanzi a noi con una sua postura.
Qui Gino Rago, sempre per quella che è la mia lettura di questi versi, fa cadere il peso: qui si condensa e si alleggeriscono le parole. Nessuna enfasi: puramente, come la morte appare.
Ora, l’aver toccato un argomento così difficile – una montagna scalata a mani nude – rende la poesia di Gino Rago ancora più intimamente apprzzabile.
Un Buon inizio anno in Poesia a tutti.
Si tratta di una poesia questa di Gino Rago che si inscrive in uno stile di scrittura che rimane sostanzialmente invariato nei secoli. Infatti, qui è l’eco di poesie greco antiche, poesia romana – in particolare l’eco di quest’ultima è molto forte qui. (E’ incredibile notare come talvolta la lingua italiana riesce perfettamente a rievocare la paganità romana). L’importante in questi casi è reggere l’intensità richiesta dal soggetto senza cedere al sentimentalismo o alla retorica… ma questo lo hanno già detto altri commentatori.
Qui gli oggetti della poesia esprimono certo gravità, ma soprattutto una certa scabra semplicità, che scarnifica alquanto il testo: il risultato è infatti particolarmente asciutto. E questo è sempre un fatto positivo. Ad esempio, la parola “aquilone”, in quanto ultima parola della poesia, è fortemente staccata dal resto (e questo dà asciuttezza): “aquilone” sembra ricordare la solitudine del poeta, l’infanzia persa per sempre: ma quasi un fattore secondario rispetto all’evento centrale che domina tutta la poesia.
Chiederei all’autore di chiarire al traduttore certi passaggi. Forse sono io un po’ ignorante di sepolture cristiane-cattoliche (dato che è stato diverso per entrambi i miei genitori): Immagino che la calce spenta abbia un uso nei riti funerari della Calabria?
A proposito, non sogno di pormi in competizione con Adeodato Piazza Nicolai, anzi saluto la sua traduzione della poesia. Semplicemente, ho voluto cimentarmi anch’io, perché talvolta tradurre un testo aiuta moltissimo a comprenderlo meglio.
Mother’s Death
The bonfires at Carnival time…
(you in your hospital bed)
now ready for the star journey to the mouth of your river.
Gazing in ash
you spoke quietly: “don’t waste the water.
You’ll understand when the well is dry.
You’ll know when the fireplace is extinguished.”
This is why we lost the scent of apples.
Of slaked lime on this far shore.
Mourning clothes. Periwinkle-coloured veils. Barely
murmured condolences.
Faults we must conceal like some shameful thing.
Outlines of shadows. Intermittent asthma.
Your lonely journey towards omniscience.
In the sun high up candying the citron fruits
the void of you broke the barrier between false life and death.
Terribly that void overflowed like an echo
of far-off clamours
or a remote, knowing throbbing.
From the ochre of lichens to the blossoms on the lemon trees
a wind blew over the blood of the earth.
Dried up the hollows. Scattered the house and the kite.
Di fronte, o dentro, a un evento terribile come la morte della madre, chi rimane su quest’altra sponda, quella dei cosiddetti vivi, per ragioni di personalissima sensibilità o di struttura psicologica, ma anche per questioni
storico-etnico-culturali, per appartenenza geografica e quant’altro, può rimanere di stucco, o di pietra, o di marmo per la perdita, per la partenza
verso chissà quali rive di chi se ne va, per il vuoto che si fa vertigine d’assenza definitiva: del resto, carissimo Steven, qui si parla della morte.
Ho scelto, e tento di organizzare una risposta adeguata alla dura questione
che tu poni nel tuo lucido, colto e gradito commento, ‘calce spenta’ perché
la calce chimicamente parlando, e nella chimica del cantiere in particolare,
può essere ‘calce viva’, ed è Ossido di calcio, o ‘calce spenta’ ed è idrossido di Calcio. Si passa dalla calce viva alla calce spenta usando l’acqua che per questo si chiama in questo processo ‘acqua di spegnimento’.
Dunque, Steven caro, nel verso, che in te suscita perplessità,
“Di calce spenta su quest’altra sponda” intendo riferirmi a me personalmente, che pure non compaio giammai nella poesia, ma anche agli altri e alle altre nell’ultimo saluto del distacco… (l’atto più terribile,
prima della sepoltura e dell’addio al mondo).
Di calce spenta sono dunque coloro che restano i quali vengono ‘spenti’
dall’acqua di spegnimento che nel componimento poetico è metafora
della morte, del passaggio su di noi o intorno a noi della morte.
L’acqua di spegnimento che trasforma la calce ‘viva’ in calce ‘spenta’
qui l’ho adottata come metafora della morte tentando (vi sono riuscito?)
di universalizzare l’evento desiderando che da “privato”, “personale”,
l’evento della morte fosse riconosciuto da tutti/tutte.
Se, viceversa, avessi invece scritto “Di calce su quest’altra sponda” allora sì che “Le case bianche di calce” del Vittorio Bodini che canta i paesi del Salento, o gli arcinoti “Sepolcri imbiancati” sarebbero rimbalzati prepotenti
nella interpretazione del testo spingendo il lettore verso il sud, nell’universo contadino calabro-lucano-siculo di “Cristo si è fermato a Eboli” o di tant’altra Letteratura di Canzonieri in lutto o per una etica poetica del lutto.
Ho tentato invece, vigilando sulla mia scrittura non verso per verso, ma parola per parola, di parlare della “morte”.
