Seamus Heaney (Castledawson, 13 aprile 1939 – Dublino, 30 agosto 2013), Premio Nobel per la Letteratura nel 1995, Seamus Heaney (1939- 2013) è nato nella contea nord irlandese di Derry. Dal 1976 ha insegnato letteratura inglese al Carysfort College di Dublino. Nel 1984 è stato nominato “Boylston Professor of Rhetoric and Oratory” presso la Harvard University. Tra il 1989 e il 1994 ha ricoperto la cattedra di poesia a Oxford. A partire dalla raccolta d’esordio, Morte di un naturalista (1966), ha pubblicato numerosi titoli di poesia. Tra i più recenti: Veder cose (1991), The Spirit Level (1996), Electric Light (2001), District e Circle (2006), Catena umana (2010). Mondadori – Lo Specchio. Sempre per Mondadori nel 2016 è uscito un “Meridiano” delle poesie di Seamus Heaney.
Commento di Donatella Costantina Giancaspero
Il Meridiano riunisce due corpose antologie d’autore: la prima è relativa agli anni 1966-1987, mentre la seconda è stata approntata dal poeta appositamente per il Meridiano e pubblicata postuma da Faber nel 2014. Sono dunque presentate senza soluzione di continuità tutte le poesie scelte da Heaney come pietre miliari del suo cammino poetico: quasi cinquant’anni di versi con cui Heaney ha esplorato in profondità le corde della natura umana, raccontando la responsabilità di scelte individuali e collettive.
Morte di un naturalista, la prima raccolta del poeta irlandese recentemente edita in Italia da Mondadori (2014) per la cura e traduzione di Marco Sonzogni, risale al 1966, opera in seguito rivisitata e pubblicata da Faber and Faber a Londra nel 2014, rappresenta il punto più alto della poesia di Heaney. Nella poesia di Heaney si ha un legame tra la memoria simbolizzata e il quotidiano presentificato, è questa la cifra che racchiude tutta l’opera di Heaney: ricorrono i toni pacati con la crudeltà dei gesti del quotidiano. Le rime (alternate, baciate, interrotte e riprese etc.), le paronomasie, le allitterazioni, le assonanze costituiscono l’ossatura sonora della sua poesia nel senso più pieno della classica poesia modernista novecentesca. Peraltro, la figuralità della storia e la riflessione sulla storia sembrano lontane e aliene dalla sensibilità del poeta irlandese ma sono introiettate nelle «cose».
La natura occupa un posto preponderante nella poesia di Heaney, fa da contraltare alle vicende degli uomini quasi come un correlativo oggettivo delle loro tempeste psicologiche. Un correlativo «positivo» del «negativo» della storia degli uomini. Nella poesia di Heaney il «positivo» si nutre direi naturalmente del «negativo». Ritornano nella poesia di Heaney le metafore, i personaggi, i luoghi e i simboli della sua famiglia rurale: «il rozzo scarpone», «la vanga», «mio nonno», «mio padre», la «torbiera di Toner» etc. Questa spiccata fedeltà e attenzione ai luoghi della memoria e ai luoghi ancestrali della sua Irlanda cattolica trasmette alla poesia di Heaney ben più di una sfumatura localistica, una lentezza esasperata pur nella orchestrazione fono simbolica di tipo conservatrice; non a caso la critica anglosassone ha parlato, con un’enfasi propriamente non del tutto positiva, di «regionalismo» a proposito della sua poesia, rimarcandola presenza di questo elemento retrò nella sua poesia. La questione non è del tutto peregrina, anzi la ritengo fondata: se da un lato questo attaccamento alle radici della contrada familiare conferisce alla poesia di Heaney una terrestrità quasi terragna, con un che di primordiale, dall’altro ha finito per limitare il raggio simbolico delle sue «figure», ed ha finito con l’avere un riflesso limitante anche sulla portata innovativa della sua poesia, che rimane probabilmente l’ultimo avamposto di un modernismo europeo tipico di un certo novecento, quello, per intenderci, alieno dall’assorbire il portato critico delle post-avanguardie europee.
In questa accezione, la mia sensibilità estetica affinata dalla adozione della «nuova ontologia estetica», si rivela estranea alla sensiblerie di questa poesia, la ritengo un prodotto della fase terminale del modernismo europeo ancorata ad un concetto di poesia come pentagramma sonoro, oserei dire un concetto più pasternakiano, piuttosto che mandel’stamiano o eliotiano di poesia.
Digging
Between my finger and my thumb
The squat pen rests; as snug as a gun.
Under my window a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down
Till his straining rump among the flowerbeds
Bends low, comes up twenty years away
Stooping in rhythm through potato drills
Where he was digging.
The coarse boot nestled on the lug, the shaft
Against the inside knee was levered firmly.
He rooted out tall tops, buried the bright edge deep
To scatter new potatoes that we picked
Loving their cool hardness in our hands.
By God, the old man could handle a spade,
Just like his old man.
My grandfather could cut more turf in a day
Than any other man on Toner’s bog.
Once I carried him milk in a bottle
Corked sloppily with paper. He straightened up
To drink it, then fell to right away
Nicking and slicing neatly, heaving sods
Over his shoulder, digging down and down
For the good turf. Digging.
The cold smell of potato mold, the squelch and slap
Of soggy peat, the curt cuts of an edge
Through living roots awaken in my head.
But I’ve no spade to follow men like them.
Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
I’ll dig with it.
Scavare
Tra il mio pollice e l’indice
la tozza penna, comoda come una pistola.
Da sotto la finestra, un suono aspro e netto
quando la vanga affonda nella terra ghiaiosa:
mio padre, che scava. Mi affaccio e guardo
finché la sua groppa tesa nello sforzo tra le aiuole
s’abbassa, si rialza vent’anni addietro
curvandosi ritmicamente tra i solchi di patate
dove stava scavando.
Il rozzo scarpone andato sulla staffa, il manico
saldo contro l’interno del ginocchio a fare leva.
Sradicava gli alti ciuffi, affondava la lama lucente
per sparpagliare le patate novelle che raccoglievamo
stringendole con piacere fredde e dure fra le mani.
Per Dio, il mio vecchio la sapeva maneggiare, la vanga.
E così il suo.
Mio nonno tagliava più torba in una giornata
di ogni altro nella torbiera di Toner.
Una volta gli portai del latte in una bottiglia
con un tappo di carta abborracciato. Si raddrizzò
per bere, poi si rimise subito al lavoro,
fendenti e affondi lenti, gettandosi le zolle
sopra la spalla, andando sempre più giù
dove la torba era migliore. Scavare.
L’odore freddo del terriccio sulle patate, il risucchio e lo schiaffo
della torba impregnata, i tagli netti di una lama
su radici vive mi si ridestano nella mente.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.
Tra il mio pollice e l’indice riposa
la tozza penna.
Scaverò con questa.
The Early Purges
I was six when I first saw kittens drown.
Dan Taggart pitched them, ‘the scraggy wee shits’,
Into a bucket; a frail metal sound,
Soft paws scraping like mad. But their tiny din
Was soon soused. They were slung on the snout
Of the pump and the water pumped in.
‘Sure, isn’t it better for them now?’ Dan said.
Like wet gloves they bobbed and shone till he sluiced
Them out on the dunghill, glossy and dead.
Suddenly frightened, for days I sadly hung
Round the yard, watching the three sogged remains
Turn mealy and crisp as old summer dung
Until I forgot them. But the fear came back
When Dan trapped big rats, snared rabbits, shot crows
Or, with a sickening tug, pulled old hens’ necks.
Still, living displaces false sentiments
And now, when shrill pups are prodded to drown
I just shrug, ‘Bloody pups’. It makes sense:
‘Prevention of cruelty’ talk cuts ice in town
Where they consider death unnatural
But on well-run farms pests have to be kept down.
Le prime purghe
Avevo sei anni la prima volta che vidi affogare dei gattini.
Dan Taggart li lanciò, “stronzetti tutt’ossa”,
dentro un secchio; un fragile suono metallico,
soffici zampe che graffiavano all’impazzata. Ma il loro minuscolo chiasso
fu presto affogato. Li appese al muso
della pompa e pompò l’acqua.
