
la «svalutazione dei valori» è diventata una «condizione normale» «Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso»
Ernst Jünger in Oltre la linea (1955) sviluppa una comprensione del nichilismo come espressione di una «svalutazione dei valori», diventata una «condizione normale», onniavvolgente e onnipresente. Per Jünger ogni contatto con l’assoluto è diventato impossibile o problematico. Lo scrittore tedesco distingue un nichilismo attivo e uno passivo, forte e debole, ma resta fedele ad una concezione del nichilismo che consente un contro movimento salvifico; Jünger pensa che sia possibile, in qualche modo, uscire fuori del nichilismo, andare «oltre» la «linea». Insomma, Jünger ha una visione ancora ottimistica del nichilismo, pensa ancora in termini di «superamento» e di «contro movimento» a partire dalla diagnosi di Nietzsche e di Dostoevskij. Jünger pensa sì, in conformità con Nietzsche, che ciò che sta per cadere deve essere lasciato cadere, anzi, aiutato a cadere, ma vede al termine di questa caduta, l’orizzonte di un cominciamento, di un «contro movimento», vede possibile l’attraversamento del nichilismo, che, insomma, la meta ultima si avvicina. Attraversare la «linea» significa giungere in una dimensione dove il nichilismo diventa una condizione normale e un aspetto normale della realtà. Dove tutto è in gioco, scrive, non si tratta di gettare ponticelli sopra l’abisso, non sono sufficienti le strategie di contenimento… Jünger raccomanda una sorta di «resistenza» che consenta, nel mezzo del nichilismo dispiegato, di trovare delle «oasi» di sopravvivenza, di libertà (la morte, l’amicizia, l’arte, l’eros) nelle quali coltivare territori di verginità della interiorità nelle quali l’individuo riesca a contenere l’avanzare del «deserto» del nichilismo. Ecco come Franco Volpi sintetizza la posizione di Jünger :
“Come in quest’epoca la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente, parimenti nel campo dello spirito ogni sicurezza si fa problematica, si sgretolano le costruzioni sistematiche delle filosofie barocche e il pensiero va in cerca di nuovi appigli: la gnosi, i presocratici, gli eremiti della Tebaide. Il comune carattere sperimentale di pensiero e poesia corrisponde in modo essenziale alla situazione epocale del nostro tempo. In questo senso Jünger è solidale con la tesi heideggeriana della «viaticità» del pensiero, del suo essere continuamente «in cammino» per sentieri «interrotti», del suo orientarsi su semplici «segnavia»”.
Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente
e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca
Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano,
che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?
La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere
a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano
sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.
Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti,
antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa
allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte. 1]
La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.
La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa.

Il nichilismo. Non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia.
A Jünger risponde Heidegger nel 1960 correggendo il tiro e la gittata della sua riflessione sul nichilismo. Ma Heidegger pensa invece in modo più radicale il fenomeno del nichilismo che non può essere confinato in una sorta di «malattia» da cui se ne può uscire, in qualche modo, guariti dopo aver apprestato delle cure. Il filosofo tedesco pensa semplicemente che dal nichilismo non se ne esca affatto e che tutto sta nel prenderne atto. Sostare e camminare nel nichilismo, soltanto questo possiamo fare, e «soltanto un dio ci può salvare.
Il tentativo di attraversare la linea resta in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Ed è per questo che esso si esprime ancora con i concetti fondamentali della metafisica (forma, valore, trascendenza).
In che linguaggio parla lo schema fondamentale del pensiero che prefigura un attraversamento della linea? Il linguaggio della metafisica della volontà di potenza, della forma e del valore deve essere salvato al di là della «linea» critica? E in che modo, se proprio il linguaggio della metafisica e la metafisica stessa, sia essa del Dio vivente o del Dio morto, hanno costituito in quanto metafisica il limite che impedisce il passaggio oltre la linea, cioè l’oltrepassamento del nichilismo? Se le cose stessero così, l’attraversamento della linea non dovrebbe necessariamente implicare una trasformazione del dire, e richiedere un mutato rapporto con l’essenza del linguaggio? E ancora, il suo riferimento al linguaggio non è tale da richiedere anche da parte sua un’altra caratterizzazione del linguaggio concettuale delle scienze? Se spesso ci si rappresenta questo linguaggio come nominalismo, è perché ancora si rimane irretiti nella concezione logico-grammaticale dell’essenza del linguaggio.
Scrivo tutto questo in forma di domande, perché non vedo che cosa oggi un pensiero potrebbe fare di più se non pensare incessantemente su ciò che provoca queste domande. Forse arriverà il momento in cui, per altre vie, l’essenza del nichilismo si mostrerà più chiaramente e in una luce più viva. Per ora mi accontento di presumere che il solo modo in cui potremmo meditare sull’essenza del nichilismo sia quello di imboccare innanzitutto la via che conduce a una localizzazione dell’essenza dell’essere. Solo per questa via è possibile localizzare la questione del niente. Senonché, la questione dell’essenza dell’essere si estingue se essa non abbandona il linguaggio della metafisica, perché il rappresentare metafisico impedisce di pensare la questione dell’essenza dell’essere.
Dovrebbe risultare evidente che la trasformazione del dire che pensa all’essenza dell’essere è sottoposta ad altre esigenze che non al cambio di una vecchia terminologia con una nuova.
*
Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso.
Il nichilismo. Non serve a niente metterlo alla porta,
perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa.
Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia.
(Martin Heidegger)
*
[Franco Volpi: «la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente»]
Ecco cosa scrivevo in una lettera postuma all’amico poeta Ubaldo de Robertis [qui sopra], dopo la sua dipartita:
Ecco, caro Ubaldo, il senso di quanto ti volevo dire…
io penso che dobbiamo giungere al punto che dobbiamo cessare di ragionare in poesia come se fossimo nel mezzo di un discorso politico che si fa nell’agorà, dobbiamo pensare più in grande e in altezza al discorso poetico come quel luogo nel quale cessiamo di ragionare con le categorie della metafisica che conosciamo. Soltanto così possiamo sperare di giungere al punto più alto di quella metafisica, quel punto, in cima ad una collina, dal quale lo sguardo può dilagare e osservare con distacco quanta strada abbiamo percorso, senza la presunzione di essere giunti al traguardo ma accettando quel limite che è interno al nostro guardare come al punto più alto cui possiamo tendere.
«Il più inquietante fra tutti gli ospiti», il nichilismo, è qui.)
io penso che dobbiamo accettare tutta la responsabilità del «niente» che ci sovrasta e ci sommerge, dobbiamo stare tutti quanti nella stessa barca anche in mezzo alle agitate onde del mare, dobbiamo prendere atto di questa situazione senza pensare di uscirne con dei giochi o dei mottetti di spirito come fanno i poeti deboli, i quali giocano con le parole come bambini pensando che il gioco li metta al riparo dai pericoli di essere sommersi dal mare. Questi sono semplicemente dei bambini che suonano le trombette e i tamburi mentre scrivono al pc le loro piccole poesie dello svago. No, io penso che compito del poeta sia lo stare «in cammino» senza illudersi di giungere ad una pur qualsivoglia oasi dove si possa sostare per riposarsi dal viaggio, no, questa è una mera illusione da spiriti deboli, noi non possiamo che continuare il nostro cammino, non ci è data altra scelta…
(Giorgio Linguaglossa)

il nihilismo è inoltrepassabile
Giacomo Marramao
Quello che Nietzsche chiama «oltrepassamento» (Uberwindung), per Heidegger altro non è che un «compimento» (Vollendung). E ciò per la semplice ma fondamentale ragione che il nihilismo è inoltrepassabile. Con identico schema, la morsa della tenaglia si stringe puntualmente anche sulla proposta jüngeriana di andare über die Linie, oltrepassando il «meridiano zero» del nihilismo: «Il tentativo di oltrepassare la linea», obietta Heidegger a Ernst Jünger, «resta in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere». Ogni tentativo di oltrepassamento della metafisica è per sua natura destinato a replicarne i caratteri, ridisegnando la traiettoria di quel paradossale cammino che si trova stranamente ricacciato in circolo. Da sempre inclusa nel nihilismo è, sotto questo profilo, ogni idea di redenzione: non solo in quanto si esprime con «i concetti fondamentali della metafisica (forma, valore, trascendenza») ma in quanto implica un’eccedenza energetica, dunque una potenza, tale da produrre una fuoriuscita dal tempo storico.
La formula chiave adottata al riguarda da Heidegger è che «il rovesciamento di una tesi metafisica rimane una tesi metafisica». Non si vede però perché mai una tale formula, nel suo carattere di pass-partout, non possa essere applicata anche al suo stesso pensiero della differenza ontologica, bollando così «la questione dell’essere» come mero «rovescio del guanto» della nomenclatura ontica. Una tale mossa vale, naturalmente, per quel che è: pura e semplice ritorsione. Essa appare tuttavia pienamente autorizzata dalla necessità di fronteggiare il dispositivo a tenaglia heideggeriano, facendo innanzitutto valere nei suoi confronti un contro-argomento decisivo: investire sempre e comunque l’errore della luce destinale della verità è un modo di neutralizzarlo, ribaltando così la questione della verità stessa in quella della legittimazione, in ultima analisi dispotica, di ogni «accadere».
(Giacomo Marramao Minima temporalia. Tempo spazio esperienza, luca sossella ed., 2005)

Letizia Leone con Pepito e, dietro, si notano Antonio Sagredo e Giuseppe Talia – Roma, Fiera del Libro, Convention Center, 8 dicembre 2017, Sala Marte, Presentazione della collana di poesia di Progetto Cultura e della rivista ‘Il Mangiaparole’
Letizia Leone
Due poesie inedite in tema “Nichilismo”
I
Non era terra. Era farina nera
dell’Impero scartata
allorché scavarono la galleria.
Qualche chicco calcareo strozzò la pinza.
Tutte le macchine del cantiere, allora,
si incepparono
nel dolore. Perché anche l’uva
rinvenuta ha un sottosuolo
di crateri e nodi.
Quel vino spento
lubrificò gli attrezzi
nel fianco chiuso dell’enorme sasso.
Polverizzata roccia
terra barbara
e denti d’oro
voltolarono
all’avviamento dei compressori.
II
Sacchi di sale.
Sacchi amari e calce bianca dirompente
Per costruire i solidi che credevamo
Monumenti.
Qualcuno o qualcosa ancora lavora
Alla salatura dei sassi. Ad allineare
I ciottoli bianchi asciutti
il suono raggelato di meteoriti marine.