Il dono che mi fai, con la traduzione in inglese di “Morte della madre”,
caro Steven, è di impareggiabile valore per la mia poesia e te ne sarò per sempre grato. Ma permettimi di dire che lo intendo, mi piace intenderlo,
come uno “xenia”, un dono offerto all’ospite di quella casa dispersa insieme
all’aquilone, mi piace sentire la tua traduzione in inglese dei miei versi come un grande fascio di rose sulla tomba di mia madre.
A Chiara Catapano, a Letizia Leone, a Giuseppe Talìa e anche ad Alfredo
de Palchi, che ringrazio per i loro come sempre intelligenti, pertinenti, colti
commenti, risponderò dopo.
A Filomena Rago, che per la prima volta lascia un suo commento, a me
davvero gradito, mi permetto di dire “benvenuta” nell’officina sempre aperta e operosa de L’Ombra delle Parole. E penso che sia il sentimento di tutti e
soprattutto del fondatore, e coordinatore, dell’officina, Giorgio Linguaglossa.
Gino Rago
“Nel sole alto a candire i cedri”
“Dall’ocra dei licheni al fiore sui limoni”
Versi cha attingono direttamente dall’etnografia e che incoraggiano la partecipazione del lettore alla produzione di senso.
Un Madre mediterranea come anche di una certa grecità. Gli elementi della tragedia sono ben presenti in questo componimento, a partire dal prologo
“I falò di Carnevale…
[tu nel letto d’ospedale]
all’esodo, alla fuoriuscita del coro, “un vento soffiò sul sangue della terra” per concludersi con le note, tristi e desolanti : Prosciugò le conche. Disperse la casa e l’aquilone.”
Trovo particolarmente interessante tutta l’architettura interna la componimento, con le assonanze e qualche rima strategica.
Ci sarebbe molto altro da annotare. Testo di valore.
“Ezra Pound, certamente il più grande e insuperato innovatore della poesia moderna,”…
…. mi dispiace per Te, Salvatore, e per Ezra Pound..
ma se vogliamo far opera di precedenza e di grandezza e di innovazione è un poeta russo che si chiama Velemir Chlebnikov…
“Di calce spenta su quest’altra sponda”, bellissimo!
e noi fantasmi a riconoscere altri fantasmi
più vivi, più “essiccati”
“tra vita finta e morte”
“chiusi nel perimetro del canto”
con il lungo lancio di una poesia al vento.
Caro Mauro Pierno,
un efficace esempio di “Collage” poetico, altro dato da percorrere, da adottare, nella poesia del nuovo corso in funzione post- postmoderna.
GR
Alfredo de Palchi
22:26 (10 ore fa)
a me
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/01/03/gino-rago-una-poesia-morte-della-madre-con-una-riflessione-di-rossana-levati/comment-page-1/#comment-29499
Per cortesia da inserire sull’ultima Ombra. . .
il sito non mi accetta. Grazie e Un nuovo anno di successi.
(Alfredo)
Per I soliti motivi di quasi cecità ho letto soltanto letto le note di Gino Rago che mi hanno spinto a scrivere un breve commento forse inadatto.
Mamma, tuo figlio ha memoria della tua fisica essenza di figlia, poi madre convinta di essere pure donna, magnificenza naturale come la mia che a novantasette anni mi esaltava dicendo a chiunque “il mio bambino. . .” che ne avevo settantaquattro. Si può crescere senza padre, guai senza madre.
Toccantissima, nella sua lieve ma cruda verità, la tua testimonianza,
sui miei versi, con quel ‘guai senza madre’ finale
che incendia tutto il mondo, carissimo Alfredo de Palchi.
Grazie.
Gino Rago
Carissimo Alfredo, sante parole le tue:
Si può crescere senza padre, guai senza madre.
Ti abbraccio con affetto come sempre
Concordo pienamente con quanto detto da Giorgio Linguaglossa nell’avvertire che il grande pregio di questo discorso poetico sulla madre di Gino Rago sia l’“assetto epico” che immunizza il testo da scontate commozioni elegiache. La poesia sapiente di Rago (che tiene ben oliati nessi, associazioni, richiami) nasce da una posizione di ascolto profondo della tradizione e si avvale del portato di una memoria colta e popolare insieme. Così per esempio al poeta bastano frammentarie parole: “I falò di carnevale”, che in una torsione straniante immettono nell’evento luttuoso, per evocare il rogo dei carnasciali di secolare memoria insieme al rogo della pira funeraria, oppure le donne vestite a lutto, come prefiche, ombre di una cultura epica e folklorica insieme. O l’epifania di antiche profezie e avvertimenti:
Con l’occhio nella cenere
quieta sussurravi: «Non sprecate l’acqua.
Lo capirete quando il pozzo sarà secco.
Ve ne accorgerete a focolare spento».
Il dolore meditato del poeta si aggira nel tempo e lo va dipanando…
A testimonianza del dolore per i lutto materno riporto una poesia di G. Benn dal titolo Mutter (Madre) nella traduzione di A. M. Carpi:
Io ti porto sulla fronte
come una ferita che non si chiude.
Non sempre duole. E il cuore
non ne muore dissanguato.
Ma ogni tanto d’improvviso son cieco e mi sento
del sangue in bocca.