«È meglio così per loro, no?» disse.
Come guanti bagnati sobbalzarono lucenti finché lui li rovesciò,
acqua e tutto, sul letamaio, lustri e morti.
Di colpo impaurito, per giorni gironzolai triste
nel cortile, osservavo i tre resti mollicci
diventare farinosi e croccanti come vecchio letame estivo
finché me li dimenticai. Ma la paura ritornava
quando Dan catturava grossi ratti, acchiappava conigli, sparava ai corvi
o, con uno strattone nauseante, tirava il collo alle galline vecchie.
Comunque, vivere rimuove i sentimentalismi
e adesso, quando striduli cuccioli sono spinti sott’acqua,
alzo le spalle, “Maledetti cuccioli”. Ha senso:
“Protezione degli animali” sono parole che fanno presa in città
dove la morte è ritenuta innaturale,
ma nelle fattorie ben gestite i parassiti vanno contenuti.
Mid-Term Break
I sat all morning in the college sick bay
Counting bells knelling classes to a close.
At two o’clock our neighbors drove me home.
In the porch I met my father crying –
He had always taken funerals in his stride –
And Big Jim Evans saying it was a hard blow.
The baby cooed and laughed and rocked the pram
When I came in, and I was embarrassed
By old men standing up to shake my hand
And tell me they were ‘sorry for my trouble’.
Whispers informed strangers I was the eldest,
Away at school, as my mother held my hand
In hers and coughed out angry tearless sighs.
At ten o’clock the ambulance arrived
With the corpse, stanched and bandaged by the nurses.
Next morning I went up into the room. Snowdrops
And candles soothed the bedside; I saw him
For the first time in six weeks. Paler now,
Wearing a poppy bruise on his left temple,
He lay in the four foot box as in his cot.
No gaudy scars, the bumper knocked him clear.
A four foot box, a foot for every year.
Vacanze di metà trimestre
Rimasi tutta la mattinata nell’infermeria della scuola,
a contare le campanelle che annunciavano la fine di ogni ora.
Alle due vennero i nostri vicini a portarmi a casa.
Nel portico trovai mio padre che piangeva –
lui che aveva sempre affrontato bene i funerali –
e Big Jim Evans che diceva che era un duro colpo.
Quando entrai il piccolo ciangottò e rise e scosse
la carrozzina, e con mio imbarazzo
alcuni vecchi si alzarono e vennero a stringermi la mano
dicendosi “rattristati dalla mia pena”.
Fu bisbigliato agli estranei che ero il più grande,
che ero in collegio, e mia madre mi teneva la mano
nella sua e cacciava sospiri rabbiosi e asciutti.
Alle dieci arrivò l’ambulanza
con la salma, tamponata e fasciata dalle infermiere.
La mattina dopo salii in camera, Bucaneve
e candele rasserenavano il capezzale; lo vedevo
per la prima volta dopo sei settimane. Più pallido ora,
con un livido papavero alla tempia sinistra,
giaceva nella piccola bara come nel suo lettino.
Nessuna ferita vistosa, il paraurti l’aveva scagliato lontano.
Quattro piedi di bara, uno per ogni anno.
Twice Shy
Her scarf à la Bardot,
In suede flats for the walk,
She came with me one evening
For air and friendly talk.
We crossed the quiet river,
Took the embankment walk.
Traffic holding its breath,
Sky a tense diaphragm:
Dusk hung like a backcloth
That shook where a swan swam,
Tremulous as a hawk
Hanging deadly, calm.
A vacuum of need
Collapsed each hunting heart
But tremulously we held
As hawk and prey apart,
Preserved classic decorum,
Deployed our talk with art.
Our Juvenilia
Had taught us both to wait,
Not to publish feeling
And regret it all too late –
Mushroom loves already
Had puffed and burst in hate.
So, chary and excited,
As a thrush linked on a hawk,
We thrilled to the March twilight
With nervous childish talk:
Still waters running deep
Along the embankment walk.
Doppiamente schivi
La sua sciarpa à la Bardot,
scarpe basse scamosciate per la passeggiata,
venne con me una sera
per un po’ d’aria e una chiacchierata.
Attraversammo il calmo fiume,
prendemmo il sentiero lungo l’argine.
Il traffico che tratteneva il respiro,
il cielo un diaframma teso:
il tramonto sospeso come un fondale
che oscillava dove nuotava un cigno,
tremante come un falco
che aleggia micidiale, camo.
Un vuoto di bisogno
comprimeva i due cuori cacciatori
ma tremando ci tenevamo
lontani come falco e preda,
mantenevamo decoro classico,
dispiegando le parole con arte.
Le esperienze giovanili
ci avevano insegnato ad aspettare,
a non manifestare i sentimenti
per pentirsene troppo tardi –
amori funghi erano già
gonfiati e scoppiati in odio.
Perciò, accorti ed eccitati
come un tordo legato a un falco
fremevamo nel crepuscolo di marzo
con parole nervose e infantili:
acque chete che scorrono profonde
lungo il sentiero dell’argine.
Valediction
Lady with the frilled blouse
And simple tartan skirt,
Since you have left the house
Its emptiness has hurt
All thought. In your presence
Time rode easy, anchored
On a smile; but absence
Rocked love’s balance, unmoored
The days. They buck and bound
Across the calendar
Pitched from the quiet sound
Of your flower-tender
Voice. Need breaks on my strand;
You’ve gone, I am at sea.
Until you resume command
Self is in mutiny.
Commiato
Signora dalla camicetta con i pizzi
e semplice gonna scozzese,
da quando lasciasti la casa
il suo vuoto ha ferito
ogni pensiero. In tua presenza
il tempo oscillava tranquillo, ancorato
a un sorriso; ma l’assenza
ha scosso l’equilibrio dell’amore, tolto gli ormeggi
ai giorni. Sobbalzano sballottati
lungo il calendario,
scagliati lontano dal soffice suono
della tua voce delicata come
un fiore. Il bisogno si infrange sulla mia spiaggia;
te ne sei andata, sono in alto mare.
Finchè non riprendi il comando,
il sé è ammutinato.
Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).
Mi sono occupata di Seamus Heaney circa due anni fa, cercando di approfondire da un lato il suo rapporto con i classici latini, in particolare con la sesta egloga di Virgilio e con Orazio, e anche con Dante, soprattutto con alcuni riferimenti al Purgatorio e ad alcuni personaggi nella sua opera.
Quello che tuttavia più mi ha colpito, nella mia necessità di esplorare in quel momento alcuni rifacimenti della Orestea di Eschilo, è stata la scoperta di un breve poemetto di Heaney: mi sono sempre chiesta quanto esso sia stato condizionato dall’interesse per l’Orestea del suo grande amico Ted Hughes (la cui Orestea tuttavia non è tradotta in italiano) e della stessa Sylvia Plath, a sua volta autrice di una “Elettra sul sentiero delle azalee”, rielaborazione del personaggio eschileo in rapporto alla figura paterna dell’autrice.
L’opera del poeta irlandese Seamus Heaney ispirata all’Orestea di Eschilo è intitolata “Scolta a Micene”. L’epigrafe premessa all’opera rivela il verso ispiratore di tutta la composizione: è la frase “Ho un bue sulla lingua” che in Eschilo compare nel prologo, pronunciata dalla sentinella che scruta l’orizzonte in attesa di scorgere i segnali di fuoco che da lontano annuncino l’atteso ritorno del re. La frase vuole in realtà esprimere il timore di parlare della sentinella e mettere in guardia lo spettatore sul fatto che qualcosa di strano e al contempo indicibile stia accadendo nella reggia. La regina infatti non è la sposa fedele che vuol far credere di essere e qualcosa di oscuro si agita nel suo cuore e si prepara nella reggia contro Agamennone.
L’opera di Heaney assume il punto di vista esclusivo dell’anonima sentinella che da anni attende in cima alla torre del palazzo di Micene: suoi i giudizi, suo il punto di vista e la descrizione dei personaggi. Il racconto non è una rivisitazione integrale e completa del mito ma una ricostruzione parziale dell’Orestea e consta di cinque quadri, rispettivamente intitolati: “La guerra della sentinella”, “Cassandra”, “Visione all’alba della sentinella”, “Le notti”, “La sua reverie nell’acqua”.