Ma chi sfracella la pietra
(astrale inerte fisarmonica)
non sa che fu stata una cetra.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28443
Pubblico qui alcuni haiku del poeta finlandese Robin Valtiala da lui tradotti in italiano perché, al di là dell’impossibilità di tradurre in italiano lo schema metrico dell’haiku giapponese: “5-7-5”, tuttavia questi haiku ci danno la netta percezione di quanto questa forma metrica e metafisica sia adatta ad imprigionare il nulla del nostro tempo nichilistico (tanto per restare in tema). Anch’io sono profondamente convinto di quanto sta scritto nel post: Franco Volpi: «la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente»…
Robin Valtiala 21:57 (12 ore fa)
Buon giorno Giorgio!
Ecco alcuni haiku di più. (La versione svedese, in alcun caso è un po’ differente dall’italiano, per il ritmo e le possibilità semantiche differenti.)
Saluti, Robin
al primo soffio di vento
cade tutta la neve
e si vede l’ubriachezza
*
vid första vindpust
faller all snön av
och man ser berusningen
*
alfarovine
qua risiedette
e risiede
alfaruiner
här har residerat
och residerar
*
gonna lunga
dizionario per ballare
coi fiori
lång kjol
ordbok för att dansa
med blommorna
*
il cammino di ritorno
alla stanza da letto – passeggino
in sopravvelocità
vägen tillbaka
till sovrummet – barnvagn
i överhastighet
*
bassa marea, come nuova
sashimi e altri sentimenti aperti
lågvatten, som nytt
sashimi och andra öppna känslor
*
mamma
vieni
whisky
mamma kom hit
snaps
*
prima del sonno
lingue di tutti i colori
che penso studiare
före sömnen språk
i alla färger som jag
tänker studera
*
archeologo al contrario
dove sono sparite le nozze?
arkeolog tvärtemot
vart tog bröllopet vägen?
*
oggi mi piace la terapia
sono lomb e rico
idag lycklig i terapin
är både dagg och mask
*
guardo la vedova nera
nella fessura – il vino
ha ancora più sapore
tittar på svarta
änkan i skarven – vinet
får ännu mer smak
Ecco un epitaffio per il nichilismo
What is the word (Qual è la parola)
di Samuel Beckett
(traduzione di Rosangela Barone)
Follia –
follia per verso –
per verso –
qual è la parola –
follia dopo questo –
tutto questo –
follia dopo tutto questo –
dato –
follia dato tutto questo –
vedere –
follia nel vedere tutto questo –
questo –
qual è la parola –
questo questo –
questo questo qua –
tutto questo questo qua –
follia dato tutto questo –
vedere –
follia nel vedere tutto questo questo qua –
per verso –
qual è la parola –
vedere –
intravedere –
parere di intravedere –
bisognare di parere di intravedere –
follia per bisognare di parere di intravedere –
che cosa –
qual è la parola –
e dove –
follia per bisognare di parere di intravedere che cosa dove –
dove –
qual è la parola –
là –
laggiù –
distante laggiù
lontano –
lontano distante laggiù –
dileguante –
dileguante distante lontano laggiù che cosa –
che cosa –
qual è la parola –
vedere tutto questo –
tutto questo questo –
tutto questo questo qua –
follia per vedere che cosa –
intravedere –
parere di intravedere –
bisognare di parere di intravedere –
dileguante distante lontano laggiù che cosa –
follia per bisognare di parere di intravedere dileguante distante lontano laggiù che cosa
che cosa –
qual è la parola –
qual è la parola
(traduzione di Rosangela Barone)
What is the word
folly –
folly for to –
for to –
what is the word –
folly from this –
all this –
folly from all this –
given –
folly given all this –
seeing –
folly seeing all this –
this –
what is the word –
this this –
this this here –
all this this here –
folly given all this –
seeing –
folly seeing all this this here –
for to –
what is the word –
see –
glimpse –
seem to glimpse –
need to seem to glimpse –
folly for to need to seem to glimpse –
what –
what is the word –
and where –
folly for to need to seem to glimpse what where –
where –
what is the word –
there –
over there –
away over there –
afar –
afar away over there –
afaint –
afaint afar away over there what –
what –
what is the word –
seeing all this –
all this this –
all this this here –
folly for to see what –
glimpse –
seem to glimpse –
need to seem to glimpse –
afaint afar away over there what –
folly for to need to seem to glimpse afaint afar away over there what –
what –
what is the word –
what is the word
Comment dire
folie –
folie que de –
que de –
comment dire –
folie que de ce –
depuis –
folie depuis ce –
donné –
folie donné ce que de –
vu —
folie vu ce –
ce –
comment dire –
ceci –
ce ceci —
ceci-ci –
tout ce ceci-ci –
folie donné tout ce –
vu –
folie vu tout ce ceci-ci que de –
que de –
comment dire –
voir –
entrevoir –
croire entrevoir –
vouloir croire entrevoir –
folie que de vouloir croire entrevoir –
quoi –
comment dire –
et où –
que de vouloir croire entrevoir quoi où –
où –
comment dire –
l à –
là-bas –
loin –
loin là là-bas –
à peine –
loin là là-bas à peine quoi –
quoi –
comment dire –
vu tout ceci –
tout ce ceci-ci –
folie que de voir quoi –
entrevoir –
croire entrevoir –
vouloir croire entrevoir —
loin là là-bas à peine quoi –
folie que d’y vouloir croire entrevoir quoi –
quoi –
comment dire –
comment dire
A proposito di nichilismo
Una poesia inedita di Francesca Dono
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28445
(trad. in inglese di Adeodato Piazza Nicolai)
–estemporaneaxyf13–
non a caso nessuno più
per la cura del vento. Le bandiere
si spaccano primitive e scialbe sopra
un reticolato senza ossigeno. Tutto
intanato come un bugiardino scritto
con le dosi dell’attesa. Qualche pezzo
cade rosso. Altri fili figliano un debole
riflesso azzurro. Noi in un solo sorso
d’acqua. Dietro l’impalcatura delle
rocce piene o sotto la luna che ingialla*
sempre daccapo.
–estemporaneaxyf13–
not because of casuality
no one is able
because of a caring wind. Split
flags primitive and bland above
an oxygenless wire fence. All is
encaved as in a bugiardino maked
with the dosage expected. Some piece
falls in red. Other threads sre birthing one
feeble turquoise riflex. Behind the supports
of full stones or under a yellowing moon
it begins again.
© 2017 English translation by adeodato piazza nicolai of the poem -estemporaneaxyf13- by Francesca dono. All Rights Reserved.
[Note: “bugiardino” is the instructions sheet inserted in all medicine receptacles that gives all the informations on chemical composition, negative reactions, etc. of the medicine enclosed.]
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28446
Come Heidegger accusa Nietzsche di non aver superato, come pretendeva, ma rovesciato la metafisica ponendo, con la volontà di potenza, un altro principio metafisico, si potrebbe, come fa Marramao, individuare nell’interdetto di superare il confine essere-nulla, che sancisce la prospettiva metafisica, il fondamento metafisico posto a sua volta da Heidegger.
In realtà la sua soluzione al “venir meno del linguaggio” nell’analisi ontologica di ” Essere e tempo”, proposta in “Sentieri interrotti”, è di affidarsi alla poesia, intreccio di pensiero e canto, logos e patos, unica dimensione linguistica e ontologica in cui si possa ricostruire una relazione integra e funzionale fra pensiero ed essere.
Ma quale poesia? Celan nel “Meridiano” la identifica misteriosamente con il grido suicida di Lucille Desmouline : “viva il Re !”, pronunciato sotto la gigliottina dei rivoluzionari che ha appena giustiziato il suo amato marito.
Un gesto di ribellione e martirio in ricordo d’un amore perduto, per liberarsi d’un potere odiato e illegitimo!
Ecco la mia rappresentazione della tenebra che occupa il posto della perduta divinità.
Decalogo
(dell’Assenza sottile)
Io sono il nulla che hai creato:
1) Puoi conoscere tutto tranne me
2) Moltiplica le fatue prospettive
della mia inesistenza
3)Dimentica ogni mio riflesso
4) Distruggi il seme della memoria
5) Desertifica la mia dimora
6) Dissemina dubbi e desidèri
7) Cattura ogni falso richiamo
8) Dipingi d’essere la menzogna in cui esisti
9) Adesca i sogni della pallida viaggiatrice
10) Raccogli le ferite del silenzio
Alfonso Cataldi
I pesci cercano nervosamente
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28448
Hanno letto tutto
quello che si poteva scrivere a riguardo.
Nessuno ha l’alibi
non c’è un fascicolo segreto.
Si siede, ripone i documenti nel cassetto
gentilmente rilegati. Le sfiora il ginocchio.
Il quadro finisce qui.
I pesci cercano nervosamente la sorpresa da indovinare
un pellicano al davanzale ha portato notizie confortanti dall’oceano:
niente di tutto questo.
Le melanzane fritte sono pronte per essere infornate
curva sotto il peso del ragionamento
la giravolta degli anni
galleggiano nell’olio esausto
lievi che nessuno sa afferrarli.
Non un fioretto che punga la postura distratta.
Sfugge l’urto in prossimità dell’urto.
Posto qui tre poesie di
Lucio Mayoor Tosi
(dal suo blog https://mayoorblog.wordpress.com/2017/11/05/il-titolo-del-brano/ )
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28451
Il titolo del brano
Piove? Mettetevi sotto questo ombrello.
Anime inquiete. Muovete il bacino, scimmie fate all’amore
seguite il ritmo dateci dentro; il corpo sa dove agitarsi
gli fa bene come l’acqua alle montagne; seguite il fiore
che corre nel fiume; che porta al mare una nota sto-
nata, fuori tempo massima apertura, urlo!
Piaciuta?
Allora guardami ma senza guardarmi. E io non ti vedo.
Tu sei me fuori di me per il vestito rosso fuoco. Tu le mie braccia, tu la morbidezza dei miei fianchi sulla campana a morto
dei tuoi lunghi capelli.
Lenta sera. Passano labbra rosse sull’autostrada.
Gli occhi della femmina indagano tagliando il burro come stella.
Pausa. E ora tenete la damigella per le dita mentre ruotate come dervisci
ricoperti da serpenti velenosi.
Lento veleno.
E’ il titolo del brano.
*
Un pupazzo di neve giunto dalla Norvegia
sta impazzendo di caldo sulla piazza circondata da rondini.
Nel vicolo, una stella di molti triangoli tocca le persone sul cuore.
Sgorga una fontanella di sangue mentre non passa nessuno.
Le rose non possono farci niente.
Morire e vivere sono pensieri. Soltanto pensieri.
Prima che faccia notte avrò terminato il tabacco.
Qualcuno è stato qui! Il primo fantasma umano
in grado di indossare scarpe e maglia.
Il fantasma è ben visibile tra gli occhi.
Un cane attraversa la distanza. E se ne dimentica.
Il tempo sfreccia sulla via.
Sul bordo gli sterpi si sono dati adunanza.