Carissimo Gino noto con viva soddisfazione che il mio commento sulla tua poesia ha provocato soltanto il tuo entusiastico commento, mentre non ha suscitato alcun interesse nei poeti che frequentano L’Ombra. Eppure mi sembrava che i temi da me introdotti potessero provocare un dibattito interessante. Ma ormai sono abituato a questo silenzio sopra i miei interventi. Inoltre non capisco come misteriosamente scompare la frase di Pound, ogni qual volta io l’abbia trascritta. Certo il mio computer non è capace di tanta abilità. Quanto a Sagredo faccio notare che può darsi che egli abbia anche ragione, ma tengo a precisargli che il poeta russo era noto soltanto in una ristretta cerchia di persone, e certamente non troppo noto nel mondo occidentale, mentre Pound è stato, comunque, il maestro di tutti i poeti, che si sono succeduti, nel nostro mondo, compresi tu ed io.
Caro Sagredo prima di riprendere la vexata quaestio ho scavato nella mia labile memoria e connsultato i miei “testi sacri”. Ebbene. Clebikov e Pound nascono nello stesso anno 1885 , ma mentre il primo ha una vita breve, funestata da varie patologie e frequenta, e se vuoi fonda il futurismo, con la scarsa produzione riesce , a mio modo di vedere, a influenzare solo alcuni poeti russi, Majakosvskji per esempio o Livsic,( non sono altrettanto sicuro sul’influenza sopra grandi come Cvetaeva o Pasternak, ma di questo non ho abbastanza competenza) .In occidente certo molto poco conosciuto. Veniamo a Pound. Influenza e persino collaborazione con Yeats. senza voler parlare di imagismo o modernismo e vorticismo apre le strade a poeti e scrittori, che si abbeverano alla sua fonte:Joyce, Eliot, W:C:Williams,Hilda Doolittle, Aldington, Marianna Moore, Rebecca Wast, Berzeska,, Cummings, W.H.Auden, Robert Lowel, persino Hemiguay, che lo iniziò all’amore per il pugilato, E in italia Montale attraverso Eliot, e anche poeti non eccelsi come Sanguineti e quelli del gruppo ’63, addirittura versificatori di non grande rilevanza come Gianni Toti e Mario Lunetta. Per non dire di Pasolini come risulta dalla famosa intervista colta a Venezia. A parigi intrattenne frequentazioni di scambievole costruttività con Picasso e Cocteau, Tristan Tzara ed Erik Satie, Braque e Debussy, insomma tutta l’intellighentia artistica dell’Europa prima e tra le due guerre. Fu promotore presso il mondo anglosassone del dolce stil novo , di Cavalcanti e Dante soprattutto, e attraverso il tramite di Eliot agì ripeto sulla poesia di Montale. Persino Borges gli riconosce questo ruolo di padre innovativo. Nella mia assioluta modestia di tentato poeta affermo che la scoperta della sua poesia capovolse letteralmente la mia. Nella sua lunga travagliatissima vita portò a conoscenza del mondo, e quindi influenzandolo, la cultura e la scrittura dell’estremo oriente, e dell”India e della Persia. Fece comprendere a tutti quanto fosse necessario nella produzione artistica e in poesia in particolare impossessarsi di quella che era stata la grande tradizione, non solo del mondo classico greco-romano, ma anche degli altri universi ai quali ho accennato, e aggiungo il mondo tibetano e il fascino dei volumi dell’antico Egitto. Sapeva benissimo che la poesia era una meta irraggiungibile, soltanto una via di conoscenza verso il mistero di tutto l’universo, ma anche l’unico tentativo possibile per arginare il Nulla. “Il maggior fabbro” per Eliot. scriveva nei “Pisan Cantos”: Attendo da te e da altri una risposta.
Evidentemente nel blog c’è una censura per le frasi di Pound perché anche questa mi viene cancellata. Chiedo al maestro Linguaglossa di darmi una spiegazione In merito, data l’assurdità dell’avvenimento.
L’allievo Linguaglossa non sa darti risposta per le “censura” di Pound, però posso dire che mi trovo d’accordo con te sull’importanza di Pound per la poesia occidentale, fermo restando quella di Chlebnikov che però è restata nell’ambito della poesia russa…
La tua risposta Calzolaio Giorgio sulla questione Pound Clebnikov mi rafforza nella mia convinzione. Vedo che neppure tu sai darmi una giustificazione plausibile alla cancellazione delle sue frasi. Mistero come la poesia.
Caro Salvatore Martino,
su Pound ‘il maggior Fabbro’ e sul Pound dei Canti Pisani non è possibile darti torto. Ha insegnato perfino agli italiani dalla memoria corta la ricchezza infinita di Dante e della Divina Commedia. E tanto, e tanto altro ancora, del resto da te stesso evidenziato nel tuo commento.
L’unica diciamo ‘imperfezione’ della tua affermazione è stata per me questa: non avere aggiunto la parola ‘occidentale’ accanto alla ‘poesia
moderna’. Cosa che ha fatto opportunamente Giorgio Linguaglossa quando ti risponde che
“mi trovo d’accordo con te sull’importanza di Pound per la poesia occidentale” .
Perché dico questo? Perché è oggettivo e inconfutabile
che la Russia, zarista o sovietica o putiniana, non è occidentale e tutta la produzione letteraria russo-zarista-sovietico-putiniana (di altissimo valore
universale) non rientra nel CANONE OCCIDENTALE.
Tant’è che nel rito cristiano l’Eucarestia è pane azzimo a forma di ‘ostia’,
mentre nel rito greco-bizantino-ortodosso è pane lievitato bagnato nel vino.