Parlando in modo oscuro, come il suo modello eschileo, la sentinella esordisce con la frase “qualcuno pianse, non di dolore, di gioia” quando il re Agamennone si armò per andare a Troia, forse alludendo all’odio della regina e alla sua speranza che il marito in guerra morisse. La guerra è definita come un grande “torto dell’universo”, una “festa di morte” che non potrà portare del bene a nessuno. Nelle parole della sentinella, che rievoca i suoi sogni, ricompare una spia linguistica che ci riporta a Eschilo: l’immagine della rete, tanto ricorrente nell’autore greco ed emblema del cacciatore che conquista la città nemica ma che sarà a sua volta preso in trappola dalla regina. “Sognavo sangue in reti brillanti in un guado, corpi pioventi giù come carne a brandelli sopra di me addormentato”. Da questi sogni l’uomo si risveglia “confuso”, pronto a tornare a scrutare l’orizzonte in attesa del sagnale: la vita della sentinella passa così, anno dopo anno, inchiodata al destino che la costringe a quel lavoro, “sollevato sui gomiti, a scrutare, in attesa, nel mio avamposto sul tetto”; e intanto le sue orecchie si devono chiudere ai suoni che provengono dalla casa: chiudere al “grido d’amore di Clitemnestra”, già coinvolta nella relazione con Egisto, mentre la sua lingua è paralizzata, “come la passerella calata di un carro bestiame”.
Nel secondo riquadro, che ha come oggetto la descrizione della prigioniera Cassandra, ritorna il ritornello “non esiste spettatore innocente” . Di Cassandra si descrive l’”aria un po’ tocca”, la testa “devastata, scabbiosa” da prigioniera che tutti i soldati hanno potuto a loro piacimento violare, e le parole tenui come un belato con cui la giovane, invasata dal dio, preannuncia la “moglie assassina”, “la rete” di cui lei e il padrone Agamennone saranno presto vittime.
Nel terzo riquadro la sentinella sembra “vedere” la presa della città nemica: tutto accade nel momento in cui l’uomo sente “il battito dell’enorme ferita del tempo” e la sua anima piange vedendo “uno splendore spazzato dal vento” e immagini di guerra.
Nel quarto riquadro, più esplicitamente, la guardia esprime il suo senso di colpa di fronte ai due amanti, la regina ed Egisto, che egli è costretto a servire in silenzio, “tutto sorrisi a Egisto ogni mattina, colmato di favori e nauseato di me”; l’uomo si considera incapace di avvisare il re di ciò che accade nella sua casa e per questo stesso motivo si sente complice di ciò a cui assiste nella reggia, connivente con il tradimento che si consuma alle spalle di Agamennone. Ma la guerra fatalmente si conclude con un delirio che rende “tutti gli uomini pazzi”, vincitori e vinti, e accettando oro dalla regina in cambio del suo silenzio “fu il re che io vendetti”, conclude nel suo monologo.
L’ultimo brano è dedicato alla descrizione di “acqua fresca”, immagine di purificazione che compare come un miraggio nelle parole della guardia: una vasca d’acqua in cui possa scendere l’eroe, “spogliato nudo, incrostato di sangue”: scale da percorrere per raggiungere l’acqua, scale segrete che si sovrappongono a Troia, ad Atene, a Micene, e l’acqua da cui gli uomini, una volta giunti in fondo, possano risalire come veggenti, finalmente lontani dalle “grida lontane dei macellati sul piano”. Un rito rigenerativo in cui l’acqua, simbolo di vita, sembra annullare le distruzioni della guerra e il sangue versato nelle stragi di tutti i tempi. Forse un simbolo che riporta il poeta a lontani riti celtici e alle acque della sua Irlanda.
Impossibile dare un qualsiasi centimetro di giudizio leggendo soltanto quattro poesie, che nella traduzione non possono dare la ritmica, le assonanze., le rime, la musica quindi dell’originale inglese. Per fortuna trattandosi di una lingua non lontanissima dalla mia modesta cultura ho potuto in parte apprezzare maggiormente il suo discorso poetico, comunque lontanissimo dalla mia sensibilità, ed io non essendo un critico, ma solo un modesto lettore, mi concedo il lusso di affidarmi anche al mio gusto personale.Certo la lunghissima dissertazione della Levati, come al solito al di sopra di ogni cultura di mezzo, altissima quindi, mi ha stimolato a leggere questa” Scolta a Micene. Trattandosi di miti, che io ho molto frequentato in proprio e nelle letture, Ristoa in primis, sono davvero incuriosito. Certo da questi scarsi versi mi sembra esagerato un Nobel, ma ripeto giudicare da pochissime poesie è quantomeno temerario. Ella chiusa del commento della Giancaspero mi introduce una pulce di sospetto.
Un rifacimento oraziano di Heaney (per altro talvolta presente in alcune antologie scolastiche di letteratura latina):
Anything can happen
after Horace, Odes, I,34
(15 novembre 2001)
Anything can happen. You know how Jupiter
Will mostly wait for clouds to gather head
Before he hurls the lightning? Well, just now
he galloped his thunder cart and his horses
Across a clear blue sky. It shook the earth
And the clogged underearth, the River Styx,
The winding streams, the Atlantic shore itself.
Anything can happen, the tallest towers
Be overturned, those in high places daunted,
those overlooked regarded. Stropped-beak Fortune
swoops, making the air gasp, tearing the crest off one,
Setting it down bleeding on the next.
Ground gives. The heaven’s weight
Lifts up off Atlas like a kettle-lid.
Capstones shift, nothing resettles right.
Telluric ash and fire-spores boil away.
Tutto può accadere
Tutto può accadere. Sai come Giove
solitamente aspetta che le nuvole s’addensino
prima di scagliare il fulmine? Beh,or ora
ha fatto galoppare carro e cavalli del tuono
attraverso un terso cielo azzurro. Ha scosso la terra
e l’ingombro sottosuolo, lo Stige,
i ruscelli tortuosi, la costa stessa dell’Atlantico.
Tutto può accadere, le torri più alte
essere abbattute, chi sta in alto intimorito,
chi in basso riconsiderato. La Fortuna becco affilato
s’avventa aria senza fiato strappando a uno la cresta,
posandola, sanguinante, su quello accanto.
La terra cede. Il peso del cielo
si solleva oltre Atlante come il coperchio di un bollitore.
Le chiavi di volta ballano, nulla torna a posto.
Cenere tellurica e spore di fuoco svaporano.
(traduzione di L. Guernieri)
“Anything can happen” è stata composta da Heaney nel 2001, in occasione dell’attentato alle Twin Towers di New York, pubblicata per la prima volta nel novembre del 2001 e in seguito inserita nella raccolta “District and circle”. Colpisce nel rifacimento di Heaney dell’Ode di Orazio indicata da lui stesso come suo modello, il senso di sgomento per l’improvvisa fragilità dell’uomo e delle sue temporanee fortune. Il riferimento all’Atlantico, l’”atlanteus finis” di Orazio ma divenuto allusione a New York, è tuttavia l’unica connotazione “storica” e geograficamente precisa del testo. L’incendio e il crollo delle torri, cui si allude nell’ultimo verso, alludono alla dimensione di una cataclisma apocalittico.
Tuttavia è proprio la mancanza di ogni allusione agli estremismi religiosi e al terrorismo che connota il testo: quasi un rifiuto di cedere al momento storico e alla radicalizzazione di un mondo che in quel momento ha riproposto un irrimediabile conflitto tra Occidente e Oriente; come se Heaney, che ha continuato a lungo a vivere nell’Irlanda del Nord, dominio inglese, ma tenendosi da sempre lontano dagli estremismi dei vari gruppi armati che negli anni ’80 e ’90 hanno insanguinato la sua regione e cercato una estremizzazione del conflitto con i “padroni inglesi”, avesse voluto anche in questo caso evitare di cedere alla violenza storica.
Nella sua poesia del resto sono frequenti i riferimenti proprio a quelle lingue di terra affioranti tra le acque nella sua Irlanda, a quelle zone di “limite” e confine, ai ponti che collegano le terre e metaforicamente costituiscono un fertile punto di incontro tra le culture dei vincitori e dei vinti.