Dev’essere ora di cena.
*
Lungo il viale del tempo
– oh, grazie! Che immagine romantica.
… dove nascono ad aprile le cavallette
e a giugno le prime aragoste
dentro la scatola bianca dei souvenir,
per un soffio, il forte vento fa tremare
le statue sui basamenti.
Sì, è scritto nell’articolo di una rivista letteraria:
“Nella realtà inquieta dei poeti, tutte le cose
sono immense, o infinitamente piccole”
e
“L’anello grigio del secolo scorso
potrebbe ustionare chi lo porta al dito. Farlo piangere”.
– Oh, Il canto silenzioso delle lumache!
L’oasi K2 quando arrivano rifornimenti e libagioni!
Le prime Candies Blue alla frutta danese!
Il bel tramonto su Baudelaire!
A pagina chiusa, il libro narra di noi
nel Mausoleo del Parlamento.
Non un granello di polvere tra i corpi
refrigerati.
Ho lasciato il mio guardaroba
tra mille anni.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28453
Da lettore e in piena coscienza di non potermi intromettere tra questa disputa tra titani, Jünger e Heidegger, risponderei così – come indicato, e spero si capisca, nell’esempio di questa mia poesia, scritta ieri quando ancora non sapevo di questo nuovo articolo di Giorgio Linguaglossa – alla questione posta tra niente ed essere.
In realtà a lui piace questo niente.
E’ come avere tutto. Piscina, Lamborghini
e di fronte le Alpi. Ma soprattutto tempo
come piovesse.
Oggi andremo in direzione opposta al Mondo.
Verso il passato!
Attraverseremo la Birth Gallery – ingresso scolpito
con figure intrecciate, più fitte che a Khajuraho.
All’uscita ci aspetta una barca attraccata a riva
sul fiume che scorre lento.
Gli dico di stendersi sul fondo della barca
e di lasciarsi trasportare.
– L’aria sa di pop corn.
Sono a New York. Cerco un pezzo di ricambio
per la mia moto. Chissà perché nel quartiere cinese.
Nessuno mi dà retta e comunque parlano tutti
una lingua diversa dalla mia.
In un negozio chiedo se hanno della stoffa
color zafferano. Gli mostro la fotografia della motocicletta.
«La ragazza seduta sul sellino si chiama Dorothy».
Non c’è verità, dice il cinese.
Qui tutto sa di mandorla e pescheria.
Forse non è New York. Non trovo quello che cerco
né so cosa sto cercando. Ho novant’anni. Mia figlia
è morta tanto tempo fa.
Sulla strada rossa passa come vento un ricamo d’oro.
Sole nel grigio. Vorrei tornare.
Vorrei tornare.
Una poesia del ‘primo tempo’ poetico di A.M.Ripellino
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28483
RONDINI AL SIMETO
1
Alberi rossi e salici di onde
alle sponde del pallido Simeto,
bosco d’acqua e di stelle,
pioggia dai freschi ulivi, dolce autunno.
Di scura argilla rondini sui rami,
tra amare foglie, guardano nel fiume.
Alghe solleva il vento attorno al bosco;
e nel fruscio di salici alla luna
cantano i grilli in mezzo all’erba bianca.
2
Neve sulle ginestre del Simeto,
canne alla riva, inverno senza stelle.
Come candele i rami fanno luce
nelle notti di vento, all’acqua grigia.
E conchiglie di neve dentro il prato,
aghi di pioggia brillano sui pini.
Nel Simeto d’argento e di corteccia
è fredda l’acqua; ma agli alberi rossi
torneranno le rondini d’aprile.
Angelo Maria Ripellino
(«Roma Fascista», 4 febbraio 1943, p.3)
GR
Una lettura di J. Ritsos
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28518
Leggendo la pagina odierna dedicata al nichilismo, ancora una volta ho pensato ad alcuni testi di J. Ritsos. Nei suoi poemetti dedicati ai personaggi del mito classico (“Quarta dimensione”, traduzioni di Nicola Crocetti, 2013) affiora infatti sempre più nettamente la consapevolezza dell’inutilità del vivere umano, proteso a rincorrere fama, gloria, onori ma destinato a sprofondare nell’abisso.. Solo alcuni personaggi, chi attraverso il dolore del ritorno come Agamennone, chi attraverso la sofferenza della perdita o della sopravvivenza, come Clitemnestra, Elettra ed Ifigenia, comprendono questa amara inconsistenza della vita. Le immagini poetiche che vogliono esprimere questa consapevolezza si rincorrono e si chiariscono via via da un poemetto all’altro.
Una, la più potente tra tutte, verte sulla fragile delicatezza delle nostre vite “di vetro”, della gloria “di vetro”; ma di vetro è tutto, anche ciò che pare più solido, come le pareti delle case, come il muro su cui poggia nel sonno il nostro piede, tutto destinato a essere inghiottito dal niente. L’unica cosa “immortale” è la vanità dell’essere.
Nell’”Agamennone” l’eroe dichiara:
“A poco a poco tutto si è denudato, placato, sono diventati di vetro
le pareti, le porte, i tuoi capelli, le mani –
una sublime trasparenza di vetro . che neppure il fiato della
morte appanna;
oltre il vetro distingui il nulla indivisibile –
finalmente qualcosa di intatto-
quella prima invulnerabile integrità, come l’inesistenza.”
E poco oltre:
“Ma, di nuovo, in quest’ora mi domando
(…) – quale mai nuova maschera
di vetro infrangibile sul mio fragile viso di vetro ¬-
una grande maschera cava, prosecuzione del mio viso,
espressione di me,
sospesa in alto, davanti alla reggia, alla metopa della porta,
unico blasone mio personale, non della dinastia. Certe volte
credo
che tutto sia avvenuto solo perché un giorno io lo ricordi
o meglio, forse, perch’io ne scopra l’immortale vanità”.
E’ poi Clitemnestra che amplia questa espressione ne “La casa morta” e ne da’ una giustificazione, trasformando l’espressione in un ritornello ossessivo:
“Venga pure il padrone”, disse nostra madre la signora
“Che sia il benvenuto. Anche lui di vetro.
Di vetro. Di vetro. Eccolo – anche noi conosciamo quell’occhio_
sì, lo abbiamo anche noi al centro della fronte.
L’abbiamo imparata bene anche noi, la morte. Sappiamo.
Vediamo. (…)
“Sia benvenuto il padrone di vetro con la spada di vetro
dalla sua sposa di vetro, dai suoi figli di vetro,
dai suoi sudditi di vetro, trascinandosi dietro
greggi di vitrei morti, vitree prede, vitree schiave,
vitrei trofei. Suonino dunque la campane;
le sentinelle accendano i segnali di fuoco da un’altura all’altra
per la nostra vittoria di vetro- sì, la nostra vittoria. (…)
E voi, schiave, cosa aspettate? Preparate
i cibi di vetro, i vini di vetro, la frutta di vetro.
Arriva il nostro padrone di vetro. Arriva”
Ed è ancora la figlia Elettra che nel finale dello stesso poemetto dice:
“Ah, non ho visto niente e non ricordo; solo quella squisita
sensazione,
così nobilmente sottile, di cui ci fece dono la morte: vedere
la morte
fino alla sua trasparente profondità. E la musica continuava
come a volte ci svegliamo presto senza motivo (…)
e il tempo è indifferente ed estraneo
come uno sconosciuto che è passato tranquillo nella via di
fronte
senza considerare o guardare la nostra casa”
Sopravvive solo la materia del mondo, l’albero che cresce e inconsapevolmente porta frutti rinnovando la sua vita nel tempo: ma anche nell’albero il tarlo rode il legno da dentro, anche nella cantina il ragno tesse la sua tela mentre tutto marcisce:
“Forse gli alberi capiscono
meglio di noi;
non si fanno domande sulle loro foglie e sui fiori,
perciò fruttificano.”
“Ogni ombra sul fondo dello specchio, ogni cigolìo
dei dentini del tarlo o della tarma,
continua all’infinito fino ai vasi capillari del silenzio, fin nelle
vene
della più incredibile allucinazione. Si ode distintamente
il colpo di telaio del ragno più piccolo giù nelle cantine, tra
le giare,
o la sega della ruggine sull’impugnatura delle posate,
e all’improvviso, giù nell’anticamera, il grande tonfo
di un pezzo di stoffa marcia che si stacca e cade
e sembra il crollo di uno stabile antico a noi tanto caro”
(da “La casa morta”)
Solo quando questa consapevolezza è raggiunta si può vedere il mondo da una relativa distanza, sapendo che non ci attende niente e che vana è pure la nostra attesa di qualcosa che accada, di una qualunque salvezza o eternità
E’ Oreste che parla dell’ “assenso – quasi celebrativo-
della non-attesa, della non-speranza, della vanità accettata,
fino al deserto impavido, fino alla fine della strada” (“Oreste”)
Nel “Ritorno di Ifigenia” è l’eroina a descrivere il suo tentativo di uscire dal tempo e dallo spazio, di entrare in un’altra dimensione, quasi parallela, dove il corpo supera la sua natura di ostacolo e raggiunge la conoscenza di un luogo diverso:
“Spesso,
di notte, stesa sul letto, provo
a toccare il muro con un piede; e il muro
si allontana all’infinito, si allontana anche il piede,
e il contatto avviene molto più lontano; per esempio sfioro
i ciottoli di un’altra spiaggia(…)
assieme alla sensazione
dell’allontanamento e della dissoluzione ti rimane
un po’ di libertà dell’infinito e dell’inesistente”
“Come si apprende bene, lentamente
la legge della perdita (della perdita legittima e definitiva)
e quella del ritorno, più profonda (della non perdita)
(…)Senza entrare nelle case, vedi le persone
trasportare oggetti senza peso da una stanza all’altra,
una cassa, un mazzo di fiori, un grande quadro,
una coperta di lana piegata o gli stivali del guardiano notturno,
una spazzola, la scopa, una bottiglia sigillata-tutte cosa
senza peso,
tutte trasparenti dentro e fuori, nell’involucro e nel contenuto;
vedi le bollicine nel bicchiere; vedi un capello sottilissimo
sotto la lingua della donna infastidita; vedi i morti
distesi sullo stesso grande letto di ferro con gli sposi novelli
che invece non li vedono.”
Ma credo, per tornare alla questione del nichilismo che si affronta in queste pagine, che in Ritsos si tratti di un nichilismo “attivo”, come quello definito da Jünger; perché c’è il tentativo di dichiarare la propria resistenza a questa insensatezza del tutto, ed essa consiste, come per Ifigenia ne “Il ritorno di Ifigenia”, nell’accettare la legge della perdita per ritrovare una propria isola-oasi di libertà, la libertà “dell’infinito e dell’inesistente” nella quale sia possibile ancorarsi alla vita sapendo che si potrà ancora essere padroni di un vivere etico e pietoso.