E non è questione secondaria. Quindi, e la taglio corta, le tue ragioni sarebbero state inattaccabili se solo avessi scritto nel tuo dotto e ricco
commento:
“Ezra Pound, certamente il più grande e insuperato innovatore della poesia moderna ‘occidentale’.…”
Gino Rago
Caro Gino ma hai letto bene quello che ho scritto? Se parlo di influenza su poeti guarda caso cito soltanto ed esclusivamente poeti appartenenti al nostro mondo occidentale. Spiegami tu, perché io non ci arrivo, avrei dovuto aggiungere un pleonastico aggettivo appunto occidentale come tu dici in testa al mio discorso sulle influenze avute da Pound? Davvero mi sembra incomprensibile il tuo appunto. Oppure hai scovato nelle mie citazioni un nome di artista che appartenesse ad un altro mondo?Se è così dammene contezza..
E io, carissimo Salvatore, mi accodo a quel che ha detto Giorgio, e quello che hai detto. Il fatto è innegabile. Io ho amato Chlebnikov, ma come un orso (quel che era) che ha fatto della sua vita un’opera artistica, tanto quanto la poesia. Purtroppo se fiorisce un albero in una foresta in cui rari viaggiatori si avventurano, quella fioritura rimane un enigma. Invito Sagredo a proporci Chlebnikov qui, su queste pagine!
Ti ringrazio per la tua testimonianza caro Steven, solo un fanatico come Sagredo, che tra l’altro ci allaga sempre con suoi testi,con una invadenza irrispettosa nei confronti di noi tutti e di una deontologia che presiede alla Rivista, solo Sagredo ripeto non vede certe realtà. Mi piacerebbe che tu ed altri prendesse spunto dal mio precedente intervento, dove delineavo maldestramente alcuni miei convincimenti sulla poesia volesse intervenire in proposito.
Il ritardo con il quale posto il mio commento sulla Poesia di Gino Rago “Morte della madre” e sulla nota critica che l’accompagna di Rossana Levati è giustificato dal mio bisogno di far sedimentare o di fare stemperare la forte carica emotiva suscitata in me dalla prima lettura degli struggenti versi di Gino Rago, che hanno rinnovato il dolore che ha devastato per sette anni la mia vita, ma anche dalla limpidezza e ricchezza della nota di Rossana Levati.
A una rilettura più lucida posso testimoniare che questa composizione poetica di Gino Rago si muove nel pieno della Nuova Ontologia Estetica che seguo dalla mia fedele lettura de “L’ombre delle parole”. Infatti, l’Io del poeta è tenuto fuori da ogni verso, pur essendo l’evento tragico della morte della madre, un fatto tutto suo. Inoltre, mi preme sottolineare l’uso parsimonioso degli aggettivi e la punteggiatura, con l’uso di punti fermi quasi ad ogni verso.
Le altre cifre di “Morte della madre” sono state ben individuate ed evidenziate negli ottimi commenti che precedono il mio. Per la nota infine o per la riflessione di Rossana Levati mi è venuta in mente la forma “perfetta” di un cristallo, che non lascia nulla al caso.
Ringrazio Giorgio Linguaglossa per questa proposta poetica.
Filomena Rago
Da Luigina Bigon a me per e-mail
“Carissimo Gino Rago,
struggente il tuo ricordo poetico alla madre, mi ha toccato fino alle lacrime. Grazie, un grande dono il tuo perché in tua madre ho riconosciuto mia madre… Sei grande!
Molto modestamente condivido una mia cosetta sempre rivolta alla madre.
Grazie.
Luigina Bigon
LASCIAMI CREDERE, MADRE, di Luigina Bigon
Mia madre è morta?
Sì, morta!
Ma lo spasimo
era tuo
madre
quando giacesti
nel lenzuolo bianco
vestita di dolore.
Guardavo ai tuoi occhi
lontani
perduti nel vuoto
e non sapevo
d’esserti figlia
d’essere io stessa
madre
di te
di me
così carne
così sangue
in quel letto
di morte.
Urgeva in te
l’acquietarsi delle ombre
tra le corone d’alabastro
e le mani abbandonate
intatte orme del tuo essere
agnello per sempre.
Mio fu il sangue
coagulato nelle tue vene
e l’incavo delle tua ossa inermi,
mio il sonno che ti colse
e con te m’inoltrai nell’abisso
inconsapevole d’esistere.
Lasciami credere
madre
che la mia anima slavata
non sia polvere di giunco
ne terra di passione,
lasciami credere ancora una volta
che la mia anima accarezzi
le foglie del tramonto
come rosso fuoco d’argilla
e salga un canto di me
che esisto,
fuoco del tuo fuoco
quando mi baciasti
la prima volta
e il tuo seme mi raggiunse
in quell’alba che fu solo d’amore.
Ed io gettai le reti miracolose
ma rimasi affamata
nel seno della morte
quando le rose di creta
fiorirono all’orizzonte
e mi colse il pianto. ”
Ringrazio con gratitudine Luigina Bigon per questa testimonianza struggente
che nella potenza di questi versi:
“mio il sonno che ti colse
e con te m’inoltrai nell’abisso”
ha la sua forza, una forza d’amore oltre il tempo, ben oltre il recino breve
del nostro spazio terreno. Grazie ancora.
Gino Rago
Carissimo Gino Rago, sei di una sensibilità toccante!