(Di seguito l’ode di Orazio che ha fornito a Heaney lo spunto:
Odi, I,34
Parcus deorum cultor et infrequens,
insanientis dum sapientiae
consultus erro, nunc retrorsum
vela dare atque iterare cursus
cogor relictos. Namque Diespiter,
igni corusco nubila dividens
plerumque, per purum tonantis
egit equos volucremque currum,
quo bruta tellus et vaga flumina,
quo Styx et invisi horrida Taenari
sedes Atlanteusque finis
concutitur. Valet ima summis
mutare et insignem attenuat deus,
obscura promens; hinc apicem rapax
Fortuna cum stridore acuto
sustulit, hic posuisse gaudet.
Moderato e instabile cultore degli dei, mentre vado errando superbo della mia sciocca sapienza, ora sono costretto a voltare le vele e a riprendere la rotta abbandonata. Infatti il padre degli dei, che di solito divide le nubi con il fuoco dei lampi, ha condotto i suoi cavalli tonanti e il suo carro volante in mezzo al cielo, e da esso sono scosse la terra e i fiumi che scorrono, e lo Stige e la sede orribile dell’odioso Tenaro, e il confine di Atlante. Il dio può mutare il più basso e il più alto e atterra l’eccelso, ponendo in luce ciò che è oscuro; la Sorte rapace con acuto stridore ha tolto da un lato la corona, e si compiace di porla da un’altra parte)
Grazie Costantina per questa opportunità di condividere la poesia di Heaney sull’Ombra. Giustamente, se non si conosce qualcosa di più della sua ricchissima e variegatissima opera, – ma anche di tutto quello che c’è dietro –
è difficile, come dice Salvatore Martino, farsi anche una minima idea della sua potenza poetica, della vastità dei temi e della sconfinata cultura..
Questa raccolta, “Death of a Naruralist”, che solo ora viene pubblicata in italiano (che s’aspettava ancora?) è la sua prima e raccoglie testi che Heaney scrisse fra i 18 e i 27 anni, dunque molto giovane.
Fra raccolte e selected poems, ne pubblicò mi pare quindici e una postuma, oltre a opere in prosa, testi teatrali, un ricchissimo carnet di traduzioni poderose, fra cui il VI libro dell’Eneide dal latino, la più bella traduzione in inglese moderno del Beowulf che ci sia,, grandi testi mitologici e poetici dall’antico irlandese ecc.
Dunque il Nobel è più che meritato, visto anche l’impegno politico che – spesso affiorante anche da testi apparentemente non politici – percorre tutta la sua opera.
Per capire Heaney si deve tener conto del fatto che la sua era una famiglia cattolica nell’Irlanda del Nord, dove i cattolici, anche dopo la nascita della Repubblica Irlandese, l’Eire, hanno avuto vita durissima, essendo allora più che mai e ancora oggi, dominati da una classe dirigente protestante, cioè inglese e cittadini britannici non irlandesi..(In Irlanda la distinzione si fa fra cattolici e protestanti, non fra irlandesi e inglesi, perché comunque anche i protestanti sono irlandesi da secoli. La distinzione però non ha alcun significato religioso, ma storico ed è ancora molto sentita dai cattolici in particolare. Non mi dilungo troppo su questa questione).
Detto questo, è chiaro che in questa prima raccolta emerga una sorta di esplorazione delle origini, il rapporto con la terra e la natura – che per ogni irlandese è assolutamente centrale – la ricerca e conferma dell’identità, fra padre contadino e madre operaia in un linificio (lui diceva di riunire in sé la tradizione antichissima dell’Irlanda rurale e quella della Rivoluzione Industriale importata nell’Ulster dagli inglesi). Poi la durezza della vita, (Vacanze di metà trimestre parla della morte del fratellino di 4 anni) l’amore per il sapere e la cultura, che è una delle più grandi caratteristiche degli irlandesi, ereditata dai padri Celti, la scoperta dell’amore (Doppiamente schivi ripercorre l’inizio dell’amore con sua moglie che durò tutta la vita.)
Un poeta irlandese, ogni poeta irlandese, si porta dietro una tradizione culturale enorme e soprattutto presentissima e viva, assai più della nostra, antica di molti secoli. L’aspetto e la conoscenza del mito e dei grandi cicli epici irlandesi è parte integrante e vivissima della cultura irlandese, ma altrettanto una profonda conoscenza di autori classici, secondo la più pura tradizione del monachesimo irlandese – atteggiamento tutto celtico – che la riportò e la diffuse nuovamente in Europa dopo il naufragio dell’antico.
Tuttavia, pur con questo grande bagaglio, Heaney cerca già fin dall’inizio – e in questa raccolta è evidente – una sua lingua che mantenga l’antica tradizione di sonora musicalità e di vertiginose metafore dei bardi di corte irlandesi (insieme ai bardi di corte gallesi i più incredibili e vertiginosi poeti che l’Europa abbia prodotto, ma in Italia ben poco conosciuti) e della grandissima letteratura gaelica, ma dandole un’asciuttezza moderna, attento alla lezione di Eliot e di Hughes e Beckett. La stessa “Scavando” ha un taglio politico potentissimo ed è una vera e propria sfida e dichiarazione d’intenti, se si considera quando è stata scritta.
Silvia Lovati ha ben messo in risalto le radici ANCHE classiche di Heaney, tipiche dei grandi poeti irlandesi. E qui non posso non nominare il grandissimo James Harpur, che ha formazione simile, ma ha percorso la strada del misticismo oltre che della dura realtà del quotidiano.
Questa è gente che alla maggior parte dei poeti italiani considerati importanti mangia la minestra in testa!
No, Heaney non rappresenta la “fase terminale del modernismo europeo” o il cui valore sia solo sonoro. Tutto l’opposto.
La poesia irlandese, di un paese in cui la Poesia è amatissima, letta, capita, diffusa ampiamente, celebrata, di un paese che prosegue la grande tradizione culturale degli antichi Celti trasformandola e rinnovandola con nuovi contenuti e nuove forme, ha nomi che sono davvero grandissimi (cioè non pompati da correnti o mafie letterarie.) Brendan Kennelly, Paul Maldoon, Ciaran Carson, James Harpur, Paula Meehan, Eavan Boland, Mary O’Connell, Patrick Kavagh, John Montague (che ho conosciuto a Cork), tutti viventi, sono solo i maggiori – e ne ho dimenticati certo alcuni consacrati in Irlanda e nel mondo.
La poesia irlandese sta seguitando ad esplorare nuovissime strade, sperimentazioni di lingua e sonorità altrove impensabili, anche e proprio per la duplicità di lingue e culture da secoli presenti e in conflitto e per i particolari sviluppi nell’ultimo secolo della lingua e della letteratura irlandese.
In qualche modo Heaney è il grande rappresentante di queste nuove strade, che affondano sì solidamente le radici nella grande tradizione (cosa che da noi è quasi ignota e ormai dimenticata se non in rari casi) e dunque rende solidi i loro passi, ma proprio per questo sono in grado di cercare e trovare nuove vie e nuove soluzioni senza collassare su sé stessi o ritrovarsi a vagare nel vuoto di tentativi malriusciti.
Scrittore vigoroso, Seamus Heaney, autore che confesso di non avere mai letto prima d’ora – quindi ringrazio Donatella C. Giancaspero – poeta di forte e chiara personalità; impressione confermata anche dalle sapienti note di Rossana Levati. Sono andato a leggermi le motivazioni del Nobel: “Bellezza lirica e profondità morale, che esalta i miracoli quotidiani e il passato vivente”. Ora vorrei solo condividere un pensiero che mi è sorto leggendo: sulla discontinuità, rispetto alle tradizioni, che ha sempre caratterizzato il secolo scorso. Forse la modernità deriva da un pensiero utopistico, perché proiettato verso il futuro, ma la spinta alla discontinuità ha in sé motivazioni concrete: abbiamo avuto guerre, a partire da queste abbiamo perso qualsiasi visione parziale del pianeta; sono quindi aumentati i problemi, le disparità; per chi volesse cambiare direzione, uscire dalle regole, lo stesso vivere è diventato un problema quasi insormontabile. Quindi mi chiedo: che senso ha, oggi, affrancarsi alle tradizioni, a un secchio di gattini ammazzati per supposta necessità, a una scena di caccia da fare impressione al realismo di Courbet, un presente segnato dalla storia che si ripete ostinata, implacabile, quella zappa nella torba… E voler scrivere a quella maniera? Si avrebbe più bisogno di grounding (centratura, radicamento), o di lasciare andare?