Sono queste infatti le parole che ella rivolge al fratello Oreste, alla fine del poemetto:
“Forse noi due, che abbiamo appreso come non esista alcuna
consolazione a questo mondo,
forse, proprio per questo, noi due (anche se ciascuno per
conto suo)
riusciremo di nuovo a consolare, e forse a essere consolati”.
Ammirazione per la lectio magistralis di Rossana Levati.
Ne esco arricchito, ma anche impegnato severamente con me stesso per una ri-lettura più attenta, e meditata, non appena il mio fisico saprà meglio sostenermi.
Gino Rago
Ancora grazie alla Rosanna levati per questa straordinaria inclusione di brani dai poemetti del grande Ritsos. Non commento perchè tanto i miei interventi vengono troppo spesso ignorati, anche da Lei, come nel precedente su Ghiannis Ritsos da me “postato”( brutta parola che sono costretto ad usare) nella precedente intrusione (magnifica) della”Casa” sempre di Ritsos. Noto con sempre crescente meraviglia che ormai quasi tutti i commenti sono indirizzati, seguendo la scia di Sagredo, verso una esposizione narcisistica e autoreferenziale delle proprie poesie, mi azzardo a dire snaturando la bella natura del blog inventato da Linguaglossa. Lo dico da tempo ma nessuno mai risponde a questa come ad altre mie sollecitazioni. Pazienza! !Un vero peccato che l’oggettività stia facendo sempre più posto ad una soggettività non sempre accettabile.
Ringrazio Salvatore Martino e anche Gino Rago per l’apprezzamento che hanno espresso al mio commento su Ritsos: naturalmente è al dettato straordinario di questo poeta che deve essere rivolto ogni apprezzamento.
Per me leggere Ritsos è sempre un’emozione, e ieri ho provato a sistematizzare e raccogliere le espressioni e le riflessioni dei vari personaggi dei poemetti a cui ho fatto riferimento alla luce di ciò che avevo letto sul Nichilismo nella pagina dell’Ombra.
Sono stata molto attirata anche dalla possibilità di leggere i poemetti alla luce del magnifico Decalogo di Carlo Livia, che si adatterebbe particolarmente bene alla loro comprensione, tranne però che nel punto 4, “Distruggi il seme della memoria”, perchè invece la persistenza della memoria e della poesia, che conserva il compito di ammonire il lettore sulla precarietà dell’essere e coltivare la memoria degli eventi mitici e/o contemporanei, è un elemento assai forte nella poesia di Ritsos; credo sia proprio questo il motivo principale che pone questo autore al di qua del nichilismo assoluto di Heidegger. Il nulla della non-attesa è infatti ancora fortemente bilanciato dall’attrazione per la vita concreta e fisica, dal rimpianto per i piaceri, i colori e gli odori e per una vita vissuta nel piacere o nel dolore quotidiano degli uomini: così in Ritsos si alterna continuamente il desiderio di “attraversare la linea” che porta all’accettazione del nulla come naturale confluire del nostro vivere terreno ma anche, altrettanto forte, il “contro movimento” che lo porta indietro, ad esplorare la condizione dei nostri legami terreni, del nostro vivere sociale, a rimpiangere sempre ciò che ci fa vivi, come le donne, i bambini, il pane, gli uccelli e gli alberi, i suoni e tutti i gesti, anche i più minuziosi e in apparenza insignificanti, della vita quotidiana.
Così ho rinunciato a proporre una lettura dei poemetti in base al Decalogo e mi sono limitata a rintracciare nel dettato del poeta la sua condivisione dei fondamenti del Nichilismo.
…un grazie a Gino Rago per la poesia di Ripellino, 19-enne; che non conoscevo.
Caro Antonio Sagredo,
la poesia che sono riuscito a scovare, con la mia inesauribile passione per l’insolito, ci mostra un Ripellino alle prese con le sue primissime prove letterarie (siamo nel 1943). In “Rondini sul Simeto” è ancora operante – tinto di nostalgia – il ricordo degli anni siciliani. A onor del vero occorre ricordare che la famiglia Ripellino si era trasferita a Roma nel 1937, quando Angelo Maria non aveva compiuto i 14 anni.
La poesia da me scovata, è ancora la voce della verità a impormelo, è stata proposta accanto a una foto nella quale lo stesso Ripellino appare seduto su un divano con una giovanissima donna che con la mano si copre il volto. Accanto a questa giovane donna dal volto autocoperto appare spaparanzato sullo stesso divano un ragazzo della “Compagnia degli skomorochi” il cui nome è Alberto Di Paola. Siamo in casa Sforza Carnevale….
Gino Rago
Il motivo perché il padre – insegnante di liceo – del futuro slavista avesse deciso di trasferirsi a Roma fu che aveva intuito la genialità -in nuce – di suo figlio, e dunque non poteva restare in Sicilia, avendo necessità di rapporti culturali di primissima qualità. Fra padre e figlio. mi disse questi – continui erano il dialoghi e le discussioni su argomenti letterari: dall’antica Grecia in poi… il suo interesse, in primis, fu per la letteratura spagnola, poi….
Quella foto- come tante altre – è in mio possesso.
Era una sera di carnevale, e andammo tutti a divertirci nella casa del dottor Sforza (alle Quattro Fontane ), oculista di chiara fama. che poi curò per anni gli occhi di AMR – destinato, mi disse, a diventare cieco.
Grazie ancora, Gino.
Franco Volpi: «La poesia autentica si muove nelle prossimità del niente».
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Credo che la poesia di oggi debba ri-partire da qui. Questo è il punto centrale, tutto il resto è fuffa. La «nuova ontologia estetica» ha chiaro in mente questo punto.
Le poesie sopra postate di Francesca Dono e di Lucio Mayoor Tosi si muovono in questa nuova patria metafisica; il Decalogo di Carlo Livia lo considero un documento importantissimo, una diagnosi metafisica del nostro essere nel mondo.
Oggi noi ci muoviamo all’interno di un movimento epocale, una ontologia postmetafisica dello spaesante e della differenza all’interno del quadro concettuale del nichilismo dispiegato. Che cos’è il nichilismo dispiegato? Penso che dobbiamo intendere questa categoria come una macro categoria all’interno della quale si trova anche la ricerca della «nuova ontologia estetica», noi stessi ci stiamo dentro con le gambe e il cappello. Sono del parere di Heidegger: non è proponibile nessun «superamento» del nichilismo, nessun «rovesciamento»; il nichilismo non è una sciarpa che te la puoi avvolgere all’incontrario per poter dire che ne siamo «fuori». Lasciamo questa nobile e pia convinzione ai credenti privi di cognizione filosofica. Il nichilismo dispiegato è nient’altro che la tecnologia dispiegata, e noi siamo, nel bene e nel male, un prodotto della tecnologia dispiegata, anzi, forse e senza forse, l’unico dio che ci potrà salvare è la tecnologia dispiegata, ovvero, la nuova metafisica di cui dobbiamo ricercare le parole nuove.
La «nuova ontologia estetica» è questo, è la consapevolezza che «ciò che resta lo fondano i poeti». Che cosa significa questo assioma di Hölderlin? Che dobbiamo andare a cercare «ciò che resta».
Giunti a questo punto le chiacchiere delle pseudo poesie che si scrivono oggi è fuffa, bazzecole dell’io, sciocchezze paesaggistiche nel migliore dei casi, banalismi di letterati.
Sia ben chiaro, il nichilismo non è una «malattia» che può guarire, qui Heidegger ha pienamente ragione, è la nostra stessa costituzione ontologica, siamo noi da capo a piedi.
Andare alla ricerca del «dio che ci può salvare» è ancora credere in termini millenaristici ed escatologici. Pensare le categorie del pensiero in termini di «salvezza» e di «riscatto», categorie create dalla illusione teologica e religiosa, è ancora un pensare con categorie fuorvianti e false. Non si dà alcuna «salvezza» né alcun «riscatto», dobbiamo accettare virilmente questo punto. Per come intendo io le cose, dimorare «nella linea» significa prendere atto della fine dell’età metafisica, della metafisica che si esprime con quelle parole guida e inoltrarci nella «radura» di un pensiero e di un operare postmetafisico all’interno del quale sono state dismesse, perché inutili e posticce, le parole della vecchia metafisica.
Anche la poesia deve avere il coraggio e la consapevolezza di voler abbandonare le parole della vecchia metafisica.
Anche la nostra ricerca delle «cose» e non degli «oggetti» di cui il primo esempio in Italia l’abbiamo avuta con la poesia da me citata di Anna Ventura scritta venti anni or sono, si muove in questa direzione di pensiero.
La frantumazione dello spazio e del tempo omogenei e vuoti della prospettiva rinascimentale è un dato di fatto avvenuto nel 1907 con l’opera di Picasso, Demoiselles d’Avignon, che aprirà la strada ad una nuova percezione dello spazio e del tempo che troverà la sua fondazione scientifica nella teoria della relatività di Einstein nel 1905. Oggi la nuova arte e la nuova poesia non può non volgere la sua attenzione sull’apertura dello «spazio interno» e del «tempo interno». La fisica dei quanti dimostra che a livello sub-atomico è irrisorio pensare in termini di «spazio» e di «tempo», occorrono altre parole, altre categorie del pensiero. La poesia di un Lucio Mayoor Tosi richiede un nuovo linguaggio critico, l’impiego di nuove parole, richiede la dismissione della concezione unilineare del metro e della parola all’interno del discorso poetico. Tra le poesie del diciannovenne Ripellino e quelle della nuova ontologia estetica sopra riportate (a prescindere del loro valore estetico ma io qui parlo di pensiero metafisico delle parole), c’è un abisso.
leggiamo una poesia di Anna Ventura e vediamo come nella sua poesia gli «oggetti» diventano «cose»:
La pagina bianca
Lascio me stessa
seduta davanti alla finestra
della casa di campagna, la vista
aperta su un paesaggio
di colline innevate,
boschi neri,
comignoli cadenti.
Qui dovrei scrivere il libro
Che risolva ogni dubbio,
che mi dia la pace che dà
solo ciò che è necessario.
Ma è già tardi e bisogna tornare
In città, nella vita concreta.
Ti lascio qui,
nel freddo,
avvolta in uno scialle a colori,
mentre nella cucina grande
già si spegne il camino, dal cielo
cadono le ombre, la pagina bianca
è ancora da scrivere.
>>>> Franco Volpi: «La poesia autentica si muove nelle prossimità del niente».>>>
Antonio Sagredo aggiungerebbe anche “nelle prossimità del TUTTO” !, poiché è illusorio e ingannevole essere al centro del Nulla e del Tutto, o al contrario lontanissimi dal Nulla e dal Tutto.