Hai dato voce anche a mia madre insieme alla tua,
tu il grande poeta, io…
Mi commuovi e ti ringrazio profondamente anche a nome suo:
era un testo mai pubblicato,
soltanto letto una volta in una recita pubblica della FIDAPA a Padova,
niente più!
Le nostre Mamme! Certamente ora staranno sorridendo.
Pensa, noi ci conosciamo appena e non personalmente,
Loro già insieme, per sempre…
Che miracolo la poesia!
Un forte abbraccio
Luigina
a S. E. e J. Š.
Theotókos
Io per Te, Madre, sono l’infanzia di Dio!
Perché con la fede il corpo si disforma?
È un digiuno degli occhi questa croce!
Sono gli occhi del digiuno questo calvario!
È da quando ero bambino che Ti consolo sul trono
(Eleusina, tutti i quadri e le icone lo testimoniano)
e ora mi costringi a scendere da questo legno!
Dovevi pensarci prima, Madre!
Una pietà di pietra non Ti si addice
da quando avevo il mio cuore così grande.
Da quale Roma fui tradito?
Tu hai la tua Sapientia, e io ho la mia!
Quale Sophia mi vuole conoscere nell’Universo?
Quale Eterno Femminino mi ha ingannato demente
dalle mie origini a un Giudizio che non ci sarà mai?!
Tu invano mi indichi l’altro prima di un incontro,
ma dal sentiero non hai sentito come scricchiola
la mia croce, come se fosse stata sempre la mia culla!
Tu hai la tua che ancora non s’invecchia e Ti consola:
ognuno non si rassegna alla sua, e sogna la Liberazione!
Perché dunque mi hai creato?
Tu che per me sei stata l’increata!
Per questo, forse, i miei occhi hanno un digiuno di visioni!
Perché, per la fede, il corpo si disforma?
Io, per Te, Madre, sono stato la memoria di Dio!
Antonio Sagredo
Bardonecchia, 25 dicembre 2007
….l’ignoranza su Chlebnikov ancora non è finita…
Pound è più un intellettuale che un poeta…
i…l riconoscimento per/di un Poeta è altra cosa che una stima riconosciuta da quei scrittori e poeti su menzionati per un Pound su cui si è fatto soltanto propaganda ideologica e politica ( e lui per primo di se stesso!)…
…e quella cosa (solo critica! e non poetica!) di affiancare Pound a Dante
è ridicola,è perniciosa, è banale da ogni punto di vista: la retorica è il trionfo della ignoranza…
…questi scrittori e poeti ignoravano chi era Chlebnikov: non avevano dunque un termine di paragone, e solo a pochi studiosi (il linguista R. Jakobson p.e.) era concesso conoscere sia l’uno che l’altro perfettamente e stabilire con dovizia rara come stavano davvero le cose.
l….a Poesia non è questa cosa abominevole!…
….anche Pasolini ci cascò nel tranello mediatico…
(ci si provò a “dire” qualcosa sui poeti slavi, ma fu subito bacchettato da eminenti slavisti; così anche il Montale a sua volta)…
————————————
Chlebnikov riuscì con competenza, anche da filologo eccelso, a rovesciare come un guanto la Poesia universale, mescolando con sapienza certosina da matematico sapiente (era anche un matematico riconosciuto) le antiche lingue, non soltanto slave (Roman Jakobson , il maggior linguista del secolo scorso, riconobbe Chlebnihìkov come il Poeta “senza pari)” con le lingue moderne (non scopiazzare come Pound culture orientali: operazione furbesca e vana).
…io non mi sposto dalle mie considerazioni poi che conosco che esser Poeta significa essere altro e altrove…
…il Poeta disdegna l’autodifesa e la difesa di altri verso lui stesso e se ne va per strade, che non più terrestri, sono la sua stessa natura. e che solitario le percorre per saggiarne le consistenze…
…insegnò Chlebnikov per primo una visione non terrena, alla Dante, che conosceva perfettamente…
(ma leggete per favore il saggio (o altri saggi) su questo Poeta di A. M. Ripellino: sono anni che vi esorto!).
——
Il Poeta rivela che è giunta l’ora di mirare e pensare la Terra non più con occhi “terrestri”, poiché questa vista p.e. da Saturno (come ha fatto la sonda Cassinii qualche anno fa) non è che un puntino – quasi invisibile – ed è fantasmatico e stupido pensare … insomma terrestremente è normale pensare o immaginare da lì che possa esistere (che potesse essere esistito o “essere” soltanto) un “fattore divino” a creare “ogni cosa” (mi piacerebbe davvero sapere come ha fatto!).
——————————————
grazie per l’attenzione che mi avete concesso… la MEDUSA
…mi dispiace Gino che ti accodi come tutti gli altri a Pound (non dipende da Te), ma le cose non stanno così come le vedevano i personaggi citati più sopra :
“Picasso e Cocteau, Tristan Tzara ed Erik Satie, Braque e Debussy, insomma tutta l’intellighentia artistica dell’Europa prima e tra le due guerre.”
si è proprio questo il guaio: l’ignorare (non per colpa loro) con la presunzione di conoscere tutta la Poesia….
il Poeta
Portavo la mia immagine per la città come un retrattile vessillo.
Il tripudio dei miei passi scavava un sentiero di note austere,
non avevo con me una reliquia da barattare con la santità
e nemmeno una nicchia mi era data per un conforto da accattone.