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/30/seamus-heaney-morte-di-un-naturalista-e-altre-poesie-lo-specchio-mondadori-2014-pp-118-e-17-traduzione-di-marco-sonzogni-commento-di-donatella-costantina-giancaspero/comment-page-1/#comment-29245
Condivido il parere di Francesca Diano secondo la quale poeti come Heaney e James Harpur è gente che «mangia in testa ai poeti italiani considerati importanti». Il fatto è che quei «poeti italiani» cui allude la Diano sono ben povera cosa, e non sono certo da mettere a confronto non dico con Harpur e Heaney ma neanche con i poeti del Congo ex belga. Io ogni tanto esprimo il mio pensiero con un certo grado di libertà, il minimo del minimo perché qui da noi c’è chi addita la Mariangela Gualtieri e la Chandra Lidia Candiani al rango di poeti quando da un qualsiasi raffronto con un poeta di medio rango europeo vengono immediatamente alla luce le differenze abissali…
Heaney è un poeta di un altro pianeta, la stessa ricchezza del suo pentagramma sta lì a dimostrare che è un poeta che proviene da un’altra orbita… Detto questo, mi riallaccio al discorso appena abbozato da Lucio Mayoor Tosi, alle fratture terribili delle tre guerre mondiali e della rivoluzione cibernetico-telematica in atto che da noi in italia ha desertificato la poesia lasciandola in mano a dei corsivisti di periferia. Epperò quelle terribili fratture ci sono state. In Italia quel pentagramma sonoro è stato messo fuori corso, in Italia non è più possibile che sorga un poeta che abbia nella voce e nella mente la orchestrazione sonora di cui sono capaci un Heaney o un Harpur in Irlanda. L’Italia non è l’Irlanda, qui da noi è stato impossibile recuperare quella tradizione ritmico melodica, la poesia italiana maggioritaria è stata ridotta ad un ruolo subalterno e minoritario. Il problema vero è che in Italia dobbiamo ricominciare a fabbricare poesia ex novo, dobbiamo ricominciare daccapo sapendo e dando per scontato che quell’antico pentagramma, quella antica sonorità è perduta per sempre…
Giorgio, essendo io, come sai, un’ottimista per natura, non credo che da noi il grande passato poetico sia perduto per sempre, anche perché ogni contemporaneità è il risultato di un passato. Diciamo che noi l’abbiamo un po’ messo a dormire, poi dirò perché credo che sia così.
Ci sono motivazioni storiche per cui in Irlanda avviene ciò che avviene. Come tutti sanno, a partire dalla conquista di Elisabetta I e dalla fine della libertà, l’Irlanda è diventata una terra politicamente, economicamente e culturalmente colonizzata. In realtà, prima della conquista, l’Irlanda non aveva una situazione tranquilla, perché la struttura a clan della società celtica portava a continui scontri fra clan. I Celti erano un popolo di guerrieri e di poeti e la guerra era il loro pane. Esattamente come nella società cavalleresca omerica di tradizione aristocratica.
Questa natura guidata dall’amore per la libertà e la giustizia e dall’orgoglio della stirpe è stata quella che non ha mai permesso agli anglosassoni di rendere servi gli irlandesi. La loro storia, fin dal XVI secolo è un susseguirsi di ribellioni, rivolte, bagni di sangue (anche da entrambe l parti), violenze e soprusi, cui gli irlandesi – saldamente rimasti ancorati al cattolicesimo proprio per distinguersi dagli inglesi invasori – non si sono mai piegati.
Il mezzo più potente che ha loro permesso di non essere mai del tutto sottomessi è stato quello di mantenere e preservare l’identità culturale, l’attaccamento a una cultura vastissima e molto antica – pagana e cristiana – che agli inglesi mancava.
Poi, nei 5 anni della Grande Carestia,di metà 800 sfruttata dagli inglesi per piegare gli irlandesi, sono morte 2 milioni di persone e 2 milioni sono emigrate in America, su una popolazione di meno di 8 milioni! E quei morti appartenevano solo e unicamente alla classe contadina e alle classi più povere, che potevano permettersi di mangiare solo patate e poco più. E mancavano solo le patate. Dunque i più abbienti, cioè gli inglesi, non ne hanno affatto risentito.
Gli orrori della Grande Carestia hanno lasciato ancora oggi una traccia palpabile nell’inconscio collettivo irlandese.
La cultura è stata per gli irlandesi uno strumento di resistenza e lotta e questo atteggiamento è continuità storica con la loro natura originaria.
E’ il motivo per cui l’Irlanda possiede il più vasto e meglio mantenuto patrimonio di cultura e tradizioni orali al mondo, raccolto a partire dall’800 e ancora in corso, con milioni (non migliaia!) di pagine trascritte e conservate negli archivi accademici e delle istituzioni preposte.
Dunque non è l’interruzione dovuta a guerre o violenze che determina la perdita della voce poetica. Quella la determina una società serva, asservita, corrotta, conformista, che ha scelto di dimenticare la propria identità e la connessione col proprio passato. Non morta, ma tramortita, quale è quella italiana, che ha preso il peggio della cultura colonizzatrice – quella americana – in modo passivo. Ma il grande passato è lì per tutti, pronto a diventare nutrimento per il futuro.
La storia italiana, dalla fine del mondo antico in poi, è una storia di invasioni subite, cui si è sempre risposto tentando di sopravvivere e di farsi piccoli piccoli, con le rare eccezioni di Firenze e Napoli e Venezia (che però non ha prodotto poeti) dei tempi d’oro. Momenti di libertà appunto, intellettuale oltre che politica.
L’idea che l’invasore o il padrone sia migliore dell’invaso o del servo e dunque da apprezzare più di noi stessi è una strategia di sopravvivenza come un’altra, anche se non vincente alla lunga.
Io penso che un rinnovamento, una speranza per la nostra cultura ci possa essere quando ritroveremo il nostro passato, che non è solo quello classico, quando le nostre radici – che la globalizzazione ha allargato e non limitato – riprenderanno a nutrirsi della linfa che è lì per noi pronta.
In una sua conferenza, che ho pubblicato sul mio blog, James Harpur parla esattamente di questa fonte a cui l’immaginario poetico si nutre e si abbevera.
(E-mail di Rossana Levati a me, il 4 ottobre 2017)
Tre poesie di Seamus Heaney:
“La sedia del poeta” è un componimento sul poeta come veggente, con lo sguardo proteso al passato e al futuro.
Gli altri due testi che ti trasmetto sono accomunati dal tema della riflessione sulla morte dell’uomo e la persistenza dei ricordi.
Qualcosa mi dice che li farai scendere dentro di te e diventeranno fertile materia (…)
(Rossana Levati)
(e-mail da Rossana Levati a me, il 4 ottobre 2017)
La “Sedia del poeta”
I
Ombre angolanti di se stessa: da loro
emerge e contro loro si erge la tua “Sedia del Poeta”,
nel suo cortile del centro inseguito dal sole.
Sempre sul qui vive, le quattro gambe che atterrano
sui piedi, piè di gatto, di capra, e ancora grande, morbido e valgo;
lo schienale dritto germoglia due arboscelli frondosi e bronzei.
Ogni persona frivola in città,
vecchi e ubriaconi, chi piscia tardi d notte, chi si bacia,
tutti ci si son seduti qualche volta.
E’ il modo dell’aria di farsi dietro loro alata e piena,
il modo in cui un innesto fa presa sulle loro scapole
a farli felici. Una volta mutata natura,
eccoli tornare in foglia e fiore,
a passo d’angelo. O qualcosa del genere. Foglie
su una sedia. Ma davvero?