Resto interdetto, come riportato, che il Volpi dice di “poesia autentica”;
in primis perché noi Poeti fatichiamo tutta la nostra esistenza per cercare di definire cosa è la Poesia; e poi l’aggettivo “autentica” non s’addice alla Poesia, come del resto nessuna Poesia sopporta gli aggettivi!
Cosa è dunque una “poesia autentica”: quella di Omero, di Dante, insomma quella dei massimi?
Non vi è una scala di valori che giudichi o che possa definire una volta per tutte cosa è la Poesia, e peggio definire quella autentica. E se esiste (o dovesse esistere ) l’autentica, quale è quella non autentica?
E dunque secondo me l’affermazione del Volpi priva di qualsiasi credibilità e realtà. Intanto Volpi non era poeta, e se scrisse qualche verso forse per dimostrare a se stesso che non era autentico poeta, e perciò affermare (o dichiarare) che una poesia autentica potesse esistere: e la prova che lui non era inautentico poeta.
————————————————————- Poesia >>>>>>>
“Sei viva, sei in me, nel mio petto,
come sostegno, come amica e come caso”
————————————————–
….e qui ci soccorre una altra frase celebre di Pasternàk che riguarda la poesia che si situa come un ponte tra… “ La poesia è quella altezza che supera tutte le gloriose Alpi, e che si trova nell’erba sotto i piedi, cosicché occorre soltanto chinarsi per vederla e coglierla”. –
(mia nota 328, pag. 159 – 1972-73)
———————
Poesia! Spugna greca con ventose
sii tu e, fra la verzura vischiosa,
io ti metterei sull’asse bagnata
della verde panchina del giardino.
caro Sagredo,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28583
a mio avviso la dizione «poesia autentica» è esatta, anzi, forse non è possibile adottare una dizione più precisa di questa. La «poesia autentica» è molto diversa da quella «inautentica». Franco Volpi è un filosofo e sa usare le parole filosofiche con molta precisione.
Personalmente diffido di tutte le dizioni che parlano di «altezza» e simili, come fa Pasternak, dizioni come «nel mio petto», «spugna greca» (e poi, perché greca e non russa?) etc, molto equivoche che non significano niente di preciso (dovremmo chiedere: a quale altezza? 100 metri? cento chilometri?, e si ricadrebbe nella imprecisione e nel banalismo). Certo, sta poi alla critica intelligente e libera saper distinguere la «poesia autentica» da quella che «autentica» non lo è.
Ed è quello che stiamo facendo noi nell’Ombra, non ti pare?
A me sembra che su questo discorso dell’autenticità abbiano ragione, a loro modo, sia Sagredo che Linguaglossa, perché è il significato che danno al termine che è diverso. Sagredo lo mette forse più in relazione a un discorso estetico (cita Dante, Omero) mentre Linguaglossa, appunto, al pensiero metafisico (più volte gli ho sentito affermare che considera più autentica una poesia brutta nuova che una poesia bella vecchia).
Ricevo e pubblico una poesia scritta oggi di Lucia Gaddo:
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Sei lune or sono
Polvere di stelle
contiene mondi
floreali
di vita
che danna
avidi
corpi.
Danno
moltiplica
senno
rotando piano
geometrie di luce
e scelte
intorno all’asse
immite.
Sfere
di memoria
scrutano
mondi possibili
nel vuoto
amore
della cerca
invano.
Nella cornice del passato
solo
ricompone il quadro.
16 dicembre 2017
Ricevo e pubblico un’altra poesia di Lucia Gaddo:
Una poesia misteriosa che sosta nell’astrazione, che pensa al volo di Icaro, l’«angelo della neve» che «volle avido il vero errare»…
Niente
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Leva la vela se vale il vento
leva le ali in volo angelo della neve
vile volle avido il vero errare
invidia l’oro delle culle
vate rivela
vale
oro quanto pesa.
Il bello si finge di là del velo
spiegato oltre il visibile.
Quanti traspaiono dal passato a qui
misurabili errori muovevano i giorni
d’oggi
pazienti in ogni dove
più feriti di ieri.
Chi non verrà
si attende
e non sorprende.
L’ignavia del bosco apparente che cresce
sposta il cielo da secoli
e il pesce che argina mari e fiumi
specchia come l’universo tace
spiegando a tutto volume la ragione
di essere uno di uno, il primo e l’ultimo
dell’infinito ente.
18.12.2017
D’accordo sul nichilismo, ma pensando a Heidegger, e non solo, resta da risolvere il problema dell’angoscia e della disperazione. Per questo serve, a mio avviso, l’apporto basico della visione marxista nella quale si dimostra che l’infelicità non appartiene – solo o tanto – alla responsabilità dell’individuo. Marx non va oltre questo, penso però che non sia congenito nella natura umana il sentimento di angoscia e l’altro.
Un poeta in pieno icarismo, un poeta attratto dal volo al massimo calore:
Antonio Sagredo
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SERENDIPITY
Gli ossi, la casa e il doganiere non hanno senso per me
e pure le altre corti, ignare, che ci circondano gementi.
Coraggio, entriamo gioiosi, nati ieri, nella Villa accesa.
Le mie Legioni hanno bisogno di scongiuri: che auguri, ZanZan!
Contro tutti difendo la celeste AMO dai compagni
e dalle capre, dai falchi, con eurovigore!
Dalla Boemia invocai: A cha Kandicha!
Bendir, Bendir siamo giunti a Tarab! A Toledo!
Gioia del sama: palme lagrime arrabbìche!
O notte salentina! O folle Carmelo!
Ya lîl! ya lîl!
La bestia senese divorai sul Ponte delle Legioni,
sotto i rossi lampioni minseguiva il famelico Campana,
mi tallonavano le sue visioni levantine.
Imbianchini, insanguinate i candelabri, le croci, le moschee!
Nelle vostre piazze versate cisterne di occhi, artigli di tigri!
Come arlecchini i tre profeti insozzate
di succo di mirtillo!
Dissacrateli!
Distruggete i loro inferni e i loro paradisi!
La terra?
Purificatela!
L’anima?
Hanno mutato in eresia!
Nutrivo di radici immaginarie le brughiere,
i miei occhi infanti, di pietra!, sono esplosi,
esplosi i vessilli su torri saracene!
Io, 12 enne: Padre mio, quando ritorna Oriente?
La luna sembra una moneta di rame
lalla illali lalla
mi girano intorno statue colonne bifore
djinns! djinns! djinns!
Era nerastra la torre moresca, dai merletti
gettava il silenzio nello strazio, come un affondo di stiletti
lilah! lilah!
dagli arazzi liquefatti ai campanili ammutoliti
le umide lancette spente alle cinque della sera.
Finzioni,
abbiate pietà!
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah,
ho paura! ho paura! se svanisce la stranezza antica dei profeti!
il loro incanto!
Tracciavano sui cuori eretici verità ambulanti:
meridiane informi tangenti di progresso ellissi innominabili
deff duff deff
I ponti divorati dagli arcobaleni, i suicidi dai marosi.versi da pubblicare
Sciagurati attori, dietro le quinte, misuravano i loro gesti
su tavolette d’argilla col suono di creta delle destinazioni:
percussioni di scritture dette e non comprese.
taratîn taratîn taratîn
Offerte della rivelazione: sciocchezze!
Rivelazioni dell’offerta: sciocchezze!
Via il Coro:
al-B-usc usc al-B-bee b-bee al-B-lai b-lai al-A-azar !
Antonio Sagredo
Vermicino, 24-27 novembre 1 dicembre 2000
GR
Un poeta in pieno icarismo, attratto dal volo al massimo calore:
Antonio Sagredo (“SERENDIPITY”)
Il componimento sagrediano esordisce con il chiaro, fermo ripudio di Montale e della sua poesia, della sua poetica, dei suoi correlativi oggettivi
(“ossi”; “doganiere”) , per poi sdipanarsi, nella struggente assenza di Carmelo Bene e della ‘Voce’, racchiusa in due forti evocazioni ( “Oh notte
salentina! Oh folle Carmelo!) fra grappoli di metafore e fuochi di simboli,
all’interno di un linguaggio incardinato sulle cosiddette “mots-valises”,
vale a dire parole-valigie, quelle parole che tanto piacevano a Joyce perché
le mots-valises sono parole che tengono uniti, tengono insieme diversi
significati. Ed è un modo di esprimere se stesso in un mondo disumanato,
con una poesia ad elevato tasso simbolico.
Antonio Sagredo è in piena libertà di parole, in pieno icarismo, tende al volo alto al suo massimo calore, ma si guarda bene dal toccare il punto critico, il punto di non ritorno di fusione delle ali.. Antonio Sagredo
a volte dà l’idea d’essere nella gabbia d’una weltanshauung ‘sagredocentrica’, altre volte può apparire come colui che si diverte per tutto, ma non prende mai in giro la verità, la verità del vivere.
Tutto il resto presente nei versi sagrediani da me postati (bruttissima parola, ha ragione Salvatore Martino) va scoperto, scoperchiato, conquistato, svelato, scorticando le parole una ad una, per evitare
‘(…) scritture dette e non comprese’, che poi è sempre il rischio in agguato
nell’atto di lettura degli altrui versi. Anche dei versi dei poeti laureati.
Gino Rago
L’approcciarsi a un pensiero scientifico, freddo e meticoloso, ci aiuterà a risolvere molti guai e raddrizzare le storture. Al fine di renderci amorevoli. Non si può non passare dal dolore del distacco.
Amen 🙂
Tutti i poeti, quando vorrebbero scrivere e non gli viene in mente nulla, mi guardano.
Tutti i poeti, quando vorrebbero scrivere e non gli viene in mente nulla, mi guardano. Chi dal blu, chi dal rosso o dal giallo, chi dall’acqua marina. Io sono niente. Quel niente. Per questo non mi temono. Anzi, spesso li vedo sorridere. Di niente. Per niente.
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Il buio buio, benché attento, non resiste, cede un’illusione.
Diluvia per intere settimane.
L’accumulo non cambia direzione, non rallenta.
Avanza. Investe. Lacera.
Il fango inghiotte i suoni, le parole.