Gli svolazzi della mia mente erano capricci di stiletti spuntati a malincuore,
da una accidia di laguna vedevo un puntino azzurro come tanti da Saturno
– era la Terra che miravo! – e non sapevo il suo millennio quel giorno estivo
di lei che mi sorrise con Cassini. Quale gioia la conoscenza che compresi
dai miei occhi, e come Dio fosse a sua volta una creazione della Rota,
l’emorragia di una clessidra ai tempi della mia innocente trasparenza.
Le contrade come una sinfonia d’infanzia in quel sarcofago: tabernacolo pinto
da epitaffi e necrologi… per fissare, in una partitura, gli anelli della Storia.
antonio sagredo
Roma,
all’ora terza del 29 gennaio 2014
e 3/01
Da Lucia Gaddo Zanovello e-mail
a me:
“Caro Gino Rago,
Ho letto la tua poesia scritta in memoria della Madre, quasi a bilancio di due vite, che rimangono indissolubili, al di là del tempo.
E’ così tersa di dilavato dolore questa lirica, ricca di colori, profumi ed essenze, così scavata nei ricordi emblematici.
E di monito a condurre la propria esistenza consumando con parsimonia le risorse: “Con l’occhio nella cenere/ quieta sussurravi: «Non sprecate l’acqua.”
Perché non avvenga che chi rimane non debba soccombere all’insensatezza di una vita smodata.
La visione che mi lascia questa lettura è di una sorta di ‘carsismo’ interiore, icastico e universalmente esemplare. Non molte madri attuali si potranno forse riconoscere in questa figura femminile senza tempo, ma esse potranno bene fare tesoro del significato collettivo espresso dalla Madre (e dal tuo testo. E attestato, di figlio).
Il verso che non dimenticherò? “Il tuo viaggio solitario verso l’onniscienza.”
Perdona queste poche parole dovute a una severa penuria di tempo per me, che perdura ormai da molti mesi.
Complimenti davvero e un abbraccio anche da parte mia.
Lucia ”
Efficacissima, nella economia estetica del mio testo poetico,
quel “Carsismo interiore, icastico e universalmente esemplare” che Lucia Gaddo Zanovello acutamente evidenzia e che io accosterei alla ‘ferita sulla fronte che non si chiude mai’, di G. Benn, segnalata dalla bella cultura
poetica di Letizia Leone nel suo commento.
Grazie ancora a Lucia Gaddo Zanovello e a Letizia Leone.
Gino Rago
“la vita non è / la quaglia che s’incanta con un fischio”
Due poeti prima della crisi del Soggetto novecentesco:
Stefano D’Arrigo e Salvatore Martino
Occorre partire dalla premessa di Silvio Perrella a “Codice siciliano” di Stefano D’Arrigo ( da poco ristampato da Mesogea, di Messina) per comprendere pienamente la ricchezza dei versi di questi due poeti isolani che ci hanno insegnato, accanto all’arte della migrazione verso il continente, che si può emigrare per aspirazione al meglio, lasciando la propria terra, o si può farlo per timore del peggio:
«Un siciliano emigrante, un siciliano che da Alì Marina, un borgo messinese, ha risalito la penisola verso Roma, porta con sé il desiderio di forgiare un “codice” della propria origine. Si tratta di uno scrittore che dedicherà tutta la vita restante a un’opera grandiosa, una sorta di poema in prosa, dentro il quale racchiudere le gesta del mare, dei suoi abitatori, siano essi bestie o esseri umani, e di una Storia maligna e fagocitatrice».
STEFANO D’ARRIGO e SALVATORE MARTINO mi sembra che nei loro versi, soprattutto il D’Arrigo,
ripercorrano viaggi di emigranti, figure femminili, memorie e simboli della religione, l’infanzia «tesoreggiata di pepe e cannella», di “carretti del Paladino Orlando” rivivendo il nostos omerico ma in un familiare odore di mele, nei più che familiari fiori dei fichidindia;
mi pare che i due poeti ci ricordino la Sicilia greca, romana, araba, saracena, ma anche la Sicilia degli svevi, arrivando D’Arrigo, fino al suo ’900, ai giovani che partono per la guerra, «su questo treno che va sulla luna», guardando l’Italia, il Nord, sull’altra sponda dello Stretto.
Nei versi di “Codice siciliano” troviamo spesso endecasillabi e un gioco di rime e intrecci di suoni, dove le spume (dannunziane?) («per mari d’aria e remare d’anime») stanno accanto a inflessioni quasi ermetiche («le improvvise clessidre del tuo male»). Ma sullo sfondo il rimpianto per «l’aurea / semplicità di un poeta che si chiama / Saba» (unico omaggio esplicito, pur essendo «di così estranea indole / all’araba tua e mia»).
Ma in comune i due poeti D’Arrigo e Martino mi pare che abbiano intanto l’aspirazione alla semplicità d’una voce (la voce materna?), d’una voce che non sa di «rimare, analfabeta» in una lingua diventata ormai irraggiungibile,
e inoltre, ben più marcate, le presenze di Eros, dell’epica del ritorno, del mito, del simbolo, del desiderio di ‘restare’ : tutte cifre tematico-stilistiche che fanno convergere Stefano D’Arrigo e Salvatore Martino
per il possente lavoro sulla lingua poetica, per la ricerca del senso, del ritmo, della cadenza, del metro, delle assonanze sul
Konstantinos Kavafis di “Mare al mattino”:
“Mare al mattino. // Possa restare qui. Mirare anch’io un po’ di natura. / Azzurri luminosi e gialli lidi / del mare al mattino e del cielo terso: tutto / è bello e nella luce immerso. / Possa restare qui. E illudermi di vedere ciò / (e davvero li vidi un attimo appena mi / fermai); / e non vedere anche qui i miei abbagli / i miei ricordi, le visioni del piacere.”