2
Poi vedo la sedia in una prigione bianca
con Socrate lì seduto, calvo come un uovo,
discorrere con gli amici in pieno sole.
Il suo tempo è breve. Il giorno d’inizio del processo
una nave verdeggiante è salpata dal tempio di Apollo
a Delo, per il rito annuale di commemorazione.
Fin quando il suo sartiame frondoso e avvolto d’erbe
non sarà rientrato al Porto di Atene
la vita della città sarà sacra.
Niente esecuzioni. Niente coppe di cicuta. Niente lacrime
e nessuno ora mentre il veleno fa il suo dovere
e l’esperto carceriere accompagna i presenti
lungo le fasi dell’intorpidamento. Socrate
al centro della città e del giorno
ha dimostrato che l’anima è immortale. Le foglie di bronzo
non riescono a crederci, c’è un tale silenzio…
Presto Critone dovrà chiudergli gli occhi e la bocca,
ma per il momento ogni cosa è un dolore
previsto, differito, immaginato, verissimo.
3
Mio padre sta arando uno, due, tre, quattro lati
del prato dove sto seduto, onniveggente
nel mezzo, la schiena al biancospino
che non fu mai tagliato. I cavalli sono tutti zoccoli
e fianchi bronzei, io sono tutto preveggenza.
Della poesia come un vomere che ruota il tempo
e lo capovolge. Della sedia con foglie
che la spina fatata sta inscrivendo al futuro.
Di essere qui, per sempre, in ogni senso.
Un cane latrava questa notte anche nella contea di Wicklow
Quando gli esseri umani scoprirono la morte
mandarono il cane da Chukwu con un messaggio:
volevano poter tornare alla casa della vita.
Non volevano finire persi per sempre
come legno bruciato dissolto in fumo
o ceneri soffiate via in nulla.
vedevano invece le loro anime gracchianti a stormo
appollaiarsi al tramonto allo stesso trespolo,
stessa aria frizzante e stiracchiarsi d’ali ogni mattina.
La morte sarebbe stata come una notte passata nel bosco:
al primo albore sarebbero tornati alla casa della vita.
(Il cane avrebbe dovuto riferire tutto questo a Chukwu)
Ma la morte e gli umani passarono in secondo piano
quando deviò trotterellando dalla via e prese a abbaiare
a un altro cane che nella luce del giorno abbaiava
a sua volta dalla riva di un fiume.
E così il rospo arrivò primo da Chukwu,
il rospo che aveva ascoltato per caso all’inizio
quello che il cane doveva riferire. “Gli uomini” disse
(e al rospo venne concessa fiducia assoluta),
“gli uomini vogliono che la morte duri per sempre”.
Allora Chukwu vide le anime delle persone negli uccelli
volanti a lui come macchie nere uscite dal tramonto
verso un luogo senz’alberi e trespoli,
nessuna via di ritorno alla casa della vita.
E la sua mente rosseggiò e si oscurò d’un colpo
e niente di quello che il cane gli disse più tardi
potè mutare la visione. Grandi capi e grandi amori
nella luce annientata, il rospo nel fango,
il cane latrante tutta la notte dietro la casa dei cadaveri.
La spiaggia
Anche la linea incerta tracciata dal bastone di mio padre su Sandymount Strand è qualcosa che la marea non porterà via.
Non credo ci sia viatico migliore per viaggiare nella poesia di Heaney—e a illustrazione della motivazione, ricordata da Lucio Mayoor Tosi, con cui l’Accademia di Svezia ha voluto assegnargli il più alto riconoscimento letterario: “la bellezza lirica e la profondità etica con cui ha dato voce e risalto alla dimensione miracolosa del quotidiano e al valore sempre attuale del passato” ,dei versi del testo ,” A Drink of Water/Un sorso d’acqua “:
Veniva ogni mattina ad attingere acqua
come un vecchio pipistrello percorrendo barcolloni il campo:
la tosse convulsa della pompa, lo strepito del secchio
e il lento diminuendo nel riempirsi
annunciavano il suo arrivo. Ricordo
il suo grembiule grigio, lo smalto bianco butterato
del secchio colmo e il cigolio
acuto della sua voce come il manico della pompa.
Notti in cui una luna piena saliva oltre il suo tetto
per ricadere dentro la sua finestra e posarsi
sull’acqua apparecchiata.
A cui ho attinto per bere ancora, per essere
fedele all’ammonimento sull’orlo della sua tazza,
Ricordati del donatore, quasi del tutto sbiadito.
Ammirazione profonda per l’eccellenza di cultura poetica e per la raffinatezza
di comprensione e interpretazione dell’altrui esperienza poetica
(a me del resto ben note e fertilmente operanti nella mia poesia)
di Rossana Levati, che qui ringrazio pubblicamente.
Ma profondissima ammirazione anche per Costantina Donatella Giancaspero
(che ha saputo confrontarsi con una delle più alte esperienze poetiche occidentali, quella di Heaney che “la marea non porterà via”, senza nessun turbamento, forte com’è Costantina della consapevolezza dei suoi mezzi
di analisi di un testo poetico, consapevolezza giancasperiana che si è
irrobustita e illimpidita sotto la giurisdizione linguaglossiana);
per Salvatore Martino che sa trovare sempre il varco giusto per inserirsi con competenza nei dibattiti alti, mentre in quelli medio-bassi sceglie d’essere un pò ‘brontolone’, ma sempre a vantaggio della vitalità schietta del confronto in atto;
per Francesca Diano, che torna fra di noi sempre dall’alto d’un magistero
di dottrina che ci illumina (come non potrebb’esser così da figlia di un
protagonista assoluto e indiscusso della cultura del ‘900, Carlo Diano?);
per Lucio Mayoor Tosi che sa sempre aggiungere un frammento decisivo al completamento del Tutto;
per Giorgio Linguaglossa verso cui la semplice ammirazione non basta, tanti sono i suoi meriti con cui ci nutre e ci arricchisce di pagina in pagina
de L’Ombra delle Parole.
Gino Rago
cara Francesca anch’io sono un ottimista per natura, prima o poi le «cose» si fanno largo in mezzo a miliardi di «non-cose»; questo è un punto che tengo ben fermo.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/30/seamus-heaney-morte-di-un-naturalista-e-altre-poesie-lo-specchio-mondadori-2014-pp-118-e-17-traduzione-di-marco-sonzogni-commento-di-donatella-costantina-giancaspero/comment-page-1/#comment-29256
Lo dico in due parole: ogni nuova poesia si afferma quando prende piede una nuova patria metafisica. Prima della nuova patria metafisica tutte le parole pronunziate e scritte sono cadute nel vuoto, e anche tutte le parole che esulano da quella patria saranno destinate a cadere nel vuoto. Le parole della poesia non sono cose casuali che accadano qui o là in base ad impulsi casuali. No, le cose non stanno così. Le «cose» obbediscono al disegno di una nuova patria metafisica, le parole di un mondo poetico abitano stabilmente una nuova patria metafisica. Fuori da quella patria, le parole diventano nomadi, vanno alla ricerca di una nuova abitazione dove alloggiare per l’inverno. Questo nomadismo può durare decenni o anche secoli, spesso accade che una lingua perda la propria patria delle parole per secoli, un po’ come è avvenuto all’Italia dopo la Controriforma, quando le parole del poetico se ne sono volate via per non farvi più ritorno se non con i due grandi dell’800 Foscolo e Leopardi… per poi addormentarsi di nuovo per svegliarsi con I canti orfici di Campana (1914) e gli Ossi di seppia (1925) e Le occasioni (1936) di Montale.
Quello che noi della nuova ontologia estetica possiamo fare è predisporre una nuova patria dove le parole del poetico possano di nuovo riprendere ad abitare. Tra qualche giorno, quando mi sarà passata la febbre, tenterò di portare qualche esempio di questo singolare fenomeno, delle parole che hanno ripreso ad abitare la nuova patria spirituale… parlerò del «limite» delle parole, che è il loro modo di essere vive nella finitezza e nel finito e nel concreto.
Caro Giorgio, un abbraccio (insieme a Costantina) per la passione e la fede che hai nella Poesia. Bellissima la tua ultima frase. E mi raccomando, riguardati!