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Il problema posto da Essere e tempo(1927) è stato affrontato da Lukacs in Storia e coscienza di classe (1923), ma quel libro fu accusato di eresia dagli altri comunisti e posto nel dimenticatoio… lì c’era qualcosa che non poteva essere digeribile per i palati di Lenin e di Stalin e degli stalinisti. Il problema dell’angoscia, sollevato da Lucio Mayoor Tosi, è vero, l’uomo non è nato naturalmente con l’angoscia, l’angoscia gli viene man mano che cresce e scopre che le cose non sono modificabili, che l’investitura dello stato presente delle cose non si sposta di un millimetro. Lukacs pensava di risolvere il problema dell’esistenza mediante la rivoluzione comunista… ma le cose poi si sono viste che non erano così semplici… la mancata rivoluzione poi ha prodotto una ricaduta in Europa e nell’Occidente che stiamo ancora scontando e che ancora non ci è del tutto chiara, i cui confini non sono affatto chiari e distinti…
Oggi un filosofo dovrebbe piuttosto esplorare e indagare il problema che lega l’essere non più con il tempo ma con lo spazio. L’intuizione è molto semplice: l’ente ha bisogno di spazio come elemento vitale irrinunciabile, può sopravvivere anche senza tempo, anche se gli sottraiamo il tempo, ma non può sopravvivere se gli sottraiamo lo spazio. Provate a rinchiudere un uomo in una cella 3×3 mt., e quello muore nel giro di sei mesi.
Ma il problema dello spazio implica quello con la piazza, con l’agorà, e quindi il problema della polis. Lo spazio è politica e la politica è l’azione. L’azione. Che cos’è l’azione? Intendo filosoficamente. E la intendo anche empiricamente.
1) Mi spiego: se io vedo una persona che sta affogando e non mi tuffo a mare per salvarla dai flutti, io ometto di fare una azione irrinunciabile, ergo sono un inetto, un vile.
2) Facciamo un altro esempio: se io leggo un libro di poesia o romanzo che non mi piace e che non incontra il mio gusto e ne parlo bene per non farmi dei nemici, che tipo di azione è questa? È una azione vile, da inetto, da bugiardo.
Facciamo un ragionamento: se tutti in una polis si comportano al modo n. 2) ne deriva che verranno celebrati i libri dei mediocri poeti e romanzieri e i libri di quelli bravi verrebbero cestinati, si creerebbe un grande guazzabuglio, una grande confusione dei valori che, prima o poi, porterebbe quella polis alla dissoluzione. Non ci sarebbero più i criteri di valore affidabili, ciascuno si sentirebbe legittimato a dire fischi per fiaschi.
E non è quello che succede oggi in Italia?
Un poeta in pieno icarismo, attratto dal volo al massimo calore:
Antonio Sagredo (e le mots-valises).
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Antonio Sagredo (“SERENDIPITY”)
Il componimento sagrediano esordisce con il chiaro, fermo ripudio di Montale e della sua poesia, della sua poetica, dei suoi correlativi oggettivi
(“ossi”; “doganiere”) , per poi sdipanarsi, nella struggente assenza di Carmelo Bene e della ‘Voce’, racchiusa in due forti evocazioni ( “Oh notte
salentina! Oh folle Carmelo!) fra grappoli di metafore e fuochi di simboli,
all’interno di un linguaggio incardinato sulle cosiddette “mots-valises”,
vale a dire parole-valigie, quelle parole che tanto piacevano a Joyce perché
le mots-valises sono parole che tengono uniti, tengono insieme diversi
significati. Ed è un modo di esprimere se stesso in un mondo disumanato,
con una poesia ad elevato tasso simbolico.
Antonio Sagredo è in piena libertà di parole, in pieno icarismo, tende al volo alto al suo massimo calore, ma si guarda bene dal toccare il punto critico, il punto di non ritorno di fusione delle ali.. Antonio Sagredo
a volte dà l’idea d’essere nella gabbia d’una weltanshauung ‘sagredocentrica’, altre volte può apparire come colui che si diverte per tutto, ma non prende mai in giro la verità, la verità del vivere.
Tutto il resto presente nei versi sagrediani da me postati (bruttissima parola, ha ragione Salvatore Martino) va scoperto, scoperchiato, conquistato, svelato, scorticando le parole una ad una, per evitare
‘(…) scritture dette e non comprese’, che poi è sempre il rischio in agguato
nell’atto di lettura degli altrui versi. Anche dei versi dei poeti laureati.
SERENDIPITY
—
Gli ossi, la casa e il doganiere non hanno senso per me
e pure le altre corti, ignare, che ci circondano gementi.
Coraggio, entriamo gioiosi, nati ieri, nella Villa accesa.
Le mie Legioni hanno bisogno di scongiuri: che auguri, ZanZan!
Contro tutti difendo la celeste AMO dai compagni
e dalle capre, dai falchi, con eurovigore!
Dalla Boemia invocai: A cha Kandicha!
Bendir, Bendir siamo giunti a Tarab! A Toledo!
Gioia del sama’: palme… lagrime… arrabbìche!
O notte salentina! O folle Carmelo!
Ya lîl!… ya lîl!
La bestia senese divorai sul Ponte delle Legioni,
sotto i rossi lampioni m’inseguiva il famelico Campana,
mi tallonavano le sue visioni levantine.
Imbianchini, insanguinate i candelabri, le croci, le moschee!
Nelle vostre piazze versate cisterne di occhi, artigli di tigri!
Come arlecchini i tre profeti insozzate
di succo di mirtillo!
Dissacrateli!
Distruggete i loro inferni e i loro paradisi!
La terra?
Purificatela!
L’anima?
Hanno mutato in eresia!
Nutrivo di radici immaginarie le brughiere,
i miei occhi infanti, di pietra!, sono esplosi,
esplosi i vessilli su torri saracene!
Io, 12 enne: Padre mio, quando ritorna Oriente?
La luna sembra una moneta di rame…
lalla illali… lalla…
mi girano intorno statue colonne bifore…
djinns! djinns! djinns!
Era nerastra la torre moresca, dai merletti
gettava il silenzio nello strazio, come un affondo di stiletti…
lilah! lilah!
dagli arazzi liquefatti ai campanili ammutoliti
le umide lancette spente… alle cinque della sera.
Finzioni,
abbiate pietà!
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah,
ho paura!… ho paura!… se svanisce la stranezza antica dei profeti!
il loro – incanto!
Tracciavano sui cuori eretici verità ambulanti:
meridiane informi… tangenti di progresso… ellissi innominabili…
deff… duff… deff…
I ponti divorati dagli arcobaleni, i suicidi dai marosi.versi da pubblicare
Sciagurati attori, dietro le quinte, misuravano i loro gesti
su tavolette d’argilla col suono di creta delle destinazioni:
percussioni di scritture dette e non comprese.
taratîn… taratîn… taratîn…
Offerte della rivelazione: sciocchezze!
Rivelazioni dell’offerta: sciocchezze!
Via il Coro:
al-B-usc… usc… al-B-bee… b-bee… al-B-lai… b-lai… al-A-azar…!
Gino Rago
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Questa piccola Antologia della poesia italiana recente vuole dimostrare questo:
La poesia italiana si è prosaicizzata e prosasticizzata. Si è elasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.
L’anestesia è quel composto chimico che si da ad una persona per non farle sentire il dolore di un intervento chirurgico. Bene, anche la lingua italiana ha subito un intervento del genere, è stata anestetizzata per impedirle di avvertire il «dolore» che la comunità percepiva. Questa anestetizzazione della lingua di relazione, quella che parliamo tutti i giorni, è un fenomeno in atto da tempo, da almeno trenta quaranta anni, se non di più. La vita antropologica di un popolo è stata anestetizzata, è stata, come dire, isolata dal dolore. E cosi questo popolo e andato incontro al suo destino senza, paradossalmente, avvertire alcun dolore, ma con una specie di inerzia, di indifferenza, di noia, senza essere capace di alcuna reazione.
Margherita Guidacci
da “Anelli del tempo”, Edizioni Città di Vita, 1993
L’anno contiene quest’unico guado
verso di te. Ogni volta
lo trovo un poco più sommerso, l’onda
più gonfia, la corrente
più minacciosa. Eppure
io t’ho raggiunto ancora, ed ogni breve
istante che trascorro accanto a te
diviene un «sempre» e se ne nutrirà
anche il tempo deserto. Se una dura
legge c’imporrà un «mai», noi condannati
ed immobili sulle opposte rive
intrecceremo tuttavia i richiami
di un desiderio tramutato in splendore.
Così la Tessitrice ed il Pastore
si rispondono: Vega ed Altair
tra cui si snoda l’alto
stellato fiume.
Piero Bigongiari
da “La figlia di Babilonia”, 1942, in “Stato di cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 1968
Muore nel ghiaccio bianca la tua voce
che dal sangue luceva sopra i vepri:
tu nascosta che giri o è la luna
questo triste richiamo spento d’elitre?
Piú fedele di me, piú del tuo battito
è quest’orma di miele, un soffio, l’alluce
che preme un po’ piú triste. Dove insiste
il passo oltre la cerchia, oltre la vita
il gesto che disfiora la magnolia
fumida. La tiara raggia ancora:
sono sguardi? lo scatto delle dita?
l’unghie gemmate coprono la morte?
Non ha sorte l’evento che sostiene
sopra il vento celeste un altro blu,
le rideste parvenze dove tu
rifiorisci sul vento che ti ara.
Daniela Andreis
da “La casa orfana”, LietoColle, 2013
Confondimi con qualcosa che hai in casa:
una tazza, un mestolo forato, o con l’incarto del pane
che io possa avere una grazia comune,
essere presa in mano o piegata e riposta,
esser gesto quotidiano, ricordo di giochi, di prove di fuochi,
di crosta nel latte,
un odore di soglia che avverti già sulle scale
o la presa alla cieca, la sicurezza persino banale
di trovarmi nello stesso posto, in uno stipetto;
esserti persino cara
in qualche momento, quando tutto ti è estraneo
e persino l’albero cambia forma
la chioma notturna diventa cava, grotta, e di fosforo diventano gli
occhi, in fretta, in fretta;
fammi sillaba piena, sensata,
trattami col senso che dà
una riposante maneggevole realtà:
son fatta di un solo mistero,
le spalle controvento,
le impronte cardiache,
segnaletiche, in fila indiana,
là dove smarrisci la tua parola
meridiana.
Antonio Porta
da “Yellow”, “Lo Specchio” Mondadori, 2002
Cercano di dare un tempo alla morte
poiché non ha dimensioni, è il vero
nostro infinito; così dicono alle ore
10 e 11 minuti ma non è vero
si era visto invece come si preparava
rannicchiandosi nella posizione fetale.
Quando si sedeva in macchina accanto
già prendeva quella posizione: l’auto
come il ventre della madre e via fino all’arrivo.
Quella volta in attesa di una morte in anticamera
ho sentito dire che negli ultimi tre minuti
la sua vita è precipitata nel senza tempo
nell’ultimo eterno minuto i dolori
raggiungono il loro acume, se ne vanno con l’anima.
Ma è un bene essere privati del tempo,
è un furto che genera abbastanza e dona
una pace non sperabile, raggiunta senza speranza
da un istante all’altro la dimensione è solo spazio
mare bianco increspato nella mente spalancata.