Stefano D’Arrigo
Alì (Messina), 1919 – Roma, 1992
da “CODICE SICILIANO”, 1957
Da Pregreca
Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece.
Alle marine, nel fragore illune
delle onde, per nuvole e dune
a spirale di pallide ceneri
di vulcani, alla radice del sale,
discesi dall’alto al basso
mondo, figurati sul piede
dell’imbarco come per simbolo
della meridionale specie,
spatriavano, il passo di pece
avanzato a più nere sponde,
al tenebroso, oceanico
oltremare, al loro antico
avverso futuro di vivi.
…….
cacciati di qua, dai ruggenti
enigmi, gli innocenti,
Coi perduti averi, le vite,
le labbra per sempre cucite,
Emigravano nell’aldilà.
S’imbarcavano per quelle rive
in classe unica, ammucchiati
o clandestini nelle stive
di necropoli come navi olearie.
All’impiedi nelle giare, rannicchiati
sui talloni, masticando qualcosa
nella notte, forse tossico
(quali pensieri? quali memorie?)
nella tenace, paziente posa
dal cafone resa famosa
[…]
IN UNA LINGUA CHE NON SO PIÙ DIRE
Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.
O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.
O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.
O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.
O in quella lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.
O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.
O in una lingua che non so più dire.
Salvatore Martino
Cammarata, 1940
Da “Venti pezzi facili” 1962
Allegro ( molto espressivo)
Ritrovi l’azzurro all’improvviso
più aspro il sole in questa valle
e disperato
la terra si squarcia verso il mare
Oltre l’agave in fiore
i templi gli oleandri
le case bianche
contro limoni e aranci
anch’esse divenute una rovina
Riconosci gli odori di lontano
il passo dei carretti dipinti
le braccia spinate dei fichidindia
il tempo immutabile
dentro l’arenaria
Il sud
il mio sud
irripetibile e giallo
dentro il suo sfacelo
e il vento rabbioso di scirocco
l’isola bruciata contro il cielo
Verso il mio paese Da Ricordi da Palermo 1963-1965
Non so perché ho segnato
l’orizzonte della nostra paura
quella fatalità che non ci univa
e sorride la luna di gennaio
sopra i passi furtivi degli amanti
Forse se ascolti
il battito uguale del cuore
e il vento del mattino
contro i vetri della tua finestra
se stanotte allontani
un ricordo dall’altro
forse troverai
i segni di questo mio cammino
Ho conosciuto bambino
il liquido cantare dell’allodola
l’ombra dei grandi gelsi
i carretti del paladino Orlando
gli uomini incappucciati sui cavalli
il fucile nascosto nel mantello
Entrato nel cerchio
dove si tessono le trame
di questa musica senza partitura
ho coltivato la macchina oscura che ci sovrasta
Ma talvolta nelle notti d’agosto
ho dormito sull’aia contro il grano
contro meravigliose stelle
contro il cielo dell’isola profondo
Breve conclusione:
forse non cesseranno mai né le migrazioni né le emigrazioni, almeno fino a quando non si prosciugheranno i mari e non si essiccherà il mare di Sicilia fra Messina e Villa San Giovanni. Ma fino a quando sapremo dolerci di fronte
ai corpi senza vita di donne, uomini e bambini che galleggiano fra le spume marine le parole di poesia di Stefano D’Arrigo e di Salvatore Martino ancora ci occorrono.
Gino Rago
Confesso che in me gelosamente custodisco altre due sicilie poetiche:
1) la Sicilia che come scoglio in un mare in tempesta affiora qua e là
in “Preghiera per un’ombra” e ne “La grande casa immersa fra gli aranci”
di Giorgio Linguaglossa;
2) la Sicilia surreale di Bartolo Cattafi, la Sicilia del miele amaro di Gesualdo Bufalino e la Sicilia della stringente nostalgia del primo tempo poetico di Angelo Maria Ripellino.
Ma non so se e quando troverò energie e tempo per completarle.
Gino Rago
Carissimo Gino io non posso inventarmi parole, che nel vocabolario che mi appartiene non hanno spazio, per descriverti quello che provo nel leggere le tue parole. L’accostamento a quel grande che fu D’Arrigo mi fanno sentire piccolo e grande nello stessi tempo. Avere testimonianze da un poeta come te così profondamente elevate riesce a colmare il vuoto della vecchiaia, il senso precario della vita, che tutti ci conquista. Una.parentesi di arcobaleno dentro un cielo che promette ormai soltanto oscurità.
Un solo rammarico Gino : hai inserito questi versi in una situazione di blog già passata e quindi molti lettori, anche abituali, non li incontreranno.
Da un anonimo lettore de L’Ombra a me:
(…)
“Come si legge nella dedica alla moglie Jutta, le poesie di “Codice siciliano”
di Stefano D’Arrigo danno il via al “nostos horcyniano”.
Ho sentito doveroso oltre che utile il recupero di questa lettura proprio perché mi sto misurando con il mastodontico, impegnativo “Horcynus Orca”. Tentando inevitabilmente un confronto tra la “poesia in forma di poesia” e la “poesia in forma di romanzo”, sento, ma è un atteggiamento mio, personale, che Stefano D’Arrigo renda meglio su quest’ultima, sulla “poesia in forma di romanzo” di Horcynus Orca, forse perché meno vincolata e più creativa, meno oscura e più evocativa, meno misurata e più travolgente,meno vincolata e più creativa, anche perché in questa sua prova, che finito con il coincidere con stessa vita di D’Arrigo, l’autore si è mosso in pieno espressionismo linguistico (guardando di lontano a C.E.Gadda?)