@ Gino Rago. Caro Gino, grazie per le belle parole e per aver condiviso altri testi inviati dalla bravissima Rossana Levati. Un abbraccio anche a te.
P.S. sono Francesca Diano, non cambiarmi il cognome! ❤
A tutti un Buon Anno ricco di serenità, creatività e dialoghi profondi, che arricchiscono dentro con sé stessi e con gli altri. Possiamo tutti noi, come dice James Harpur "bere alla Fonte".
Oh sì, cara Francesca Diano, perdonami. Del resto, da un grande come
il Carlo Diano di “Forma ed Evento” non poteva che venire al mondo per noi
Francesca Diano….
Sereno e fertile 2018.
Gino (Rago)
Grande Gino!!
Complimenti a Costantina. Un autore da approfondire…
La nuova patria metafisica delle parole – Una poesia di Steven Grieco Rathgeb da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) – Lettura dei primi due versi di una poesia di Steven Grieco Rathgeb di Giorgio Linguaglossa
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/30/seamus-heaney-morte-di-un-naturalista-e-altre-poesie-lo-specchio-mondadori-2014-pp-118-e-17-traduzione-di-marco-sonzogni-commento-di-donatella-costantina-giancaspero/comment-page-1/#comment-29289
Sulla veranda: Meena e Beena Mathur
Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)
Le parole per entrare nella nuova patria metafisica hanno dovuto spogliarsi dei loro vestiti, hanno abbandonato sulla spiaggia la «musica», il peplo musicale nelle quali erano avvolte, hanno abbandonato l’io da cui quelle parole, come un oboe sommerso, sembravano provenire. Adesso sono davanti al mare dell’essere, nude, prive di abiti. Adesso, possono entrare nel mare dell’essere fino a scomparirvi.
Le parole sono queste: «Due sorelle», la «veranda», «vestiti», «giallo-sera», «Fuori, un giardino». Sono parole che il poeta mette sulla linea, anzi, allinea nel verso come una serie di fotogrammi privi di accompagnamento musicale; sono i singoli fotogrammi che fanno musica, non il contrario. Non ci sono verbi che fanno da veicolo musicale, i verbi sono banditi, ci sono solo «cose», «cose» mute, e le «cose» portano con loro dei «limiti», dei confini. Le «sorelle», la «veranda», i «vestiti», il «giardino» sono tutte «cose» corpose circondate da corposi limiti. Di colpo, scopriamo in poesia la pesantezza delle «cose», il peso dei loro confini, dei loro limiti.
Queste «cose» messe così le une accanto alle altre potrebbero sembrare un atto di barbarie poetica, intendo quel loro essere messe assieme senza alcun accompagnamento musicale, senza verbi musicali e senza l’io che fa da direttore d’orchestra. Ma è che qui non c’è bisogno di alcun direttore d’orchestra perché non c’è più una orchestra, come avveniva per la poesia del novecento europeo, da Seamus Heaney a Mark Strand, l’unica «musica» ammessa è la «musica» delle nude parole, delle nude «cose», con i loro confini e i loro limiti. Sono le «parole» le protagoniste della poesia. Nella nuova ontologia estetica sono le «parole» le vere protagoniste, le «parole» ci parlano, esse sanno molto di più di noi di quanto noi sappiamo di loro, perché adesso queste «parole» hanno preso a frequentare una nuova patria spirituale, hanno abbandonato per sempre l’antica patria musicale del novecento europeo per inoltrarsi in un nuovo dominio, in una nuova dimora del tutto priva degli antichi strumenti musicali dell’antica orchestra. Le parole si sono spogliate, sono diventate talmente nude da essere irriconoscibili.
Sulla veranda: Meena e Beena Mathur
Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)
Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –
e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti
Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano
perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori
Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa
agli stormi di piccioni in volo
agli aquiloni che danzano più su
alle rondini nel più alto
Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»
*
La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.
«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»
Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).
Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.
E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia
(un riflesso incantevole)
Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006
Katarina Frostenson Poesie (Crocetti, 2011) trad. di Enrico Tiozzo
Stirra
Stirra –
och ljus kom på: för – bländande –
ett myller, ett krypande, där, under ytan…
“Du är ju så vit”
“Varför kan du inte tala”
“Var börjar du, i vilken ände –”
*
…som anden i flaskan, snor sig en röst. Gå, säger rösten, gå,
gå, gå ut över marken – gå den ren, gå den rak – gå tills att
marken, tills blicken dras av…
*
Fissa
Fissa –
e la luce arrivò: per – accecante –
un brulichío, un serpeggiamento, là, sotto la superficie…
“Tu sei cosí bianco”
“Perché non puoi parlare”
“Dove cominci, a quale estremità – ”
*
…come il genio nella lampada, si attorciglia una voce. Va’,
dice la voce, va’, va’, va’ fuori sul terreno – va’ puro, va’ dritto
– va’ finché il terreno, finché lo sguardo è attirato da…
Emaljens vithet, tecknens vassa kanter, spetsens snabba
raspande: I lockelsen att gå samma väg dag efter dag finns –
något annat. Under vägen skall motorn stanna. Avstanna,
blottlägga. Barskrapa, renlägga –
Ren, sade du? Ren, det blir tyst efter ordet – kommer det
senare?
Som – ett dike. En grav. Som som, sudda ut likhetsledet –
Ett vitt fält sträcker sig, i oändlighet
Hus. Liten kulle. Tall. Dunge. Vita väggar, inne som ute.
Blå luckor, rök ur skorstenen: dag efter dag, det är avsikten.
Stirra, se detsamma, försök sluta skälva, bli stående kvar –
Vad är det som är så upprörande med en sovande människa.
Efter en stund. När man träder in i rummet och ser den
vita slätheten kan man erfara allvar, ro, ja, ett slags högtid.
Sedan vaknar det, oavvänt. Händerna röra. Händer, vill
röra. Lyfta på flikar, avtäcka, upptäcka. Se, vad finns under:
blottade tänder, grin, vithet…
Vakna, det gapande –
Kall, kallare, kallast – marken ger mindre svar för var
dag, det känns att kylan snart skall komma. Det knäpper i
väggarna. Elementet tar sats, summar för högtryck. En
hyacint, tidig, vit, lutar sig mot fönstret, tung, som ett
huvud…
Ett huvuds tyngd, att ta det med handen –
*
Il bianco dello smalto, i bordi taglienti dei segni, il raschiamento
veloce della punta: Nell’attrazione di camminare
per la stessa strada giorno dopo giorno c’è – qualcos’altro.
Lungo la strada il motore deve fermarsi. Arrestarsi,
mettere a nudo. Raschiare fino in fondo, fare pulito –
Pulito, hai detto? Pulito, si fa il silenzio dopo la parola –
verrà dopo?
Come – una fossa. Una tomba. Come come, cancella i trattini
dell’uguale –
Un campo bianco si stende, all’infinito
Casa. Collina. Abete. Boschetto. Pareti bianche, dentro
come fuori. Sportelli blu, fumo dal camino: giorno dopo
giorno, è l’intenzione. Fissa, vedi le stesse cose, cerca di
smettere di tremare, rimani in piedi – Che cosa c’è di cosí
sconvolgente in una persona che dorme. Dopo un po’.
Quando si entra nella stanza e si vede la liscia bianchezza si
può sentire qualcosa di serio, quiete, sí, una specie di solennità.
Poi si sveglia, senza togliere lo sguardo. Le mani toccare.