Attilio Bertolucci
da “Lettera da casa” (1951), in “Attilio Bertolucci, Opere”, “I Meridiani” Mondadori, 1997
Sarà stato, una sera d’ottobre,
l’umore malinconico dei trentotto
anni a riportarmi, città,
per i tuoi borghi solitari in cerca
d’oblìo nell’addensarsi delle ore
ultime, quando l’ansia della mente
s’appaga di taverne sperse, oscure
fuori che per il lume tenero
di questi vini deboli del piano,
rari uomini e donne stanno intorno,
i bui volti stanchi, delirando
una farfalla nell’aspro silenzio.
Non lontano da qui, dove consuma
una carne febbrile la tua gente,
al declinare d’un altro anno, fiochi,
nella bruma che si solleva azzurra
dalla terra, ti salutano i morti.
O città chiusa dell’autunno, lascia
che sul fiato nebbioso dell’aria
addolcita di mosti risponda
in corsa la ragazza attardata
gridando, volta in su di fiamma
la faccia, gli occhi viola d’ombra.
Maurizio Cucchi
da “Vite pulviscolari”, “Lo Specchio” Mondadori, 2009
La memoria insiste
sul legno abraso e opaco
dove la mano, nel tempo,
briciola su briciola, minima, invisibile,
ha eroso d’affetto il suo colore, il rosso,
il rosso umano dell’attrezzo.
In queste fruste teche barocche,
resiste l’attrezzo antico, povero
come la mano attiva. Povero e enorme
come la macchina meccanica
nobile e astrusa, cieco ordigno
che ruota e lavora la piazza.
Le cose, vedi, si nutrono di noi, ci assorbono
nelle crepe e nei cunicoli
sfaldati del colore, nelle ditate
che macchiano un po’ l’impugnatura,
la vernice. Ci assorbono, le cose,
nei pori pazienti. Ma oggi
di meno, sempre meno, perché
siamo altrove, schermati. Ricordi
il cordaio di Roma, il vasaio del Nilo?
L’oggetto, avvilito,
non ha più da noi il suo nome,
né senso di terra e di cuore.
Ci è accanto remoto. Così,
senza traccia né attrito, ci siamo
estraniati, ci siamo un po’ persi
in questa identità pulviscolare.
QUATTRO HAIKU di Edoardo Sanguineti
da “Corollario” (1992-1996), in “Edoardo Sanguineti, Il gatto lupesco”, Poesie 1982 – 2001, Feltrinelli, 2010
1.
sessanta lune:
i petali di un haiku
nella tua bocca:
2.
l’acquario acceso
distribuisce le rane
tra le cisterne:
3.
è il primo vino:
calda schiuma che assaggio
sulla tua lingua:
4.
pagina bianca
come i tuoi minipiedi
di neve nuova:
Paolo Ruffilli
da “La sete, il desiderio”, in “Le stanze del cielo”, Marsilio, Venezia, 2008
Non fu curiosità
e non fu noia
la cosa che mi spinse
e mi ha smarrito…
fu anzi la coscienza
minuziosa
di me e del mondo
a muovere e guidare
i passi ignoti
del mio precipitare.
Il mondo ed io,
corrispondenze esatte:
pietra senza labbro
e labbra senza verbo,
per quanto inseguo
e cerco.
Più che fuggire
gli sono andato
incontro,
ma niente ho mai
subito o abbandonato.
Ho sempre scelto,
e ho attaccato,
per ultimo me stesso…
né rinunciato affatto.
Ho scelto e amato,
sbagliando, sì,
e avendola aggredita
ho guardato in faccia,
tagliata, la mia vita.
Non si vedrà per tutto l’inverno
il mio ragazzo venire dal lattaio
con la busta del latte da mezzo litro:
tutti penseranno che il radicato
nel mio cuore aspetta malato
che io arrivi con la busta in mano.
Dario Bellezza
da “Invettive e licenze”, Garzanti, 1971
Non si vedrà per tutta la primavera
il suo ritorno; le lacrime invano
scivoleranno dalle mie guance:
tutti penseranno che mi ha lasciato
solo nella mia grande casa.
Non si vedrà per tutta l’estate
la sua abbronzatura cittadina,
ma al mare uguale ai più tranquilli
e solitari ragazzi lo immagineranno
silenziosamente disteso sulla sabbia.
Non si vedrà in autunno alcuno
bussare alla mia porta marroncina:
tutti mi guarderanno con tristezza
perché questa è la stagione dei morti.
Giorgio Stella Dieci composizioni
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Di questo autore, di cui non so nulla che mi ha inviato le poesie alla mia email, vorrei attirare l’attenzione sulla prosodia scabra ed essenziale, sul lessico minimal, nitido, sulle inversioni sintattiche, per nulla artificiose, sulla attenzione icastica con la quale nomina gli «oggetti», quegli oggetti selezionati con cura per la loro risonanza simbolica (croce, fiore, rossetto, smalto, trincea, sangue, occhi, busto, Dio, burattini etc.), che stabiliscono più piani di rifrazione semantica…
FOSSA COMUNE
Per Giordano Sermoneta
I
Cedro di latta che cuci
La pelle il gemello
Caino è al fianco del
Grembo maschio
E piano il sesto
Del primo senso
II
Apri fiore a croce
La croce del fiore
In croce al fiore
Di Santo chiudi
Il rossetto
Nello smalto
III
Nudi e piani i battiti delle
Ali e i muri di terra misuri
A muta di trincea questa
Pura e sangue miseria
Tre occhi e un busto
Per saldare
IV
Olio d’origine mi stufi la cantina
E i burattini sanno di
Anfore a merletto fino che Dio
Decida il nido
D’oro nell’arco del tiro nostro
Signore
V
Vuoto chiuso dal pieno
Vetro di fuoco d’un
Tempo veleno a cuore
Aperto la volontaria
Colomba dell’est
VI
Putti mi maschi
La latrina gemella
Allo spago del nuoto
Quel rogo che appare
E scompare come il
Circo delle alate
Sirene rosse
Di croce
VII
L’oppio ma mai sia lodato
Il tamburo dell’elastico
A catena di nessuna terra
Cammini assieme a lei
Ti porta al ballo turco
Del bagno malato
Da reti di pesca di clausura
La Messa mi Santa
VIII
Beve la culla d’avorio
Si ninna la nanna e
Poi di baci un pianto
Si destra a sinistra –
Quanto quando
In tutto questo
IX
Giro di giglio si latta
La breve durata
A minima presa di
Mira la stilla e
Versa e seta contro
Il vetro contro-mosso
X
Si giace la sera Dio
Canti cristici diurni
Di passaggi di mani
In preghiera l’anima
Gemella allo Spirito
Santo
(Roma 15 dicembre duemiladiciassette circa ore sette/ore zero otto e diciannove)
Adeodato Piazza Nicolai
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Botta / Controbotta
Nella TRAVERSATA di Edith Dzieduszycka
Avevano corso/come bestie assetate,
in cerca del ruscello al quale abbeverarsi. [1]
O come uccelli in cerca di liberarsi dalla gravidanza della DAS DING
Stavamo fermi paralizzati dalla paura del nulla.
Svuotato di tutte le cose, il significato. Metafore senza consenso
e significato, fantasmi dematerializzati, depistati dall’immanenza
che nega l’oltranza.
S’erano addentrati in buie gallerie.
Crepitavano, ritmati, i loro passi,
come pallottole contro duri bersagli.
Erano pietre fantasmate, stalattiti astigmatiche
Gallerie inesistenti/incosistenti/ineleganti
dove si crepitava e crepava senza morire. Aritmiche palabras-parole.
Appollaiate/appiccicate sui rami del niente. Passaggi nelle secrete inconcrete.
Effimere cartucce svuotate dalla polvere che sparanti bugie.
Totems non monumenti
Bestemmie-non sacramenti…
Correvano, mani strette alla testa
Per non sentirsi più,
vestiti a brandelli svolazzavano nel vento.
Contavano le ore.
Contavano le stelle.
Affamati, mangiavano erba e roissant di luna.
Sognavamo con ego stretto piegando le dita verso l’ES
che ci sfuggiva da sempre. Nudi, senza peli, smemorati
e scambiati per lestofanti, cantavamo il requiem mozartiano,
cancellavamo stelle pianeti comete galassie nel comicosmo
impassibile ed impaziente dei nostri “ocie orbe patoche”. [2]
Sferzati dalle liane dai rami dai rovi,
scalavano montagne e ghiacciai bollenti,
vulcani incandescenti, oceani furenti.
Mummificati da lame, dai lupi filosofanti smantellati
dagli elefanti morti e sepolti, ignoravamo
le sorti delleHimalaya, delle corridas dei Maja,
le urla di Munch a braccetto con l’ES
mentre il superego rosicchiava furibondo …
© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 14 dicembre, ore 4:45
[1] Tutti i versi in corsivo sono della poetessa Edith Dzieduszycka © 2017 Diritti Riservati.
[2] “ocie orbe patoche” ladino del centro Cadore = occhi totalmente privi di vistione.
Un poeta tra Premodernismo, Modernismo e Postmodernismo:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28626
Salvatore Martino (“la poesia di Eros, il gesto controllato che riesce a farsi segno…”)
Salvatore Martino
“Al mio paese ci sono notti che le barche corrono lungo il soffio dei pesci e l’albero appassito della prua notti nel sonno di maree umide e gialle Tutto il giorno ho sperato di te con la testa all’angolo del braccio Umide e gialle di scogli appuntiti Nel chiuso della stanza le pareti si gonfiano lo specchio quadrato il tavolo le sedie il gioco alterno dei marosi rossi e bianchi e bianchi l’assurda figura dei vestiti la porta che non s’apre Sei intero come il tutto che ci divide nel tuo corpo di vetro E notti ci sono allungate dal buio di correnti che lampeggia il tossire dell’aria e distendi alla luce del ventre l’inutile sorriso…”
Si assiste all’affiorare dei temi centrali della tradizione lirica italiana e della poesia fatta dagli insulari, dal nostos omerico alla trasfigurazione epica della pesca, dalla presenza della morte a quella dei delfini e delle sirene, ma almeno in questo brano di cristallina prosa d’arte ci imbattiamo in un Salvatore Martino alle prese con i segni di quell’immenso lavoro sul linguaggio in atto che troverà nell’opera futura in via di preparazione una sua realizzazione più compiuta.
La selezione da me effettuata risponde a una lettura possibile, senz’altro parziale. Aggiungo che ho preferito esporre, bruscamente e talvolta estraendoli a forza dal corpo dei versi postati su l’Ombra, un passaggio nel quale si trovano inseriti quei segni che sembrano garantire un’illuminazione immediata, la cui matrice affettiva e nostalgica assume un rilievo specifico ma tuttavia mai incline all’arreso ripiegamento intimista.