(…)
Certo le poesie hanno il pregio di concedere con più facilità una seconda lettura, alla ricerca di ciò che Lei, presentando D’Arrigo e Martino, ha elencato “del senso, del ritmo, della cadenza, del metro, delle assonanze…”.
Ma le poesie, come Lei ben sa, purtroppo hanno anche il difetto, se non colpiscono subito, di essere effimere anche dopo averle ravvivate.
Cosa in me rimarrà di “Codice siciliano”?
Di questo libro, Mesogea, Messina,2015, di Stefano D’Arrigo da Lei gentile Gino Rago ben presentato, mi rimarrà un sapore antico legato alla sua essenza che definirei ” materica “; ma anche alla sua copertina (regolata e geometrica) di bianco e colore; al nome dell’autore, scolpito con caratteri possenti e a quel trasudare del tempo che rovina (bellamente) proprio la stessa copertina. Cose che solo i libri di carta possono avere.
(…)
Le due poesie di D’Arrigo che Lei sceglie, ‘In una lingua che non so più dire’
e quella da “Pregreca”, dicono tanto del loro autore. Ma la mia preferita
è questa che Le allego:
“Alla sua la mia nostalgia somiglia”
(da “Codice siciliano” di S. D’Arrigo)
“Alla sua la mia nostalgia somiglia
se qui in Italia, oltremare, modulo
come la quaglia in maggio rochi gridi
al barlume del giorno.
In sogno volo
nel mare ventilato della luna,
col giovane grecale che stornisce
d’ala in ala, favorendo d’aria
Capo Passero, Siracusa, l’Anapo,
le rive di papiro dove già
fra foglia e foglia crepita la luce,
cerca la traccia eterna in un effimero
regno che un attimo dura, il più breve
mattino della vita, ma vero
come l’infanzia.
Ecco, in Italia, il giorno
da me ritira siciliano intorno
il mare, un miraggio, quella fedele
compagnia della luna, il vento dolce
che spira e fa una pura voglia in cielo
d’ogni lieve, domestica stella
d’orientamento.
Ma fuori dei sogni
vive crudele la memoria e reca
il segno d’un’antica ferita,
l’eco d’una caccia che viene, che va
nella vita, fra piume di pietà.”
(Ringrazio questo lettore assiduo de L’Ombra delle Parole per il suo
competentissimo commento da studioso dell’opera di D’Arrigo e non ne cito il nome, anche perché mi sembra ‘inventato’).
Gino Rago
da Sibilla Tagliente (così si firma) ricevo e condivido:
“(…)
Comunque mi perdoni ma sento di dirLe che Stefano D’Arrigo non è un poeta siciliano, D’Arrigo è di tutti. E scrive a tutti, in un italiano meraviglioso.
Quelli di Codice siciliano sono versi che raccontano una madre con un nome che è già letteratura (Agata Miracolo).
Ma che raccontano anche, come Lei ricorda nel Suo lavoro, la migrazione, la Sicilia classica e greca.
E raccontano soprattutto il mare, che potrebbe essere lo stesso D’Arrigo.
Questo piccolo libro accanto al titanico romanzo.
Questo Codice siciliano che lo stesso D’Arrigo in un suo verso
definisce ‘questo lontano principio / del nostoshorcyniano’.”
E’ tutto vero quello che segnala perentoriamente Sibilla Tagliente e aggiunge
altri elementi al mio lavoro. Grazie.
G. R.
Da Francesca Dono a me (via e-mail) questo commento asciutto ma denso di verità del vivere e del morire su “Morte della madre”:
Francesca Dono fa poesia “per sottrazione” e non ” per addizione”.
E anche nei commenti Francesca procede allo stesso modo: per ogni parola
che decide o sceglie di lasciare nel dettato, ad almeno al altre 15/16
parole nega la cittadinanza. E per me fa bene. Quindi questa sua
testimonianza mi è gradita e apprezzata.
Grazie
“Caro Gino,
mi spiace non trovare le parole adeguate per commentare la tua poesia.
(“Morte della madre”).
A parte il tempo, e il mio deficit inerente a qualsiasi critica poetica, non è facile (per me) affrontare opere di questo genere.
La morte mi perseguita in tutto ciò che scrivo.
Malinconico questo periodo post natalizio.
Preferisco,per ora,la solitudine.
Poi, voi, siete così affiatati!
Mi scuserai?
Spero di sì..
Ma sappi che durante la lettura del tuo testo ho pianto.
Veramente toccante. ”
fd (Francesca Dono)
P.S.
“Non ho mai scritto sulla morte di mio padre, tanto meno su quella di mia madre. Non so se succederà mai . Comunque sia, loro vivono in tutti i miei scritti.
fd
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Francesca Dono fa poesia “per sottrazione” e non ” per addizione”.
E anche nei commenti Francesca procede allo stesso modo: per ogni parola
che decide o sceglie di lasciare nel dettato, ad almeno al altre 15/16
parole nega la cittadinanza. E per me fa bene. Quindi questa sua
testimonianza è da me particolarmente gradita e apprezzata.
Grazie Francesca.
Gino Rago