Le mani, voglio toccare. Sollevare i lembi, scoperchiare,
scoprire. Vedere quello che c’è sotto: denti esposti, smorfia,
bianchezza…
Sveglia, ciò che sta a bocca aperta –
Freddo, piú freddo, freddissimo – il terreno risponde di
meno per ogni giorno che passa, si sente che il freddo arriverà
presto. I muri mandano qualche schiocco. Il termosifone
prende la rincorsa, si prepara al superlavoro. Un giacinto,
precoce, bianco, si appoggia alla finestra, pesante, come
una testa…
Il peso di una testa, da prendere con la mano –
Buonasera e buon anno a tutti voi, amici dell’ “Ombra delle Parole”. Con il ritardo che purtroppo sta caratterizzando ultimamente i miei interventi a causa di impegni di lavoro che in questo periodo sono diventati pressanti,ringrazio Donatella, nostra infaticabile animatrice su l'”Ombra” e la “Scialuppa di Pegaso”, per questo contributo dedicato ad una delle figure senz’altro apicali della poesia mondiale del’900. Ringrazio anche Rossana Levati e Francesca Diano per i loro interventi esaustivi ed autorevoli, precisanti il quadro della formazione letteraria, il retroterra storico-antropologico, i contenuti ed il valore della poesia di questo portentoso poeta. Personalmente considero Heaney uno dei miei maggiori punti di riferimento da circa vent’anni e la sua poesia è per me uno scrigno di continuo disvelamento, attingimento di pagine e spunti di inestimabile bellezza e profondità poetica, nonché di rivelazione di un percorso esperienziale e sensibile nel quale mi ritrovo perfettamente. Le riflessioni di Rossana Levati e Francesca Diano riassumono egregiamente i motivi di attrazione che ho avvertito nei confronti di questo poeta da quando ho avuto modo di scoprirlo alla fine degli anni ’90 nonché in generale il coinvolgimento che ho sempre provato nei confronti della poesia e cultura irlandese, e mi stimolano ad una serie di riflessioni a me molto care, in quanto profondamente legate alla mia formazione personale. Per quanto mi riguarda, considero ritengo Heaney la voce novecentesca di maggior spicco della feconda tradizione irlandese, tradizione capace a sua volta di influenzare profondamente la poesia europea contemporanea grazie – come sottolinea la Diano – alla forte radice identitaria che ne costituisce il substrato ed alla cui definizione la poesia stessa così come la musica, ha contribuito enormemente. E’ indubitabile del resto, che il ‘900, secolo della globalizzazione culturale per eccellenza (non paragonabile come portata e dirompenza ai processi di omogeneizzazione politico-culturale condotti dagli imperi d’ “ancien règime”) sia stato segnato storicamente e sociologicamente dal tema delle identità e delle tradizioni culturali, che senz’altro ha determinato le derive che purtroppo abbiamo tragicamente imparato a conoscere (o dovrei piuttosto dire dovremmo aver imparato a conoscere, vista le tendenze pericolosamente affermatesi nell’Europa di oggi, che è poi identica all’Europa di ieri) laddove il potere sia riuscito a titillarne la componente conservatrice che vi si annida (come egregiamente illustrato da Eric Hobsbawm ne “L’invenzione della tradizione” ) ma che indubbiamente nella sua accezione progressista ha avuto il merito di sottoporre alla sensibilità intellettuale occidentale contemporanea l’idea di una pluralità di “Weltanschauungen” contro l’omogeneizzazione del pensiero dominante, andando alla radice delle manifestazioni antropologiche dell’umano agire e contribuendo ad ampliare il nostro paradigma intellettuale (non è un caso del resto che tale orizzonte sia andato diffondendosi parallelamente all’affermazione di una scienza cui sono molto legato come l’antropologia).
In tale contesto è inevitabile che anche la creazione artistica ed intellettuale “tout court” sia stata arricchita dal contributo di tale riflessione:basti pensare, per quanto riguarda specificamente l’ambito poetico e musicale – come sottolineato da Francesca Diano – alla fiorentissima ricerca maturata sul filone della produzione popolare, che per quanto rappresenti un concetto discusso e discutibile metodologicamente e che ha assunto risultati e coloriture differenti in base all’impostazione ideologica ed alle spinte prevalenti nelle varie realtà, ha conferito una tensione sociale ed ideale, nonché un ampliamento di orizzonti, “territori”, soluzioni espressive alla poesia ed alla musica, altrimenti inimmaginabili. Ciò ha determinato conseguentemente una grande influenza, sulla scena culturale occidentale, da parte delle esperienze legate a quelle realtà che avendo saputo perpetuare tale loro sistemi di valore e visione del mondo, hanno saputo nel contempo innovarle e attualizzarle. Il panorama della poesia irlandese novecentesca si è rivelata in questa cornice una delle più influenti per la sua particolare complessità: paese che ha mantenuto a lungo una sua radice contadina (forse come accaduto con la stessa longevità solo in Portogallo, per quanto concerne il nostro emisfero continentale) e caratterizzato da una lunga storia di oppressione non solo sociale, ma altresì nazionale, ha definito un’idea di poesia, partendo dalla sua matrice popolare, “olistica” o appunto “antropologica”in grado di affrontare qualunque istanza dell’orizzonte della vita umana; vi ritroviamo così tematiche storiche, politiche e della quotidianità – come accade a certa tradizione poetica latino-americana e di certi paesi africani – accanto al legame mi(s)tico con la natura, tipico della poesia nord europea; è una poesia “tellurica”, in cui però l’importanza della terra diviene un paradigma universale; è espressione di una cultura che ha nella radice cattolica uno suoi elementi distintivi, ma al tempo stesso è intrisa di un retaggio pagano-magico che ne affievolito di molto il rischio di degenerazione delle poesia in senso ieratico o dogmatico, conferendole al contrario una grande tensione vitale; è una poesia con i piedi tuttora molto ben radicati nelle proprie radici, che le servono però soprattutto da trampolino verso la modernità e non a caso quasi tutti i grandi poeti irlandesi (ed Heaney in primis) sono paradigmatici del tentativo di percorrere di percorsi poetici innovativi. Inoltre l’Irlanda non è mai stata sottoposta ad un regime totalitario per cui ha sempre goduto di libertà d’espressione (a differenza di altre aree geografiche che hanno sofferto di una perdurante condizione di dominazione) ed ha potuto beneficiare (per quanto attiene alla possibilità di diffusione della propria produzione intellettuale) dell’inserimento nel “milieu” linguistico inglese, accresciuto ulteriormente in seguito alla “diaspora” oltreoceano, con il suo conseguente innesto nel panorama statunitense, conservando sempre i propri tratti peculiari. Infine a partire dagli anni ’90 l’Irlanda ha conosciuto uno sviluppo improvviso passando direttamente da paese contadino a post-industriale, diventando emblema di uno sviluppo economico sostenibile (per quanto i grossi investimenti finanziari esteri attratti da condizioni fiscali particolarmente favorevoli le abbiano fatto conoscere alcuni degli aspetti più selvaggi del nuovo capitalismo finanziario, ma questo è un altro capitolo) divenendo una cultura di riferimento per molti giovani intellettuali. Tanti sono le grandi voci emerse nel panorama della poesia irlandese del secondo dopoguerra che si sono imposte tra le espressioni principali della scena poetica internazionale: basterebbe citare Louis Mc Niece (il quale, per quanto attivo soprattutto in ambiente inglese si inscrive pienamente in questa florida tradizione) e Patrick Kavanagh nella prima parte di questo periodo (pur essendo nati entrambi all’inizio del secolo, sono entrambi protagonisti del rinnovamento del linguaggio della poesia irlandese del novecento) per proseguire con lo stesso Heaney, Derek Mahon, Michael Longley e chiudendo con Paul Muldoon, di cui Heaney è stato mentore; in tutti queste grandi figure di poeti sono rintracciabili diversi tratti caratteristici di quest’eredità che ne testimoniano la grande vitalità; basti vedere in Kavanagh, Muldoon e nello stesso Heaney, la frequenza con cui compaiono (in alcuni casi anche come vere e proprie eulalie, come in Muldoon ad esempio) i vari toponimi irlandesi, da intendersi però come vera e propria cornice cosmica prima che fisica, veri e propri topoi letterari. Una poesia sempre viva e continuamente in rinnovamento nella sua tradizione, quella irlandese, indicatrice di nuove possibili strade di rinnovamento per la poesia europea e mi piace evidenziare come in tal sens Heaney stesso possa costituire un punto di riferimento per chi, come i poeti dell’ “Ombra”, è impegnato nel tentativo di disincagliarsi dalle secche del linguaggio poetico sclerotizzato dal peso dei “lignaggi di potere”. Chiedo scusa per la lunghezza del mio intervento, ma Heaney e la poesia irlandese sono tra i miei maggiori punti di riferimento. Buona serata-