Dalla nostalgia per i tempi a quella per gli spazi e fino al ricordo di ” amici” o compagni che fanno la guardia in sembianza di animali fedeli, Martino ci sospinge dalla parte di chi parla nei «versi oscuri della divozione», con la voce di un mitico fanciullo che viene dal Sud, un Sud isolano mai consegnato all’oblio, come fu per Ripellino, per Cattafi e soprattutto per Stefano D’Arrigo
alle cui frequenze delicate accosto quelle di Salvatore Martino, almeno se mi limito a considerare i versi riportati di seguito, tratti da “Pregreca” del D’Arrigo poco prima di ‘Orcynus Orca’:
da Pregreca di Stefano D’Arrigo:
“Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece (…)”
Due sensibilità poetiche ben precise e senza sforzi riconoscili, dai contorni ben disegnati, Salvatore Martino e Stefano D’Arrigo, ma entrambe mosse, agitate, nutrite da Eros come forza vitale, come forza cosmica primordiale che nei loro versi riesce a farsi trasparenza d’alabastro di contro alla opacità della pietra. Eros, il gesto controllato che riesce a farsi segno nella “insidia della soglia”, come in questi versi di Salvatore Martino:
” I morti sono morti e basta
e freddi
perché la morte è fredda
e dio è volato
sopra i gabbiani che piangono”
Gino Rago
Carissimo Gino solo oggi leggo queste tue parole ( non mi è sempre facile seguire gli inserti della rivista) e mi pare tu abbia toccato alcuni capisaldi del mio poetare. e l’armi accostato a D’Arrigo e Bartolo Cattafi , mio amico, e Ripellino mi riempe di orgoglio. Il “mitico fanciullo”, ” l’illuminazione immediata”, ” mai incline all’arreso ripiegamento intimista”, sono notazioni che mi colpiscono al profondo, e mi dichiarano che tu da poeta hai scavato davvero nel mio mondo.
Finalmente e per fortuna mia che c’è Gino Rago che mi comprende (le Tue parole nel mio archivio) e va da giù a su per i labirinti interiori del mio spirto che è estetico e metafisico allo stesso tempo… che va dai poeti greci amati di ieri e di oggi e a quei poeti slavi che di grecità si son nutriti come fosse un latte-miele (vedi “I miti greci” del Graves e “Il ramo d’oro” del Frazer)… e dico che in primis son passato e poi fermato alla stazione “ greca” (dapprima le culture e poemi mediorientali – presenze in SERENDIPITY – m’avevano messo in ginocchio e pregavo coi poeti primitivi che nulla sapevano di Omero!) e poi in lungo e largo per le poesie “europee” di tutti i secoli (apprendistato divorando le biblioteche salentine fornitissime, mentre le scuole statali mi bocciavano di continuo: ero strano e straniero per loro! Posizione la mia privilegiata poiché dalla mia Altezza (non in metri o chilometri!) vedevo la loro miseria: Pubblica Distruzione – senza l’apostrofo – dichiarava il folle salentino) e poi approdare in quel mondo slavo (per merito di eccellentissimi studiosi di slavistica, e traduttori eccelsi: che fortuna per me conoscerli e frequentarli)…
Mi sforzavo di non essere pessimista, ateista, miscredente, eretico ecc., poi ho compreso ch’ero anche questo e altro e che il Tutto e Il Nulla che mi giravano intorno avevano un loro valore d’essere e di esistere per mio merito… adorai letteralmente la “finzione” leopardiana e quei sublimi gridi di Hölderlin e di tanti altri meritevoli d’essere da me amati!
Che volete di più da me?
L’altezza non è quella banale e volgare ci cui dice il poeta russo (ma vale per qualsiasi grande poeta, e non è nemmeno la mia!), poiché non si misura in metri o milioni di chilometri: è ALTRO IL METRO! – Ed è chiarissimo, anche ai muti e sordi e ciechi e ai folli in specie che il poeta ci dà una Alta Lezione Estetica e Metafisica, perché ci dice apertamente in questi sublimi versi:
“Poesia! Spugna greca con ventose
sii tu e, fra la verzura vischiosa,
io ti metterei sull’asse bagnata
della verde panchina del giardino.”
Il significato significante della poesia greca come Matrice da cui tutto in Europa è stato scritto e detto oralmente tramite la Poesia, che risiede nel seno-cuore d’ogni Poeta: la Poesia dunque vive dall/dell’alto e dal/del basso : caratteristica unica di diacronica e sincronica in perenne moto: operazione ermetica ed esoterica, poetica alchimia trismegistica e altro. è ovvio:
“È vero senza menzogna, certo e verissimo, che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli di una sola cosa.”
Come un cuore appunto: sistole e diastole pulsante pluridimensionale oltre la Morte!
“Sei viva, sei in me, nel mio petto,
come sostegno, come amica e come caso”
———
POESIA è DONNA perché sostegno, amica, e anche caso (specifica il poeta)…
è un caso difatti che LEI abbia bussato alla mia porta – non l’ho invitata io! – Lei ha attraversato la mia soglia e da questa mi ha dettato le sue parole : talvolta in sintonia con le mie, altre volte le mie con le sue: osmosi, simbiosi al grado estremo.
Grazie di tutto a chi mi ama, e a chi non mi ama ancora più Grazie: lo grazio di tutto. Sono stato graziato dalla Poesia ed io l’ho graziata. Mi ha obbedito quando gli dissi: ora basta! Va’ a trovarti un altro poeta, più giovane! E così è stato.
Amen
>>> Mi ha obbedito quando “Le” dissi: Va’ a trovarti un altro poeta, più giovane! E così è stato. <<<<
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Servaggio
Ho visto un servaggio, non mio, per sei lustri,
luccicava per benemerenze annunciate, e vane.
Quale veglia senza epistolari e lettere mi hai donato,
e sei tutta una soglia che aspetta, e la porta offusca!
Una desolazione questo rapporto trentennale… le finestre
sbattono aride e secche, come cisterne vuote, e non una lacrima
tintinna, perché è stata succhiata la glandola come una rosa
canina, e non restano che impalpabili spine per la lingua e la gola.
Egli era amato, forse, per sciocco egoismo… la sua camera
era inutile e non più filiale lo spazio attorno, e orfana
di bambole lei si nutriva, e ora con le occhiaie vuote,
a spasso per le boscaglie boeme andava, e poi nella capitale.
Non mi resta che la solitudine del pianto, che solo nella tomba
avrà forse requie, ma i singulti scuotono il piombo perché
una risurrezione non ha il prezzo di un qualsiasi baratto:
io dalla vita non voglio nulla e nemmeno – dalla morte!
antonio sagredo
Vermicino, 12 gennaio 2011
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E mi sentivo orfano degli applausi inesausti della stoica Natura,
Come il defunto di un requiem qualsiasi…
Sorella, tormentarsi?
Perché davvero sappiamo chi siamo, ora!
Come se le nostre destinazioni non più dal Nilo nacquero,
ma dalle necropoli!
E non più s’addice ai morti il libro se l’ibis e lo sciacallo lottano fra di loro!
(da Parole Beate – novembre 2015-febbraio 2016)
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Liberati dal Tempo resteremo infine orfani felici
in un dove che Padri e Figli non sapranno mai
che quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
scorre mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
antonio sagredo
Vermicino, 22/11/04
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E negli inverni la marcia bellezza si ribella al mio me stesso
e a quello specchio che si donò un trucco di pozzanghera
e che un giorno ai funerali di un moresco oriente, oscurato
come uno sciacallo, rubò a un girasole la sua rotazione!
Antonio Sagredo
Campomarino, 18 giugno 2014
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E non sopporto più di abbandonare l’inferno al suo destino,
Il nostro sguardo è differente nella somiglianza,
Le figure e gli stupori mirabilmente non protetti
E nel pensiero che m’oscura…
Immortalità – ti aspettiamo
(da Parole Beate – novembre 2015-febbraio 2016)
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Questa è l'Altezza di cui scrivevo più sopra, e che non conosce alcun “metro”!
o metrò? o métro? o rétro? o retrò? o….?
Ho postato proprio adesso questi aforismi via twitter
Aforismi
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28698
Giorgio Linguaglossa @glinguaglossa 7 min 7 minuti fa, via twitter
Aforisma
Mi spediscono libri di pseudo poesia e pseudo narrativa. Io li metto sopra il frigorifero giallo e poi getto il tutto nella discarica dell’Ama. Quella è la mia biblioteca.
Aforisma
Sono annoiato da questo cumulo di banalità e di immondizia. Non vado più al cinema. Non vado mai a teatro. Non leggo mai libri. Non frequento nessuno. Così vivo bene.
Aforisma
Non leggete questo aforisma, parla di voi: […]
Aforisma
Un giorno anche il sole morirà. Quello sarà il più bel giorno dell’universo.
Aforisma
Un giorno si spegneranno anche le stelle. Speriamo che sia per sempre.
Aforisma
Mi avete annoiato con la vostra banalità
Aforisma
Non c’è altro rumore che le vostre chiacchiere da trivio
Aforisma
Ci sono delle cose che non si possono dire per mancanza di parole: la vostra banalità
Aforisma
Mi dicono che questo non è un aforisma. Quello che voi asserite è eguale a zero.
Aforisma
In un minuto ci sono 60 secondi. In un’ora 60 minuti. In 100 ore 6000 minuti della vostra inaffondabile banalità
Aforisma
Metà del mio viso è in ombra, l’altra metà è alla luce. Osservo la vostra inaffondabile banalità.
Aforisma
Fondare biblioteche è come costruire ancora inferni pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.
Aforisma
Per favore, tenetemi lontano da questa genia di mediocri quali sono gli scrittori.
Non ho dubbi: in quanto a nichilismo gli scandinavi ne sanno più di noi. Ieri sera ho visto un bel film. Se qualcuno riuscisse a portare Giorgio al cinema consiglio THELMA del regista norvegese Joachim Trier. Gli piacerà.
Aforisma
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/15/il-nichilismo-dialogo-ernst-junger-martin-heidegger-una-riflessione-sul-nichilismo-di-giacomo-marramao-e-un-commento-di-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-due-poesie-sul-tema-del-nichilismo/comment-page-1/#comment-28824
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Aforisma
Aggiungi un posto a tavola. A capo tavola. C’è la Signora Morte in libera uscita.
Aforisma
Beh, che ne dite? È Natale. Sull’albero di natale pendono le palline colorate. Ho deciso, scriverò un intero libro di aforismi sulla Signora Morte.
Aforisma
Piove. La Signora Morte apre l’ombrello. Deve tornare indietro, ha dimenticato lo spazzolino da denti. Eh, che volete, ci tiene all’igiene orale!
Aforisma
Nevermore!
Non so propriamente se questi siano aforismi sulla Morte o sul nichilismo. Fate voi. decidete sulla loro legittimità. Io, per mio conto sono il Signor Nessuno, il capitano Achab.